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Ma davvero il metaverso è già morto?

Ma davvero il metaverso è già morto?

Pochi giorni dopo aver annunciato la chiusura di AltSpaceVR (l’ambiente sociale in realtà virtuale acquistato nel 2017), Microsoft ha deciso di chiudere, dopo soli quattro mesi, anche l’intero dipartimento per lo sviluppo del suo cosiddetto metaverso industriale, licenziando circa 100 persone. Già qualche mese fa, invece, Tinder aveva deciso di rinunciare ai suoi ambiziosi (e paradossali) progetti in stile metaverso.

I ripensamenti hanno coinvolto anche la società che più di ogni altra ha scommesso il suo futuro su questa visione, vale a dire Meta. Prima è venuto il post in cui Andrew Bosworth, responsabile tecnico dei Reality Labs di Meta, raccontava i progetti futuri della società senza mai menzionare il metaverso poi si è scoperto come gli stessi dipendenti della società fondata da Mark Zuckerberg fossero molto scettici riguardo a tutta la faccenda. 

Stando a un sondaggio anonimo su Blind, il 56% dei dipendenti di Meta pensa infatti che Zuckerberg non abbia “spiegato chiaramente cosa il metaverso sia”, mentre il 58% ritiene che “il metaverso non raggiungerà un miliardo di utenti nel prossimo decennio” (nel novembre 2021 questa percentuale era del 40%). In tutto ciò, è noto come il principale progetto di Meta in questo ambito, vale a dire Horizon Worlds, sia passato da 300mila a 200mila utenti nel corso del 2022 e abbia grandemente deluso le aspettative.

Per quanto importanti, questi incidenti di percorso non bastano da soli a mettere la parola fine all’ambizioso e (fin troppo) variegato progetto di metaverso. Come ha sottolineato Harry McCracken nella sua newsletter Plugged In, “il calo dell’interesse nei confronti di una categoria tecnologica non è la dimostrazione che sia destinata a svanire per sempre. Il decennale settore dell’intelligenza artificiale è noto per aver dovuto affrontare molteplici fasi in cui il pessimismo verso le sue potenzialità dominava”. È però proprio il confronto con l’intelligenza artificiale a essere particolarmente impietoso. A differenza del metaverso, che ha generato aspettative sproporzionate rispetto allo stato di avanzamento e adozione dei vari progetti, il deep learning negli ultimi dieci anni ha veramente cambiato il mondo, venendo integrato con enorme successo in un numero sempre crescente di ambiti ed evolvendo senza sosta, come dimostrato da ultimo proprio da uno strumento come ChatGPT.

Per quanto anche ChatGPT e la Generative AI in generale abbiano ricevuto la loro quota di aspettative eccessive, non è niente di paragonabile al clamore generato dal metaverso, che è riuscito nell’impresa di far credere – a colpi di pubblicità e campagne di marketing – che davvero già esistesse un ambiente in realtà virtuale, immersivo e aperto in cui trasferire una parte della nostra quotidianità (mentre in realtà esistevano soltanto svariate piattaforme estremamente diverse tra loro e che nella maggior parte dei casi non usavano neanche la realtà virtuale).

Alimentare aspettative eccessive non può che rivelarsi un boomerang quando viene promesso – come fatto da Zuckerberg nel 2021 – di poter partecipare con il proprio avatar a un concerto che si svolge fisicamente in qualche arena, senza apprezzabili differenze rispetto a chi si trova realmente sul posto. Qualcosa che – come ha scritto sempre McCracken – “ha tanto fondamento nella realtà quanto la macchina del tempo o il raggio rimpicciolente”.

Lo stesso concetto è stato reiterato su Forbes: “Dopo otto anni di sviluppo e dopo aver speso miliardi di dollari, questo fantascientifico concetto sembra essere stato completato forse al 2%. Il problema di fondo di luoghi come Horizon Workrooms (il “metaverso” destinato alle riunioni di lavoro) o Horizon Worlds (quello invece più sociale) è che sono terribilmente brutti, a malapena funzionanti e sono terreni fertili per interazioni sociali che, nel migliore dei casi, sono impacciate e goffe”.

