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Alluvione Romagna, a Forlì Orogel surgela antichi libri del ‘500 per salvarli

Alluvione Romagna, a Forlì Orogel surgela antichi libri del '500 per salvarli

L’unico rimedio per non perderli è la loro immediata surgelazione: decine di volontari hanno trasportato i libri a Cesena, dove il colosso del settore ha messo a disposizione una cella frigo a -25 C. “Lo facciamo gratuitamente per il bene della comunità”, ha detto il presidente.

Non solo case e imprese: nelle zone alluvionate della Romagna l’emergenza è anche culturale. A Forlì l’acqua e il fango hanno infatti invaso l’archivio comunale in zona Cava e il seminterrato del seminario diocesano, a San Benedetto. L’acqua ha divelto tutti gli scaffali e gli antichi tomi, in particolare nella struttura religiosa, sono finiti in acqua. Si tratta di testi risalenti anche al 1500. L’unico rimedio per poterli salvare è la loro immediata surgelazione: per questo decine di volontari hanno trasportato i libri nella vicina Cesena, dove l’azienda Orogel, colosso del settore dei surgelati che fortunatamente non ha riportato danni ai propri stabilimenti, ha messo a disposizione una cella frigo a -25° C. “Lo facciamo gratuitamente per il bene della comunità”, ha detto il presidente Orogel Bruno Piraccini. Si prevede che arrivino nelle prossime ore anche volumi da altri comuni come Sant’Agata sul Santerno, nel Ravennate, e altri.

Orogel: “Pronti a fare la cura del freddo ai libri della Romagna”

E per salvare i preziosi manoscritti e i libri antichi della propria collezione la Biblioteca di Forlì ha chiesto un riparo proprio a Orogel, per conservarli a bassissime temperature. Lo annuncia all’ANSA Piraccini. “A sorpresa ho ricevuto questa richiesta dalle Belle Arti e dalla Biblioteca – ha precisato – e volentieri faremo spazio nel nostro stabilimento ai libri antichi della Biblioteca di Forlì alluvionati negli ultimi giorni. La nostra fabbrica è abituata a conservare al meglio la qualità. Normalmente lo facciamo con l’ortofrutta che matura in campo surgelando entro tre ore dalla raccolta le produzioni a -25 gradi. Mai mi sarei aspettato che questa procedura in velocità tornasse utile anche per il nostro patrimonio letterario, per il quale volentieri riorganizzeremo gli spazi in magazzino. A Pievesestina, una frazione a quattro chilometri da Cesena, abbiamo uno stabilimento all’avanguardia, totalmente computerizzato, che mantiene costanti le bassissime temperature e che per fortuna, nonostante sia a 800 metri dal fiume, non ha subito danni. Per protocollo interno, sia a tutela della salute dei lavoratori che delle produzioni, l’uomo qui non entra e non mette mano, e siamo pronti a fare la cura del freddo ai libri della Romagna”.




Develoopments / Planet Farms e Panino Giusto: il gusto della Sostenibilità

Develoopments / Planet Farms e Panino Giusto: il gusto della Sostenibilità

Planet Farms e Panino Giusto rappresentano due interessanti iniziative imprenditoriali, che in modo diverso hanno saputo brillantemente combinare Tradizione e Innovazione.

Panino Giusto, brand della ristorazione casual dining e prima b-corp della ristorazione italiana, nasce a Milano nel 1979, immettendo sul mercato una avvincente soluzione alternativa alla pausa pranzo canonica, con una inedita proposta caratterizzata da alta qualità dei prodotti, velocità del servizio e informalità degli ambienti.

Planet Farms, società benefit e maggiore azienda europea di vertical farming, nasce nel 2018 alle porte di Milano, a Cavenago di Brianza ed oggi costituisce un caso di studio nel mondo, con i suoi prodotti da agricoltura verticale veramente unici, coltivati in totale assenza di pesticidi ed in ambiente incontaminato.
Panino Giusto e Planet Farms hanno recentemente annunciato una nuova collaborazione all’insegna della Qualità e della Sostenibilità, con l’introduzione dei prodotti di Planet Farms nei menu di Panino Giusto.

