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Oltre il Pil: la spinta di cinque governi per rilanciare l’economia del benessere

Oltre il Pil: la spinta di cinque governi per rilanciare l’economia del benessere

Misurare ciò che conta”, avevano scritto nel 2021 Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia, Jean-Paul Fitoussi (da tempo in odore di Nobel, ma purtroppo morto nell’aprile del ‘22) e Martine Durand. Perché è proprio il momento di andare al di là del Prodotto interno lordo, uno strumento che indica quantità di ricchezza prodotta e non qualità dei risultati delle scelte economiche. E “ciò che conta davvero è il benessere”.

Il libro, pubblicato in Italia da Einaudi, riprendeva i temi di un famoso rapporto, firmato nel 2009 appunto da Stiglitz, Fitoussi e da un altro premio Nobel, Amartya Sen, per incarico di Nicolas Sarkozy, allora presidente della Repubblica francese e poi approfondito da un comitato di esperti dell’Ocse, sulla misurazione delle performance economiche e dei processi sociali. L’idea di fondo: proporre una nuova agenda economica, con un insieme di metriche per stabilire lo stato di salute e l’accettabilità di una società, tenendo in primo piano le misure sulla diseguaglianza e sulla vulnerabilità economica, sulla sostenibilità ambientale e su come le persone percepiscono la propria vita e ne possono progettare il miglioramento.

Il tema, al di là del dibattito economico, è stato rilanciato con un’iniziativa politica di rilievo, proprio negli ultimi giorni del 2022, da cinque capi di governo, Jacinda Arden (Nuova Zelanda), Sanna Marin (Finlandia), Katrín Jakobsdóttir (Islanda), Nicola Sturgeon (Scozia) e Mark Drakeford (Galles), che hanno scelto di lavorare insieme per una “Wellbeing Economy Governments Partnership”, cui potrebbero presto aderire anche Canada e Australia. Wellbeing, benessere, appunto. Una scelta politica di grande valore strategico.

L’idea di fondo, infatti, è quella di orientare le scelte politiche verso la qualità della vita e la sostenibilità, ambientale e sociale, dello sviluppo economico, andando al di là della dimensione puramente quantitativa della crescita, proprio quella misurata dal Pil. E la scelta dell’unità di misura ha una straordinaria valenza politica ed etica. Guardando non soltanto alla ricchezza prodotta ma soprattutto alla sua distribuzione, alle opportunità offerte alle nuove generazioni, alla salute, all’istruzione, agli impegnativi abbattimenti delle diseguaglianze.

I tempi di crisi che stiamo vivendo, fin dall’inizio del nuovo millennio (disastri climatici e ambientali, pandemie, crolli finanziari, tensioni geopolitiche sino alle esplosioni di guerra, fratture sociali, aumento dei divari geografici, generazionali, di genere) hanno portato alla ribalta la necessità di ripensare radicalmente i parametri economici tradizionali, in direzione di una “economia giusta” (l’espressione cara a Papa Francesco) e di seguire nuovi paradigmi di sviluppo.

Nulla a che vedere, naturalmente, con la “decrescita felice” teorizzata da economisti eccentrici alla Serge Latouche (in realtà, infelice: senza crescita non ci sono risorse da redistribuire, né investimenti in innovazione né nuovo lavoro). C’è molto, invece, da discutere proprio nel momento in cui i temi dell’ambiente e della giustizia sociale e della risposta alle drammatiche fratture dei tradizionali e distorti equilibri di produzione e di scambio impongono la ridefinizione di relazioni, poteri, valori. E la scrittura di nuove mappe economiche e non soltanto il riaggiustamento marginale della distribuzione del valore generato dall’economia (profitti, corsi di Borsa). Mappe essenziali, anche per il riequilibrio della globalizzazione.

Economia civile, economia circolare, economia generativa sono termini che sempre più spesso arricchiscono il dibattito culturale e sociale e che incidono sulla ricerca di nuovi e migliori assetti d’esistenza e di futuro.

Trova, insomma, rilievo crescente anche in politica l’essenziale passaggio, diffuso nel mondo dell’impresa, dal primato dello shareholders value (profitti, appunto) a quello degli stakeholders values (i valori che riguardano tutti coloro che hanno a che fare con l’impresa: dipendenti, fornitori, clienti e consumatori, cittadini delle comunità e dei territori su cui impatta l’attività aziendale) e la cui eco risuona con forza nei “bilanci sociali” e “di sostenibilità” e soprattutto nelle scelte di parecchi gruppi industriali e finanziari di incorporare proprio quelle voci nell’unico bilancio aziendale: una scelta chiara di buona etica d’impresa, d’una radicata “morale del tornio”. Benessere, dunque. E sostenibilità.

