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Il Montana è il primo Stato a vietare l’uso di TikTok

Il Montana è il primo Stato a vietare l'uso di TikTok

AGI – Il governatore del Montana il repubblicano Greg Gianforte, ha firmato ieri una legge che vieta l’uso dell’applicazione cinese TikTok. Il Montana diventa così il primo Stato degli Stati Uniti a limitare la popolare piattaforma social.

Gianforte sul suo account Twitter ha motivato la sua decisione con l’esigenza di “proteggere i dati privati e le informazioni personali dei cittadini del Montana dalla possibilità che siano raccolti dal Partito Comunista Cinese”

Il mese scorso il Congresso dello Stato del Montana aveva approvato un disegno di legge volto a vietare la piattaforma, di proprietà della società cinese ByteDance, sui dispositivi mobili di tutti i suoi abitanti. 

La replica di TikTok

“Il governatore Gianforte ha approvato una legge che viola i diritti del Primo Emendamento dei cittadini del Montana, vietando illegalmente TikTok, una piattaforma che offre vantaggi a centinaia di migliaia di persone in tutto lo Stato. Vogliamo rassicurare i cittadini del Montana che possono continuare a usare TikTok per esprimersi, guadagnarsi da vivere e entrare in contatto con la community, mentre continuiamo a lavorare per difendere i diritti dei nostri utenti all’interno e all’esterno del Montana”. Questa la posizione espressa dall’azienda attraverso un portavoce.




Lobbying, una regolamentazione efficace necessita di una visione olistica 

Lobbying, una regolamentazione efficace necessita di una visione olistica

Quando si parla di rappresentanza di interessi si possono facilmente rilevare approcci, modelli organizzativi, chiavi di lettura e, talvolta, anche visioni diverse sul futuro di un’attività che ricopre, come già ampiamente sottolineato, un ruolo fondamentale per il processo decisionale democratico del nostro Paese.

Tuttavia, tali differenze che possono derivare dal ruolo ricoperto, dal background o più semplicemente dagli interessi che si hanno in tale attività, convergono su due elementi fondamentali: il valore centrale dell’informazione e la necessità di una normativa sul settore che renda trasparente l’utilizzo di tale informazione nell’intero processo decisionale.

Come far emergere questi elementi nel tentativo di regolamentazione in atto? Lo abbiamo chiesto a Vincenzo Manfredi Head of Public Affairs and Advocacy di Assoholding e Professore a contratto presso la Luiss School of Government.

La Camera dei Deputati ha avviato un nuovo tentativo di regolamentazione dell’attività di rappresentanza di interessi. Da dove si dovrebbe partire perché si arrivi ad una normativa efficace?

A mio parere l’approccio alla regolamentazione dell’attività di rappresentanza di interessi, la famosa legge sulle lobby, non dovrebbe avere una determinante solo ed esclusivamente costituzionale. Naturalmente la mia non è una critica alla formazione di una Commissione di soli professori di diritto pubblico voluta dal Presidente Pagano. 

Intendo dire che un tema complesso come quello della rappresentanza di interessi deve essere considerato nella sua accezione sistemica, per tale motivo una legge che regoli tale settore necessita di una visione olistica che tenga conto dei pareri di scienziati della politica, relatori pubblici, esperti di comunicazione politica, di IA e digital strategist, perché non possiamo sottovalutare l’impatto della digitalizzazione e dei suoi strumenti. 

Se volessimo fare un’analisi di ciò che accomuna tutti i precedenti tentativi di regolamentazione, compresa la proposta approvata dalla Camera dei Deputati durante la scorsa legislatura, si noterebbe come l’approccio utilizzato derivi da una visione limitata di questo settore che, solitamente, è ricondotto alla sola attività di lobbying.