“Con Planet Farms condividiamo i valori di innovazione, sostenibilità e qualità, gli stessi che nel 2020 ci hanno permesso di diventare la prima B-Corp della ristorazione in Italia. La nostra mission è quella di proporre il Panino Italiano come un modo giusto di nutrirsi rispettando l’ambiente e le persone, la stagionalità degli ingredienti, lavorando sempre in maniera responsabile, trasparente e sostenibile. Per questa ragione, non potevamo che scegliere un partner come Planet Farms, che ha fatto della sua filosofia un nuovo modo di fare agricoltura”, dice Antonio Civita, CEO di Panino Giusto.

“Planet Farms è un’azienda in continua evoluzione ed espansione: dopo la distribuzione in GDO dei nostri prodotti, l’ingresso nel mondo Fast Casual è stato uno step naturale. La scelta di collaborare con Panino Giusto si inserisce in maniera coerente nel nostro percorso fatto di sostenibilità, attenzione alla qualità e valorizzazione dell’eccellenza gastronomica della tradizione culinaria italiana. Questa partnership ci consentirà di coinvolgere ancora più persone nella nostra rivoluzione del gusto, offrendo a un consumatore sempre più attento un prodotto fresco, naturale, di altissima qualità e a basso impatto ambientale, 365 giorni all’anno”, afferma Luca Travaglini, co-founder e co-CEO del Gruppo Planet Farms.

Panino Giusto ha tratto spunto da una popolare tradizione italiana, quella appunto del panino, per interpretarla e rivisitarla all’insegna di alcuni dei tratti più distintivi del Contemporaneo, quali la Velocità, la Qualità e l’Informalità.
Planet Farms ha preso le mosse da un’attività umana che più antica non si potrebbe, l’agricoltura, introducendovi una profondissima Innovazione, nel segno della più avanzata Tecnologia e secondo il paradigma della Sostenibilità.
Le vicende imprenditoriali di Panino Giusto e Planet Farms testimoniano come, partendo dalla Tradizione, l’Innovazione possa assumere cifre e sembianze profondamente diverse, ma senza mai prescindere dal requisito della Qualità e dai dettami della Sostenibilità.

La partnership ora avviata da queste due dinamiche realtà ha tutte le caratteristiche per costituire un caso emblematico, a rappresentare come la combinazione di esperienze vincenti può condurre a sprigionare ulteriori energie e ad avanzare in modo virtuoso sulla strada del Domani, conciliando Successo e Progresso.




Comunicare (bene) senza giornalisti, il capolavoro di Giorgia Meloni in Emilia Romagna

Comunicare (bene) senza giornalisti, il capolavoro di Giorgia Meloni in Emilia Romagna

“Non è il momento di fare passerelle”, una frase che ha la forza di uno slogan, quella pronunciata dalla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni a chi le chiedeva conto del perché nella sua visita alle aree colpite dall’alluvione, non avesse permesso ai giornalisti di seguirla. Una scelta precisa, una grande mossa di comunicazione, studiata, pensata e ottimamente realizzata. E lo scrive chi non è affatto vicino alle posizioni della leader di Fratelli d’Italia.

La Premier è atterrata a Forlì direttamente dal Giappone, dopo aver lasciato in anticipo il G7, “La mia coscienza me lo impone”, ha dichiarato, rispondendo a quanti l’avevano criticata per non essersi recata prima sui luoghi martoriati dall’alluvione. Del percorso dall’aeroporto a imprecisate aree della Romagna sconvolta non ci sono immagini ufficiali. Nessuna telecamera, nessun fotoreporter l’ha seguita (da alcune immagini che circolano su twitter sembra ci fosse un fotografo ufficiale di Palazzo Chigi).