È davvero la fine del metaverso? Dipende da che cosa s’intende: il colossale progetto basato sulla realtà virtuale di Mark Zuckerberg potrebbe anche rivelarsi un fallimento, ma lo stesso non si può certo dire di molteplici altre realtà che sono state etichettate come tali (basti pensare ai clamorosi successi di Roblox e Fortnite), mentre gli stessi videogiochi in realtà virtuale in cui è anche possibile interagire con altri utenti (come Population One o Echo VR, che solo a posteriori sono stati fatti ricadere nella categoria metaverso) continueranno ad affascinare una fetta crescente di gamer.

Probabilmente, la cosa migliore sarebbe decretare la fine della parola “metaverso”: un termine troppo vago, confusionario, che lascia immaginare qualcosa che oggi non esiste e che racchiude ambienti ed esperienze estremamente diverse tra loro. D’altra parte, quando si vuol far passare per metaverso anche una semplice piattaforma in realtà virtuale per l’addestramento al volo, o giochi che esistono da oltre un decennio come Minecraft (e che non sono neanche in realtà virtuale), significa che si è tirato troppo la corda.




Protezione dei consumatori: permettere scelte sostenibili e porre fine al greenwashing

Protezione dei consumatori: permettere scelte sostenibili e porre fine al greenwashing

La Commissione propone oggi criteri comuni per contrastare il greenwashing e le asserzioni ambientali ingannevoli. Conformemente alla proposta odierna, i consumatori beneficeranno di maggiore chiarezza e di maggiori garanzie del fatto che un prodotto venduto come ecologico lo è effettivamente, nonché di informazioni più complete per scegliere prodotti e servizi rispettosi dell’ambiente. A beneficiare di queste nuove norme saranno anche le imprese, poiché quelle che si sforzano realmente di migliorare la sostenibilità ambientale dei loro prodotti saranno più facilmente riconosciute e premiate dai consumatori e potranno incrementare le loro vendite anziché dover far fronte a una concorrenza sleale. La proposta contribuirà quindi a creare condizioni di parità per quanto riguarda le informazioni sulle prestazioni ambientali dei prodotti.

Uno studio della Commissione del 2020 ha rilevato che il 53,3% delle asserzioni ambientali esaminate nell’UE erano vaghe, fuorvianti o infondate e che il 40% era del tutto infondato. La mancanza di norme comuni per le imprese che presentano autodichiarazioni ambientali volontarie apre la strada al greenwashing e crea condizioni di disparità nel mercato dell’UE, a scapito delle imprese realmente sostenibili.

Informazioni attendibili, comparabili e verificabili per i consumatori

Secondo la proposta, le imprese che scelgono di presentare una “autodichiarazione ambientale” riguardante i loro prodotti e servizi dovranno rispettare norme minime sulle modalità per suffragare e comunicare tali autodichiarazioni.

La proposta riguarda le autodichiarazioni esplicite, quali: “T-shirt realizzata con bottiglie di plastica riciclata”, “consegna con compensazione di CO2”, “imballaggio in plastica riciclata al 30%” o “protezione solare rispettosa degli oceani”. Intende inoltre contrastare la proliferazione dei marchi e la questione della creazione di nuovi marchi ambientali pubblici e privati. La proposta riguarda tutte le autodichiarazioni volontarie riguardanti gli impatti, gli aspetti o le prestazioni ambientali di un prodotto, di un servizio o l’operatore stesso. Tuttavia, esclude le autodichiarazioni disciplinate dalle norme esistenti dell’UE,, come il marchio Ecolabel UE o il logo degli alimenti biologici, in quanto la legislazione in vigore garantisce già l’affidabilità di tali dichiarazioni regolamentate. Le autodichiarazioni che saranno contemplate dalle future norme regolamentari dell’UE saranno escluse per lo stesso motivo. 

