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IA: era una bolla quella che è scoppiata

IA: era una bolla quella che è scoppiata

Il Re è nudo e l’Intelligenza Artificiale è solo una tecnologia informatica fatta di software, dati e datacenter. Cassandra oggi ne scrive brevemente e, come spesso accade, in retroguardia.

Se non ve ne foste ancora accorti, è perché quello che si è letto e visto in giro non è causato da questioni tecnologiche, ma da qualcos’altro. E quindi della parte tecnologica parleremo semmai un’altra volta.

Dobbiamo infatti passare su un piano diverso e non informatico e considerare il fatto che l’IA odierna sia principalmente un fenomeno finanziario e speculativo. Con il collasso innescato dai cinesi, la cosa è diventata piuttosto evidente.

Fin dall’inizio gli LLM sono stati un prodotto dotato di grande fascino e apparenza, ben funzionanti per risolvere un insieme ristretto di problemi: per esempio elaborare testi e costruire chatbot.

Essendo un prodotto affascinante, potevano essere venduti anche per quello che non erano: venduti per risolvere problemi che non erano in grado di risolvere, nascondendo la loro incapacità drogando i problemi con immense quantità di denaro.

E’ pur vero che – grazie ai miliardi di dollari e ai chilowattora di cui sono stati nutriti – gli LLM sono migliorati al punto che forniscono prestazioni eccezionali… almeno finché si tratta di chiacchierare.

Ma la somministrazione di droga finanziaria è continuata. Si millantava di renderli degli oracoli, dei risolutori di problemi di qualsiasi tipo, a cui si possono porre domande per ottenere risposte vere, non semplicemente affidabili o probabili.

Ripetiamo giusto un’altra volta che gli LLM non sono oracoli e che, per esempio, non sono minimamente in grado di risolvere problemi matematici, anche elementari.

Malgrado questo, legioni di strani individui continuavano (e continuano incessantemente) a propagandarli come tali, anche di fronte a prove e dimostrazioni del contrario. Perché?

Lo scoppio della bolla finanziaria legata all’IA aveva partorito mostri, come la crescita di una piccola azienda informatica come Nvidia ad azienda più capitalizzata del pianeta. Questo accadeva per il solo fatto di non essere in grado di produrre un numero sufficiente di chip per soddisfare una fortissima richiesta (notata la contraddizione?). Ma non poteva essere stabile, non poteva durare.

In maniera andreottiana è molto facile capire perché si è manovrato per creare una bolla speculativa paragonabile a quella delle DotCom, scoppiata nel 2000: per fare soldi. Semplicemente. Da parte di chi? Dei soliti noti del mondo della finanza. In che modo? Fregandosene completamente delle conseguenze.

La fascinazione di una tecnologia nuova, come gli LLM che “parlano”, è stata artatamente usata per creare e ingigantire aziende che erano in realtà entità quasi esclusivamente finanziarie, del tutto simili a quelle che scomparvero il 10 marzo del 2000, quando la bolla di allora scoppiò. E questo sapendo benissimo che si stava creando una bolla che era destinata a scoppiare.

Non è rilevante che siano stati proprio i cinesi a farla scoppiare in anticipo, con la loro startup meravigliosa che ha partorito Deepseek. Lo hanno fatto probabilmente anche per ottenere un vantaggio politico, sfruttando l’effetto Sputnik.

Ma questo non deve distrarre dal valore del gesto della Cina come atto di guerra finanziaria. Nel caso che siate stati su un albero negli ultimi 80 anni, gli imperi si combattono tra loro anche in tempo di pace, anche guerreggiando sul piano finanziario. Per fare questo, non esistono solo i dazi e gli embarghi; è un atto di guerra anche far esplodere le bolle finanziarie quando nessuno se l’aspetta. Vedetelo come un atto di guerra asimmetrica: tecnologia eretica contro finanza. Vedetelo come un evento in cui, per una volta, i cinesi sono i buoni.

Non ci sono dubbi che i 24 indefettibili lettori di Cassandra l’avranno ben seguita in questa esternazione, annuendo vigorosamente. Restano da dire due cose, che sono così certe da rendere quasi disonorevole enunciarle, per una profetessa.

