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La controversia Crisafulli – Lazzari tramite canzoni nei social

La controversia Crisafulli – Lazzari sulle canzoni nei social

Un’altra polemica vede protagonista Vittoria Lazzari, stavolta contrapposta a Sofia Crisafulli, nota per i suoi video su TikTok. Un contenuto condiviso da Sofia ha innescato una serie di reazioni accese: in un suo video compariva la canzone di Madame, in cui il ritornello recita “c’è un distacco fenomenale, tra me e tutte quelle puttane”, frase che a molti è parsa un riferimento a Vittoria. La controversia è esplosa quando Lazzari ha risposto attraverso delle dirette in cui ha ironizzato, sottolineando il prezzo dei suoi contenuti su OnlyFans, definendosi ironicamente “una sgualdrina da 4 soldi” in risposta alle accuse.

Il dibattito sollevato da questa vicenda mette in luce la complessità della morale e della percezione pubblica riguardo alla vendita di contenuti su piattaforme come OnlyFans. Si sono spesi fiumi di parole circa la moralità” insita nel vendere a pochi euro video per adulti realizzati apposta per questa piattaforma. In genere pare che condotte o scelte relative alla sfera sessuale sembrano essere più frequentemente oggetto di attacco rispetto ad altri aspetti del comportamento umano.

OnlyFans, una piattaforma nota per la sua varietà di contenuti, è diventata un argomento di discussione per la sua natura e per il tipo di contenuti che vi si possono trovare. Il prezzo di 20 euro per i contenuti di Lazzari potrebbe essere visto da alcuni come una forma di sfruttamento o una scelta discutibile, mentre altri potrebbero considerare questa cifra come una forma di accesso democratizzato ai contenuti per adulti. La polemica non è ovviamente solo sul prezzo, ma anche sulla percezione del valore e del rispetto verso chi utilizza tali piattaforme per guadagnare.

Il modo in cui le persone rispondono a comportamenti sessuali o scelte di vita di altri individui spesso riflette atteggiamenti e pregiudizi più ampi. La sessualità, e in particolare la commercializzazione della stessa, tende ad essere una zona sensibile e controversa nella nostra società. Questo fenomeno può essere attribuito a diversi fattori:
Normative Sociali e Pregiudizi: Le norme sociali tradizionali e i pregiudizi culturali possono influenzare fortemente la percezione di comportamenti sessuali. La sessualità è spesso soggetta a giudizi morali più severi rispetto ad altre aree della vita personale.
Stereotipi di Genere: Le discussioni su contenuti sessuali sono frequentemente influenzate da stereotipi di genere. Le donne, in particolare, possono essere oggetto di critiche e giudizi più duri rispetto agli uomini quando si tratta di comportamenti sessuali o scelte professionali legate alla sessualità.
Sensazionalismo e Media: I media e i social media tendono a enfatizzare e amplificare le polemiche legate alla sessualità, spesso per generare engagement e discussione. Questo può portare a una maggiore visibilità e amplificazione delle critiche.
In un contesto in cui le polemiche su comportamenti e scelte personali sono sempre più diffuse, è essenziale promuovere un dialogo rispettoso e informato. La discussione pubblica su argomenti delicati come la sessualità e la commercializzazione dei contenuti deve avvenire in un contesto di rispetto reciproco e comprensione. È fondamentale evitare che le discussioni degenerino in insulti o giudizi non costruttivi, e concentrarsi piuttosto su un confronto civile e riflessivo.

La controversia tra Sofia Crisafulli e Vittoria Lazzari mette in luce le complessità del dibattito pubblico riguardo alle scelte di vita e alla moralità. Mentre la risposta alle critiche può variare a seconda delle prospettive individuali, è importante affrontare tali discussioni con empatia e rispetto. La società dovrebbe sforzarsi di superare i pregiudizi e promuovere una cultura di maggiore accettazione e comprensione verso le diverse scelte personali e professionali.




Bruce Springsteen: vi spiego, a mente fredda, perché quel concerto andava rimandato

BRUCE SPRINGSTEEN: VI SPIEGO, A MENTE FREDDA, PERCHÈ QUEL CONCERTO ANDAVA RIMANDATO

Cosa è successo?

Per entrare subito nel vivo della discussione, e della polemica che numeri alla mano ha interessato una audience piuttosto ampia, copio qui il testo del mio post su Linkedin di giovedì mattina:

La reputazione spiegata semplice? Il caso di Bruce Springsteen in queste ore a Ferrara. Un mio ex studente, ora funzionario di rilievo in un associazione di categoria nazionale, mi ricorda che a Ferrara oggi è prevista la prima data italiana di Springsteen al parco urbano, a 3 Km dal Po in piena e a 50 km da Imola sott’acqua. L’organizzazione ieri ha detto che “si farà” e sono attese tra le 50 e le 60.000 persone che su un campo paludoso sono invitate a ballare (e tenere impegnati i soccorsi, che immagino in queste ore abbiano di meglio da fare…). Non ci sono più i ponti, le strade sono allagate, in buona parte dell’Emilia Romagna non transitano i treni. Si ferma il volley, si ferma in Gran Premio di Imola, ma il Sindaco di Ferrara Alan Fabbri (centrodestra) ha detto che non c’è problema per il concerto e che sarà – qui la grande illuminazione! – un grande rilancio per la città… Per non parlare dei giornali, che in prima pagina mettono il Boss di fianco a 50.000 sfollati, 48 comuni sott’acqua e 9 morti… (13, secondo gli ultimi aggiornamenti successivi alla pubblicazione di questo post, ndr) Il Presidente #StefanoBonaccini parla di “secondo terremoto per la Regione” mentre l’Assessore al Turismo di Ferrara #MatteoFornasini apre lo Springsteen Village. E l’ultimo post del Sindaco di Ferrara è per la Festa della mamma, dopo quello sulla retrocessione della SPAL in serie C: semplicemente, come se il disastro dell’Emilia Romagna non esistesse. Forse è solo mancanza di cultura istituzionale e mancanza di rispetto per le vittime, ma potrebbe anche essere (Dio non voglia) mancanza di capacità di previsione delle crisi… Già così lo “spettacolo” (sic) non è dei migliori, ma – nella speranza che tutto vada per il meglio – l’Italia si conferma tristemente un Paese a bassa sensibilità sul tema del reputation management e del crisis management. Anche perché di crisi reputazionale già possiamo parlare, se consideriamo i commenti poco lusinghieri che (giustamente) stanno venendo pubblicati sul profilo di Claudio Trotta, manager di Springsteen.