Prima che le imprese possano comunicarle ai consumatori, le “autodichiarazioni ambientali” contemplate dalla proposta dovranno essere verificate in modo indipendente convalidate da prove scientifiche. Nel quadro dell’analisi scientifica, le imprese dovranno identificare gli impatti ambientali che sono effettivamente pertinenti per i loro prodotti, come anche gli eventuali compromessi tra i vari impatti, onde fornire un quadro completo e accurato.

Norme e marchi chiari e armonizzati

Diverse norme garantiranno che le autodichiarazioni siano comunicate in modo chiaro. Saranno vietate le autodichiarazioni o i marchi che utilizzano il punteggio aggregato dell’impatto ambientale complessivo del prodotto, tranne se rientrano nelle norme dell’UE. I confronti tra prodotti o organizzazioni dovrebbero essere fondati su informazioni e dati equivalenti.

La proposta disciplinerà anche i marchi ambientali. Attualmente esistono almeno 230 marchi diversi, cosa che genera confusione e sfiducia nei consumatori. Per controllare la proliferazione di tali marchi, non saranno consentiti nuovi sistemi pubblici di etichettatura, a meno che non siano sviluppati a livello dell’UE, e qualsiasi nuovo sistema privato dovrà dimostrare di perseguire obiettivi ambientali più ambiziosi rispetto ai sistemi esistenti e ottenere un’approvazionepreventiva. Esistono norme dettagliate riguardanti i marchi ambientali in generale, che devono essere affidabili, trasparenti, verificati in modo indipendente e periodicamente riesaminati.

Prossime tappe

Conformemente alla procedura legislativa ordinaria, la proposta di direttiva sulle autodichiarazioni ambientali sarà sottoposta all’approvazione del Parlamento europeo e del Consiglio.

Contesto

La proposta odierna integra la proposta del marzo 2022 sulla “responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde” stabilendo norme più specifiche in materia di asserzioni ambientali, oltre a un divieto generale di pubblicità ingannevole. La proposta odierna è inoltre presentata unitamente a una proposta riguardante norme comuni volte a promuovere la riparazione dei beni, che contribuirà anche al consumo sostenibile e rafforzerà l’economia circolare.

La proposta odierna concretizza un impegno importante preso dalla Commissione nel quadro del Green Deal europeo. Insieme alla proposta relativa a norme comuni volte a promuovere la riparazione dei beni, si tratta del terzo pacchetto di proposte sull’economia circolare. Il primo e il secondo pacchetto sull’economia circolare sono stati adottati nei mesi di marzo e novembre 2022.  Il primo pacchetto comprendeva la nuova proposta di regolamento sulla progettazione ecocompatibile dei prodotti sostenibili, la strategia dell’UE per prodotti tessili sostenibili e circolari e la proposta di direttiva sulla responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde. Il secondo pacchetto comprendeva la proposta di regolamento sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio, la comunicazione sulle plastiche a base biologica, biodegradabili e compostabili e la proposta di regolamento su una certificazione europea degli assorbimenti di carbonio.

Per ulteriori informazioni

Proposta di direttiva relativa alle nuove norme sulla verifica delle autodichiarazioni ambientali

Domande e risposte: Nuove norme sulla verifica delle autodichiarazioni ambientali

Scheda informativa

Pagina web sulle autodichiarazioni ambientali

Proposta di direttiva relativa a norme comuni per promuovere la riparazione dei beni