La prima è che la speculazione finanziaria attorno agli LLM e alle magnifiche sorti e progressi dell’IA continuerà nella massima misura possibile, anche dopo essere stata smascherata ancora una volta in maniera clamorosa.

La seconda è che in questo atto di guerra finanziaria i soldi generati dalla speculazione sono andati ai pochi soliti noti; e i capitali persi finiranno certamente, in un modo o nell’altro, a carico dei molti soliti poveracci.




Talk e presentazione del volume “CRASH REPUTATION” – Engage

Talk e presentazione del volume "CRASH REPUTATION" - Engage

Mondadori Duomo – Milano PIAZZA DUOMO ANGOLO VIA MAZZINI MILANO LOMBARDIA 20121 IT

Ingresso gratuito. Prenotazione obbligatoria tramite eventbrite

Falsa beneficienza, scandali matrimoniali, dossieraggio, gravi incidenti, competizione sleale tra aziende, furti di proprietà intellettuale, e altre crisi reputazionali – amplificate dai mass-media e dagli ecosistemi digitali – con il coinvolgimento di multinazionali, politici, sportivi e influencer.

Nel talk, noti specialisti racconteranno punti di forza e di debolezza nella gestione della reputazione, e appassionanti “dietro le quinte” su eventi saliti agli onori delle cronache, nazionali e oltre.

Partecipano al talk:

– Matteo Aiolfi, Founder Espresso Communication
– Marco Astorri, Founder BioOn
– Giorgia Grandoni, ricercatrice del Centro Studi Reputation Management
– Nicola Menardo, Avvocato, partner Studio Grande Stevens
– Luca Poma, Professore in Reputation management alla LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino
– Mario Resca, Presidente Confimprese, Presidente Mondadori Retail
– Carmine Rotondaro, DG Philipp Plein
– Andrea Soliani, Avvocato, partner Studio Losengo Soliani

Modera l’incontro Luca Yuri Toselligiornalista, direttore editoriale di ‘Creatoridifuturo.it’
Ingresso gratuito. Prenotazione obbligatoria tramite eventbrite 

50 case-history: cosa è accaduto, cosa non è andato bene, cosa si poteva fare meglio
Il manuale pratico per imparare dagli errori (degli altri) a gestire la propria reputazione