#Springsteen #Ferrara #concerto  #alanfabbri #cultura #emiliaromagna #alluvione

Su questi fatti, in generale, l’audience sui Social in questi giorni è parsa piuttosto frammentata, a sensazione posizionandosi come segue: una maggioranza di sentiment negativo circa la mancata cancellazione del concerto, una minoranza favorevole all’evento (anche in un’ottica di “ripartenza” post-disastro), alcuni, come vedremo, critici per la mancata cancellazione sotto il profilo etico-morale ma comunque “realisti” nel riconoscere la conferma dell’evento come l’unica opzione possibile, sia per motivi organizzativo-logistici, sia con riguardo alla mole dei fans comunque favorevoli alla manifestazione (tanto che i mancati arrivi e le disdette sono state poche, non rilevanti numericamente, fatta eccezione per qualcuna particolarmente “rumorosa” come quella del Presidente della FERPI Filippo Nani). In ogni caso, più avanti nell’analisiriporterò dati più affidabili, con relativa fonte; ora passiamo a un’analisi più articolata, che mi è stata richiesta da più parti.

La reputazione: sono solo numeri?

No, certamente, la reputazione, com’è evidente, è qualcosa di ben più complesso. Se il primo “pilastro” (letteratura pacifica) è quello della qualità del prodotto – e sotto questo profilo ci siamo, il Boss ha poco da imparare – il secondo pilastro è quello dell’autenticità.

Questa è la prima criticità che emerge riguardo alla mancata cancellazione (o rinvio) del concerto e che mette irrimediabilmente in crisi decenni di narrazione del grande artista. Fin dal lontanissimo 1975, Springsteen ha deciso di infarcire i suoi pezzi – da Born to Run a The Ghost of Tom Joad di denuncia sociale e valori morali d’ispirazione: l’esperienza americana ai tempi del Vietnam, il razzismo, le ingiustizie verso i ceti svantaggiati, la fine del sogno americano e la disillusione delle classi operaie, lo lotta all’AIDS (Streets of Philadephia, colonna sonora del film 3 volte Premio Oscar), la ribellione delle nuove generazioni, le ragazze madri (The River), i poveri, i migranti, e molto altro.

Il 19 maggio, con 14 persone decedute, 40.000 sfollati e una regione in ginocchio, Springsteen però non fa neppure un accenno all’emergenza ancora in piena gestione a due passi dal luogo del concerto, né ai morti, né al disastro: non dico per annunciare la tanto agognata (da molti cittadini) devoluzione in beneficenza dell’importo degli incassi della data di Ferrara, al netto ovviamente delle spese, donazione che avrebbe solo minimamente inciso sugli incassi di un tour Europeo con più di 30 date (a Roma ieri sera, tra l’altro), ma neppure – e questo è francamente sorprendente – per spendere una parola di solidarietà per i cittadini e le famiglie devastate dall’alluvione.

Anche sotto il profilo del terzo ed ultimo pilastro della reputazione, l’ascolto, il Boss (e/o il suo team di management, non fa alcuna differenza) dimostra evidenti lacune: della vicenda, e delle relative polemiche, hanno dibattuto non pochi utenti dei Social, ma anche la stampa nazionale e pure quella estera. Come poter affermare allora “non sapevo nulla?”. Crederlo è da ingenui.

Ed è bene ricordare che l’emozione è solo un driver, un acceleratore di reputazione, non certo un pilastro della stessa. Anche per questo è necessario riflettere a mente fredda, con accuratezza, avendo a riferimento una solida bibliografia, e andando oltre le “chiacchere da bar”.

Esisteva un’alternativa?

Il concerto si poteva/doveva cancellare? Su questa scelta, gli animi si sono anche accesi, ma vale la pena tentare una prova del nove: che sapore ci avrebbe lasciato in bocca una comunicazione – ad esempio – di questo tipo, direttamente da parte di Springsteen?

#EmiliaRomagna, alluvione. Impossibile cantare, ballare e festeggiare a due passi da una tragedia. Primo: agli alluvionati e le loro famiglie va la totale solidarietà e affetto da parte mia e di tutto il mio staff. Secondo: tutti i biglietti acquistati per questa data verranno rimborsati al 100%, con le scuse sentite per il disagio. Terzo, ai fans che hanno fatto chilometri per venire fin qui, dico: grande concerto a #Ferrara appena terminato il tour Europeo, dopo il 30 giugno, con l’intero netto ricavo donato in beneficenza per sostenere la #ricostruzione del territorio. I biglietti del #concertodellarinascita saranno in vendita da domani, e vi chiedo: comprateli come non mai!