Le Relazioni Pubbliche, perché è di questo che stiamo parlando, rappresentano la disciplina più vasta che racchiude al proprio interno le attività di public affairs, di advocacy, di lobbying, di comunicazione politica, di marketing strategico, di consulenza strategica e posizionamento di brand, di reputazione, di brand identity, di Corporate Social Responsibility.  Per tale motivo, a mio parere, il legislatore più che regolamentare l’attività di lobbying, dovrebbe trovare la strada per regolare le relazioni pubbliche e il loro rapporto con l’informazione. 

L’informazione e le sue potenzialità di utilizzo, è questa la reale questione da cui dovremmo partire per un approccio costruttivo e sistemico.

Guardiamo, ad esempio, all’allarme lanciato dal Presidente degli Stati Uniti che teme un’influenza dell’intelligenza artificiale nelle prossime elezioni di midterm o, ancora, a ciò che è successo con Cambridge Analytica che non aveva le capacità che, oggi, offrono sistemi come Bard o Chat GPT. 

Potrebbe specificare meglio quella che è, per lei, la differenza tra Relazioni Pubbliche e Rappresentanza di interessi?

Non vi è una differenza. La declinazione della rappresentanza di interessi all’interno delle relazioni pubbliche ha a che fare con tre concetti fondamentali che sostanziano il significato stesso di ciò, che poi, è la tecnica della comunicazione: rappresentanza, rappresentatività e rappresentazione. Questi tre concetti che sembrano distanti, in realtà sono un unicum che definisce, all’interno della disciplina delle relazioni pubbliche, ciò che la rappresentanza di interessi rappresenta in funzione, non solo del decisore pubblico ma, di qualunque tipo di relazione.

Un’altra delle declinazioni si potrebbe definire “Organizational listening” (o ascolto organizzativo) che è la necessità di capire il contesto fornendo soluzioni capaci di generare valore.  Un tipo di valore che deriva dalle relazioni e non si esaurisce con il profitto, a differenza di quanto succede con l’azione imprenditoriale, ma crea un valore come asset intangibile rinveniente e precedente al profitto. Ciò consente agli asset intangibili non solo di essere misurati e verificati ma, anche, di creare quel valore sostenibile nel passaggio dallo shareholder allo stakeholder capitalism. 

Quando si parla di rappresentanza di interessi non si può ignorare la percezione negativa che questo settore ha in Italia. Basterà una regolamentazione del settore per cambiare tale percezione?

Sono certo che una regolamentazione del settore sicuramente potrebbe dare una diversa dignità, una diversa considerazione, come giustamente detto, ed una diversa percezione. Tuttavia, non credo che i colleghi giornalisti smetteranno di utilizzare la parola lobby in maniera negativa o con un’accezione denigratoria subito dopo l’approvazione della norma. È una questione culturale e se vuoi anche storica. Nonostante il susseguirsi di governi e “stagioni politiche” differenti, nel nostro Paese vi è sempre un motivo per utilizzare la parola “lobby” in senso negativo.

È per tale motivo che, a mio parere, tutti noi dovremmo investire su una diversa narrazione della rappresentanza di interessi quale fenomeno naturale e connaturato in ogni sistema decisionale. Qualsiasi esso sia. Basti pensare a cosa fa un bambino quando, appena nato, capisce che piangendo richiama l’attenzione della madre e ne influenza le decisioni. 

Una volta accettato questo concetto basilare, ciò che realmente serve è un sistema trasparente e tracciabile dell’intero processo decisionale che non sia punitivo o lesivo nei confronti del rappresentante di interessi. Questo permetterà di distinguere il professionista da ben altro tipo di individui e di modificare, pian piano, la percezione di questa professione.

Ha parlato di un sistema trasparente e tracciabile. Secondo lei l’istituzione del registro permetterebbe il raggiungimento di tale obiettivo oppure ritiene vi siano altre soluzioni?

Il registro può essere uno strumento all’interno di una normativa che tenga conto della corretta definizione della professione, perché da solo non basta. Le faccio un esempio. 

