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È il momento di parlare (seriamente) di etica dell’intelligenza artificiale

È il momento di parlare (seriamente) di etica dell’intelligenza artificiale

Mancano meno di due settimane alla chiusura della finestra temporale che il Garante della privacy italiano ha dato a OpenAi per adeguarsi alle sue prescrizioni sull’uso dei dati personali e correggere la rotta su ChatGPT: come vi avevamo raccontato, la startup fondata da Sam Altman ha tempo fino al 30 aprile prossimo per rispettare le regole europee in tema di informativa sull’uso dei dati personali, diritti degli interessati (utenti e non) e base giuridica del trattamento delle informazioni per allenare l’algoritmo. Al di là di come finirà questa storia, comunque, i problemi e le alzate di sopracciglio legati alle intelligenza artificiale, e in particolare agli algoritmi conversazionali come per l’appunto ChatGPT, sono ben lontani dall’essere risolti – ne è testimone l’ormai famosa lettera in cui Elon Musk, i ricercatori di DeepMind e altri imprenditori e scienziati hanno chiesto uno stop di sei mesi nello sviluppo dell’intelligenza artificiale, in attesa di avere “regole comuni e protezioni dalle conseguenze più deleterie”.

Che se ne condividano o meno i contenuti, comunque, la lettera racconta solo parte della storia. E, a voler pensar male, l’impressione è che almeno alcuni dei suoi autori stiano soltanto cercando di prendere tempo per non rischiare di essere tagliati fuori dal succulento mercato dell’intelligenza artificiale (e difatti…). A sostenerlo, tra gli altri, sono gli esperti di SIpEIA, la Società Italiana per l’Etica dell’Intelligenza Artificiale, associazione fondata da esperti di informatica, etica e giurisprudenza delle Università degli Studi di TorinoSapienza Università di RomaUniversità della CalabriaUniversità di Bologna e del Consiglio Nazionale delle Ricerche, che sta per pubblicare un manifesto su ChatGPT e gli altri Large Language Model (Llm) – di cui si è tra l’altro discusso il 17 aprile scorso a Torino, nel corso dell’evento “ChatGPT: promesse e illusioni. Limiti e potenzialità del fenomeno informatico del momento”“Parte della classe degli intellettuali organici e degli imprenditori vuole ‘raccattare le briciole’ di questi strumenti – ci ha raccontato Guido Boella, professore al Dipartimento di Informatica dell’Università di Torino e cofondatore di SIpEIA – e usa la visione lungotermista per puntare il dito verso problemi lontani e non ben definiti, anziché evidenziare quelli molto più immediati e concreti, relativi in particolare alle interazioni tra economia, società e tecnologia”. Come vi avevamo raccontato, la narrazione lungotermista cara a Elon Musk e colleghi mette in guardia, per esempio, rispetto alla possibilità che “menti non umane potrebbero superarci di numero, essere più intelligenti di noi, renderci obsoleti e rimpiazzarci”: ma si tratta, come hanno più volte ribadito i massimi esperti del settore, di una suggestione distopica e assurda dal punto di vista scientifico e tecnologico, specie se si considera che un’intelligenza artificiale del genere non solo non è nemmeno ancora in vista, ma non è neanche in alcun modo chiaro se sarà mai possibile svilupparla.

Una riflessione necessaria

Per una volta, quindi, sarebbe meglio guardare il dito anziché la luna, e preoccuparsi di questioni più immediate. Magari guardando a quello che è successo nel passato: “Quando la comunità scientifica cominciò a sviluppare le biotecnologie – dice ancora Boella – fu subito chiaro che c’era l’esigenza di definire una nuova etica, perché quella tradizionale non aveva gli strumenti sufficienti per avere a che fare con quelle innovazioni. Oggi siamo in uno scenario molto simile: i cambiamenti portati dalle intelligenze artificiali richiedono un cambiamento dell’etica. Di più: a differenza delle biotecnologie, l’intelligenza artificiale ha ripercussioni su molti più aspetti della nostra quotidianità, e dunque definirne un’etica è molto più urgente. È per questo che due anni fa abbiamo fondato SIpEIA, società scientifica e di advocacy composta da informatici, filosofi, giuristi ed eticisti”.