Comunicato stampa – Promuovere la riparazione e il riutilizzo

Domande e risposte – Promuovere la riparazione e il riutilizzo

Promuovere la riparazione e il riutilizzo – sito web

Citazioni

Noi tutti vogliamo fare del nostro meglio per limitare l’impatto delle nostre scelte di consumo sull’ambiente, ma fare scelte ecologiche non è facile. Siamo subissati di informazioni. Sul mercato dell’UE si contano 230 marchi di qualità ecologica diversi. Potersi fidarsi delle autodichiarazioni ambientali e dei marchi che accompagnano i prodotti è importante. Le proposte presentate oggi dalla Commissione proteggeranno le imprese e i consumatori dalle pratiche dannose di greenwashing e contrasteranno la proliferazione dei marchi. Vogliamo aiutare i consumatori a scegliere con maggiore fiducia e far sì che siano premiate le imprese che si impegnano concretamente a ridurre il loro impatto sulla natura, sull’uso delle risorse, sulle emissioni climatiche o sull’inquinamento. Dobbiamo altresì fare progressi nell’uso di marchi comuni affidabili, come il marchio di qualità ecologica dell’UE, emblema di eccellenza ambientale nel nostro mercato unico.

Virginijus Sinkevičius, commissario per l’Ambiente, gli oceani e la pesca – 22/03/2023

Le autodichiarazioni ambientali sono ovunque: magliette rispettose degli oceani, banane neutre in termini di emissioni di carbonio, succhi rispettosi delle api, consegne con compensazione al 100% delle emissioni di CO2. Purtroppo tali autodichiarazioni sono troppo spesso presentate senza alcuna prova o giustificazione, aprendo la strada al greenwashing, a scapito delle imprese che producono prodotti realmente sostenibili. Numerosi cittadini europei vogliono contribuire a un mondo più sostenibile attraverso le loro scelte in materia di acquisti. Devono quindi potersi fidare delle autodichiarazioni presentate. Con la presente proposta diamo ai consumatori la garanzia del fatto che i prodotti venduti come rispettosi dell’ambiente lo sono veramente.

Frans Timmermans, vicepresidente esecutivo per il Green Deal europeo, 22/03/2023




Ecosistemi vegetali per la rigenerazione ecologica delle città

Ecosistemi vegetali per la rigenerazione ecologica delle città

Una riduzione della temperatura interna in estate fino a 3 °C grazie al “cappotto verde” di piante su tetti e pareti di edifici che consente di abbattere quasi il 50% del flusso termico tramite l’ombreggiamento e la traspirazione di coltri vegetali disposte a protezione dalla radiazione solare. Sono questi alcuni dei nuovi risultati ottenuti dal progetto ENEA “Infrastrutture ‘verdi’ per migliorare l’efficienza energetica degli edifici e la qualità del microclima nelle aree urbane”, finanziato nell’ambito dell’Accordo di Programma per la Ricerca di Sistema Elettrico 2019-2021 del Ministero dello Sviluppo Economico, oggi in capo al Ministero della Transizione Ecologica.

La copertura vegetale agisce tutto l’anno come isolante termico, con effetti maggiori nel periodo primavera-estate quando le piante agiscono anche come estrattore naturale di calore dall’ambiente. In generale, l’effetto benefico di regolazione termica è dovuto all’ombreggiamento estivo, all’evapotraspirazione e alla fotosintesi clorofilliana delle piante

“Grazie a un sofisticato sistema di sensori per il monitoraggio microclimatico, abbiamo verificato che le coltri vegetali messe a copertura del solaio e delle pareti esterni dell’edificio prototipo presso il Centro Ricerche ENEA Casaccia, vicino a Roma, sono in grado di mantenere le temperature superficiali al di sotto dei 30 °C e quindi di evitare le forti variazioni termiche che si verificano a livello delle superfici di tetti e pareti privi di vegetazione, che raggiungono picchi di temperatura di oltre 50 °C nelle ore più calde”, spiega Arianna Latini, ricercatrice del Dipartimento Unità per l’Efficienza Energetica“Non solo. I dati preliminari fanno supporre che si possa ottenere una riduzione dei consumi elettrici di circa 2 kWh/m². Mediamente questo si traduce in un risparmio di energia elettrica di circa 200 kWh per la climatizzazione estiva di un’abitazione di 100 m², tenuto conto di una temperatura di comfort dell’ambiente interno non superiore a 26 °C”, aggiunge Latini.