La Premier però appare soprattutto in decine di immagini realizzate direttamente dai cittadini e dai soccorritori e volontari con i loro smartphone. Lei vestita con una camicetta verde e un paio di pantaloni, capelli legati, senza trucco apparente, sembra da sola, non si vedono scorta e collaboratori, solo lei che parla con le persone, si concede ai selfie, addirittura si affaccia al finestrino di un’auto, ripresa dall’interno, e si mette a dialogare col guidatore che, come molti altri, si mostra assai sorpreso di avere “Giorgia” così vicina (si è poi scoperto fosse un sostenitore, magari “ingaggiato” ma questo rafforzerebbe l’aspetto strategico).

La completa demolizione della liturgia istituzionale, il corpo del capo che si offre senza mediazioni, costruendo, ancora, quello storytelling della pari fra i pari. Empatia, vicinanza e la potenza del messaggio di chi non ha paura di sporcarsi (nel vero senso della parola), di camminare nel fango, di lasciarsi toccare, abbracciare, parlare, senza alcun filtro o limitazione.

Nulla in tutto questo è casuale. Impedire ai giornalisti di documentare “ufficialmente” la visita è stata una decisione presa sulla profonda conoscenza del mondo della comunicazione digitale: le immagini ci saranno perché chi, con davanti la Presidente del Consiglio, non avrebbe preso lo smartphone e documentato il momento? Così, la narrazione sarebbe stata “autogenerata”, vera, senza finzioni istituzionali o di cerimoniale, distruggendo l’immagine del potente che visita le vittime. Quelle stesse immagini, poi, sarebbero state rilanciate dai media che, affamati dalla mancanza di documentazione ufficiale, avrebbero rastrellato il Web e usato le riprese di soccorritori, volontari e semplici cittadini per coprire una notizia che non potevano non dare: la visita della Presidente del Consiglio ai luoghi piegati da una tragedia.

Infine, riguardo ai media, un ulteriore vantaggio di questa strategia: rendere difficile ai giornali “contrari” di avere argomenti critici legati alla visita, troppo potente il messaggio, troppo “anormale” la narrazione. Inoltre la mossa smonta e sterilizza anche le polemiche per il “ritardo” con cui si è svolta la visita stessa: la percezione di sincerità e la partecipazione avallano la tesi che la Premier fosse stata “costretta”, in qualche modo contro la sua volontà, a restare in Giappone per imprescindibile “interesse di Stato” e, appena ha potuto, è letteralmente volata fra la gente.

Che di strategie di comunicazione simili si trovino altri esempi nella Storia e spesso legati a figure quantomeno controverse non credo sia rilevante in questa sede. Quello di Giorgia Meloni (e di chi l’ha consigliata) è stato un piccolo capolavoro, un abile utilizzo delle dinamiche di comunicazione digitale e di quella politica.




Il Montana è il primo Stato a vietare l’uso di TikTok

Il Montana è il primo Stato a vietare l'uso di TikTok

AGI – Il governatore del Montana il repubblicano Greg Gianforte, ha firmato ieri una legge che vieta l’uso dell’applicazione cinese TikTok. Il Montana diventa così il primo Stato degli Stati Uniti a limitare la popolare piattaforma social.

Gianforte sul suo account Twitter ha motivato la sua decisione con l’esigenza di “proteggere i dati privati e le informazioni personali dei cittadini del Montana dalla possibilità che siano raccolti dal Partito Comunista Cinese”

Il mese scorso il Congresso dello Stato del Montana aveva approvato un disegno di legge volto a vietare la piattaforma, di proprietà della società cinese ByteDance, sui dispositivi mobili di tutti i suoi abitanti. 

La replica di TikTok

“Il governatore Gianforte ha approvato una legge che viola i diritti del Primo Emendamento dei cittadini del Montana, vietando illegalmente TikTok, una piattaforma che offre vantaggi a centinaia di migliaia di persone in tutto lo Stato. Vogliamo rassicurare i cittadini del Montana che possono continuare a usare TikTok per esprimersi, guadagnarsi da vivere e entrare in contatto con la community, mentre continuiamo a lavorare per difendere i diritti dei nostri utenti all’interno e all’esterno del Montana”. Questa la posizione espressa dall’azienda attraverso un portavoce.