Detto, fatto: proprio su questo è incentrato il position paper di SIpEIA. “Bisogna evitare – si legge nel documento – che il business model che caratterizza il capitalismo della sorveglianza non diventi il modello di monetizzazione anche dei Llm, perché l’impatto sarebbe molto maggiore. Infatti, i Llm creano ‘relazioni sintetiche’ con gli utenti, coinvolgendoli in una relazione anche emozionale e portando a nuove e più profonde modalità di estrazione dei dati, nonché possibilità di manipolazione degli utenti. Noi umani, infatti, attribuiamo a chi comunica con noi stati mentali ed emozioni, che i Llm by design non hanno, e siamo quindi esposti a manipolazione da parte loro”.

I dubbi e le paure

Ma quali sono, nello specifico, i rischi ravvisati dagli esperti, quelli che rendono cogente la definizione di linee guida etiche? Anzitutto la questione dell’estrazione dei dati – quella che ha mobilitato il Garante – che, per forza di cose (le Ai vivono di dati), diventerà sempre più intrusiva. La sociologa Shoshana Zubov, nel suo Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, pubblicato nel 2019, ha paragonato l’estrazione dei dati a quella del petrolio: ne serve sempre di più, e bisogna scavare sempre più in profondità. “Fino a non molto tempo fa – dice Boella – Google raccoglieva i dati delle ricerche degli utenti; poi si è passato a un livello ancora più personale, cioè scandagliare quello che si pubblica sui social, i testi sulle app di messaggistica e così via. Con ChatGPT e simili l’estrazione sarà ancora più personale, perché ancora più personale è il dialogo che l’utente ha con un chatbot. Un’estrazione così profonda può portare a nuovi livelli di pubblicità e addirittura di manipolazione: supponiamo di chiedere a ChatGPT di scrivere un racconto sull’autunno; sapendo, per esempio, che in passato abbiamo fatto ricerche sul Giappone, potrebbe citarci le foglie di acero del Giappone, per indurci a comprare un volo per il Giappone. Cosa succederebbe invece nel caso ci fossero delle elezioni politiche? Lo scenario – e la manipolazione – potrebbero essere ancora più preoccupanti.

Un’altra questione affrontata nel manifesto è quella relativa al mondo della formazione: la possibilità che compiti a casa, elaborati o anche intere tesi siano scritte non dagli studenti ma da un Llm in real time ha suscitato un’ondata di preoccupazione nel mondo delle scuole e dell’università. E anche in questo caso gli esperti ravvisano una grande ipocrisia nella narrativa corrente: “OpenAi” dice Boella “ha messo a disposizione un sistema che riconosce se è un testo è scritto o meno da un essere umano. Peccato funzioni il 25% delle volte, cioè quasi mai. Avrebbe potuto fare una cosa molto più semplice, che non richiede neanche l’utilizzo di tecnologie Ai. OpenAi, come tutte le piattaforme web e i motori di ricerca, tiene traccia nei suoi registri (i logfile) di tutte le richieste degli utenti e di tutte le risposte fornite dal chatbot per migliorare il prodotto e per raccogliere informazioni su di noi (da monetizzare). Certo per identificare il plagio da parte di studenti più motivati nel copiare, che fanno una parafrasi del testo ottenuto da ChatGPT, occorrerebbe solo qualche semplice strumento di Ai che vada a dare una misura della distanza del testo prodotto dal bot. Ma siamo sicuri che nella maggior parte dei casi basterebbe un semplice ‘ctrl+F’ sul file di log di ChatGPT?. E ancora: un altro tema eticamente rilevante è quello relativo alle possibili interazioni di ChatGPT e simili con i minori. “Lascereste i vostri figli a parlare con uno sconosciuto?” è la domanda retorica degli esperti di SIpEIA “per di più sapendo che è uno sconosciuto che può soffrire di allucinazioni?”. Il position paper non offre soluzioni, ma sottolinea la necessità di una maggiore sensibilizzazione e soprattutto di un dibattito più sensato e centrato sul presente. “È davvero il momento di agire: ma al centro della nostra preoccupazione non dovrebbero esserci immaginarie ‘potenti menti digitali’. Al contrario, dovremmo concentrarci su pratiche di sfruttamento molto reali e molto concrete da parte delle aziende che stanno sviluppando questi strumenti, e che stanno rapidamente centralizzando il potere e aumentando le disuguaglianze sociali”.