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Edificio verde con parete verde (vista da Sud) in fase vegetativa caratteristica del periodo primavera-estate presso il CR ENEA Casaccia di Roma. Tra le foglie sono visibili alcuni sensori climatici e ambientali

Nella sperimentazione avviata nel 2013 dall’allora Servizio Agricoltura ENEA guidato da Carlo Alberto Campiotti, furono impiegate sul tetto verde piante grasse del genere Sedum della famiglia delle Crassulaceae, in quanto ritenute più adatte all’uso in ambito mediterraneo per il loro apparato radicale poco profondo, l’efficiente utilizzo dell’acqua, la tolleranza a condizioni di estrema siccità e il tipico metabolismo CAM (Crassulacean Acid Metabolism) per fissare il carbonio. “Oltre a una ricca collezione di Sedum abbiamo impiegato in seguito anche un mix di piante Festuca e Poa su un settore dedicato alle Graminaceae, con risultati che indicano come il contributo delle essenze vegetali sia in relazione tanto alle loro caratteristiche in sé che alle condizioni microclimatiche locali”, spiega Patrizia De Rossi, ricercatrice del Dipartimento ENEA Unità per l’Efficienza Energetica.

A partire dalle specie tipiche più comunemente utilizzate nelle coperture vegetali dei tetti verdi, lo studio ENEA è stato ampliato ulteriormente, testando alcune specie spontanee e autoctone del Mediterraneo, come l’Echium plantagineum e l’Echium vulgare, piante che favoriscono anche la biodiversità degli impollinatori

Sulle facciate di sud-est e sud-ovest dell’edificio prototipo, i ricercatori ENEA hanno impiegato la Parthenocissus quinquefolia [1], nota come “vite americana”, un rampicante resistentissimo sia al caldo che al freddo (in autunno le sue foglie diventano rosso intenso). “Abbiamo rilevato che le temperature superficiali della parete verde sono fino a 13 °C inferiori rispetto alla facciata non vegetata, con una riduzione dei flussi termici verso l’interno di circa 7 kWh/m² e un abbattimento delle emissioni fino a 1 kg di CO2/m² per il minore consumo di energia elettrica”, sottolinea Latini.

PremioEcotechgreen
Premio speciale nell’ambito del Forum Internazionale ECOtechGREEN (21-22 aprile 2022) per il Rapporto Tecnico ENEA Gli Ecosistemi Vegetali per la Rigenerazione Ecologica delle Città

Passando dall’edificio alla città, l’inverdimento del 35% della superficie urbana dell’Unione europea (oltre 26 mila km²) permetterebbe di ridurre la domanda di energia per il raffrescamento estivo di edifici pubbliciresidenziali e commerciali fino a 92 TWh l’anno, con un valore attuale netto (VAN) di oltre 364 miliardi di euro, e di evitare le emissioni di gas serra equivalenti a 55,8 milioni di tonnellate di CO2 l’anno [2]. Per avere un’idea realistica delle emissioni evitate, si pensi che il settore agricoltura in Italia emette 30 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti l’anno (dati ISPRA 2021).

Da qui la necessità di intervenire sulle aree urbane al più presto, avviando iniziative e interventi per contrastare gli impatti negativi del riscaldamento globale, che comprendono l’eccesso di consumi di energia fossile (la climatizzazione estiva rappresenta circa il 30% dei consumi complessivi con un trend in crescita), le isole e le ondate di calore sempre più frequenti nei mesi estivi, l’inquinamento ambientale e la perdita di biodiversità.

I tetti verdi, infatti, oltre a ridurre gli aumenti di temperatura dovuti all’effetto isola di calore in città, migliorano la qualità dell’aria. Da uno studio condotto su specie di alberi e cespugli comunemente presenti nel verde urbano, la capacità media di mitigazione degli inquinanti atmosferici è risultata mediamente di 58-140 g di ozono (O3), di 17-139 g di particolato PM10, di 11-20 kg di anidride carbonica CO2 per pianta l’anno.

