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Re Rebaudengo: “Il decreto sulle aree idonee va rivisto se non vogliamo che l’Italia resti indietro sulle rinnovabili”

Re Rebaudengo: "Il decreto sulle aree idonee va rivisto se non vogliamo che l'Italia resti indietro sulle rinnovabili"

 “Confindustria è uno specchio del Paese. Anche a proposito della transizione ecologica, c’è una pluralità di opinioni: chi ritiene che sia meglio non correre e chi invece sente l’urgenza di metterla in pratica. Ma sono ottimista, e penso che noi sostenitori della transizione, pur incontrando molti ostacoli, riusciremo a centrare l’obiettivo”. Agostino Re Rebaudengo è il presidente di Elettricità Futura, l’associazione che, all’interno di Confindustria, raccoglie il 70% delle aziende elettriche nazionali. Da anni si batte per “correre”, per imprimere una accelerazione alla installazione di fotovoltaico ed eolico. All’inizio dell’anno scorso presentò il piano: “Le nostre aziende sono pronte a produrre 85 gigawatt di energia pulita entro il 2030”. Ma non tutti in Confindustria la pensano allo stesso modo, a cominciare proprio dal presidente Bonomi che auspica una “transizione lenta”, attirando così gli strali di Legambiente: “Supporta le politiche dilatorie del governo”, ha detto ieri a Repubblica Stefano Ciafani, presidente della principale associazione ambientalista italiana.

Re Rebaudengo la definisce “normale dialettica all’interno di una grande organizzazione che raccoglie anime diverse” e rivendica lo spazio che il Sole24Ore, quotidiano di Confindustria, dedica alle istanze di Elettricità Futura. Ultimo esempio in ordine di tempo, l’allarme per il decreto sulle “aree idonee” alle rinnovabili, che nella attuale bozza conterrebbe vincoli capaci di bloccare la transizione energetica.

Presidente Re Rebaudego, ha appena scritto ai ministri dell’Ambiente, dell’Agricoltura e della Cultura. Perché?
“Per segnalare che il testo attuale renderà impossibile lo sviluppo necessario delle energie rinnovabili in Italia”.

Cominciamo dall’inizio. Dove vanno costruiti gli impianti fotovoltaici ed eolici?
“Prima di tutto in aree non vincolate. Cioè non sottoposte a vincolo paesaggistico o a rischio idrogeologico (alluvioni, terremoti, ecc.). Secondo uno studio di Terna e Snam, in Italia le aree non vincolate rappresentano il 30% della superficie nazionale. Al momento gli impianti, quando nascono, sono costruiti su quel 30%”. 

Poi però ci sono le aree idonee. Di cosa si tratta?
“L’Unione europea ha chiesto agli Stati membri di individuare aree specifiche dove si i tempi di autorizzazione per le rinnovabili possano essere ridotti a un terzo del normale. In Italia le singole Regioni avrebbero dovuto fare un inventario delle loro aree idonee (ovviamente interne al 30% non vincolato). Ma per fare il censimento hanno chiesto al governo quali sono i criteri che un’area idonea deve rispettare. Dovevano essere rilasciati nel giugno del 2022… ma siamo ad agosto 2023”.
 

E quel quel poco che trapela non vi lascia soddisfatti. Perché?
“Uno dei criteri presenti sulla bozza in discussione è che l’azienda possa realizzare l’impianto fotovoltaico sul 10% del terreno agricolo che ha a disposizione. Ma questo significa che l’impresa deve affittare (o acquistare) un campo 10 volte più grande di quello che le occorre per i pannelli. E sul restante 90% cosa fa? Si trasforma in una azienda agricola e lo coltiva, con un aggravio dei costi di gestione? Paletti come questo rischiano di alimentare la speculazione e di far salire i costi dell’energia rinnovabile. Alla fine, se il vincolo del 10% dovesse restare, sarà più conveniente continuare a fare impianti sulle normali aree non vincolate (pur con le usuali lentezze burocratiche) piuttosto che sulle aree idonee”.