La sfida del confronto

C’è dell’altro. All’evento ha partecipato anche Elena Esposito, professoressa di sociologia dei processi culturali e comunicativi alle Università di Bielefield, in Germania, e Bologna. Esposito è autrice di Comunicazione artificiale – come gli algoritmi producono intelligenza sociale, un libro appena edito da Bocconi University Press in cui invita ad affrontare il “problema” delle intelligenze artificiali da un altro punto di vista: anziché chiederci se e come le macchine siano diventate più intelligenti di noi (e abbiamo visto che non è così), bisognerebbe capire come intervengono nella comunicazione. Ossia, in altre parole, parlare di comunicazione artificiale più che di intelligenza artificiale“Il fatto che possiamo comunicare con le macchine – spiega Esposito – non implica che esse abbiano una loro intelligenza che deve essere spiegata ma che, anzitutto, la comunicazione sta cambiando. L’oggetto di questa ricerca non è l’intelligenza, che è e rimane un mistero, ma la comunicazione, che possiamo osservare e di cui sappiamo già molto. Occorre un concetto di comunicazione che sia in grado di tener conto anche delle possibilità che il partner comunicativo non sia un essere umano ma un algoritmo. Il risultato, che può essere osservato già oggi, è una condizione in cui disponiamo di informazioni di cui spesso nessuno può ricostruire né comprendere la genesi, ma che ciononostante non sono arbitrarie. Le informazioni generate automaticamente dagli algoritmi non sono affatto casuali e sono del tutto controllate, ma non dai processi della mente umana. Come possiamo controllare questo controllo, che per noi può essere anche incomprensibile? Questa è, a mio parere, la vera sfida che ci pongono oggi le tecniche di machine learning e l’uso di big data”. La tesi dell’esperta è quindi che se le macchine contribuiscono all’intelligenza sociale non è perché hanno imparato a pensare come noi, ma perché hanno imparato a partecipare alla comunicazione: ed è con questo scenario che dobbiamo imparare a confrontarci. Senza paura, se possibile: “Platone diceva che la scrittura avrebbe fatto perdere l’uso della memoria agli esseri umani – conclude Esposito – e in parte è successo. Con le intelligenze artificiali, e con la comunicazione artificiale, potremmo perdere qualcos’altro. Ma va bene così. Perderemo qualcosa, ma acquisiremo dell’altro”.