La vegetazione sugli edifici è utile anche nell’assorbimento dei composti organici volatili (COV): l’edera ed altre specie vegetali rampicanti sulla parete verde presso il Centro Ricerche ENEA Casaccia hanno consentito una riduzione di circa il 20% di benzene, toluene, etilene e xileni – i COV più comuni in ambiente urbano – nonostante l’area in esame non sia a forte esposizione di tali composti gassosi inquinanti e poco salubri per l’uomo.

Il verde urbano svolge anche una serie di servizi ecosistemici come il miglioramento estetico dell’ambiente per vivere e lavorare, la tutela della biodiversità e il rallentamento del deflusso delle acque piovane in eccesso

https://www.youtube.com/embed/gGCPk5HjPPE

“Gli Ecosistemi Vegetali per la Rigenerazione Ecologica delle Città” (Qui)

Il documento tecnico ha ottenuto un premio speciale nell’ambito del Forum Internazionale “ECOtechGREEN” per l’importanza delle ricerche condotte, mirate a valorizzare l’impiego del verde parietale e dei tetti verdi sugli edifici come elementi innovativi al fine di migliorare la sostenibilità energetica e ambientale del settore edile.

[1] I dati della sperimentazione ottenuti sulla parete verde con la copertura vegetale a Parthenocissus quinquefolia sono oggetto di un articolo in corso di pubblicazione in uno Special Issue dedicato alla tematica delle infrastrutture verdi in città per la sostenibilità e il risparmio energetico (https://www.mdpi.com/si/88334).

[2] Quaranta E, Dorati C & Pistocchi A. 2021. Water, energy and climate benefits of urban greening throughout Europe under different climatic scenarios. Sci Rep 11, 12163 (2021).




Il web del futuro, Google integrerà l’IA nella sua ricerca

Il web del futuro, Google integrerà l'IA nella sua ricerca

Google prevede di aggiungere funzionalità di intelligenza artificiale conversazionale al suo motore di ricerca.

Lo ha rivelato Sundar Pichai, amministratore delegato del colosso americano, al Wall Street Journal.

Secondo il manager, i progressi nell’intelligenza artificiale aumenterebbero la capacità di Google di rispondere alle domande, anche le più complesse, in tempo minore e con un più alto grado di affidabilità. Nessun rischio quindi ma tanti vantaggi: “Lo spazio di opportunità, semmai, è più grande di prima”, ha detto Pichai durante l’intervista.

L’ad non ha rivelato quando sarà possibile chattare con Google per avere risposte ai quesiti posti ma, per il Journal, il progetto non dovrebbe essere molto lontano dal rilascio, se non altro per non perdere troppo il passo nei confronti di Microsoft, che ha già integrato ChatGpt in una versione sperimentale del proprio motore di ricerca, Bing. Due mesi fa, Google ha reso disponibile, per test interni, Bard, il chatbot concorrente di ChatGpt, che si basa sul linguaggio di intelligenza artificiale proprietario PaLM, personalizzazione dei Large Language Model (LLM) da cui lo stesso ChatGpt deriva.

Pichai ha spiegato che l’obiettivo di Google è permettere agli utenti di interagire direttamente con i modelli linguistici attraverso chat semplici e accessibili via web. Secondo gli ultimi dati dell’agenzia Similarweb, Google detiene oltre il 90% di tutte le ricerche eseguite al mondo su internet, tra dispositivi mobili e computer. Dietro di lei Yahoo e Bing, entrambi poco oltre il 3%.




Juan Carlos De Martin: «Chiediamoci quali sono i costi nascosti dell’intelligenza artificiale»

Juan Carlos De Martin: «Chiediamoci quali sono i costi nascosti dell’intelligenza artificiale»

«Il mondo sta cambiando rapidissimamente. E temo che le nostre vite non siano in grado di tenergli il passo». Lo ha detto il regista Daniel Kwan nel ricevere l’Oscar per “Everything everywhere all at once”, dedicato a un multiverso in pericolo che scaraventa gli uomini nel caos degli universi paralleli.