Comunicazione non so se ipotizzata ma comunque mai confezionata né pubblicata: evidentemente, per il management di Springsteen, meglio stare “sotto tana”, aspettare che passi la buriana della polemica, e – soprattutto – portare a casa i soldi degli incassi.

Daniele Chieffi, un collega (e amico) che stimo, ha poi pubblicato ieri un post su Linkedin la cui sintesi (qui il testo completo) è che le “defezioni” dal concerto sono state scarsamente significative (ed è vero) quindi essendo lo stakeholder di prossimità – i fans del cantante – comunque tutto sommato soddisfatto, l’impatto reputazionale per il “brand Springsteen” non sarebbe poi così negativo. Ferma la stima incondizionata per l’autore di questa riflessione, che ha stimolato un intrigante (e sempre garbato nei toni) confronto on-line, la tesi non mi convince per tre motivi, due di metodo e uno di merito.

Sotto il profilo del metodo, queste conclusioni, pur pienamente legittime, sono – a mio avviso – disancorate da un approccio realmente scientifico. Anche senza scomodare John Nash, Robert Aumann e la Teoria dei Giochi, ed anche senza arrivare ad ipotizzare un’applicazione della stessa al dominio delle relazioni pubbliche, cosa che pure è stata fatta già nel lontano 2008, la domanda corretta da porsi per eliminare ogni fattore confondente sarebbe stata : “Quante persone avrebbero deciso di rinunciare alla partecipazione all’evento se gli fosse stato garantito il rimborso integrale del costo del biglietto?”.

Chiaramente a questa domanda non potremo mai dare risposta, dal momento che agli organizzatori non è venuto neppure in mente di ipotizzare un rimborso parziale o integrale del prezzo dei ticket acquistati dai fans.

La seconda osservazione sotto il profilo del metodo, e che il ragionamento logico secondo il quale accontentati i fans non si sarebbe concretizzata una crisi reputazionale, è un tipico esempio di euristica della rappresentatività, ovvero di quella distorsione cognitiva che ci porta a trarre conclusioni riferendoci a campioni parziali (rilevanti per noi, ai fini del nostro ragionamento, ma appunto non del tutto rappresentativi) senza prendere in considerazione dati statistici reali in grado di rappresentare esaustivamente tutta la popolazione. La gente comune, quindi, cosa dice?

Il reale sentiment della cittadinanza sull’affaire Springsteen

Ebbene, le analisi del sentiment online effettuate da Pier Luca Santoro di Data Media Hub paiono in parte confermare questa mia analisi: se è vero che il gruppo “fans” di Springsteen ha confermato la scelta di partecipare al concerto (seppure con l’elemento fortemente distorsivo che ho citato sopra, ovvero la mancanza dell’opzione del rimborso del biglietto, quindi “o partecipi o perdi tutto”), e se è vero che il sentiment degli sfollati non potrà che essere fortemente negativo, foss’anche solo per il fatto che ben un migliaio di addetti alla Protezione civile e alla sicurezza, Vigili del fuoco, Polizia, etc. sono stati distolti dalle operazioni di soccorso per prestare assistenza al concerto, scelta che di per se pare quanto meno inopportuna (resta un mistero la latitanza della Prefettura, che avrebbe potuto semplicemente interdire temporaneamente qualunque manifestazione pubblica non essenziale nel perimetro del disastro, ponendo fine a qualunque discussione), vediamo qual è nel concreto il sentiment diffuso sul web, per tentare di comprendere – sulla base di numeri statisticamente significativi – lo stato della reputazione di Bruce Springsteen e del suo management team.

Fonte: DataMediaHub

Sarebbe interessante avendone il tempo avviare una ricerca più approfondita off-line su un campione di almeno mille rispondenti: checché ne dicano gli esperti di web-reputation (qualunque cosa questa parola voglia dire…) la reputazione si costruisce anche (a volte soprattutto) nel mondo reale.

In ogni caso, l’analisi di DMH riportata sopra evidenzia come il sentiment riguardo a quanto accaduto sia – su un campione di 14.000 citazioni online da parte di 4.000 autori unici che hanno coinvolto nelle discussioni 70.000 utenti complessivi con un totale di 306,9 milioni di impression – per il 14,9% positivo e 17,9% negativo e il rimanente 67,2% neutrale. Questa situazione – con un sentiment negativo che prevale leggermente sul positivo, ci porta alla mia terza obiezione – forse la più sostanziale, relativa al merito del dibattito, perlomeno visto dal punto di vista di un relatore pubblico e di un comunicatore – ovvero l’esistenza o meno di uno stakeholder “strategico”.

Esistono dei pubblici influenti… o sono tutti – semplicemente – stakeholder?

Data ormai oltre una decina di anni fa l’avvio di un dibattito tra specialisti, non sopito e mai del tutto risolto, sull’esistenza di “uno stakeholder più strategico di altri” (nel miope e shortermista mondo del marketing, ad esempio, è il cliente acquirente dei prodotti/servizi dell’azienda o dell’organizzazione); personalmente pubblicai le prime riflessioni su questa tematica esattamente 11 anni fa.

Secondo l’approccio proprio della logica Aristotelica, basata sul vero/falso, giusto/sbagliato, bianco/nero, una cosa non può essere/non essere nello stesso tempo: ne deriva che, secondo questa visione, o si è stakeholder o non lo si è, e che quindi ci sarebbero soggetti influenti (per l’azienda/ organizzazione/ cantante/ influencer/ politico etc.) e soggetti che semplicemente non lo sono. Un approccio limitato e limitante, figlio di una visione dialogica e binario-sequenziale che francamente male si presta a descrivere l’estrema complessità del mondo in cui oggi viviamo.