Che la reputazione sia il primo asset intangibile per qualunque organizzazione – azienda, Ministero, ONG, istituzione pubblica – come per qualunque personaggio – politico, artista, sportivo, influencer – è ormai fuori discussione, e confortato da una solidissima letteratura scientifica, nonché da migliaia di case-study; e non parliamo qui dell’immagine – concetto “effimero”, legato al mondo della pubblicità e del marketing – bensì della reputazione costruita nel medio e lungo periodo, centrata sulla propria identità, su ciò che si fa concretamente, non su ciò che, troppo spesso agiograficamente, si racconta agli altri di se stessi.
Una crisi, inoltre, può colpire un’azienda, un professionista o un personaggio pubblico, del tutto a prescindere dalla dimensione del business e dalla sua “esposizione” sui mass-media: anzi, spesso realtà industriali pressochè sconosciute al grande pubblico diventano (tristemente) conosciute proprio a causa di una crisi di reputazione indotta da fattori esogeni alla propria attività.
E – quando si parla di reputazione – poche cose affascinano il pubblico come tutto ciò che concerne gli aspetti della gestione delle crisi: scandali, incidenti, emergenze, competizione sleale tra concorrenti … mix di ingredienti irresistibili per il percepito del cittadino comune e dei clienti delle aziende: non a caso, sono gli stessi argomenti che fanno vendere i giornali, anche grazie alla naturale curiosità generalizzata tipica dell’essere umano: in poche parole, vogliamo sapere cosa succede quando le cose si mettono male.
Tuttavia, non sono sempre chiari e ben definiti al grande pubblico i contorni di cos’è una crisi, così come non sembra essere sufficiente il grado di consapevolezza di imprenditori, figure pubbliche o leader di organizzazioni complesse e corpi intermedi su cosa fare quando una crisi reputazionale si verifica. Scopo di questo volume è quindi quello di fornire una panoramica variegata – seppur sintetica, rispetto all’enorme quantità di casi di crisi di reputazione, che ormai popolano le cronache una settimana sì e l’altra pure – al
fine di far comprendere, in modo semplice anche per non addetti ai lavori, i principali errori e, per contro, le buone prassi relative alla gestione della crisi.
La crisi scatena paure tanto fra i pubblici dell’organizzazione coinvolta che all’interno dell’organizzazione stessa. Queste paure sono differenti fra di loro, e talvolta contrastanti. Se consideriamo – per esempio – la presenza in un prodotto alimentare di residui dannosi, le paure dei cittadini e dei clienti sono completamente diverse da quelle dei dirigenti e da quelle delle autorità di controllo: il dirigente teme la perdita di quota di mercato; le banche e i fornitori temono gli insoluti; il consumatore teme di essere danneggiato; il funzionario pubblico teme di essere accusato di scarsa vigilanza; il commerciante teme che il prodotto resti sullo scaffale invenduto; il dipendente teme la perdita del posto di lavoro; il giornalista teme di essere battuto dalla concorrenza nel raccontare con completezza di particolari e tempestività la storia.
Chi si trova di fronte a queste situazioni corre il rischio di essere “paralizzato” nell'azione dalla sua stessa paura di non riuscire a confrontarsi efficacemente con questa pluralità di timori, e con le difficoltà proprie della situazione stessa; spesso la paura del procedimento legale che avrebbe inesorabilmente seguito il fatto pregiudiziale, ha indotto l’azienda a comunicare in modo inadeguato e a chiudersi in se stessa, con il risultato di venire condannata dal tribunale dell'opinione pubblica anni prima di essere assolta in quello
giudiziario, quando ormai i danni – sotto il profilo commerciale, e non solo – erano ormai irreversibili.

Con l’avvento delle tecnologie 2.0 e l’affermarsi della portata globale di Internet, l’impatto locale si fa globale: ad esempio, ciò che viene considerato localmente come un comportamento pregiudiziale per la reputazione, può danneggiare un brand su scala assai più ampia, eventi di per se poco significativi possono essere ingigantiti ad arte da concorrenti e mass-media, e situazioni che poco hanno a che fare con il core-business dell’azienda (si pensi ad esempio alle violenze fisiche o anche loro psicologiche ai danni di collaboratrici e
collaboratori sul posto di lavoro) possono avere riflessi molto negativi sul posizionamento dei brand e sulle vendite. Una corretta gestione delle crisi reputazionali, diventa quindi uno strumento fondamentale per evitare che la professionalità e la dedizione che un manager o un imprenditore hanno profuso per molti anni nella crescita dell’azienda stessa, possano essere vanificate o messe in discussione.
Il volume racconta appunto 50 storie di crisi reputazionali realmente accadute, che vanno dal pubblico al privato, dalla moda al mondo informatico, dall’azienda meccanica al giovane influencer digitale, dal professionista al politico, che fanno chiarezza sul tema del crisis management (come gestire le crisi di reputazione) e della crisis communication, (come comunicarle). Crisi reputazionali come quelle illustrate nel libro possono mettere a dura prova un’azienda e il suo management: da una simile situazione un’organizzazione può venire fuori con le ossa rotte, i conti in rosso e la reputazione sotto i tacchi; ma può anche uscirne rafforzata, scoprire nuovi punti di forza, nuovi alleati, conoscere potenzialità nascoste, dando
prova a sé stessa e al mondo esterno della sua forza e del suo valore. La copertura mediatica tipica di queste situazioni – nei primi momenti di sicuro non positiva – può essere infatti intelligentemente sfruttata dall’organizzazione per comunicare al mondo i propri valori etici e aumentare quindi la propria reputazione.
Paradossalmente, una crisi reputazionale, benché nasca da un evento negativo, se ben gestita può quindi diventare un’occasione per crescere, e per farsi conoscere ed apprezzare come un soggetto responsabile e affidabile.
Occorre infine sottolineare come molte siano le situazioni di crisi aziendale che possono essere efficacemente prevenute, mediante la corretta applicazione dei principi fondamentali del crisis management e della crisis communication, materie tecniche patrimonio di specialisti: ciò che l’imprenditore e il manager saggi dovrebbero comprendere, è che – se è vero come è vero che la buona reputazione aumenta il valore per gli azionisti, e orienta positivamente i comportamenti di acquisto dei cittadini – la reputazione è un bene
da tutelare, ed è meglio agire prudentemente in anticipo, dotandosi di tutti gli strumenti necessari, piuttosto che – per citare l’antico adagio popolare – dover “chiudere la stalla dopo che i buoi son scappati”.