Fuori dal film, l’accelerazione è ora: libri, articoli, convegni. E l’infosfera invasa dall’urgenza di raccontare un’intelligenza artificiale già pronta a stravolgere modi di apprendere, di lavorare, di curarci, di viaggiare: l’intera vita umana.

Non che l’influenza dell’algoritmo sia una novità: l’ammissione all’università, la richiesta di un prestito, l’assunzione o il licenziamento, persino la concessione o no della libertà vigilata dipendono già da uno schema sistematico di calcolo. Ma sono bastate alcune versioni di programmi basati sulla Generative AI, intelligenza artificiale applicata a stringhe di testo o di immagini, per annunciare che la rivoluzione c’è, qui e ora.

Cosa sta accadendo veramente? E quanto è vicino il tempo in cui le macchine saranno, se non più intelligenti degli uomini, almeno dotate di un’intelligenza di livello umano?

Lo abbiamo chiesto a Juan Carlos De Martin, vicerettore del Politecnico di Torino, dove insegna Ingegneria informatica, curatore di Biennale Tecnologia e condirettore di Nexa. L’occasione è stata Biennale Democrazia: la rassegna torinese che, nel promuovere una cultura democratica, punta lo sguardo ai diritti che mancano. E a un’innovazione che non deve procedere a scapito dei diritti umani.

Professore, siamo ciclicamente incalzati dall’arrivo di nuove tecnologie. Con una frequenza sempre più ravvicinata: big data, blockchain, auto a guida autonoma, ChatGPT. Con una narrazione rassicurante e seducente, queste tecnologie si impongono come imprescindibili. Perché?

«È vero. In 35-40 anni ho visto una sequenza di annunci sul digitale, prima circoscritti agli addetti ai lavori, dagli anni Novanta in poi rivolti a un pubblico sempre più ampio, che spesso li ha accolti con l’entusiasmo della corsa all’oro. C’è una tendenza chiarissima: si parla di tecnologie digitali “a ondate”, che provengono infallibilmente dalla Silicon Valley, presentano una novità con parole ambigue e ammiccanti, non proprie del mondo scientifico ma tipiche del marketing: pensiamo al cloud computing una decina di anni fa, il “calcolare sulle nuvole”, o alla moda dei big data, fino a ripescare quell’espressione nata negli anni ’50 – “intelligenza artificiale” – e rimetterla in circolo. La novità arriva, satura la società, sembra che sia indispensabile adottarla in ogni ambito. Poi l’onda inizia a scendere, si comincia a dare voce alle critiche, a capire di cosa stiamo parlando».

È quello che le chiedo io: in quale momento realmente ci troviamo? E qual è lo stato dell’arte dell’IA?
«Parliamo di un filone di ricerca informatica nato nel 1956, che ha vissuto momenti di entusiasmo e di delusione, e che ha effettivamente avuto, negli ultimi dieci anni, un balzo di prestazioni in alcuni settori specifici. Il motivo di questo aumento di prestazioni è che algoritmi, magari degli anni Ottanta, sono stati migliorati, ma soprattutto hanno avuto a disposizione molti più dati e molta più potenza di calcolo di quanto non fosse possibile prima. Questo ha messo in moto aumenti di prestazioni – nel riconoscimento del parlato naturale, ad esempio, nelle traduzioni automatiche, nel gioco degli scacchi, nel riconoscimento delle immagini – che hanno generato aspettative esorbitanti. Faccio un esempio: le macchine a guida autonoma che nel 2018-19 venivano date per imminenti, tanto da indurre Uber a investimenti pesanti, si sono rivelate una tecnologia più difficile del previsto: forse le vedremo nelle strade tra decenni o forse mai. Questa è la situazione in cui ci troviamo: effettivi avanzamenti. E contemporaneamente bolle mediatiche e, in certi casi, finanziarie».