Complessità meglio descritta, invece, dalla logica fuzzy a insiemi sfumati, codificata da Lofti Zadeth all’Università di Barkeley in California – la cui applicazione al settore delle relazioni pubbliche venne illustrata in Italia per la prima volta in un paper del 2010, poi di molto ampliato con ricerche successive – logica che prevede l’esistenza di “infiniti valori di verità”, e che applichiamo alla costruzione delle mappe stakeholder fin dall’ormai lontano 2013: vero è che “o sei vivo o sei morto” (valore o 0 o 1, in base alla logica Aristotelica), ma – come amo ripetere, forse banalizzando – “in mezzo succedono anche delle cose”. Ne deriva che non esiste “un punto oltre quale non si è stakeholder”: tutti sono pubblici influenti (o potenzialmente influenti) e tutti debbono rientrare egualmente nel campo visivo del nostro sguardo. Tutti, in buona sostanza, sono egualmente importanti (l’unica scriminante è la quantità di risorse finanziarie o professionali delle quali disponiamo per occuparcene qui ed ora).

Un esempio di fantasia, ma utile per rendere l’idea: quella sconosciuta anziana signora che abita a New York a 7.000 km. di distanza da noi, apparentemente per nulla “di prossimità” e di un’importanza prossima allo zero, potrebbe improvvisamente entrare nel nostro campo visivo come motore di una crisi reputazionale, se – avendo appreso dei fatti e urtata dall’accaduto, nel suo ruolo di moglie del capo-redattore del New York Times – decidesse di parlarne al marito spingendolo a dedicare una pagina intera alla mancata cancellazione della tappa di Ferrara del concerto del Boss (in passato si sono realizzate realmente situazioni imprevedibili come questa, diversi case-study lo confermano). Hai voglia a rasserenarci con la considerazione che “i fans non hanno poi avuto gran che di cui lamentarsi…”. Ebbene, quella signora è – eccome – un mio stakeholder, prima ancora che diventi un elemento di criticità, e sarà ben utile che “mi prenda cura di lei”. Come? Non badando solo, nel costruire il mio perimetro reputazionale, agli stakeholder appunto “strategici”, ma aumentando la mia consapevolezza e tendendo ad abbracciare con lo sguardo quanti più pubblici possibili (ad esempio, tornando al caso in disamina e adeguandoci a una lettura di tipo circolare e complesso, tutti quei cittadini che ora, dopo quanto accaduto, fans di Springsteen non lo diventeranno mai, e anzi “sporcheranno il campo della reputazione” del Boss parlando male di lui e del suo comportamento a chiunque incontreranno, per anni ed anni).

In buona sostanza, vi sono modi corretti e modi scorretti di gestire una crisi, e l’opzione va sciolta, per evitare sorprese, avendo a cuore per quanto possibile la contemperazione degli interessi di tutti gli stakeholder, in quanto ci è concretamente impossibile sapere a priori quali di essi potrebbe diventare un elemento di criticità. Il confezionamento e la diffusione di un messaggio di cancellazione (rectius, rinvio) del concerto come quello che ho ipotizzato sopra (o simili) avrebbe quindi molto probabilmente:

  • deluso qualche fan irriducibile o qualche straniero, con riguardo ai soldi spesi inutilmente per il viaggio;
  • grazie alla riprogrammazione dell’evento a breve, soddisfatto la maggior parte dei fans, i quali tra l’altro avrebbero rilevato la coerenza (autenticità) tra i messaggi sociali diffusi dal Boss negli anni e il suo comportamento in questa occasione;
  • soddisfatto la gran parte della cittadinanza non direttamente coinvolta nell’evento;
  • sollevato le autorità pubbliche dall’incombenza di dover garantire assistenza al concerto distraendo quasi 1.000 operatori specializzati dalla gestione dell’emergenza;
  • garantito una positiva copertura stampa e un generale rafforzamento del perimetro reputazionale dell’artista e del suo team di management.

I concetti su esposti – relativi all’approccio incondizionatamente multi-stakeholder alla costruzione di reputazione –  in Italia ancora faticano ad affermarsi anche tra addetti ai lavori, come dimostrano i dibattiti di questi giorni, ma sono dati sempre più per acquisiti in altre comunità professionali all’estero, se è vero com’è vero che persino il marketing (disciplina mono-stakeholder per definizione, perlomeno nelle sue versioni più ortodosse) ha iniziato a guardare con interesse a queste stimolanti “novità” (si fa per dire…) ammettendo un paper scientifico centrato proprio sul concetto di critica implicita al concetto di “stakeholder strategico” (sotto il profilo reputazionale) discusso in occasione della Internnational Marketing Trands Conference di Parigi a gennaio 2020.

Reputazione e complessità

La reputazione, com’è ben noto, è questione assai complessa, multifattoriale, che va oltre un ragionamento ancorato solo a pesi e numeri grezzi (chi è d’accordo e chi no, quanti hanno sentiment negativo e quanti positivo, etc.) ed è legata più a metriche afferenti alla qualità che non alla mera quantità.

Sul fatto che il Boss, e il suo management con lui (e forse più di lui), non abbiano fatto una bella figura, penso non esista discussione; sul fatto che poco ci sarebbe voluto a fare di meglio, penso altresì in molti possano essere d’accordo; circa poi il fatto che l’analisi del sentiment sulla nicchia dei soli suoi fans più affezionati non sia di per se una metrica adeguata a definire lo stato della reputazione dei protagonisti di questa vicenda, in quanto parziale e condizionata da bias evidenti, spero di aver chiarito maggiormente le idee ai lettori con questo mio articolo.