Analizzando bene le recenti scelte economiche della Ue con il Recovery Fund come risposta alla crisi post pandemia da Covid19, si ritrovano chiare le tracce di queste nuove sensibilità: attenzione alla next generation, istruzione, salute, ricerca economica, sostenibilità nella twin transition ambientale e digitale. Una migliore idea di futuro. In cui proprio l’Europa, riscoprendo, rilanciando e riformando la proprio profonda sensibilità storica e contemporanea per il welfare, ha un ruolo fondamentale. La sintonia con la Wellbeing Economy della Arden e della Marin è evidente.

L’Italia, in questo processo riformatore, ha una posizione di primo piano. Come dimostra proprio un indicatore, il Bes, l’indice del “Benessere equo e sostenibile”, elaborato dall’Istat e dal Cnel, che dal 2017 accompagna il Documento di Economia e Finanza del Governo, misurando con 12 parametri l’andamento delle condizioni sociali del Paese. Un indicatore di cui è necessario tenere sempre più conto.

Vale la pena, in questo processo riformatore dell’economia, dei suoi valori e dei suoi indici, rileggere anche una lezione politica fondamentale, quella di Robert Kennedy, in un discorso fatto agli studenti dell’università del Kansas nel marzo del 1968, tre mesi prima di essere ucciso. Proprio sul Pil che “misura tutto, eccetto ciò che rende che rende la vita veramente degna di essere vissuta” e che “può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani”.

Eccolo, dunque, il monito kennediano: “Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del Paese sulla base del prodotto interno lordo”. Il Pil, infatti, “comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine settimana. Il Pil mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzino la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari”.Il Pil, insomma, “non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei nostri valori familiari o l’intelligenza del nostro dibattere. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione, né la devozione al nostro Paese”. Più di mezzo secolo dopo, il messaggio è quanto mai attuale. 




Un viaggio sostenibile

Un viaggio sostenibile

Le crisi degli ultimi anni (pandemia, guerre, clima) hanno risvegliato le coscienze di molti. Davvero iniziamo a chiederci che impatto hanno le nostre azioni su natura e società? Questa nuova consapevolezza è solo un fuoco di paglia o è destinata a durare?

Senza dubbio tutti questi avvenimenti, sia sociali che ambientali, hanno scosso le coscienze. Soprattutto si è preso consapevolezza del fatto che le nostre azioni hanno un impatto: sappiamo che i gesti che compiamo generano degli effetti sul mondo e sulle persone che ci circondano. Purtroppo, però, ancora non siamo in grado di riportare questa consapevolezza ad un criterio decisionale. Faccio un esempio: nel momento in cui acquistiamo un’auto, facciamo valutazioni di prezzo, di consumo, di estetica, di dimensioni, di necessità… difficilmente prendiamo in considerazione l’ambiente o l’impatto sociale, soprattutto di fronte a un prezzo “eco” più elevato. Insomma, sappiamo che le nostre azioni influenzano l’ambiente e la società, ma non prendiamo decisioni in base a questo. Questo è uno dei passaggi chiave per concretizzare la sostenibilità.

Un altro ostacolo è il fatto che spesso tendiamo a giustificarci: è difficile rinunciare alle nostre comodità, al nostro status quo, perciò invece che fare scelte sostenibili, magari faticose, ci diciamo che «l’impatto che generiamo nel nostro piccolo è nullo rispetto a quello di grandi aziende e che sono gli altri (politici, imprenditori…) a dover fare qualcosa». Questo pensiero è profondamente sbagliato, perché la somma dell’impatto dei singoli, in realtà, è enorme: siamo talmente tanti e viviamo in maniera così individualistica, che è come se ogni nostro gesto fosse amplificato. Dovremmo iniziare a vedere ogni nostra azione come una parte di azioni condivise.

Questa presa di consapevolezza influisce sul settore turismo sostenibile?