Cosa risponde a chi teme che il boom delle rinnovabili e la fame di terreni delle vostre aziende possano dare il colpo di grazie all’agricoltura italiana?
“Che agricoltura e rinnovabili non sono affatto in conflitto. Per realizzare gli 85 gigawatt entro il 2030 abbiamo bisogno di 100mila ettari, lo 0,3% della superficie complessiva dell’Italia. Se ci limitiamo al 30% non vincolato del territorio, parliamo dell’1% da dedicare a fotovoltaico ed eolico. Davvero poca cosa. Senza contare che gli affitti pagati dalle aziende elettriche possono essere per gli agricoltori una risorsa economia importante da reinvestire per modernizzare la loro attività”. 

Ora quali sono le prossime tappe del “decreto aree idonee”?
“A settembre se ne discuterà nella Conferenza Stato-Regioni. L’auspicio è che entro la fine dell’anno ne esca la versione definitiva. Una volta chiariti i criteri, le Regioni avranno sei mesi per fare il censimento delle aree idonee. Insomma, se tutto va bene se ne riparla dopo la metà del 2024. E intanto…”.

Intanto?
“Restiamo indietro. Se guardiamo agli impianti rinnovabili ‘allacciati’ alla rete (quelli che contano davvero, e non quelli ‘autorizzati’), scopriamo che l’Italia nel 2022 ne ha varati per 3 gigawatt. Nello stesso periodo in Francia ne hanno installati 5, in Spagna 6 e in Germania 11”.

Questo articolo di Luca Fraioli è stato pubblicato su La Repubblica Green&Blue – 4 agosto 2023.




Lione “spegne” i cartelloni pubblicitari, soprattutto quelli luminosi

Lione sarà presto la prima città senza cartelloni pubblicitari, o quasi. Il consiglio municipale della città francese infatti martedì scorso ha adottato un nuovo regolamento sulla cartellonistica locale, che contiene numeri importanti: entro il 2026, nell’area di Lione, sparirà ben il 90 per cento dei cartelloni pubblicitari, soprattutto quelli luminosi

Una scelta fortemente voluta da Bruno Bernard, presidente ecologista della Metropoli di Lione, entità che comprende la vecchia comunità urbana di Lione con tutti i suoi 59 comuni e la parte del dipartimento del Rodano rientrante in tale comunità, che non ha mai mancato di sottolineare il dato che “ogni giorno ciascuno cittadino di Lione è bombardato da una mole di messaggi pubblicitari stimata tra 1.200 e 2.200”. Ma anche Gregory Doucet, sindaco di Lione (capoluogo dell’omonoma città metropolitana) ha accolto con grande favore la novità: “Basta con i maxi-teloni sulle facciate dei palazzi, con le insegne illuminate di notte, con le pubblicità invadenti vicino alle scuole: il nostro spazio pubblico merita di meglio”.

Inquinamento visivo e consumo di energia

Una scelta etica, dunque, ma legata anche e soprattutto al tema dell’inquinamento visivo e di consumo di energia: il regolamento prevede infatti lo spegnimento obbligatorio delle insegne luminose alle ore 19 per le zone a bassa attività economica e alle ore 23 per le zone ad alta attività economica. Vietati anche i maxi cartelloni pubblicitari che coprono quasi per intero i palazzi, “ad eccezione dei teloni sui monumenti storici gestiti dallo Stato”, la pubblicità privata intorno a oltre il 95 per cento delle scuole, le pubblicità digitali.

Lione
Lione spegne i cartelloni pubblicitari  © Simona Denise Deiana

Il regolamento entrerà in vigore il 4 luglio, ma ci vorranno due anni perché scatti effettivamente il divieto, dal momento che i gestori degli spazi pubblicitari “avranno due anni per essere messi a norma”, estendibili fino a sei anni “per dare a professionisti e commercianti il ​​tempo di familiarizzare con le normative e adeguarsi ad esse”. In discussione da molti anni ma votata per la prima volta nel dicembre 2021, il nuovo regolamento aveva provocato il malcontento di molti imprenditori, prima di essere anche contestata lo scorso gennaio dalla commissione d’inchiesta pubblica.




La moda corre ai ripari e investe nella pratica green del ‘rammendo’

La moda corre ai ripari e investe nella pratica green del ‘rammendo’

Lunga vita ai vestiti. La moda scommette sempre di più sulla riparazione dei capi per estendere il ciclo di vita, nell’ambito della tanto agognata transizione sostenibile. L’ultimo esempio arriva da Patagonia, azienda californiana dalla nota vocazione green, che decide di potenziare il suo percorso sul fronte delle riparazioni, anche online.