Cisco, le aziende italiane impreparate sulla cybersecurity

Cisco, le aziende italiane impreparate sulla cybersecurity

In Italia soltanto il 7% delle aziende è in grado di difendersi dalle minacce informatiche rispetto al 15% a livello globale. A lanciare l’allarme è il Cybersecurity Readiness Index 2023, il rapporto realizzato da Cisco in 27 paesi del mondo su un campione di 6.700 professionisti che operano in quest’ambito, per misurare la preparazione e la resilienza delle aziende nei confronti della criminalità informatica. Il 75% degli intervistati si aspetta nei prossimi 12-24 mesi un’interruzione della propria attività a causa di un attacco informatico, mentre il 31% ha dichiarato di averne subito uno nel corso dell’ultimo anno. Il report quantifica anche il costo degli attacchi: il 25% delle aziende colpite, a livello globale, ha dovuto spendere almeno 500.000 dollari (circa 456.000 euro) per riprendere il controllo della propria attività. “Sta emergendo nelle realtà italiane una maggiore sensibilità e consapevolezza sul tema della cybersecurity, che è entrato nelle discussioni del board”, commenta Andrea Castellano, Cybersecurity Leader Cisco Italia, sottolineando che il 94% degli intervistati dichiara di voler investire in infrastrutture It per rafforzare la propria posizione sulla sicurezza informatica. Inoltre, l’87% prevede di aumentare il proprio budget per la sicurezza di almeno il 10% nei prossimi 12 mesi. “L’errore più grande da parte delle aziende è quello di difendersi dagli attacchi informatici utilizzando un mix di strumenti”, spiega Jeetu Patel, executive vice president and general manager of security and collaboration at Cisco. “Occorre invece considerare piattaforme integrate, grazie alle quali le aziende possono raggiungere un grado di resilienza sufficiente colmando allo stesso tempo il loro gap di preparazione nei confronti della cybersecurity.” Per realizzare il Cisco Cybersecurity Readiness Index 2023 sono stati presi in considerazione i cinque pilastri fondamentali della cybersecurity: l’identità, i dispositivi, la sicurezza della rete, i carichi di lavoro applicativi, i dati. Ciascuno di essi comprende a sua volta 19 diverse soluzioni. Al termine dell’indagine le aziende sono state classificate in quattro gradi di preparazione: principiante, formativo, progressivo, maturo. In Italia, se il 7% delle aziende è nella fase matura, l’8% si trova ancora in quella principiante e il 61% in quella formativa: una preparazione in materia di cybersecurity molto inferiore alla media.




L’INDUSTRIA DEL FAST FASHION PROMUOVE SOSTENIBILITÀ ED ETICA MA È PER LO PIÙ GREENWASHING

L'INDUSTRIA DEL FAST FASHION PROMUOVE SOSTENIBILITÀ ED ETICA MA È PER LO PIÙ GREENWASHING

Un nuovo rapporto di Greenpeace Germania mostra che mentre l’industria del fast fashion sta promuovendo sempre più la sostenibilità e migliori condizioni di lavoro, si tratta per lo più di greenwashing, ossia ecologismo di facciata.

“Anche dieci anni dopo il Rana Plaza, l’industria della moda continua a sfruttare le persone e a distruggere l’ambiente”, afferma Viola Wohlgemuth, esperta di protezione delle risorse di Greenpeace.”Pubblicizzare la sostenibilità su un’etichetta, quando volumi crescenti di vestiti sono fatti di plastica usa e getta in condizioni di lavoro catastrofiche, è solo greenwashing”.

Le aziende creano le etichette stesse utilizzando termini come “Sostenibile”, “Verde” o “Giusto”.

Greenpeace ha indagato fino a che punto questa promozione da parte delle aziende leader del settore fast fashion sia effettivamente giustificata da una migliore produzione. Ad esempio, l’uso di sostanze chimiche dannose per l’ambiente e la salute è stato controllato in base ai dati riportati e misurati sulle acque reflue delle fabbriche. È stata inoltre esaminata la misura in cui i dipendenti ricevono salari di sussistenza e il pubblico ha accesso ai dati sulle catene di approvvigionamento. Qui il report completo

La sovrapproduzione di tessuti plastici crea enormi problemi ambientali. Il volume di tessuti non riciclabili realizzati con fibre sintetiche prodotte sta aumentando rapidamente.
Nel 2014 sono stati prodotti 100 miliardi di capi di abbigliamento all’anno, che saliranno a oltre 200 miliardi entro il 2030. Meno dell’uno per cento di tutto l’abbigliamento è realizzato con fibre tessili riciclate.