Sì e non solo in questo settore: il risveglio di coscienze sta portando a un cambio della domanda un po’ in tutti gli ambiti e ambienti. La differenza, però, è che nel Turismo è ancora difficile percepire l’impatto generato, perché è multifattoriale. E poi ci sono effetti assolutamente invisibili nel breve periodo. Faccio un esempio. Se vado in Thailandia a visitare i villaggi con le donne giraffa, difficilmente mi renderò conto che sto alimentando meccanismi di appropriazione culturale, che sto in qualche modo limitando la libertà di queste persone nel vivere pienamente le loro tradizioni: gli effetti di questo tipo di turismo si vedranno tra trent’anni, quando quelle tradizioni saranno abbandonate o mortificate in qualche modo. E trent’anni sono lunghi…

Un aspetto invece palese è quello del trasporto: ormai sappiamo tutti l’impatto che genera in termini di CO2, quindi molti iniziano a preferire i mezzi collettivi (pullman, treni…) a quelli individuali o all’aereo.

Per esempio, il turismo lento, che ha preso piede negli ultimi anni, può essere considerato turismo sostenibile o è tutt’altro?

, è decisamente una forma di sostenibilità turistica. Vorrei sottolineare che “turismo sostenibile” non è una nuova tipologia di turismo: è lo stesso turismo che avremmo fatto in precedenza, ma con maggiore rispetto di ambiente e comunità dove scegliamo di recarci. Anche lo sci e il turismo in montagna possono essere sostenibili, dipende sempre da come mi comporto e dalle scelte che faccio!

Finora abbiamo parlato dei viaggiatori, ma anche gli operatori turistici devono essere sensibilizzati perché la sostenibilità sia vera e “totale”. Quali sono le difficoltà maggiori che incontrate in questo percorso?

La mentalità. La stragrande maggioranza degli operatori turistici è abituata a lavorare (quindi a prendere decisioni) secondo un certo schema: ogni azione genera un profitto, tendenzialmente immediato. Se entra in gioco la sostenibilità, il profitto non sarà più immediato, ma arriverà nel medio o lungo periodo. Cambiare questo schema mentale è molto difficile, soprattutto se consideriamo l’impatto che ha avuto la pandemia sul settore e il momento d’incertezza in cui stiamo vivendo.

Inoltre non sono ancora molti i viaggiatori che cercano accommodation sostenibili: magari viaggiano in bici, ma quando poi si trovano all’interno della struttura non fanno richieste di sostenibilità (come prodotti locali, proposte vegetariane o certificazioni). Questo tipo di domanda ancora non c’è, o quanto meno non è percepita, di conseguenza gli operatori (a meno che non siano persone attente a questo tipo di tematiche) non hanno interesse ad agire in questa direzione. È un circolo vizioso, che si romperà quando la sostenibilità avrà un peso nelle scelte dei consumatori.

Nota delle differenze tra operatori italiani ed esteri?

Al di là della sensibilità personale e/o collettiva, i paesi nordeuropei sono guidati da leggi regolamenti che impongono alle strutture tutta una serie di standard minimi da rispettare: non è, quindi, solo una scelta del singolo operatore, quanto proprio una necessità per poter far parte di quel mondo imprenditoriale.

Parlando di leggi e regolamenti, crede che siano un aiuto o un ostacolo?

Un aiuto. Un enorme aiuto! E anche una necessità da mettere in campo il prima possibile. La definizione di standard minimi che riportino anche principi e criteri di sostenibilità segnerà un punto di svolta per le strutture turistiche e per il turismo in generale.

Con la mia startup sto provando a farlo: abbiamo creato la Certificazione Faroo, uno standard di turismo sostenibile ispirato a modelli internazionali; per gli operatori è totalmente gratuito perché l’obiettivo è dare loro uno strumento per valutare meglio la propria sostenibilità. Stiamo anche lavorando per far riconoscere il nostro quadro normativo a livello internazionale: vorremmo vederlo adottato come standard minimo condiviso e riconosciuto… un po’ come le stelle per gli alberghi. Questo aiuterebbe i consumatori a conoscere facilmente il livello di sostenibilità di una struttura e permetterebbe loro di scegliere consapevolmente.

A proposito di Faroo, oltre all’offerta B2B (team building sostenibili), avete anche proposte per i singoli viaggiatori?

Non ancora, ma ci stiamo attrezzando! L’obiettivo, come per il B2B, è proporre pacchetti di turismo sostenibile dove l’impatto generato sia misurabile: stiamo lavorando a un prodotto innovativo e trasparente, evitando qualsiasi forma di green washing.