Come è noto alla Camera dei Deputati esiste un registro dei rappresentanti di interessi che prevede la rendicontazione degli incontri annuali. Ebbene chi di noi si è interfacciato con il decisore pubblico per portare le proprie istanze e quelle dei propri clienti durante la pandemia, in cui era impossibile effettuare incontri fisici nelle sedi istituzionali, ha dovuto utilizzare i sistemi di web conference. Ebbene, arrivato il momento di stilare le nostre relazioni sugli incontri effettuati, i funzionari della Camera addetti al recepimento della rendicontazione ci hanno richiamato per dirci che gli incontri on line non erano da rendicontare in quanto non erano avvenuti nelle sedi istituzionali. Le sembra normale che nel 2023 venga ancora effettuata una distinzione simile? 

Per tale ragione credo che più che un registro, serva una considerazione oggettiva di ciò che si intende per attività di rappresentanza di interessi nell’alveo della più vasta disciplina delle relazioni pubbliche.

D’altra parte, come dimostrato da alcuni colleghi che hanno sviluppato piattaforme di digital lobbying, basterebbe istituire una piattaforma fondata sulla blockchain per richiedere gli incontri e tenere traccia delle interlocuzioni avvenute fra decisore pubblico e rappresentanti di interessi. 

È vero che ciò renderebbe tutto molto più semplice, nonché trasparente tuttavia, come detto all’inizio, non sono certo che un semplice registro degli incontri e dei temi trattati possa essere la soluzione a questo problema. 

Mancherebbe, come ampiamente detto, il reale valore della relazione stessa impossibile da rendicontare perché dovrebbe essere, in qualche modo, considerata da un punto di vista strategico nei suoi aspetti, sia ex ante che ex post, rispetto alla scelta pubblica. 

Non è, infatti, sufficiente rendicontare solo l’attività di rappresentazione o di rappresentanza ma anche è necessario rendicontare anche la funzione di rappresentatività. Ciò significa che non basta creare un semplice registro perché si rischierebbe che alcune categorie di soggetti, che data la loro funzione fanno effettivamente rappresentanza di interessi, come ad esempio le organizzazioni ordinistiche, non si iscrivano.

Pertanto, a mio parere bisognerebbe spingersi oltre l’istituzione di un semplice registro, perché ciò che potrebbe essere davvero utile alla definizione e riconoscimento di questa professione è un albo dei portatori di interessi, intesi come regolatori pubblici. È questo ciò che auspico.

Nei tentativi precedenti di regolamentazione del settore, accanto alla norma che prevedeva l’istituzione di un registro obbligatorio per i rappresentanti di interesse è stato sempre introdotto un elenco di “soggetti derogati”. In cosa si differenziano gli interessi rappresentati da un’associazione di categoria, da un’azienda o da un’agenzia di lobbying? 

Ci sono alcuni soggetti professionali che sono iscritti al registro dei portatori di interesse di Bruxelles, che vorrei ricordare è un registro volontario basato sulla better regulation e prevede una serie di obblighi e di premialità (a differenza dell’ultima proposta italiana ndr). 

Ebbene questi soggetti affermano volontariamente di esercitare tale attività in Europa e quindi si deve presumere lo facciano anche qui in Italia, eppure non sono iscritti al registro italiano. Ma non solo, questi soggetti nel testo dell’ultima proposta di legge approvata alla Camera erano stati esclusi dall’obbligo di iscrizione al registro italiano. Perché? 

Perché sono, di fatto, i rappresentanti degli interessi dei corpi intermedi, delle parti sindacali o delle parti imprenditoriali. Hanno, quindi, esercitato un’azione di lobbying efficace in modo da non essere obbligati alla rendicontazione. Lecito da parte loro, ma decisamente una scelta miope del legislatore che ha creato tali deroghe.