La sovrapproduzione dell’industria del fast fashion porta ad enormi montagne di spazzatura che si accumulano nel Sud del mondo, distruggendo l’ambiente e le condizioni di vita. La situazione per i lavoratori rimane miserabile. “Invece di vestiti di plastica di nuova produzione e greenwash, i consumatori hanno davvero bisogno di opzioni come noleggiare vestiti, comprarli di seconda mano e riparare e riusare i propri: una vera sostenibilità che deve diventare lo standard”, afferma Wohlgemuth.

Le etichette che hanno ottenuto punteggi migliori sul tema sono (almeno in Germania):

COOP Naturaline
Vaude Green Shape
Segue
Tchibo Gut Gemacht
(Well Made)
Scarsi i risultati secondo l’analisi di Greenpeace Germania per i marchi ‘eco’
Benetton Green Bee
C&A Wear the Change
Calzedonia Group
Decathlon Ecodesign
G-Star Responsible Materials
H&M Conscious
Mango Committed
Peek & Cloppenburg We Care Together
Primark Cares
Tesco F&F Made Mindfully
Zara Join Life




Open to Meraviglia: il turismo ha perso la Testa

Open to Meraviglia: il turismo ha perso la Testa

Chiariamo subito, e lo ribadiremo anche in seguito, che questo non è un report degli osservatori a bordo campo della campagna di advertising più discussa dell’anno, ma assomiglia più all’indice di libro bianco su come leggere l’operazione, e magari trarne qualche lezione.

Abbiamo scelto di elencarne i personaggi e gli interpreti in ordine sparso, come se fossero titoli di coda di un film: ci sono tutti, e c’è pure la grande assente.

Gli osservatori: se la Venere è roba da meme

Nel Paese delle proteste a colpi di meme, la Venere di Botticelli trasformata in influencer per la campagna del ministero del Turismo ed ENIT è pappa buona per thread di vario tipo, con la versione 2.0 del capolavoro rinascimentale sistemata tra gli immigrati in uno sbarco; a fare gli strascinati in Puglia; ad abbracciare i bambini etiopi al posto della Presidente del Consiglio; a lavorare in ufficio sottopagata, o in un bar che informa del POS guasto. La versione intenta a farsi un selfie è stata piazzata nei paraggi di Silvio Berlusconi in pieno fulgore di salute e sessismo, con a fianco Salvini che mangia una salsiccia.

Ma non è finita qui. Il claim #opentomeraviglia trasformato in hashtag è stato usato per indicizzare di tutto: dagli abusi edilizi, passando per le strade chiuse o opere incompiute, fino ai segnali stradali creativi e alle new entry della classifica mondiale delle insegne più strane.

I formati di questa campagna non hanno ancora preso il volo sugli aerei e neanche sono atterrati negli aeroporti di partenza dei turisti, né sono comparsi sui tanti spazi pubblicitari a pagamento della strategia di media buying, che già l’operazione nel suo complesso è oggetto di irrisione dal pop alla postavanguardia pura.

Gli stereotipi in advertising: buoni o cattivi?

Eppure i luoghi comuni o gli stereotipi sono il pane quotidiano dell’advertising.

Armando Testa, fondatore dell’omonima agenzia responsabile della campagna in questione, negli anni Settanta realizzò un progetto in cui ribaltava, da par suo, un totem del marketing turistico italiano del Bel Paese nel boom economico: le cartoline turistiche furono totalmente riviste con uno sguardo moderno inimitabile. Da buon visionario stava anticipando un paio di fatti essenziali: gli stereotipi non vanno assolutamente rinnegati e il cibo è un medium potente che attraversa gli oceani del tempo.

A riprova dell’intuizione geniale di Armando Testa, che piazza un uovo a occhio di bue nel mare, che riveste di prosciutto di Parma una poltrona o che mette due ravioli a letto ricoperti da una coltre di spaghetti, dopo cinquant’anni i social scoppiano di scatti di turisti che giocano con le proporzioni e mantengono la torre di Pisa, o fanno la fila per la focaccia dell’Antico Vinaio a Firenze.