Luca Poma, Giorgia Grandoni e Alessio Garzina Crash Reputation

Reputazione, media e come gestire le crisi

Luca Poma, Giorgia Grandoni e Alessio Garzina
Crash Reputation
50 + 1 casi di crisi reputazionali
con contributi di Nicola Menardo e Alberto Pirni, pp. 236, € 18,
Engage, Bologna 2024

Lo dimostrano i molti studi recenti sulla reputazione, fiorenti anche a livello accademico a partire da quelli della filosofa Gloria Origgi: in un mondo iperconnesso in cui i confini tra pubblico e privato sembrano sempre più sfumarsi, la salvaguardia della propria reputazione individuale e d’impresa è un fatto di sempre maggiore attualità. Il volume curato da Luca Poma, Giorgia Grandoni e Alessio Garzina non ignora nessun aspetto della questione, aprendosi con tre testi dal carattere teorico ma presentando poi, come da sottotitolo, un corposo schedario di casi reali.

La Prefazione firmata dall’avvocato Nicola Menardo, partner di Grande Stevens Studio Legale e docente di diritto penale, inquadra anzitutto i rischi derivanti da qualsivoglia “processo mediatico” per chi non sia attrezzato a difendere la propria corporate reputation o brand reputation. Il saggio introduttivo di Alberto Pirni, che insegna etica ed economia presso la Scuola superiore Sant’Anna di studi universitari e di perfezionamento di Pisa, ripercorre la storia del concetto e mette in luce – sviscerandoli con acume – i significati molteplici che concorrono a definirlo e le implicanze che ne derivano.

Infatti, per tutte le organizzazioni, personalità o istituzioni pubbliche proteggere il valore intangibile della propria reputazione è qualcosa di ben più importante che curare la propria “immagine” perché tale valore è tanto immateriale quanto concreto in termini patrimoniali: i tre curatori definiscono infatti la reputazione come “il corretto allineamento tra identità e immagine”, proprio quello che va in crisi rischiando di compromettere l’avvenire di un marchio aziendale nel suo complesso, o la credibilità di un singolo professionista o influencer, quando si palesa lo sforzo di essere percepiti in modo diverso (migliore) da come si è realmente.

Chiarite tali dinamiche, il volume si propone come una guida pratica, con schede di agile consultazione (una delle quali sarebbe stata composta da ChatGPT e chi legge viene sfidato a riconoscerla!) a illustrare altrettante case history autentiche. Ogni scheda è composta da brevi paragrafi intitolati Sintesi dell’accadutoGestione della crisiCosa non è andato beneCosa si sarebbe potuto fare meglio: si va dalla Costa Crociere alle prese con il naufragio della Concordia al “dieselgate” della Volkswagen, dalle performance imperfette della piattaforma di streaming DAZN al “pandorogate” di Chiara Ferragni, alle défaillance di marchi quali Nike o Ryanair; ma anche dalla gestione della pandemia da covid19 del governo italiano alle critiche suscitate dalla campagna del Ministero del Turismo “Open to Meraviglia”. Ognuna di queste crisi di comunicazione, talvolta deflagrate in scandali veri e propri, può essere istruttiva al fine di riconoscere un campanello d’allarme e quindi riuscire a prevenire le crisi reputazionali o almeno gestirle nel modo migliore possibile. Inoltre, diversi casi mostrano come una reazione pronta e una strategia di comunicazione efficace possano consentire di trasformare un momento di difficoltà in una opportunità, persino in una crescita reputazionale. Tra gli esempi di quest’ultimo genere si segnala l’episodio di una possibile contaminazione del prodotto Nesquik, che Nestlé nel 2012 seppe gestire in modo ben coordinato a livello internazionale.