Tuttavia, quella norma se era ingiusta verso alcune categorie, era altrettanto ingenua verso altre nella parte in cui prevedeva l’impossibilità in capo ai manager e ai rappresentanti apicali delle aziende partecipate dallo Stato di continuare a rappresentare gli interessi delle società che, sostanzialmente, pongono in essere la politica economica e industriale del Paese. Perché? 

Non ha senso creare una norma e porvi, poi, delle deroghe. Si snatura la funzione stessa di una regolamentazione e si creano distorsioni pericolose e confusione.

Stiamo assistendo ad un cambiamento nel rapporto tra rappresentanza di interessi, comunicazione ed editoria. Lei cosa ne pensa di quello che qualcuno ha definito il settore dei “media affairs”? 

Quella in via di definizione, forse, dovrebbe essere una legge sulla regolamentazione dei media affairs perché, che differenza c’è tra l’azione di un rappresentante di interessi che cerca di influenzare un decisore con gli strumenti a sua disposizione e quella di un importante editorialista che scrive alcuni articoli sui principali giornali nazionali su una determinata questione politica e che, quindi, saranno letti dallo stesso decisore pubblico? Qual è la differenza fra l’azione di un rappresentante di interessi, quella di un editore o di un giornale? Voglio continuare questa mia provocazione. 

Pensiamo ai post di un influencer che ha 5 milioni di follower fa media, lobbying, advocacy? Se l’influencer utilizza il suo account Instagram per fare influenza a favore di un prodotto di largo consumo o un bene di lusso è pubblicità; se parla dell’attività di una ONG in Africa è sicuramente advocacy; se invece parla di policy, è lobbying? 

No, non propriamente, ma è sempre la creazione di percorsi di influenza che avranno degli effetti a cascata su tutta una serie di soggetti, decisori nei rispettivi campi. L’obiettivo della persuasione è stato raggiunto ma con altri mezzi rispetto a quelli che noi solitamente riconduciamo all’attività di rappresentanza di interessi. È questa la rivoluzione che stiamo vivendo. 

Pertanto, visto che si sta cercando di regolamentare questo settore e abbiamo la possibilità di porre la dovuta attenzione anche a queste nuove rivoluzioni, dovremmo prendere in esame tutta una serie di contributi di rilevanza scientifica, fondati sui dati, per analizzare la questione che è molto più complessa e di provare a regolamentare tutto il sistema dei media affairs. Credo che se ci riuscissimo, aiuteremmo sicuramente la democrazia e il futuro stesso del nostro Paese.

Ha fatto riferimento a nuovi player di cui non si può non tener conto e quindi le vorrei chiedere quale sarà, secondo lei, il ruolo degli studi legali e delle società di consulenza strategica nel futuro di questo settore?

Sicuramente ripensando il sistema con un approccio non giacobino. Le relazioni pubbliche sono, di fatto, un’attività di consulenza strategica, perché sono attività di posizionamento, di accrescimento della reputazione. Sono attività, come dicevamo, intangibili, che riguardano la crescita, la ricchezza, la capacità di creazione di valore per un determinato soggetto imprenditoriale e più in generale, di tutte le organizzazioni. Per tale motivo, ci saranno sempre più soggetti che entreranno nel mondo delle relazioni pubbliche, del public affairs, della lobby e dell’advocacy che porteranno una evoluzione del settore che la legge dovrà essere in grado di regolamentare garantendo però il libero mercato.

Questo è un settore che sta formando centinai (se non migliaia) di ragazzi e ragazze che diventeranno lobbisti. Ma qual è il settore del lobbista? Una professione senza un albo, o un ordinne, di riferimento la possono fare tutti, con il rischio di creazione di monopoli o situazioni perniciose.

Ecco perché risulta fondamentale avere approcciare il quadro in maniera multidisciplinare, senza fare della soluzione del problema una questione di interessi particolari.