Ora: non crediamo che il gruppo creativo sul progetto avesse proposto alla ministra solo la versione 2.0 della Venere. Sta di fatto che l’ok è arrivato proprio per la ventenne che porta a spasso da cinque secoli quell’espressione di disappunto e noia tipica delle divinità, capelli al vento, rivestita di outfit più da signorina Cecioni che da turisti gen Z statunitensi, tedeschi o britannici, con tracce di mood arbre magique indossato dalla ministra alla Prima della Scala del 2015.

Il marketing turistico come dovrebbe essere, più o meno

Questo non è un corollario di critiche alla campagna, né una lezione di creatività pubblicitaria, bensì un piccolo promemoria su quanto la fase creativa e di media buying dell’advertising sia uno degli aspetti di un’operazione di marketing.

Lasciateci soffermare per qualche riga sul marketing turistico: un lavoro di tessitura di un network di attori in cui ministero ed ENIT sarebbero un punto di raccolta informazioni ed elaborazione di politiche a sostegno dei territori, mentre le località turistiche, in quanto punti di arrivo e ripartenza dei turisti, potrebbero (e dovrebbero) essere collettori di informazioni cruciali delle aspettative e delle percezioni del turista/viaggiatore, nonché hub delle necessità e delle proposte dei sistemi regionali di operatori turistici.

Un simile incrocio tra informazioni provenienti dai territori e il centro delle politiche di promozione e sostegno al turismo dovrebbe produrre strategie di medio e lungo periodo in cui il sito Italia.it e le campagne pubblicitarie sono uno (ma non l’unico) degli assi portanti di un funnel che aggancia l’utente, lo invita a considerare un viaggio in Italia, consente l’acquisto di servizi precedenti e contemporanei alla permanenza, e processa dati creando e aggiornando buyer personas a uso di tutta la filiera dell’inbound turistico nazionale. Qualcosa di meraviglioso in cui, per inciso, rientra anche l’esigenza di distribuire i flussi turistici in maniera sostenibile su un territorio che già soffre di gentrificazione estrema delle città d’arte.

Il condizionale sui dati e i processi all’origine delle politiche del marketing turistico è d’obbligo: basti pensare che per scrivere questo articolo sono state consultate ricerche pubblicate su portali e librerie di fonti opensource in inglese e francese, ma mai in italiano.

Come lavorano i professionisti del marketing

Ed è proprio sui processi che vogliamo continuare a concentrarci, a partire dalla “genialata dell’agenzia Marketing Toys, che ha registrato il dominio opentomeraviglia.it, facendolo puntare al proprio sito.

Il team di consulenti di brand marketing ha adottato una delle poche procedure professionali dell’intera vicenda: ha fatto scattare il riflesso pavloviano di controllare se la combinazione di parole approvata fosse un dominio ancora libero.

Chi lavora nel marketing lavora con le parole. Siamo fabbri e carpentieri, tagliamo e poi rifiniamo, scolliamo, spostiamo fin quando viene fuori quel misto di keyword di settore e intento di ricerca, metrica ed eufonia che si chiama claimnamingpayoff. Non è una botta di fortuna; a volte ci vogliono ore, a volte una settimana, e c’è sempre uno della cricca attaccato a un provider di domini per verificare seduta stante, prima che l’ultima sillaba sia stata pronunciata, se “il dominio è libero”.

Questa cosa non si impara nei corsi, non è un talento né un colpo di genio. È una best practice che si consolida dopo aver dovuto sperimentare che il lavoro di ore era inutilizzabile, perché a quella combinazione di parole ci era già arrivato qualcun altro.

Nessuna genialata, quindi, bensì la consapevolezza che il marketing è un lungo processo che inizia con il capire a chi si parla, passa dal comprendere come il prodotto servizio può risolvere un problema reale e definire come e dove spiegarlo. La retorica del talento assente, dell’idea banale e non geniale, della creatività che è mancata alla Armando Testa, ha informato tutte le critiche all’operazione del ministero del Turismo ed ENIT.