Lobbying, una regolamentazione efficace necessita di una visione olistica 

Lobbying, una regolamentazione efficace necessita di una visione olistica

Quando si parla di rappresentanza di interessi si possono facilmente rilevare approcci, modelli organizzativi, chiavi di lettura e, talvolta, anche visioni diverse sul futuro di un’attività che ricopre, come già ampiamente sottolineato, un ruolo fondamentale per il processo decisionale democratico del nostro Paese.

Tuttavia, tali differenze che possono derivare dal ruolo ricoperto, dal background o più semplicemente dagli interessi che si hanno in tale attività, convergono su due elementi fondamentali: il valore centrale dell’informazione e la necessità di una normativa sul settore che renda trasparente l’utilizzo di tale informazione nell’intero processo decisionale.

Come far emergere questi elementi nel tentativo di regolamentazione in atto? Lo abbiamo chiesto a Vincenzo Manfredi Head of Public Affairs and Advocacy di Assoholding e Professore a contratto presso la Luiss School of Government.

La Camera dei Deputati ha avviato un nuovo tentativo di regolamentazione dell’attività di rappresentanza di interessi. Da dove si dovrebbe partire perché si arrivi ad una normativa efficace?

A mio parere l’approccio alla regolamentazione dell’attività di rappresentanza di interessi, la famosa legge sulle lobby, non dovrebbe avere una determinante solo ed esclusivamente costituzionale. Naturalmente la mia non è una critica alla formazione di una Commissione di soli professori di diritto pubblico voluta dal Presidente Pagano. 

Intendo dire che un tema complesso come quello della rappresentanza di interessi deve essere considerato nella sua accezione sistemica, per tale motivo una legge che regoli tale settore necessita di una visione olistica che tenga conto dei pareri di scienziati della politica, relatori pubblici, esperti di comunicazione politica, di IA e digital strategist, perché non possiamo sottovalutare l’impatto della digitalizzazione e dei suoi strumenti. 

Se volessimo fare un’analisi di ciò che accomuna tutti i precedenti tentativi di regolamentazione, compresa la proposta approvata dalla Camera dei Deputati durante la scorsa legislatura, si noterebbe come l’approccio utilizzato derivi da una visione limitata di questo settore che, solitamente, è ricondotto alla sola attività di lobbying.

Le Relazioni Pubbliche, perché è di questo che stiamo parlando, rappresentano la disciplina più vasta che racchiude al proprio interno le attività di public affairs, di advocacy, di lobbying, di comunicazione politica, di marketing strategico, di consulenza strategica e posizionamento di brand, di reputazione, di brand identity, di Corporate Social Responsibility.  Per tale motivo, a mio parere, il legislatore più che regolamentare l’attività di lobbying, dovrebbe trovare la strada per regolare le relazioni pubbliche e il loro rapporto con l’informazione. 

L’informazione e le sue potenzialità di utilizzo, è questa la reale questione da cui dovremmo partire per un approccio costruttivo e sistemico.

Guardiamo, ad esempio, all’allarme lanciato dal Presidente degli Stati Uniti che teme un’influenza dell’intelligenza artificiale nelle prossime elezioni di midterm o, ancora, a ciò che è successo con Cambridge Analytica che non aveva le capacità che, oggi, offrono sistemi come Bard o Chat GPT. 

Potrebbe specificare meglio quella che è, per lei, la differenza tra Relazioni Pubbliche e Rappresentanza di interessi?