Se consideriamo nella giusta misura il valore e l’efficacia delle relazioni pubbliche riusciamo anche a “rallentare” lo sguardo, non lasciandoci ingabbiare dalla tentazione del breve termine e da comportamenti estrattavi. Rimettere al centro la costruzione di senso e di significato per creare valore, per valutare l’impatto delle politiche pubbliche: per avere quindi quel comportamento rigenerativo che è proprio della rappresentanza di interessi.

L’obiettivo delle relazioni pubbliche e della lobby, come funzione di management, è di contribuire al raggiungimento degli obiettivi di un’organizzazione con un’attività continuativa, consapevole e programmata di gestione e di coordinamento dei sistemi di relazione che si attivano fra la stessa organizzazione e i suoi diversi stakeholder: orientare opinioni, atteggiamenti, comportamenti e decisioni degli stakeholder influenti e di tutti i soggetti che a vario titolo interagiscono con l’organizzazione. 

Se questi comportamenti sono posti in essere nel rispetto delle parti, non si annichilisce il dialogo ma si creano i presupposti per una negoziazione sostenibile ed inclusiva. Da questo punto di vista, gioca un ruolo cruciale il pensiero critico e l’intelligenza contestuale, una intelligenza emotiva che il relatore pubblico attua in quanto “ingegnere delle relazioni” e dei processi di cambiamento: un approccio quindi rigenerativo capace di operare in contesti complessi e trovare quindi soluzioni armoniche che creano consenso e sviluppo sostenibile.




LA SCIATTERIA, IL MALE DELLA POLITICA ITALIANA

LA SCIATTERIA, IL MALE DELLA POLITICA ITALIANA

È un problema di sciatteria. Luca Poma, docente universitario ma soprattutto esperto di comunicazione, interviene “a bocce ferme” sulla campagna pubblicitaria dell’Italia voluta da Daniela Garnero in Santanchè con il denaro dei sudditi. E Poma scherza proprio su uno dei temi “forti” delle giustificazioni adottate dal ministro di fronte alle montagne di proteste. I 9 milioni di euro – hanno assicurato i governativi – non sono riferiti alla realizzazione del prodotto, ma comprendono anche e soprattutto i costi di promozione all’estero, tra affissione negli aeroporti ed iniziative simili.

“Quante nazioni pretenderanno di coprire con i denari a mala pena sufficienti per una campagna pubblicitaria decente al Festival di Sanremo?”, ironizza Poma. D’altronde ricorda che, per evitare gare rischiose per la vittoria finale, si è deciso di mantenere la spesa pubblica “un pelo al di sotto della soglia che avrebbe fatto scattare l’obbligo di attivare una gara pubblica”. Meglio l’affidamento diretto, tanto i sudditi non capiranno. E poi ci si chiede perché alle elezioni prevalga l’astensione.

Perché, al di là dell’apprezzamento o meno delle immagini della Venere in versione Ferragni, è la sciatteria del contorno che impressiona. Non si registra il sito, si manda in giro una bozza con il video di una cantina e di un vino sloveno, non si presta attenzione alle traduzioni maccheroniche dei nomi delle città italiane. E si risponde alle critiche insultando chi ha espresso perplessità.

Tutto migliorabile, nulla di definitivo. O forse di definitivo c’è l’arroganza di un sistema di potere che non sopporta le critiche perché non vuole ammettere di essere inadeguato. Ma, in questo modo, gli errori non vengono corretti perché non vengono riconosciuti come errori.  Poma smonta anche la puttanata storica del “purché se ne parli”, ricordando che è un modello di fine ‘800. Sì, proprio 800. Ma “zia Daniela” non lo sa. Come ignora ogni regola del reputation management.

Peccato che Poma concluda invitando il ministro ed i suoi collaboratori a farsi consigliare dai colleghi del ministero degli esteri. Ecco, proprio no. Perché l’inesistente politica estera italiana non è un modello proprio per nessuno, in nessuna parte del mondo.