Il fatto, infine, che la nostra comunità professionale sia viva più che mai, e pronta a scendere in campo per difendere le proprie idee, apportando valore anche allo sviluppo delle competenze di ognuno di noi mediante un sano e schietto confronto, è comprovato dall’intrigante dibattito sviluppato sulla vicenda di Springsteen (e pochi giorni prima sulla assai criticata campagna di incoming “Open to Meraviglia”) sui vari canali Social, e non solo.

Che poi le organizzazioni e i brand – aziende, influencer, politici o cantanti che siano – stiano al passo con queste riflessioni e riescano a trarne concreto vantaggio per migliorare la percezione della loro reputazione presso i loro vari pubblici, è invece ancora, purtroppo, tutto da dimostrare.

Anche se probabilmente – mentre tutti noi ancora allibiti guardiamo scorrere in TV le immagini di un immane disastro ambientale ed umano – la chiosa più centrata e straordinaria, che forse calzerebbe bene come indiretto commento a questa vicenda del concerto di Springsteen, l’ha data poche ore fa il nostro Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, quando ai cronisti che gli domandavano quando sarebbe andato a visitare le zone alluvionate, ha risposto con il solito garbo e con lucidissima correttezza istituzionale: “Spero presto, quanto prima possibile, non appena la mia presenza non sarà d’intralcio ai soccorritori che sono ancora molto impegnati sul territorio”


Breve bibliografia

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  • Muzi Falconi T., Governare le relazioni. Obiettivi, strumenti e modelli delle relazioni pubbliche, Il Sole 24 Ore, Milano, 2003
  • Poma L, Grandoni G, Il reputation management spiegato semplice, Celid Edizioni, Torino, 2021
  • Poma, L, “Strumenti innovativi per la mappatura degli stakeholder e per la rendicontazione integrata”, XIX° convegno International Marketing Trends Conference, gennaio 2019
  • Poma, L, Apri la tua mente – Pensiero circolare e nuovi percorsi all’interno delle organizzazioni sociali complesse, Libreria Universitaria, Padova, 2020
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Fermate l’Intelligenza Artificiale, è pericolosa

Fermate l’Intelligenza Artificiale, è pericolosa

L’Intelligenza artificiale è un pericolo mortale. A dirlo preoccupati, anzi spaventati, non sono teologi apocalittici, luddisti antimoderni o filosofi tradizionali, ma i due padrini dell’IA, Yoshua Bengio e ora Geoffrey Hinton, già insigniti di quello che viene definito il Nobel dell’informatica, il Turing Award. I pentiti dell’IA lavorano per i colossi dei social: Hinton ha lasciato Google con la sua denuncia, ma anche Roger McNamee, lasciando Google, aveva denunciato la dipendenza dai social prodotta dagli usi invasivi dell’intelligenza artificiale, paragonandola alla tossicodipendenza. O Antonio Garcia Martinez, altro cervello in fuga dal cervellone tecnologico dei social, che vorrebbe non aver mai sviluppato quelle tecniche nocive.
Gli effetti prodigiosi delle sue applicazioni, la velocità con cui si propagano i suoi poteri e i suoi effetti, rendono sempre più stridente il confronto tra l’espansione tecnologica e la capacità di gestirla. Quella che in altra epoca Gunther Anders, scrivendo de L’Uomo è antiquato”, definì “il dislivello prometeico” tra tecnica e intelligenza umana. A cavallo degli algoritmi, l’Intelligenza Artificiale sta facendo passi da gigante nella sostituzione dell’intelligenza umana e va fermata, come si fermano le armi chimiche o letali. Così dicono i suoi padrini, inventori e propagatori pentiti. Parallelamente siamo sempre più indifesi dall’uso distorto o malvagio dell’IA da parte di hacker privati e colossi globali o di organismi pubblici, servizi segreti, stati canaglia, dittatori.
Il tema che l’IA cancellerà migliaia di posti di lavoro è solo un risvolto secondario e compensabile rispetto ai danni irreversibili che può produrre sul piano della sicurezza, della libertà e soprattutto dell’intelligenza umana.
Non è l’Intelligenza artificiale in sé che ci spaventa ma l’umana idiozia, l’incapacità di padroneggiare le cause e gli effetti, il delirio di onnipotenza tecnologica, che sono complici entusiasti di questo potere assoluto e potenzialmente totalitario, senza freni.
Qual è il pericolo dell’intelligenza artificiale? La sostituzione del mondo reale, delle identità e della natura, con una grande bolla in cui sparisce la realtà, e tutto ciò che la costituisce: la storia, il pensiero, la vita, la presenza, il corpo, la natura.
Ma tutto questo potrebbe ancora rientrare nel rischio dell’avventura umana, nella scommessa dell’intelligenza che sa osare e cavalcare la tigre della tecnica. L’uomo deve saper rischiare se vuol conoscere, migliorare le condizioni di vita, sviluppare la ricerca e i suoi risultati.
Ma se consideriamo il contesto in cui avviene oggi questa scommessa, allora nasce la preoccupazione.
La crescita rapida ed espansiva dell’Intelligenza Artificiale coincide infatti con la decrescita altrettanto rapida e regressiva dell’Intelligenza umana, delle sue connessioni vitali e mentali con la storia, con la tradizione, con il linguaggio, con la capacità di progettare il futuro e governare i cambiamenti; la ritirata del pensiero, oltre che della religione, il declino dell’arte e l’atrofizzazione progressiva, come in una paralisi, delle facoltà naturali, socievoli, lessicali e intellettuali dell’uomo e il calo progressivo e allarmante del Quoziente Intellettivo. Cresce la tecnica e decresce la cultura, cresce l’artificiale e sparisce il naturale, cresce il robot e declina l’umano. Si ingigantisce la forbice tra tecnica e sapere, il mondo artificiale si espande mentre si contrae la nostra capacità di conoscerlo, di capirlo e dunque di governare gli effetti.
Il pericolo non è dunque il golpe delle macchine, o semplicemente la pirateria informatica, o come qualcuno dice, l’uso che può farne il Putin di turno, ora additato in Occidente come nemico n.1 dell’umanità: ma l’autogoverno dell’Intelligenza Artificiale con la complice stupidità umana, infatuata per le macchine e per il virtuale. E dunque la perdita dell’umanità, il fatalismo tecnologico che pervade la nostra epoca, secondo cui non si può fermare o frenare nulla né cambiare corso. Se il procedere è automatico e inarrestabile, non c’è più libertà, intelligenza e dignità umana. Non è l’Intelligenza Artificiale in sé il pericolo ma la disumanizzazione radicale che si attua anche tramite essa. Non è una preoccupazione stupida. E comunque meglio restare uno stupido umano, anziché un idiota servitore e collaborazionista del robot.