Ci può dare tre consigli per essere sostenibili anche in vacanza?

Parto dal più semplice, che può adottare chiunque e nell’immediato: per la cura del corpo usare solo prodotti solidi. Tutto il packaging, quindi la plastica, dei nostri prodotti si traduce in rifiuti da smaltire e diventa un peso (fisico e simbolico) per i territori dove ci rechiamo.

Poi possiamo ricercare e scegliere strutture turistiche che siano gestite dalla popolazione locale, o comunque che non siano intermediate. Se poi riusciamo anche a capire il loro grado di attenzione alla sostenibilità (dalle iniziative, da eventuali report pubblicati su sito o social), meglio ancora.

Infine, soprattutto in questo periodo estivo, evitare attività poco etiche con gli animali: in questi periodi può capitare di uscire in barca per avvistare mammiferi, delfini, balenottere, di fare snorkeling, di toccare la barriera corallina, le stelle marine… magari di portarle a casa insieme alle conchiglie! Cerchiamo di evitarlo: un’attività etica preserva gli ecosistemi ed evita lo sfruttamento animale.




Deepfake: cosa sono, chi ne è stato vittima e come riconoscerli

Deepfake: cosa sono, chi ne è stato vittima e come riconoscerli

Negli ultimi giorni in molti possono essersi imbattuti in un annuncio pubblicitario sui social che mostra una donna identica ad Emma Watson in atteggiamenti provocanti che richiamano quelli di un filmato porno. Ma la protagonista non è la celebre attrice britannica: il video è infatti parte di una campagna promozionale di un’applicazione deepfake che consente di sostituire il protagonista di un filmato con qualunque altro reperibile in rete, come nel caso di Watson. Molto usato per realizzare contenuti pornografici, questa campagna dimostra chiaramente come il deepfake si stia diffondendo anche su applicazioni di consumo alla mercé di tutti.

Cos’è e come viene usato il deepfake

Il deepfake è una tecnica che permette di creare video falsi ma abbastanza realistici da trarre in inganno. Si fa infatti ricorso all’apprendimento automatico che sfrutta l’intelligenza artificiale per ricreare in maniera artificiosa il volto e la voce di una persona, sovrapponendoli poi a un video esistente. La principale applicazione di questa tecnica è quella dei video a sfondo sessuale: un rapporto del 2019 di DeepTrace, una società con sede ad Amsterdam che monitora i media online, ha infatti rilevato che il 96% del materiale deepfake in rete è di natura pornografica. Ma il deepfake può anche essere utilizzato per diffondere notizie false o compiere atti di cyberbullismo e vari altri crimini informatici.

Se fino a poco tempo fa per realizzare questo tipo di contenuti erano necessari programmi sofisticati e a pagamento, adesso l’operazione sta diventando sempre più semplice anche per gli utenti comuni, dal momento che i reel di Instagram o i video di TikTok offrono agli utenti i volti di milioni di individui, famosi e non, da poter ‘sfruttare’ e le app che consentono la manipolazione del materiale anche senza approfondite conoscenze informatiche.

Casi celebri: da Zelenski a Matteo Renzi e Barack Obama

Diversi personaggi pubblici si sono purtroppo ritrovati in situazioni spiacevoli a causa dei deepfake, come nel caso di politici apparsi in video nei quali sembravano pronunciare parole che in realtà non avevano mai detto. Pochi giorni dopo l’inizio dell’invasione russa, lo stesso presidente ucraino Volodymyr Zelensky ne fu vittima. Un video mal riuscito lo ritraeva mentre si rivolgeva ai suoi soldati, incoraggiandoli ad arrendersi. Nonostante il falso fu subito smascherato, (il labiale era ben sincronizzato, ma l’accento di Zelensky era sbagliato, la sua testa troppo grande e con una risoluzione diversa rispetto al corpo e allo sfondo), quelle immagini fecero suonare un campanello d’allarme, per le potenziali dannose conseguenze della diffusione di questo tipo di contenuti se utilizzati per influenzare l’opinione pubblica. Anche i politici italiani non sono rimasti immuni al fenomeno: celebre era il caso di Striscia La Notizia che nel 2019 aveva realizzato un finto fuori onda di Matteo Renzi Matteo Salvini.