Dal suo punto di vista, e sulla base di investimenti e risultati, l’intelligenza artificiale conquisterà mai un livello umano?
«No. Questa è una delle aspettative per me più infondate. Non perché sia, a priori, teoricamente impossibile che gli esseri umani costruiscano una macchina con caratteristiche simili all’intelligenza umana. Però l’intelligenza umana è ancora poco conosciuta. Non sappiamo dal punto di vista fisiologico molte cose del nostro cervello, e grandi temi sono aperti, come la coscienza. Condivido la posizione di John Searle: prima capiamo come funziona l’intelligenza umana, a quel punto avremo le condizioni necessarie, ma non sufficienti, per poterla replicare su base silicio, se la tecnologia sarà quella attuale, o su altre basi, persino organiche».

Dunque la singularity, e la prospettiva di macchine più intelligenti degli uomini, o almeno in grado di eguagliare l’intelligenza umana, non la appassionano?

«No. Non passerei del tempo a occuparmi di questi scenari per alcuni distopici e per altri entusiasmanti di un’intelligenza superumana. Concentriamoci sui problemi che abbiamo davanti, tangibili, importanti».

Modelli linguistici come ChatGPT sono imitativi, “pappagalli” che riassemblano in modo casuale sequenze di forme linguistiche da un numero enorme di dati. Sappiamo anche che l’IA non sa generalizzare, non coglie i rapporti di causa-effetto, manca di senso comune. Se non ha niente di paragonabile all’intelligenza umana, perché la chiamiamo “intelligenza”?
«Io cambierei subito l’espressione con una più neutra, asciutta, meno fuorviante rispetto a ciò che l’IA può fare. Così potente e ambigua, è stata coniata da scienziati in cerca di fondi della Rockfeller Foundation».

Concentriamoci sui problemi che l’IA pone, diceva prima. Facciamolo.
«Sì, ma non voglio dare un quadro solo negativo. Se troviamo tecniche di riconoscimento di immagini che ci aiutano ad analizzare radiografie o a identificare i tumori in maniera precoce, evviva. Non dobbiamo demonizzare le tecnologie, ma capire cosa fanno, come, cosa implicano. Chiediamoci quali sono i costi dell’IA, magari nascosti. Alcuni ricercatori hanno gettato un po’ di luce sullo sfruttamento di moltissime persone che lavorano non solo a etichettare i dati necessari per l’addestramento di questi algoritmi, ma anche per correggere risultati imperfetti. Se Alexa ci risponde correttamente, qualcuno magari in Madagascar o in Albania, in condizioni di lavoro usuranti e alienanti, ha corretto gli errori. Non ignoriamo le ricadute sul lavoro, o sull’ambiente, il consumo di energia, di terre rare di una tecnologia, non solo dell’IA».

Quali regole le sembrano più urgenti per l’IA? L’etica può bastare?
«Bisogna dire chiaramente che chi mette in campo queste tecniche è responsabile delle conseguenze. È un principio di buon senso che una cortina fumogena di interessi economici tenta di nascondere. L’etica non basta. Vuol dire porsi come obiettivo linee guida, autoregolamentazioni, ma è solo un rallentamento dell’intervento legislativo e pubblico: certe applicazioni vanno o regolate o proibite. La proposta di direttiva europea, dall’iter complicatissimo, è partita dicendo che il riconoscimento facciale in ambito pubblico, e il cosiddetto social score, il punteggio sociale, sono proibiti: punto. Lo stesso bisognerebbe dire delle armi letali autonome. E dei dati raccolti in certi ambiti lavorativi: da vietare».

La tecnologia non è un dato di natura, possiamo raddrizzare ciò che non va?
«La tecnologia è umanità. Dietro ogni sviluppo tecnologico, parafrasando Federico Caffè, c’è un uomo e un cognome e un soprannome. Essendo umana è sempre reversibile. Serve responsabilità politica. E di chi ha gli strumenti culturali per smascherare gli elementi di seduzione e gli interessi economici. La tecnologia non è di per sé progresso. Se fa morire di fame migliaia di persone devo accettarla lo stesso? Io credo di no. La tecnologia è una cosa umana, usiamola quando vogliamo, nel modo che riteniamo utile. In certi casi il modo più utile è non usarla».