Qui la riflessione si va inevitabilmente filosofica. La scienza non è fede ma ricerca, non è una religione con i suoi dogmi e i suoi comandamenti ma va sottoposta al vaglio critico. Sapere è potere, diceva Bacone, e lo ripete da secoli tutto lo scientismo militante. E’ vero, ma ci sono anche altre due forme importanti di sapere: da una parte è il sapere di non sapere, ossia la consapevolezza che ci sono cose che non sappiamo e non possiamo sapere: è il “so di non sapere” di Socrate, la dotta ignoranza di Nicola Cusano.
Ma dall’altra parte c’è pure il sapere di non potere, ovvero la coscienza dei propri limiti; non tutto è possibile, bisogna avere il coraggio e l’umiltà di fermarsi, di mettere a freno la volontà di onnipotenza e saper commisurare vantaggi e danni per l’umanità e per il mondo. Invece vige la legge di Gabor in base alla quale ciò che si può fare, si deve fare, e comunque si farà. E se non lo faremo noi lo faranno gli altri. Questo determina un’espansione automatica, inarrestabile, dell’intelligenza artificiale. Che nessuno ha oggi la forza di frenare. Al massimo si fugge spaventati, come fanno i cervelli in fuga dal cervellone. Sveglia. E coraggio…




Moda e lavoro 10 anni dopo il crollo del Rana Plaza in Bangladesh

Moda e lavoro 10 anni dopo il crollo del Rana Plaza in Bangladesh

Sono oltre settemila le fabbriche di abbigliamento in Bangladesh, dopo la Cina il secondo Paese esportatore di prodotti di questo genere. Per un’economia povera in un territorio flagellato da una situazione idrogeologica tra le più sfavorevoli del pianeta si tratta di un segmento produttivo straordinariamente importante. A utilizzare questi opifici sono soprattutto i marchi del fast fashion, che raramente possiedono le fabbriche dei prodotti di cui necessitano le loro immense e voraci catene distributive. La quasi totalità della produzione di abbigliamento e calzature viene costruita dove la manodopera a buon mercato e una legislazione debole a proposito degli standard di sicurezza sul lavoro costituiscono un vantaggio straordinario per la produzione di oggetti di basso costo. Accade in Bangladesh, Pakistan, Vietnam e Cambogia. Dopo quanto accaduto dieci anni fa al Rana Plaza di Dhaka nessuno però ha potuto più ignorare il prezzo pagato laggiù per sostenere le proposte a getto continuo di capi di “tendenza” nelle vie dei centri urbani più ricchi del pianeta. Dieci anni dopo, le veglie commemorative dell’incidente si svolgono online e in tutto il mondo, comprese Dhaka, Londra e New York.

IL CROLLO DEL RANA PLAZA

La mattina del 24 aprile 2013, sono state più di 1100 le vittime del crollo dell’edificio di otto piani che ospitava cinque fabbriche di abbigliamento alla periferia di Dhaka. Il giorno prima del crollo nell’edificio si erano evidenziate crepe importanti, ma ai lavoratori era stato detto che si trattava di evidenze non rilevanti. Altri incidenti si erano peraltro già verificati in Bangladesh nel settore dell’abbigliamento, tra questi un incendio nella fabbrica di Tazreen nel novembre 2012, che causò 117 vittime.

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“Oltre cinquemila fabbriche di abbigliamento del Bangladesh non sono ancora soggette ad accordi o protezione

I NUOVI ACCORDI A TUTELA DEI LAVORATORI

Dopo il crollo di Rana Plaza molti marchi di moda hanno annunciato la creazione di accordi quinquennali per garantire la sicurezza dei lavoratori. Meno vincolante è l’Alleanza per la sicurezza dei lavoratori del Bangladesh, sottoscritto da marchi nordamericani come Walmart, Gap e Target. Più impegnativo l’accordo riguardante la sicurezza antincendio firmato a maggio 2013 tra proprietari di fabbriche, sindacati globali e marchi di abbigliamento europei come la spagnola Inditex (che significa Zara, Pull&Bear, Massimo Dutti, Bershka, Stradivarius, Oysho, Zara Home e Uterqüe), l’inglese Primark e la svedese H&M. L’accordo prevede da un lato protocolli che le aziende produttrici sono tenute a seguire. dall’altro l’impossibilità per i marchi di tagliare i rapporti con i fornitori non diligenti e quindi l’obbligo di sostenere azioni correttive. Dal 2013 a oggi ci sono state 56mila ispezioni in 2400 fabbriche e più di 140mila problemi sono stati corretti. Più di recente è arrivato anche l’Accordo internazionale, firmato nel 2021 ed esteso anche al Pakistan, con l’adesione di 45 marchi.