La campagna è stata vivisezionata da chi aveva competenza in materia di copywriting, art direction, graphic design, sviluppo siti, brand strategy, digital marketing. E da tanti opinionisti della domenica che si sono inseriti sul trend topic per avere la loro visibilità, con tecniche di engagement più o meno rozze.

Da qualsiasi punto di osservazione la si voglia analizzare, le conclusioni convergono non sull’idea, bensì sulla mancanza di best practice, di buon senso derivante dall’esperienza, di procedure di lavoro. Le motivazioni di queste assenze non le sapremo mai.

Ma perché la Venere, perché il Rinascimento?

Perché è stato scelto come stereotipo un quadro del Rinascimento, che non è la prima delle attrattive che l’Italia esercita sul turista proveniente dall’estero?

Gli italiani studiano (forse, ancora) a scuola il Rinascimento italiano; meno gli statunitensi, tedeschi, brasiliani, inglesi. A meno che non scelgano degli studi specifici e arrivino in Italia per semestri o annualità all’estero, che i college e le università acquistano da tour operator specifici in canali B2B.

Anche se qualcuno si era innamorato dell’idea di Venere, perché non creare un personaggio 3D? L’industria del gaming è sbarcata da quindici anni al cinema con versioni su schermo di giochi famosi, e se davvero fosse esistito l’intento di sollecitare il target di gen Z con un personaggio nativo digitale, poteva essere gestito in modo più efficace che eseguendo montaggi in Photoshop, con inserti di foto e video di stock riconosciuti in pochi secondi, e contributi di effetti in montaggio.

La grande assente: l’analisi

Stiamo sostenendo che i difetti di realizzazione derivano da una creatività – con tutte le probabilità – non sostenuta da un’adeguata analisi dei bisogni e dei riferimenti del target obiettivo, né da conseguente strategia di marketing che intercetti quei bisogni.

Se manca l’analisi il marketing non c’è, e l’advertising è monco della sua direzione. Questo lo sanno i professionisti (e alla Armando Testa presumiamo ci siano), e lo hanno intuito tanti osservatori con poca o nessuna esperienza di campagne pubblicitarie.

Ricapitolando.

Il committente non fornisce indirizzi strategici, il fornitore non introduce know how, e il prodotto finale è il risultato di queste due gigantesche carenze. Le loro motivazioni: poco tempo? Brief incompleto da parte del committente? Lavoro fatto da un team ristretto, che ha incluso solo creativi e non analisti? Problemi di budget (Dagli articoli usciti pare che il 90% dell’ammontare dell’operazione sia costituito da media buying)? Chissà.

Sta di fatto che la signorina Venere in Cecioni è stata lasciata sola con i suoi capi presi su Vinted a rispondere al fuoco incrociato, sia delle critiche che delle difese opportuniste. Su tanti argomenti ancora silenzio, che lascia intendere come chi vuole ottenere risultati concreti parte da analisi di dati, competenze strategiche, best practice organizzative e budget onesti, e che invece un’idea messa insieme in fretta, un bel po’ di prosopopea e tanti soldi di rado sono gli elementi di una storia avvincente.

Finale a sorpresa: le toppe sono peggio del buco

Gli artefici hanno risposto alle critiche riguardanti il costo della campagna e le numerose défaillance in maniera stizzita (il ministro) e con un testo passivo-aggressivo e retorico (Armando Testa) uscito il 27 aprile su una pagina intera acquistata al Corriere della Sera.

È difficile credere che l’agenzia fondata dal papà della pubblicità italiana sia atterrata così male sulla materia in discussione, cioè dicendosi soddisfatta che il proprio lavoro avesse suscitato una tale ondata di critiche negative: il “basta che se ne parli” può funzionare per l’instant marketing di Taffo, non per una struttura di professionisti con decenni di storia, incaricata di promuovere l’inbound turistico in 33 Paesi “tutti diversi culturalmente” (citiamo dal testo).