Crash reputation è dunque una lettura particolarmente indicata per addetti ai lavori ma fruibile da chiunque e arricchita da tre ore di contenuti video extra, a cura della società di formazione imprenditoriale Open Source Management, che si raggiungono grazie ai qr code stampati tra le pagine del libro.




Crisi di reputazione: è ora di ridisegnare il perimetro del rischio?

Crisi di reputazione: è ora di ridisegnare il perimetro del rischio?

La lettura del bel volume dell’amico e collega Daniele Chieffi, dal titolo Crisi reputazionali ai tempi dell’Infosfera, lettura che consiglio a chiunque voglia aggiornare le proprie conoscenze in tema di Crisis communication in particolare negli ecosistemi digitali, mi ha stimolato – tra le tante – una riflessione che ho urgenza di condividere, oltre a convincermi – finalmente, ed era ora! – che può esistere qualche elemento di distonia tra i punti di vista miei e di Daniele, nella prassi sempre così sorprendentemente allineati.

(descrizione)

Battute a parte, partiamo dalla lettura di alcune affermazioni contenute nel libro, parti del modello di risposta alle crisi reputazionali proposto da Daniele (i grassetti sono miei):

“La crisi non è ciò che è, ma è ciò che sembra essere agli stakeholder e all’audience, e per affrontarla è necessario agire sulla percezione del fatto e non sul fatto in sé (…) Viene abbandonata la visione meccanicistica della crisi come relazione causa-effetto, e si ribalta la prospettiva: non è il fatto in sé a innescare la crisi, bensì la percezione che gli stakeholder hanno di quel fatto (…)”

Daniele – con il quale per primo ho condiviso il senso di queste mie riflessioni prima di pubblicarle, dibattendone con lui appassionatamente quanto rispettosamente, confronto che è parte di un processo di crescita continua che dovrebbe essere una delle cifre della nostra professione – riprende a più riprese questo concetto nel suo volume, supportandolo anche con ricchi e puntuali riferimenti bibliografici, incluso peraltro, e di questo l’ho ringraziato, il corposo volume sulla Crisis communication edito da Il Sole 24 Ore – a firma mia e del fraterno amico Piero Vecchiato – nell’ormai lontanissimo fine 2011, ed entrato nelle librerie – circostanza singolare ma del tutto casuale – proprio nei giorni del naufragio della Costa Concordia.

Come non essere d’accordo? La percezione è l’ingrediente principale del “piatto”: un incidente, una vicenda giudiziaria, una breccia informatica, un furto di proprietà intellettuale, saranno tanto più gravi tanto più la pubblica narrazione si impadronirà di loro, tracimando magari oltre i mass-media convenzionali e attivando e animando – terrore di ogni CCO e di ogni Crisis manager – gli ecosistemi digitali e le conversazioni online, che si svilupperanno attorno a quel fatto fino a condizionare i giudizi valoriali che gli stakeholder daranno su quanto accaduto, dando così un contribuito esiziale, nel peggiore dei casi, alla distruzione di valore per il brand.

Tuttavia, a mio avviso, in quest’epoca sempre più – per citare Zygmunt Bauman – incerta e liquida, è arrivata l’ora di riflettere sul concetto stesso di crisi reputazionale, sul tema del rischio, sulle sopracitate dinamiche legate alla percezione dei fatti, e sulla nozione di non conformità, a mio avviso strettissimamente correlata alle crisi, anche – perché no – con lo scopo di ridisegnare in parte alcuni fondamentali della materia e della professione.