Bruce Springsteen in concerto a Ferrara: una caduta di stile tutta italiana

Bruce Springsteen in concerto a Ferrara: una caduta di stile tutta italiana

Maltempo in Emilia Romagna e il caso Bruce Springsteen: il commento di Luca Poma

La reputazione spiegata semplice? Il caso di Bruce Springsteen in queste ore a Ferrara.

Un mio ex studente, ora funzionario di rilievo in un associazione di categoria nazionale, mi ricorda che a Ferrara oggi è prevista la prima data italiana di Springsteen al parco urbano, a 3 Km dal Po in piena e a 50 km da Imola sott’acqua.

L’organizzazione ieri ha detto che “si farà” e sono attese tra le 50 e le 60.000 persone che su un campo paludoso sono invitate a ballare (e tenere impegnati i soccorsi, che immagino in queste ore abbiano di meglio da fare…).

Non ci sono più i ponti, le strade sono allagate, in buona parte dell’Emilia Romagna non transitano i treni. Si ferma il volley, si ferma in Gran Premio di Imola, ma il Sindaco di Ferrara Alan Fabbri (centro destra) ha detto che non c’è problema per il concerto e che sarà – qui la grande illuminazione! – un grande rilancio per la città… Per non parlare dei giornali, che in prima pagina mettono il Boss affianco a 50.000 sfollati, 48 comuni sott’acqua e 9 morti… (13, secondo gli ultimi aggiornamenti successivi alla pubblicazione di questo post, ndr)

Il Presidente #StefanoBonaccini parla di “secondo terremoto per la Regione” mentre l’Assessore al Turismo di Ferrara #MatteoFornasini apre lo Springsteen Village. E l’ultimo post del Sindaco di Ferrara è per la Festa della mamma, dopo quello sulla retrocessione della SPAL in serie C: semplicemente, come se il disastro dell’Emilia Romagna non esistesse. Forse è solo mancanza di cultura istituzionale e mancanza di rispetto per le vittime, ma potrebbe anche essere (Dio non voglia) mancanza di capacità di previsione delle crisi…

Già così lo “spettacolo” (sic) non è dei migliori, ma – nella speranza che tutto vada per il meglio – l’Italia si conferma tristemente un Paese a bassa sensibilità sul tema del reputation management e del crisis management. Anche perché di crisi reputazionale già possiamo parlare, se consideriamo i commenti poco lusinghieri che (giustamente) stanno venendo pubblicati sul profilo di Claudio Trotta, manager di Springsteen.

#Springsteen #Ferrara #concerto  #alanfabbri #cultura #emiliaromagna #alluvione #2023




Tesla Leaks, fuga di documenti riservati sui rischi occultati delle auto elettriche: il gigante dell’innovazione è in crisi di reputazione?

Elon Musk e la reputazione di Tesla

A Elon Musk, l’eccentrico ed innovatore miliardario americano, si sono dedicati fiumi di inchiostro, e in passato qualche parola l’avevo spesa anch’io per una rapida analisi sul suo personal branding. Ora il problema pare deflagrare, a causa di una fuga di notizie consistente nella pubblicazione, ovviamente non autorizzata, di 23.000 documenti aziendali riservati della multinazionale dell’elettrico. Ma andiamo con ordine.

Elon Musk: apparenza o sostanza?

Musk è una celebrità, questo è certo, ma una celebrità che pare afflitta da una smisurata ipertrofia dell’ego: patisce a non essere costantemente sulla cresta dell’onda (digitale) ed è disponibile a cavalcare qualunque tipo di polemica pur di surfare l’hype, un po’ come un adolescente complessato e desideroso di attenzione. Nulla di male, si direbbe, se non fosse che la continua e reiterata violazione delle più elementari regole delle buone relazioni pubbliche fa male non solo alla sua immagine, ma anche al valore di borsa delle sue aziende, esposte alle fluttuazioni generate dalle esternazioni del loro lunatico CEO.