Da un lato, il marchio inaugura un nuovo portale digitale che consentirà alla propria clientela di richiedere autonomamente una riparazione in qualsiasi momento, seguendo passo passo il processo, e dall’altro espande la sua rete di esperti portando nei negozi europei (quello milanese lo vantava già, ndr) un maggior numero di strumenti e servizi. Obiettivo? Quadruplicare le riparazioni, arrivando fino a 100mila all’anno nel prossimo quinquennio.

“L’importanza del riparare è evidente – spiega l’azienda. Mantenere un prodotto in uso per nove mesi in più consente di ridurre dal 20 al 30% l’impronta in termini di emissioni di carbonio, rifiuti e acqua rispetto all’acquisto di un capo nuovo”. Il progetto rappresenta per Patagonia la naturale prosecuzione delle iniziative portate avanti in questi anni, dal recente programma ‘Worn Wear’ fino al ben più lontano messaggio ‘Don’t buy this jacket’, annuncio pubblicitario comparso nel 2011 sul New York Times durante il Black Friday, attraverso cui si tentava di sensibilizzare i consumatori sugli effetti dello shopping sconsiderato.

Con il sostegno dell’Amsterdam Economic Board, l’anno scorso Patagonia ha collaborato con l’agenzia creativa tessile Makers Unite per lanciare lo United Repair Centre (Urc), un nuovo fornitore di riparazioni creato per servire diversi marchi di abbigliamento, poi trasferitosi in una struttura più ampia ad Amsterdam per gestire l’aumento della domanda. Tra i contratti firmati con marchi partneri, quello con Decathlon. L’iniziativa proseguirà nel 2023 con l’apertura di una seconda sede nel Regno Unito, mentre l’aggiunta di altre località europee è in programma per il prossimo anno.

L’annuncio strategico di Patagonia arriva in un momento caldo per il tema delle riparazioni nel mondo del fashion. L’ultima notizia arriva dalla Francia, sotto forma di un ‘bonus réparation’, pensato proprio per ridurre gli sprechi incentivando i consumatori a mettere in atto dei comportamenti virtuosi a beneficio del pianeta.

La ministra dell’Ecologia francese Bérangère Couillard ha annunciato che a partire da ottobre sarà possibile richiedere il ‘bonus rammendo’ per fare riparare un proprio indumento presso sartorie o calzolerie aderenti al programma, anziché buttarlo via, ricevendo dai 6 ai 25 euro. Se si pensa che in Francia vengono buttate circa 700mila tonnellate di vestiti l’anno, due delle quali destinate alla discarica, si legge su Il Post, appare evidente come il bonus sia un tentativo, seppur timido, di porre un freno a questa tendenza, nella speranza rappresenti un incentivo anche per i negozi, affinché siano sempre di più quelli che offrono servizi di riparazione.

Intanto, l’Unione Europea continua a mettere alle strette la moda. Il 12 luglio a Bruxelles è stato approvato il regolamento Espr, proposta riguardo alla “progettazione ecocompatibile di prodotti sostenibili” che, dopo la votazione da parte del Parlamento europeo e del Consiglio, dovrebbe essere pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’istituzione comunitaria entro la fine dell’anno.

Tra i capisaldi, il passaporto digitale, il divieto di distruggere l’invenduto o le prospettate etichette ‘anti-greenwashing’ e, soprattutto, il tema dell’Epr – Responsabilità estesa del produttore, che costringe le aziende a farsi carico dell’intero ciclo di vita dei prodotti immessi sul mercato. Un tema che Bruxelles punta a uniformare tra i Paesi membri, nonostante l’attuale disparità di condizioni: l’Italia, infatti, è già avanti sul fronte della raccolta differenziata del tessile, su cui aveva anticipato l’obbligo fissato dall’Ue al 2025. Secondo gli ultimi dati Ispra, nel 2021 i capi differenziati sono ammontati a 154mila tonnellate, su una produzione (secondo le stime di Ecocerved) di 480mila tonnellate.