Occorre però fare una breve premessa. Il lavoro portato avanti negli ultimi anni dal valido team aggregatosi nei corridoi e nelle aule dell’Università LUMSA di Roma, dove dal 2016 si tiene il primo corso verticale in Reputation management in Italia, ben illustrato in un volume scritto a quattro mani nel 2021 con la talentuosa Giorgia Grandoni, ha generato – incrociando e analizzando i dati di letteratura e l’attività professionale di un ventennio – un tool predittivo dei rischi reputazionali eccezionalmente efficace: un vero e proprio assessment in grado di individuare eventuali non conformità aziendali, identificare in anticipo possibili scenari di crisi, e suggerire le opportune raccomandazioni correttive. Le prime somministrazioni di questo strumento, delle quali si sono giovate alcune imprese di medie dimensioni italiane, hanno confermato un’intuizione che ritengo preziosa e quanto mai pertinente a questo nostro ragionamento, ovvero che l’approccio al management della crisi non può che essere multistakolder anche del tutto a prescindere dalla eventuale eco che la crisi stessa è in grado di generare, o ha già generato, nell’infosfera.

Anticipo qualche collega, che certamente – e non del tutto a torto – obietterà: se manca la pubblica deflagrazione della crisi, la chiara evidenza della stessa, e il conseguente impatto sui mass-media convenzionali e/o digitali, siamo ancora nell’ambito del rischio, e non della crisi vera e propria.

No, permettetemi di dissentire, e, brevemente, di argomentare: l’urgenza di ridisegnare il confine del nostro sguardo quando parliamo di crisi reputazionali è ormai irrinunciabile, e non solo perché l’approccio figlio della logica Aristotelica (“o è crisi, o non è crisi, e se non ha impatto sulla percezione degli stakeholder, non è crisi…”) è ormai del tutto inadeguato a descrivere la complessità nella quale siamo, obtorto collo, quotidianamente immersi, ma anche e soprattutto perché è estremamente miope l’occhio dello specialista medico che guarda solo all’organo di sua competenza (rectius, del comunicatore che misura l’impatto della crisi dall’effetto che essa genera su una sola audience, la pubblica opinione): perché, molto semplicemente, non è quello l’unico stakeholder il cui stato di salute della relazione è da presidiare e tutelare per costruire buona reputazione.

Qualche esempio concreto vissuto in casi che ho trattato nel recente passato, per ragioni professionali o accademiche: è crisi anche se non è deflagrata pubblicamente quella dell’agenzia di consulenza all’interno della quale i dipendenti vivono un clima tossico e contraddistinto da violenze sessuali o psicologiche, in quanto trattasi di non conformità resa evidente dal più banale degli assessment reputazionali anche senza che lo scenario abbia ancora generato conversazioni online; come anche è crisi, pur senza essere stata portata alla pubblica evidenza, la ripetuta violazione degli standard della Legge 231 da parte dell’organizzazione stessa; o, ancora, la pressione eccessiva e soffocante sui collaboratori a fini di performance che porta i migliori talenti a fuggire altrove, ed è crisi anche se nessun giornalista se ne è ancora interessato.

Torniamo allora, dicevo, ai fondamentali, a quella definizione che demmo nel 2011:

“Crisi è quell’evento inaspettato che, se non adeguatamente governato, può generare pregiudizio ai rapporti con uno o più stakeholder
o alla business continuity”.

Ebbene, ogni non conformità acclarata genera de facto pregiudizio alla business continuity, perché lacera il clima interno e nuoce alla produttività, perché aumenta il distacco dalla concorrenza, perché contribuisce a far chiudere l’organizzazione in se stessa vittima di una coazione a ripetere un errore, perché le impedisce di attrarre i  migliori talenti, o perché riduce l’interesse per l’impresa da parte di nuovi investitori: queste non sono forse lesioni alla continuità del business, in grado di limitare la licenza di operare dell’organizzazione? Se si, sono crisi, e non solo rischio, anche se non hanno ancora generato rumore online o sui mass-media tradizionali.

Di qui, la necessità di mappare non solo i rischi potenziali, al fine di mitigarli, ma tutte le eventuali non conformità già esistenti, che a mio avviso rientrano nel perimetro di crisi – riadattandone la definizione, ovvero meglio valorizzandone quella originale – pur non avendo pubblica evidenza, come un tumore non ancora diagnosticato che però già sta erodendo l’organismo dall’interno, quindi ne sta danneggiando l’operatività tangibilmente.