MODA E INCIDENTI SUL LAVORO

Progressi ce ne sono stati, dunque. Tuttavia aziende americane che pure si riforniscono in maniera massiccia in queste zone (tra queste Levi’s, Gap e Amazon) non hanno firmato alcun accordo nonostante ne abbiano tratto i benefici. Oltre cinquemila fabbriche di abbigliamento del Bangladesh non sono ancora soggette ad accordi o protezione e quindi l’esistenza di molti dei 40 milioni di lavoratori impegnati in questo settore nel sud est-asiatico rimane precaria. E infatti gli incidenti non sono scomparsi del tutto. Lo scorso aprile quattro vigili del fuoco sono rimasti uccisi e quasi una dozzina feriti durante un incendio divampato in una fabbrica di abbigliamento di Karachi in Pakistan.




Chi è il Chief Experience Officer (CXO) e come può aggiungere valore all’azienda

Lo racconta Pier Paolo Bucalo, coordinatore scientifico dell’Executive Programme in Customer & Employee Experience Management targato Luiss Business School

In questi mesi si parla molto di “great resignation” e di “quiet quitting”, ossia di dipendenti che lasciano spontaneamente le aziende o che di fatto perdono interesse per il proprio lavoro, riducendo il proprio impegno al minimo necessario. Secondo un’indagine Gallup del 2022, “State of the Global Workplace”, i dipendenti italiani sono i lavoratori più tristi d’Europa. Su 38 paesi analizzati, l’Italia è ultima con solamente il 4% di dipendenti soddisfatti del proprio posto di lavoro. Al tempo stesso, secondo uno studio effettuato da GlobalNR, anche i livelli di soddisfazione dei Clienti italiani sono i più bassi d’Europa.

«Senza una forza lavoro ingaggiata e motivata, è molto difficile tradurre esperienze individuali in Customer Journey soddisfacenti» spiega Pier Paolo Bucalo, Adjunct Professor, Luiss Business School e coordinatore scientifico dell’Executive Programme in Customer & Employee Experience Management.

A contribuire a risolvere tali criticità sono chiamati i Chief Experience Officer (CXO), figure al centro della prima edizione del programma. Obiettivo: creare una Human Experience che porti valore alle aziende.

Professor Bucalo, dopo quattro edizioni dell’Executive Programme in Customer Experience Management debutta un nuovo programma che include anche la Employee Experience. Perché?

Perché molti executive hanno nel tempo lamentato una poca sensibilità sul tema “experience” da parte delle proprie funzioni Risorse Umane. Ed un programma che abbia l’obiettivo di realizzare esperienze di valore per i Clienti non può ignorare il ruolo fondamentale che i dipendenti giocano nel merito.

Chi è il Customer & Employee Experience Manager?

Troppo spesso in azienda la misurazione della Customer Satisfaction è una responsabilità della Direzione Sales & Marketing, mentre la Employee Satisfaction viene gestita dalla Direzione People/HR. I limiti principali di tale approccio sono molteplici. In primo luogo, controllante e controllore coincidono, con rischio di bias sui risultati delle analisi. Poi, i dati che emergono non sempre vengono condivisi con l’intera organizzazione. Infine, si rischia di perdere le sinergie tra gestione dell’esperienza del cliente e del dipendente. Per ovviare a questa situazione nasce il ruolo del Chief Experience Officer (CXO), ruolo già presente in numerose aziende internazionali ma ancora assente in Italia. È appunto la figura che formiamo nel nostro percorso Executive. Si tratta del punto di sintesi tra Employee Experience Manager e Customer Experience Manager.

Di cosa si occupa il Chief Experience Officer?

Il CXO ha innanzitutto il compito di misurare i livelli di salute e di soddisfazione di Clienti e dipendenti. Risultati che deve poi condividere con l’intera organizzazione. Facilita e aumenta la conoscenza e la comprensione dei clienti tra i dipendenti, e fa lo stesso affinché i manager comprendano meglio i dipendenti e le loro esigenze. Supporta le direzioni HR e Marketing nel disegno e nell’implementazione di esperienze destinate a dipendenti e clienti. Inoltre, evidenzia e sviluppa sinergie tra Customer Experience ed Employee Experience. Infine, misura l’impatto della Customer Experience sui dipendenti e quello della Employee Experience sui Clienti, nonché l’impatto di entrambe sui KPI aziendali.

Quali sono le sue competenze?

Il CXO deve avere un mix di competenze “hard” (capacità di analisi in primis) e competenze “soft” (psicologia e empatia sono indispensabili). Queste ultime sono cruciali. Infatti, se si tratta di studiare e comprendere l’uomo “lavoratore dipendente”, le competenze sono (o dovrebbero essere) all’interno della funzione Risorse Umane (HR), che – in estrema sintesi – si sforza di comprendere cosa motivi e renda soddisfatto l’essere umano quando lavora, e ne consenta lo sviluppo professionale. In questo contesto vengono utilizzate parole come empowerment, fulfillment, purpose. Se invece si tratta di comprendere l’uomo “consumatore”, le competenze ricadono nella funzione Marketing (almeno quelle “teoriche”), che cerca di analizzare cosa motivi ed influenzi l’essere umano nel processo di analisi, scelta ed acquisto di un prodotto o un servizio. Se poi ci domandiamo chi, in azienda, conosca davvero, “in pratica”, il comportamento dell’essere umano “consumatore”, allora è probabile che si tratti della funzione Commerciale, la “front line” e gli agenti commerciali. Ma credo sia opportuno ricordare che l’essere umano è sempre lo stesso, ed è attratto da esperienze gratificanti, siano esse legate al posto di lavoro o quando si tratta di fare acquisti. Il CXO può rappresentare l’anello mancante per consentire alle aziende di condividere al proprio interno tutto il know-how e le competenze in materia psicologica, sociologica e comportamentale. Vi sono, infatti, profonde sinergie tra le competenze di cui un’azienda ha bisogno per diventare “best employer of choice” e le competenze necessarie affinché la stessa azienda sia in grado di offrire ai propri clienti una “superior customer experience”.