Sull’onda della spinta europea, sono nati diversi consorzi nell’arco degli ultimi due anni: Re.Crea, coordinato da CnmiRetex Green, patrocinato da Sistema Moda Italia, tra i tanti. Quel che è certa è l’impellenza dello smaltimento responsabile dei prodotti derivanti dall’industria della moda: secondo la Commissione europea, riporta Il Sole 24 ore, ogni nella comunità europea vengono buttati 5 milioni di abiti in tonnellate, pari a 12 kg a persona, e solo l’1% dei materiali impiegati vengono poi riciclati per creare nuovi indumenti.




L’intelligenza artificiale che sgama i taccheggiatori

L'intelligenza artificiale che sgama i taccheggiatori

Predire i furti con l’intelligenza artificiale avvisando tempestivamente guardie e proprietari di un’attività commerciale. Non è il sistema Precrimine di Minority Report, ma quello che promette Veesion, un algoritmo che è in grado di individuare i furti utilizzando i sistemi di video sorveglianza attraverso un’Ai addestrata a leggere i movimenti sospetti di eventuali taccheggiatori. Ogni algoritmo è associato a un gesto sospetto di un furto e incorpora “l’apprendimento continuo”, il che significa che impara dalle situazioni che incontra e migliora costantemente le sue prestazioni in base ai dati che che riceve ed elabora.

Il software di Veesion si collega al sistema di videosorveglianza del negozio e quando rileva un gesto sospetto invia una notifica con un estratto della sequenza sospetta ai dispositivi collegati. Si tratta di una piccola box che viene collegata al videoregistratore della telecamera di sorveglianza. Una volta ricevuta la notifica da parte del software, le guardie di sicurezza e addetti alle vendite possono intervenire sulla base di “prove evidenti”. L’azienda francese rileva una media di 100.000 gesti sospetti al mese in più di 2000 negozi, di cui circa 150 in Italia e promette di ridurre le perdite di fatturato dal 30 al 70%.

In pratica il software di Veesion è in grado di confrontarsi su entrambe le memorie presente nel sistema, quella istantanea e quella nascosta dove si accede solo su richiesta giudiziaria – quella che tiene in memoria le immagini relative alle  72 ore precedenti. Sostanzialmente il server funge da ponte tra il sistema già esistente e Telegram, dove arriva la notifica in 50 secondi.

L'intelligenza artificiale che sgama i taccheggiatori

Chi avuto l’idea e i chi sono i clienti (attuali e potenziali)

Creata nel 2018 e lanciata nel 2021 è nata dall’idea di tre giovani ingegneri al tempo iscritti all’ Università HEC e al Polytechnique di Parigie. La scale-up ha la sua sede principale a Parigi e conta circa 130 dipendenti ed è presente in oltre duemila negozi in 20 Paesi, tra cui l’Italia con un fatturato 2022 intorno a 5 milioni, dopo il round di raccolta fondi da 10 milioni di euro all’inizio dello stesso anno.

Il mercato è sicuramente promettente: secondo uno studio realizzato da Crime&Tech, spin-off company del centro Transcrime dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, il settore del retail in Italia ogni anno perde l’1,8% del fatturato a causa dei furti nei negozi per una cifra stimabile intorno ai 3,4 miliardi di euro. Al momento, ad utilizzare il software, sono Carrefour, MD, Conad, Sigma, Crai. Tra gli obiettivi della tech company c’è quello di investire oltreoceano: “Abbiamo una sede anche a San Francisco e il nostro obiettivo è quello di arrivare nei casinò di Las Vegas per smascherare i bari”, ha dichiarato il team.

Un grosso passo avanti verso l’implementazione massiva dei sistemi di sorveglianza evoluta, partendo dai software di riconoscimento facciale e tutte le altre armi potenzialmente utili a reprimere i crimini, piccoli e grandi. Un altro passo avanti verso il futuro predetto in Minority Report dove il crimine non si sventa attraverso predizioni, ma sul controllo di massa gestito da algoritmi di intelligenza artificiale.