Non vi è una differenza. La declinazione della rappresentanza di interessi all’interno delle relazioni pubbliche ha a che fare con tre concetti fondamentali che sostanziano il significato stesso di ciò, che poi, è la tecnica della comunicazione: rappresentanza, rappresentatività e rappresentazione. Questi tre concetti che sembrano distanti, in realtà sono un unicum che definisce, all’interno della disciplina delle relazioni pubbliche, ciò che la rappresentanza di interessi rappresenta in funzione, non solo del decisore pubblico ma, di qualunque tipo di relazione.

Un’altra delle declinazioni si potrebbe definire “Organizational listening” (o ascolto organizzativo) che è la necessità di capire il contesto fornendo soluzioni capaci di generare valore.  Un tipo di valore che deriva dalle relazioni e non si esaurisce con il profitto, a differenza di quanto succede con l’azione imprenditoriale, ma crea un valore come asset intangibile rinveniente e precedente al profitto. Ciò consente agli asset intangibili non solo di essere misurati e verificati ma, anche, di creare quel valore sostenibile nel passaggio dallo shareholder allo stakeholder capitalism. 

Quando si parla di rappresentanza di interessi non si può ignorare la percezione negativa che questo settore ha in Italia. Basterà una regolamentazione del settore per cambiare tale percezione?

Sono certo che una regolamentazione del settore sicuramente potrebbe dare una diversa dignità, una diversa considerazione, come giustamente detto, ed una diversa percezione. Tuttavia, non credo che i colleghi giornalisti smetteranno di utilizzare la parola lobby in maniera negativa o con un’accezione denigratoria subito dopo l’approvazione della norma. È una questione culturale e se vuoi anche storica. Nonostante il susseguirsi di governi e “stagioni politiche” differenti, nel nostro Paese vi è sempre un motivo per utilizzare la parola “lobby” in senso negativo.

È per tale motivo che, a mio parere, tutti noi dovremmo investire su una diversa narrazione della rappresentanza di interessi quale fenomeno naturale e connaturato in ogni sistema decisionale. Qualsiasi esso sia. Basti pensare a cosa fa un bambino quando, appena nato, capisce che piangendo richiama l’attenzione della madre e ne influenza le decisioni. 

Una volta accettato questo concetto basilare, ciò che realmente serve è un sistema trasparente e tracciabile dell’intero processo decisionale che non sia punitivo o lesivo nei confronti del rappresentante di interessi. Questo permetterà di distinguere il professionista da ben altro tipo di individui e di modificare, pian piano, la percezione di questa professione.

Ha parlato di un sistema trasparente e tracciabile. Secondo lei l’istituzione del registro permetterebbe il raggiungimento di tale obiettivo oppure ritiene vi siano altre soluzioni?

Il registro può essere uno strumento all’interno di una normativa che tenga conto della corretta definizione della professione, perché da solo non basta. Le faccio un esempio. 

Come è noto alla Camera dei Deputati esiste un registro dei rappresentanti di interessi che prevede la rendicontazione degli incontri annuali. Ebbene chi di noi si è interfacciato con il decisore pubblico per portare le proprie istanze e quelle dei propri clienti durante la pandemia, in cui era impossibile effettuare incontri fisici nelle sedi istituzionali, ha dovuto utilizzare i sistemi di web conference. Ebbene, arrivato il momento di stilare le nostre relazioni sugli incontri effettuati, i funzionari della Camera addetti al recepimento della rendicontazione ci hanno richiamato per dirci che gli incontri on line non erano da rendicontare in quanto non erano avvenuti nelle sedi istituzionali. Le sembra normale che nel 2023 venga ancora effettuata una distinzione simile? 

Per tale ragione credo che più che un registro, serva una considerazione oggettiva di ciò che si intende per attività di rappresentanza di interessi nell’alveo della più vasta disciplina delle relazioni pubbliche.

D’altra parte, come dimostrato da alcuni colleghi che hanno sviluppato piattaforme di digital lobbying, basterebbe istituire una piattaforma fondata sulla blockchain per richiedere gli incontri e tenere traccia delle interlocuzioni avvenute fra decisore pubblico e rappresentanti di interessi. 