Di deepfake si parla molto anche nel cinema, dove da tempo si discute se sia giusto utilizzarlo per ‘ringiovanire’ alcuni attori o addirittura ‘riportarne in vita’ altri, come accadde con il film di Star Wars Rogue One del 2016, quando il defunto Peter Cushing (1913-1994) è ‘tornato’ a interpretare il Grand Moff Tarkin grazie all’animazione digitale. Il regista premio Oscar Jordan Peele, per sensibilizzare sul tema, realizzò nel 2018 un deepfake dell’ex presidente Barack Obama, già allora molto credibile, a dimostrazione della crescente difficoltà di distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è.

Limitazioni: in Cina posti dei paletti alla creazioni di video

Le preoccupazioni sui deepfake hanno portato ad una proliferazione di contromisure. Il 10 gennaio è entrata in vigore in Cina una nuova normativa volta a disciplinare la creazione e la diffusione di contenuti ottenuti tramite le intelligenze artificiali generative, compresi i deepfake. Alcune piattaforme social, tra cui Facebook e Twitter, li hanno banditi dalle loro reti. E il Garante della Privacy nel 2020 mise a punto una scheda informativa per sensibilizzare gli utenti sui rischi connessi agli usi malevoli di questa nuova tecnologia.

Come riconoscere un deepfake

Seppure la qualità stia migliorando di giorno in giorno, smascherare un deepfake è ancora possibile: l’attuale tecnologia ha problemi ad animare realisticamente i volti ed il risultato è un video in cui il soggetto non sbatte mai le palpebre o lo fa troppo spesso e in modo innaturale. Si possono inoltre trovare anomalie per ciò che riguarda la pelle ed i capelli, oppure volti che sembrano essere più sfocati rispetto all’ambiente in cui sono posizionati. Anche la luce del video può rappresentare un indizio: spesso gli algoritmi di deepfake conservano l’illuminazione delle clip originali, che finiscono per non corrispondere a quella dei video a cui vengono sovrapposte. Infine sono spesso rintracciabili problemi relativi all’audio, che alle volte non emula adeguatamente la voce del protagonista o non viene manipolato con la stessa attenzione del video.




Perché non trasformare le biblioteche in centri per la cultura digitale?

Perché non trasformare le biblioteche in centri per la cultura digitale?

Presto inaugurerà, a Genova, un hub per la cultura digitale over 65: un luogo che, attraverso una collaborazione tra start-up e terzo settore, svilupperà servizi e offerte rivolte particolarmente alla silver generation. Il rapporto tra i cittadini e la cultura digitale è un tema importantissimo, che di rado viene opportunamente approfondito.
Nel caso di Genova, le condizioni sono state tali da poter strutturare un hub specifico, ma, in molte altre città italiane di medie e piccole dimensioni, questa attività potrebbe essere funzionalmente svolta da centri già esistenti e che, per propria vocazione istituzionale tendono, o dovrebbero tendere, alla creazione di un rapporto diretto con tutti i propri utenti, al fine di diffondere la conoscenza e favorire nella cittadinanza la comprensione e l’adozione di strumenti utili a interpretare il proprio tempo. Stiamo parlando delle biblioteche.
Le biblioteche di pubblica lettura, infatti, sono ormai da anni coinvolte in un processo di rinnovamento della propria attività, estendendo sempre più il proprio ruolo all’interno della comunità e trasformandosi da luoghi di custodia e di tutela a centri di accesso, divulgazione e valorizzazione della conoscenza.
Si tratta di un passaggio importantissimo, di cui è opportuno ribadire il carattere necessario: un tempo, infatti, erano i libri la conoscenza. Qualsiasi concetto che fosse realmente meritevole di essere distribuito e diffuso era affidato a un libro.