Ad esempio, la domanda da lui posta qualche mese fa al popolo del web “Dovrei dimettermi da capo di Twitter?” diede come imbarazzante esito un 57,5% di “SI” da parte dei votanti, gettando il boss di Tesla e delle molte altre società della sua galassia nello sconforto: obbedire al volere della rete, come pure Musk ha sempre dichiarato essere imprescindibile fare, o passare oltre, facendo dimenticare la votazione, ma tradendo così la fiducia degli utenti? Ovviamente buona fu la seconda, con il risultato di realizzare la più clamorosa violazione di uno dei pilastri fondamentali del reputation management: quello della coerenza.

Una conferma – semmai ve ne fosse bisogno – che costruire reputazione è un più complesso che non semplicemente “comunicare”: ma davvero nel 2023 c’è ancora qualche dilettante che crede funzionare la formula “bene o male, purché se ne parli?”.

I “Tesla Leaks”: la fuga di notizie riservate e le reazioni del mercato

Ora, il contenuto dei 100 Gigabyte di informazioni interne riservate e pubblicate online su Tesla potrebbe rivelarsi potenzialmente devastante per il gigante texano dell’elettrico: auto che si schiantano contro i dissuasori stradali, freni attivati di colpo per evitare collisioni immaginarie, e circa 2.400 reclami per veicoli che accelerano sfuggendo al controllo dei proprietari, come riporta un articolo del quotidiano economico tedesco Handelsblatt ripreso poi da Wired UK.

Wired UK spiega che dal 2015 al 2022 i problemi di sicurezza relativi all’Autopilot di Tesla, che parrebbe essere causa di diversi incidenti quasi mortali, sarebbero stati numerosi, ben noti alla casa produttrice e – clamorosamente – se non ignorati quanto meno sottostimati, nonostante le ben 360.000 vetture già richiamate per aggiornamenti al software.

A ciò si aggiunga – evidenzia sadicamente il quotidiano tedesco – che l’azienda non lancia un nuovo veicolo elettrico dal 2020, ed è ormai considerata – paradossalmente, dal momento che proprio Tesla è stata innovatrice nel settore – in significativo ritardo rispetto a diverse altre case produttrici di automobili.

Matthias Schmidt, analista automobilistico indipendente di Berlino, ha affermato: “Tesla ha da tempo adottato un approccio affrettato per lo sviluppo dei suoi prodotti, che genera preoccupazioni sul fatto che i nuovi modelli siano effettivamente pronti per circolare (sulle strade, ndr). Nel complesso, i veicoli dell’azienda sono stati coinvolti in 393 decessi registrati, 33 dei quali avevano a che fare con il sistema Autopilot”. Ciò che ha dell’incredibile è che il CEO Elon Musk “accetta la morte dei conducenti come una conseguenza dell’avanzamento della tecnologia“, conclude Schmidt.

Handelsblatt riporta nella sua inchiesta anche il parere di Ferdinand Dudenhöffer, direttore del Centro di ricerca automobilistica dell’Università di Duisburg, in Germania, che ha preso posizione criticamente, dichiarando: “Tesla ha migliaia di informazioni, di reclami dei clienti, e allo stesso tempo dice alla gente che è il miglior prodotto del mondo“.

Mi chiedo: siamo – incredibilmente – ai prodromi di un nuovo Dieselgate[1]?

Interessante però notare – ai fini della nostra analisi – come Dudenhöffer attribuisca la responsabilità dei crescenti problemi di Tesla direttamente a Musk: “Non dovrebbe più essere l’amministratore delegato e il capo Tesla – ha dichiarato l’esperto – perché continua a commettere errori su errori” (!).