È vero che ciò renderebbe tutto molto più semplice, nonché trasparente tuttavia, come detto all’inizio, non sono certo che un semplice registro degli incontri e dei temi trattati possa essere la soluzione a questo problema. 

Mancherebbe, come ampiamente detto, il reale valore della relazione stessa impossibile da rendicontare perché dovrebbe essere, in qualche modo, considerata da un punto di vista strategico nei suoi aspetti, sia ex ante che ex post, rispetto alla scelta pubblica. 

Non è, infatti, sufficiente rendicontare solo l’attività di rappresentazione o di rappresentanza ma anche è necessario rendicontare anche la funzione di rappresentatività. Ciò significa che non basta creare un semplice registro perché si rischierebbe che alcune categorie di soggetti, che data la loro funzione fanno effettivamente rappresentanza di interessi, come ad esempio le organizzazioni ordinistiche, non si iscrivano.

Pertanto, a mio parere bisognerebbe spingersi oltre l’istituzione di un semplice registro, perché ciò che potrebbe essere davvero utile alla definizione e riconoscimento di questa professione è un albo dei portatori di interessi, intesi come regolatori pubblici. È questo ciò che auspico.

Nei tentativi precedenti di regolamentazione del settore, accanto alla norma che prevedeva l’istituzione di un registro obbligatorio per i rappresentanti di interesse è stato sempre introdotto un elenco di “soggetti derogati”. In cosa si differenziano gli interessi rappresentati da un’associazione di categoria, da un’azienda o da un’agenzia di lobbying? 

Ci sono alcuni soggetti professionali che sono iscritti al registro dei portatori di interesse di Bruxelles, che vorrei ricordare è un registro volontario basato sulla better regulation e prevede una serie di obblighi e di premialità (a differenza dell’ultima proposta italiana ndr). 

Ebbene questi soggetti affermano volontariamente di esercitare tale attività in Europa e quindi si deve presumere lo facciano anche qui in Italia, eppure non sono iscritti al registro italiano. Ma non solo, questi soggetti nel testo dell’ultima proposta di legge approvata alla Camera erano stati esclusi dall’obbligo di iscrizione al registro italiano. Perché? 

Perché sono, di fatto, i rappresentanti degli interessi dei corpi intermedi, delle parti sindacali o delle parti imprenditoriali. Hanno, quindi, esercitato un’azione di lobbying efficace in modo da non essere obbligati alla rendicontazione. Lecito da parte loro, ma decisamente una scelta miope del legislatore che ha creato tali deroghe.

Tuttavia, quella norma se era ingiusta verso alcune categorie, era altrettanto ingenua verso altre nella parte in cui prevedeva l’impossibilità in capo ai manager e ai rappresentanti apicali delle aziende partecipate dallo Stato di continuare a rappresentare gli interessi delle società che, sostanzialmente, pongono in essere la politica economica e industriale del Paese. Perché? 

Non ha senso creare una norma e porvi, poi, delle deroghe. Si snatura la funzione stessa di una regolamentazione e si creano distorsioni pericolose e confusione.

Stiamo assistendo ad un cambiamento nel rapporto tra rappresentanza di interessi, comunicazione ed editoria. Lei cosa ne pensa di quello che qualcuno ha definito il settore dei “media affairs”? 

Quella in via di definizione, forse, dovrebbe essere una legge sulla regolamentazione dei media affairs perché, che differenza c’è tra l’azione di un rappresentante di interessi che cerca di influenzare un decisore con gli strumenti a sua disposizione e quella di un importante editorialista che scrive alcuni articoli sui principali giornali nazionali su una determinata questione politica e che, quindi, saranno letti dallo stesso decisore pubblico? Qual è la differenza fra l’azione di un rappresentante di interessi, quella di un editore o di un giornale? Voglio continuare questa mia provocazione. 