“Viviamo in un delicato equilibrio dinamico sull’orlo del caos”, disse nel 1990 Chris Langton, del Santa Fe Institute, principale centro al mondo di studio delle scienze della complessità. Il caos, in fondo, è la zona intermedia tra ordine e disordine, ed è lo stato abituale di qualunque elemento presente in natura, come ha giustamente ricordato in una bella TEDx di dicembre 2024 il professor Alberto Felice De Toni, ingegnere economico gestionale ed ex Magnifico Rettore dell’Università di Udine: “troppo ordine genera morte per fossilizzazione, e troppo disordine è morte per disintegrazione. Dobbiamo imparare a surfare proprio all’orlo del caos”. È necessario quindi interrogarci sull’ipotesi che i contorni di ciò che è crisi e ciò che non lo è possano essere molto più sfumati di quanto le nostre rigide menti cartesiane possano aver percepito fino ad oggi.

E su questi temi, in prospettiva, lo straordinario Lofti Zadeth – come sostengo da anni – aveva già detto tutto, a Berkeley, con la sua eccezionale folgorazione sulla logica fuzzy a insiemi sfumati, o a infiniti valori di verità, ben illustrata nel suo lavoro Fuzzy Sets.

Era il 1965, esattamente 50 anni fa: a distanza di mezzo secolo, l’urgenza di riscoprire questo approccio, questo mindset, è massima, se vogliamo attrezzarci in modo efficace per affrontare le nuove impegnative sfide che ci attendono.


Opere citate

  • Bauman, Z; Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2002
  • Chieffi, D; Crisi reputazionali ai tempi dell’infosfera, ed. Franco Angeli, Milano, 2024
  • De Toni, A. F; In equilibrio dinamico al margine del caos, TEDx Lake Como, consultato su Youtube il 17/12/2024;
  • Langton, C; Life at the Edge of Chaos, Artificial Life II, Addison-Wesley, 1991
  • Poma L, Vecchiato, G; Crisis Management: la Guida del Sole 24 Ore alla comunicazione di crisi, Edizioni Il Sole 24 Ore, Milano, 2012
  • Poma, L, Grandoni, G; Il reputation management spiegato semplice, Ed. Celid, Torino, 2021
  • Zadeth, L; Fuzzy sets, Information & Control, Volume 8, Issue 3, June 1965



INCHIESTA EL PAIS SU GENIUS: IL NOSTRO FACT CHEKING

INVESTIGACIÓN DE EL PAÍS SOBRE EL GENIO: NUESTRA VERIFICACIÓN DE HECHOS

La “multinazionale tascabile” dell’apprendimento Genius, con 53 sedi in 6 nazioni, continua ad essere vittima di una campagna di diffamazione e di fake news che – attraverso decontestualizzazione di fatti veri, ricostruzioni malevole e accostamenti maliziosi – dipinge in modo distorto la realtà aziendale fino a colpire nel vivo il valore del brand, tentando di pregiudicarne la reputazione.

Inaspettatamente, il primo quotidiano spagnolo, El Pais, ha pubblicato un articolo sull’azienda – che gli avvocati specializzati ritengono diffamatorio – e che abbiamo sottoposto a un intenso fact-cheking, per verificarne la correttezza e completezza del contenuto, la genuinità delle fonti e il rispetto al diritto al contraddittorio. Nel video linkato qui sotto, contenente un’intervista al nostro direttore editoriale, potrete apprezzare il risultato del nostro lavoro…

Il contenuto dell’intervista è fruibile anche in versione solo Audio:

Potete anche leggere l’intervista in formato PDF, scaricandone la trascrizione integrale.


Chi desidera conoscere nel dettaglio il più ampio contesto nel quale si è sviluppata questa campagna diffamatoria di fake news, può anche leggere questa nostra inchiesta pubblicata la scorsa estate.

Chi volesse invece approfondire il profilo della persona all’origine di questa campagna di blackPR, ai danni di questa azienda e non solo, può acquistare su Amazon questa pubblicazione, redatta da un collega giornalista d’inchiesta indipendente.


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