The New Library, Magdalene College. Credit images to Nick Kane
The New Library, Magdalene College. Credit images to Nick Kane

BIBLIOTECHE E CULTURA DIGITALE

La funzione delle biblioteche, quindi, era quella di custodire la conoscenza, di evitare andasse perduta. E, fin quando questa condizione è stata vera, disporre di tanti libri, e dare libero accesso a essi, voleva dire rendere la conoscenza accessibile.
Nell’ultimo decennio, e con grande probabilità nei prossimi dieci anni a venire, le biblioteche muteranno notevolmente pelle con lo scopo principale di continuare a svolgere il mandato sociale che è stato loro attribuito, adeguando i propri mezzi, le proprie attività e le proprie modalità di interazione con le persone alle nuove esigenze che la nostra società presenta.
Identificare nelle biblioteche, quindi, dei veri e propri hub per la cultura digitale vuol dire riconoscere il processo di trasformazione in atto, favorirlo e incrementare il livello di sviluppo della nostra cittadinanza.
Soprattutto, vuol dire garantire a tutti i cittadini una conoscenza concreta e reale degli strumenti che, piaccia o meno, governano una fetta importante delle nostre esistenze.
Qui forse è necessario un approfondimento: quando di solito si sente parlare di centri per la divulgazione della cultura digitale si pensa spesso a iniziative, più o meno efficaci, più o meno meritevoli, rivolte essenzialmente a un target di persone demograficamente identificato. Tutto iniziò, qualcuno lo ricorderà, con le lezioni gratuite di informatica per gli anziani, che, da allora, hanno mantenuto più o meno la stessa impostazione, pur essendo notevolmente mutate le condizioni.
Ad aver bisogno di un centro in grado di diffondere la cultura digitale, oggi, non sono solo gli anziani, ma la cittadinanza nella sua interezza. Cultura digitale significa infatti tantissime cose: significa essere consapevoli dei propri diritti e doveri digitali, significa saper utilizzare correttamente gli strumenti che oggi abbiamo a disposizione, significa cogliere le opportunità per migliorare la propria produttività scolastica e professionale.IL CONTENUTO PROSEGUE A SEGUIRE

CITTADINI E DIGITALE

Essere cittadini digitali non è affatto banale, perché presuppone non solo che gli individui incarnino le caratteristiche che li rendono cittadini, ma essere anche in grado di trasferire quei concetti anche alla sfera del nostro mondo digitale. Sicuramente significa conoscere gli strumenti, ma è solo una parte del tutto.
Sempre più persone trascorrono una parte importante del proprio tempo online, ed è presumibile che questo trend continuerà a crescere in modo significativo nei prossimi anni.
Basta questo a capire quanto sia importante per i cittadini essere degli internauti consapevoli.  Aiutano, certo, le campagne di sensibilizzazione. Ma non bastano. Non basta sapere che il bullismo online è ugualmente malvagio, che affidare il codice della propria carta di credito a un fantomatico governo internazionale che ti ha raggiunto via e-mail in quanto ereditario di un’immensa fortuna vuol dire vedersi svuotare il conto all’istante. Non basta nemmeno sapere che violare i diritti di privacy di una persona è reato, e che la navigazione in anonimo molto raramente è completamente anonima.
Queste sono le condizioni per poter esserci, nel digitale. Essere cittadini è un’altra cosa.
Le biblioteche di pubblica lettura, quindi, rappresentano forse una delle infrastrutture più adatte alla definizione di questo tipo di offerta culturale, che è essenziale venga erogata dal soggetto pubblico, così come è essenziale che venga erogata alla più vasta platea di persone possibili. Non solo per gli effetti positivi che una tale politica culturale può avere sulla nostra cittadinanza, ma anche per gli effetti positivi che una tale impostazione di diffusione può avere sulle nostre attuali biblioteche, così come sul comparto imprenditoriale legato all’innovazione e alla cultura digitale.

Nuova BEIC - Biblioteca europea di informazione e cultura di Milano, progetto vincitore. Courtesy Comune di Milano
Nuova BEIC – Biblioteca europea di informazione e cultura di Milano, progetto vincitore. Courtesy Comune di Milano