Esselunga, maxi sequestro da 48 milioni. L’accusa: frode fiscale

Esselunga, maxi sequestro da 48 milioni. L’accusa: frode fiscale

Per presunti indebiti vantaggi fiscali, ovvero la detrazione di quasi 48 milioni di euro di Iva indetraibile, la Guardia di Finanza di Milano, su input del pm Paolo Storari, ha sequestrato la somma all’Esselunga. L’ipotesi degli inquirenti è che la frode fiscale milionaria, commessa dal 2016 al 2022, si configura nei rapporti di esternalizzazione a fornitori esterni dei lavoratori della logistica (trasporto merci e gestioni magazzino). Società «serbatoio» di manodopera schermate da società «filtro» connotante da criticità fiscali e di sfruttamento dei lavoratori. Al colosso della grande distribuzione gli inquirenti contestano di essere «priva di qualsiasi presidio idoneo a selezionare» i propri fornitori dei servizi di logistica in modo da evitare che «gli stessi siano meri serbatoi di personale (controlli in ordine a eventuali compensazioni a fini tributari, al pagamento di Iva e contributi, alla non coincidenza tra amministratore di fatto e di diritto, al rapporto diretto tra Esselunga e i lavoratori, alla eventuale assenza di qualsiasi struttura organizzativa delle società fornitrici, al continuo cambio delle cooperative, al fenomeno della transumanza)».

Dal 2016 fino all’anno scorso Esselunga ha ricevuto fatture per servizio di logistici per un ammontare di 221 milioni di euro da diverse cooperative. Fornitori in molti casi con evidenti e profonde criticità fiscali che hanno consentito a Esselunga «di fruire delle prestazioni dei lavoratori inquadrati formalmente come dipendenti delle società cosiddette “serbatoi” di manodopera, beneficiando al contempo del diritto alla detrazione dell’Iva esposta sulle fatture che caratterizzano questi rapporti».

Un «sistema», già emerso in altre indagini del pm Storari, attraverso il quale grandi aziende si garantiscono «tariffe altamente competitive appaltando manodopera» in modo irregolare per i loro servizi. Manodopera che gli viene fornita da una serie di cooperative e altre società, che nascono e muoiono in breve tempo. A livello giudiziario, si legge nel nuovo decreto, «la Procura di Milano si è già interessata di fenomeni analoghi al presente: Dhl Supply Chain (Italy), gruppo Gls, Spumador spa, Salumificio Beretta, Spreafico spa, Movimoda, Uber, Tnt, Lidl, Fiera Milano, Schenker, Aldieri spa, gruppo Cegalin – Hotel Volver, Brt, Geodis». Negli atti sul caso Esselunga vengono riportati, passaggio per passaggio e indicando le presunte fatture false emesse, tutte le società e i consorzi che avrebbero avuto rapporti, sul fronte della «somministrazione illecita di manodopera», con Esselunga. Tra i nomi indicati anche quello di Fabrizio Cairoli, amministratore di fatto del Consorzio Lavoro Più Società Cooperativa e di In.Job Società Consortile, realtà già attenzione, ad esempio, nelle inchieste sull’azienda Fratelli Beretta e la società ortofrutticola Spreafico.

In un’altra indagine al momento non collegata lo stesso pm Storari ha ottenuto dal gip milanese Domenico Santoro il controllo giudiziario per l’ipotesi di reato di caporalato della «Servizi Fiduciari soc. coop.», società da oltre 9mila lavoratori del gruppo leader nella vigilanza privata non armata Sicuritalia. Vigilantes – ad avviso dei finanzieri del nucleo di Polizia economico-finanziaria della GdF di Como – sfruttati da una paga oraria di 5,3 euro che gli consentiva di portare a casa a fine mese un stipendio lordo di 930 euro. Una somma che «non appare certamente proporzionata e si palesa in contrasto con quanto sancito dall’art. 36 della Costituzione» che garantisce il diritto a «una esistenza libera e dignitosa». Un trattamento economico iniquo – ravvisa il giudice – che non può essere scusato dal fatto che è stato accettato dai lavoratori «solo perché posti dinnanzi alla scelta sul se avere, o meno, una qualche forma di introito necessaria a qualcosa che somigliasse alla sopravvivenza». Lo stesso giudice Santoro definisce poi «una sorta di amaro calice» gli straordinari a cui, di fatto, sono imposti i lavoratori per la loro «condizione di vulnerabilità dal momento» che diventata il tentativo di «conseguire somme che consentissero un minimo di sostentamento». Addetti al sicurezza impiegati da grandi società committenti tra cui i supermercati (Gs, Esselunga, Carrefour, Lidl) ma anche come Fincantieri, Regione Sardegna, Bnl, Allianz, Generali, Tnt, Enel, Unicredit, Barilla, Rete Ferroviaria Italiana.