Pensiamo ai post di un influencer che ha 5 milioni di follower fa media, lobbying, advocacy? Se l’influencer utilizza il suo account Instagram per fare influenza a favore di un prodotto di largo consumo o un bene di lusso è pubblicità; se parla dell’attività di una ONG in Africa è sicuramente advocacy; se invece parla di policy, è lobbying? 

No, non propriamente, ma è sempre la creazione di percorsi di influenza che avranno degli effetti a cascata su tutta una serie di soggetti, decisori nei rispettivi campi. L’obiettivo della persuasione è stato raggiunto ma con altri mezzi rispetto a quelli che noi solitamente riconduciamo all’attività di rappresentanza di interessi. È questa la rivoluzione che stiamo vivendo. 

Pertanto, visto che si sta cercando di regolamentare questo settore e abbiamo la possibilità di porre la dovuta attenzione anche a queste nuove rivoluzioni, dovremmo prendere in esame tutta una serie di contributi di rilevanza scientifica, fondati sui dati, per analizzare la questione che è molto più complessa e di provare a regolamentare tutto il sistema dei media affairs. Credo che se ci riuscissimo, aiuteremmo sicuramente la democrazia e il futuro stesso del nostro Paese.

Ha fatto riferimento a nuovi player di cui non si può non tener conto e quindi le vorrei chiedere quale sarà, secondo lei, il ruolo degli studi legali e delle società di consulenza strategica nel futuro di questo settore?

Sicuramente ripensando il sistema con un approccio non giacobino. Le relazioni pubbliche sono, di fatto, un’attività di consulenza strategica, perché sono attività di posizionamento, di accrescimento della reputazione. Sono attività, come dicevamo, intangibili, che riguardano la crescita, la ricchezza, la capacità di creazione di valore per un determinato soggetto imprenditoriale e più in generale, di tutte le organizzazioni. Per tale motivo, ci saranno sempre più soggetti che entreranno nel mondo delle relazioni pubbliche, del public affairs, della lobby e dell’advocacy che porteranno una evoluzione del settore che la legge dovrà essere in grado di regolamentare garantendo però il libero mercato.

Questo è un settore che sta formando centinai (se non migliaia) di ragazzi e ragazze che diventeranno lobbisti. Ma qual è il settore del lobbista? Una professione senza un albo, o un ordinne, di riferimento la possono fare tutti, con il rischio di creazione di monopoli o situazioni perniciose.

Ecco perché risulta fondamentale avere approcciare il quadro in maniera multidisciplinare, senza fare della soluzione del problema una questione di interessi particolari.

Se consideriamo nella giusta misura il valore e l’efficacia delle relazioni pubbliche riusciamo anche a “rallentare” lo sguardo, non lasciandoci ingabbiare dalla tentazione del breve termine e da comportamenti estrattavi. Rimettere al centro la costruzione di senso e di significato per creare valore, per valutare l’impatto delle politiche pubbliche: per avere quindi quel comportamento rigenerativo che è proprio della rappresentanza di interessi.

L’obiettivo delle relazioni pubbliche e della lobby, come funzione di management, è di contribuire al raggiungimento degli obiettivi di un’organizzazione con un’attività continuativa, consapevole e programmata di gestione e di coordinamento dei sistemi di relazione che si attivano fra la stessa organizzazione e i suoi diversi stakeholder: orientare opinioni, atteggiamenti, comportamenti e decisioni degli stakeholder influenti e di tutti i soggetti che a vario titolo interagiscono con l’organizzazione. 

Se questi comportamenti sono posti in essere nel rispetto delle parti, non si annichilisce il dialogo ma si creano i presupposti per una negoziazione sostenibile ed inclusiva. Da questo punto di vista, gioca un ruolo cruciale il pensiero critico e l’intelligenza contestuale, una intelligenza emotiva che il relatore pubblico attua in quanto “ingegnere delle relazioni” e dei processi di cambiamento: un approccio quindi rigenerativo capace di operare in contesti complessi e trovare quindi soluzioni armoniche che creano consenso e sviluppo sostenibile.