Chi scrive per mestiere avrà notato la formula con cui è stata sintetizzata l’essenza della proposta di Open to Meraviglia, la cui intenzione (citiamo dal testo) era di “accendere l’attenzione in modo facile”. Questa è una keyword primaria per vendere corsi lampo e assicurazioni, per piazzare metodi per diventare ricchi, ma non è affatto indicata per riassumere l’impegno di convincere un turista a scegliere il nostro Paese perché vuole staccare dalla sua routine e immergersi nella bellezza. Non è facile organizzare un viaggio di decine di migliaia di chilometri e svariati giorni con un costo non indifferente; quindi, non è una formula facile che convince a farlo. È il desiderio di vivere emozioni sognate da una vita.

Chi ci ha convinto per decenni a comprare biscotti fatti in un vecchio mulino immerso nel grano, oggi spiega che ha deciso di promuovere un Paese facendo leva sulla proposta “facile”. Di fronte a questa manifesta perdita di direzione, calare il sipario su questa vicenda spetta solo a noi. Tentando di impararne il più possibile.




Intelligenza artificiale, il suo ‘padrino’ Geoffrey Hinton lascia Google e avverte: “Ci sono grossi pericoli”

Intelligenza artificiale, il suo ‘padrino’ Geoffrey Hinton lascia Google e avverte: “Ci sono grossi pericoli”

Attenzione ai pericoli e ai rischi per la società derivanti dallo sviluppo dell’intelligenza artificiale. A dirlo non qualche complottista del web ma Geoffrey Hinton, 75 anni, considerato il “padrino dell’intelligenza artificiale”. Hinton ha infatti annunciato via Twitter il suo addio a Google per poter parlare liberamente dei rischi dell’IA, confermando sul social network la notizia che era stata pubblicata in anteprima ed esclusiva dal New York Times.

“Me ne sono andato per poter parlare dei suoi pericoli”, ha detto in un tweet Hinton. Lo scienziato informatico, che col suo lavoro sulle reti neurali ha modellato i sistemi di IA che alimentano molti dei prodotti odierni, pur lasciando Alphabet (la holding a cui fa capo Google) ha però sottolineato che la società “ha agito in modo molto responsabile”.

Per il 75enne psicologo cognitivo e scienziato informatico britannico-canadese “in questo momento” le intelligenze artificiali “non sono più intelligenti di noi, per quanto ne so. Ma penso che presto potrebbero esserlo”.

Hinton ha lavorato part-time presso Google per un decennio sugli sforzi per lo sviluppo dell’IA del gigante tecnologico ma da allora ha iniziato a nutrire preoccupazioni per la tecnologia e il suo ruolo nel farla progredire. “Mi consolo con la solita scusa: se non l’avessi fatto io, l’avrebbe fatto qualcun altro“, ha detto Hinton al New York Times.

Guardate dov’eravamo cinque anni fa e la situazione attuale“, ha aggiunto lo scienziato, giudicando “spaventose” le prospettive per il futuro, se ci si basa sull’andamento degli ultimi anni. “È difficile vedere come evitare che i cattivi attori usino l’IA per cose cattive“, ha detto.

Alla britannica Bbc ha invece espresso il suo timore sullo sviluppo della tecnologia, un futuro in cui i chatbot potrebbero presto superare il livello di informazioni di un cervello umano. “In questo momento, quello che stiamo vedendo è che cose come GPT-4 oscurano una persona nella quantità di conoscenza generale che ha e la oscura di gran lunga. In termini di ragionamento, non è così buono, ma fa già un semplice ragionamento. E dato il ritmo dei progressi, ci aspettiamo che le cose migliorino abbastanza velocemente. Quindi dobbiamo preoccuparcene“, ha spiegato alla Bbc.

Una scelta, quella del “padrino” dell’intelligenza artificiale, che secondo il commissario europeo all’Economia Paolo Gentiloni “rilancia la discussione sull’Intelligenza artificiale. Grandi potenzialità, ad esempio per la salute. Ma anche rischi. L’Europa lavora per regole del gioco efficaci”.