IL RUOLO DELLE BIBLIOTECHE OGGI

I modi attraverso cui tale sviluppo può essere favorito dalle biblioteche sono molteplici: si pensi, a un estremo, alla possibilità di fornire lezioni di coding già dalla più tenera età, con un percorso che segua i bambini per livelli di specializzazione crescenti. Una tale diffusione di conoscenza tecnica sicuramente potrà agevolare l’emersione di nuove esperienze imprenditoriali. Al lato opposto, invece, il possibile incremento dei livelli di domanda che può sorgere da una più ampia diffusione di conoscenza della cultura.
Così come nel caso della cultura tradizionale, per la quale vale il principio che, una volta acquisito il piacere di fruire cultura, quel piacere tenderà ad aumentare i consumi culturali nel tempo (per volume o per intensità), così, per la cultura digitale, riuscire a trasmettere il piacere di realizzare dei progetti online, di partecipare ad attività di citizen science, di produrre musica utilizzando l’intelligenza artificiale, di trasformare le proprie foto ricordo in prodotti multimediali può favorire un sempre più costruttivo utilizzo di internet e delle sue potenzialità.
Attribuire, dunque, alle biblioteche di pubblica lettura una tale funzione significa anche ridurre notevolmente i costi di investimento necessari per una seria politica di diffusione di centri per la cultura digitale nel nostro Paese. Esiste già un’infrastruttura estremamente capillare; esistono professionisti altamente competenti su tutto il territorio nazionale. Non resta che affidare istituzionalmente questo ruolo alle biblioteche, dotarle di risorse, anche minime, attraverso le quali poterlo concretamente sviluppare, e favorendo altresì la partecipazione dei cittadini. Il tutto senza dover investire ulteriori risorse per definire degli spazi, risorse che, allo stato attuale, in molte città, può essere più funzionale destinare alle persone.




Pagamenti con CBDC, il futuro è vicino: previsioni sulle valute digitali delle banche centrali

Pagamenti con CBDC, il futuro è vicino: previsioni sulle valute digitali delle banche centrali

pagamenti digitali con CBDC (Central Bank Digital Currencies, le valute digitali delle banche centrali) sono un futuro non vicinissimo ma, probabilmente, nemmeno troppo lontano come si poteva immaginare qualche mese fa.

D’altronde, da più parti si sta sviluppando la ferma convinzione che saranno le CBDC a costituire il trampolino di lancio per una piena maturazione della blockchain e delle valute digitali, considerato che l’utilizzo di questo strumento aprirà alla massa degli utenti una migliore soluzione di pagamento, avvicinando così anche coloro che non sono nativi digitali a questo mondo.

A sostenere con vigore le previsioni più rosee sulla crescita delle CBDC è una recente ricerca di Juniper Research, che ha analizzato il mercato fintech e dei pagamenti, prendendo in considerazione cosa potrebbe accadere a CBD e stablecoin.

Certo, di previsioni piuttosto aleatorie si tratta. Basti considerare, ad esempio, che in un territorio così vasto e rilevante come l’Unione Europea non c’è ancora alcun progetto ufficiale per il lancio di un euro digitale che, in ogni caso, non dovrebbe arrivare prima dei prossimi 4-5 anni (ottimisticamente). Meglio stanno andando le cose in Cina e in India, dove alcuni progetti pilota sono stati lanciati con buoni risultati.

Insomma, al netto di tale aleatorietà, le previsioni parlano di una crescita straordinaria dell’uso delle valute digitali da parte degli utenti nei prossimi anni. Ma perché?

Tutti i vantaggi delle CBDC

A spingere verso un’adozione di massa delle CDBC, secondo Juniper, saranno principalmente i governi, che utilizzeranno queste valute digitali per promuovere l’inclusione finanziaria e aumentare il loro controllo sulle modalità di pagamento digitale. In altri termini, non solo un’arma di attacco, quanto anche di difesa contro le criptovalute private, più volte osteggiate in ambito internazionale per il timore che possano compromettere la stabilità del sistema finanziario.

Guai, però, a mettere in stretta correlazione le criptovalute con le CBDC: stiamo parlando di due cose molto diverse.

La CBDC, infatti, è una forma aggiuntiva di moneta emessa, monitorata e controllata da una banca centrale. Si tratta pertanto di una sorta di alter ego digitale della valuta fiat, anch’essa – come la controparte cartacea – influenzata dalle politiche monetarie di una banca centrale.

Ciò che rende la CBDC diversa dalle criptovalute è che, quando lo strumento è emesso dalla banca centrale, dovrà essere accettato come forma di pagamento da tutti all’interno del mercato di riferimento. Non vi è invece alcun obbligo di accettare come strumento di pagamento le criptovalute. Inoltre, le CBDC potranno ben svolgere il ruolo di riserva di valore sicura per tutti i consumatori e gli operatori.

Sulla base di ciò, i ricercatori si dicono molto ottimisti sul fatto che le CBDC miglioreranno l’accesso ai pagamenti digitali, soprattutto nelle economie emergenti, dove la penetrazione degli strumenti di pagamento mobili mobile è ancora molto più alta della penetrazione bancaria e della disponibilità di un conto.