È ancora presto per capire quali saranno le reazioni dei clienti e in generale degli stakeholder dell’azienda di Musk, anche se Soumen Mandal, analista di Counterpoint Research, ha osservato che “Tesla è solita creare aspettative elevate, che spesso però fatica a soddisfare“. A riprova di quanto la situazione potrebbe essere critica, è interessante evidenziare come il prezzo delle azioni di Tesla avesse raggiunto un picco di 407,36 dollari nel 2021, ma da allora sia calato di oltre la metà, arrivando la scorsa settimana a 184,47 dollari per azione: quanti danni dovrà ancora creare l’approssimazione di Elon Musk nella guida del gruppo prima che i fondi di investimento perdano la pazienza? E ancora: basta una conduzione “eccentrica” e fuori dagli schemi della comunicazione per tenere a galla – e far rendere – una multinazionale delle dimensioni di Tesla?

La reputazione: è solo cura dell’immagine (a qualunque costo)?

“Costruire la propria reputazione privilegiando non solo l’immagine, la pubblicità o il marketing fini a se stessi, bensì l’azione: il fare, e il raccontare bene ciò che si è fatto, partendo, sempre, dalla consapevolezza – profonda e sentita – della propria identità”: questo scrivevamo nell’introduzione a un volume sul reputation management scritto a quattro mani con la collega Giorgia Grandoni.

Il termine identità si riferisce all’essenza degli elementi che caratterizzano l’organizzazione nel profondo, sia materiali che immateriali: la sua personalità, la vision, la mission, i valori guida e i comportamenti dei membri; nel senso più esteso, il motivo stesso per il quale l’organizzazione esiste. Mai il termine greco Telos – utilizzato da Aristotele, ma ripreso poi anche da Hegel e Marx – fu più centrato: lo studio degli oggetti in relazione ai loro obiettivi, contrapposto (o meglio, integrato) dal termine Téchne, ovvero il metodo, grazie al quale si raggiunge uno scopo o si realizza un oggetto.

La domanda alla quale, banalmente, è utile tentare di rispondere, quando si indaga circa l’identità di un’azienda, o si lavora per rivitalizzarla, è la seguente: quale era il sogno dell’imprenditore, il giorno in cui ha sottoscritto l’atto fondativo dell’organizzazione? Dove voleva arrivare? Cosa voleva cambiare nella società?

Invece l’immagine – più banalmente – riguarda solo la forma esteriore dell’organizzazione, il riflesso dell’identità dell’organizzazione così come appare agli occhi dei suoi pubblici, ed è questione assai più superficiale ed effimera.

Le organizzazioni però investono molto sul concetto di immagine – e in questo Musk pare un maestro – per cercare di distinguersi e di essere attraenti agli occhi di tutti gli stakeholder, e il processo di costruzione dell’immagine aziendale è spesso la priorità degli uffici marketing e pubbliche relazioni. Quest’attività tuttavia può rivelarsi assai rischiosa quand’è autoreferenziale e poco genuina: se ci si allontana troppo dalla vera identità dell’organizzazione, proiettando un’immagine inautentica e artefatta, si entra nel tunnel del rischio di crisi reputazionale, che distrugge valore non solo per l’influencer/ brand/ azienda ma – ed è ben più grave – anche per tutti coloro che su di esso/a hanno investito.

Metaforicamente, potremmo immaginare l’identità di un’organizzazione come un palazzo, e l’immagine come un’impalcatura costruita attorno dagli operai per rinnovare la facciata e renderla più gradevole: se la distanza tra l’impalcatura e il palazzo si rivelasse eccessiva, l’impalcatura inevitabilmente crollerebbe.

Forse l’impero di Musk necessita urgentemente di nuovi “operai” e di una strategia all’altezza delle criticità che sta vivendo: diversamente l’impalcatura potrebbe crollare, trascinando nel disastro il suo poliedrico creatore.


[1] Lo scandalo che investi il gruppo Volkswagen in relazione alla manipolazione da parte della causa automobilistica tedesca dei dati delle emissioni di CO2 in atmosfera per i motori diesel, che impatto significativamente sulla reputazione (e sui conti) dell’azienda, qui ulteriori dettagli