Customer experience, vecchie pratiche e nuovi trend: quali sono i principali cambiamenti legati a questo tema?

La multicanalità è realtà da molti anni, ma le aziende continuano a considerare i diversi mezzi come alternativi e non sinergici, gestendoli in modo separato. Sempre più spesso le esperienze dei clienti oscillano tra canali digitali e fisici, il cosiddetto “ROPO effect” (Research Offline, Purchase Online e viceversa). I clienti cercano sia online per poi comprare offline, sia viceversa. Per questo, qualsiasi canale venga scelto, l’utente deve poter vivere la stessa esperienza. Inoltre, l’azienda deve sapere ciò che il cliente ha fatto sugli altri canali. In più, non bisogna dimenticare di aggiungere empatia a qualsiasi canale. Il dipendente non empatico può fare danni su tutti i “touchpoint”: sia nel punto vendita fisico che al telefono o su via email o web-chat.

Un secondo trend da tenere in considerazione è quello legato all’innovazione.

In che modo l’innovazione incide sulla Customer & Employee Experience?

L’innovazione sta avendo ed avrà sempre di più un impatto enorme sulla rapidità e sulla qualità della raccolta dei dati. Prima i dati venivano raccolti attraverso focus group, i cui risultati venivano analizzati nel tempo per poi produrre risultati con mesi di ritardo. Oggi la tecnologia ci aiuta ad avere molte più informazioni in tempi molto più rapidi, sempre nel rispetto della privacy, non solamente sui canali online, ma anche sui canali fisici. Pensiamo ad esempio al riconoscimento facciale, che consente di avere in tempo reale un quadro sintetico delle emozioni dei clienti raccolte nei punti vendita. Credo sia davvero importante per un’azienda poter sapere se il proprio cliente è uscito dal punto vendita più o meno felice di quando vi è entrato.

Employee Experience e Customer Experience: in che modo si influenzano a vicenda?

Se l’azienda riesce ad aumentare il livello di soddisfazione e di coinvolgimento dei propri dipendenti, i risultati si vedranno su tutte le variabili critiche. I dipendenti soddisfatti hanno maggiore produttività, maggiore motivazione, minore assenteismo, ed offrono un migliore servizio quando interagiscono con i clienti, che avranno così un migliore Customer Journey.

Quali sono le leve per ottenere dipendenti più soddisfatti?

Come dimostrato dai prof. Teresa Amabile and Steven Kramer di Harvard Business School, la grande maggioranza dei manager non è in grado di comprendere ciò che davvero motiva i dipendenti. Secondo i manager il salario è la principale leva di motivazione dei dipendenti, mentre, sulla base di ricerche lunghe e ripetute nel tempo, le leve di motivazione sono più emotive che economiche. Il salario deve essere sufficiente a non rappresentare un problema. Sono però le emozioni positive a incrementare la motivazione: il desiderio di autonomia crescente, le opportunità di crescita, la voglia di contribuire e ricevere il riconoscimento per un lavoro ben fatto, la possibilità di trovare il purpose aziendale in tutto ciò che si fa.

Quali sono i trend più recenti di cui i manager devono tenere conto nel ridisegnare una Customer Experience in maniera innovativa?

Come ci ricorda Simon Sinek, People don’t buy what you do, they buy why you do it. I clienti non comprano ciò che un’azienda offre, ma sposano la ragione per la quale un’azienda fa ciò che fa. Secondo una ricerca Accenture, oltre a prezzo, qualità dei prodotti e dei servizi e customer experience, ciò che conta per i clienti sono trasparenza, attenzione nei confronti dei dipendenti, presenza di valori etici e la dimostrazione di autenticità e coerenza in tutto ciò che l’azienda fa. Secondo Larry Fink, CEO di BlackRock, purpose is the engine of long-term profitability (il purpose è il motore per una profittabilità di lungo periodo).

Inoltre, c’è un cambiamento tra gli obiettivi dell’azienda: non si deve più generare valore per i soli azionisti, ma per tutti gli stakeholder. Quindi per i clienti, per i dipendenti, per i fornitori, con cui bisogna rapportarsi in modo equo ed etico, per le comunità nelle quali le aziende devono generare valore.

Infine, consumatori e dipendenti sono sempre più sensibili alle tematiche ESG (Environmental, Social e corporate Governance). Per le nuove generazioni, l’obiettivo principale di un’azienda deve essere quello di migliorare la società.

Quali sono le soft skill che possono fare la differenza? Come verranno allenate in aula?

Principalmente l’empatia e la capacità di ascolto. All’interno del programma, gli studenti avranno l’opportunità di vestire i panni del mistery shopper, per giudicare la competenza tecnica, l’abilità, ma anche le soft skill degli addetti alla clientela nei diversi punti vendita.

Quali sono i fattori necessari per una trasformazione aziendale in un’ottica customer-centric?

Per realizzare una trasformazione customer centric c’è bisogno in primis del commitment del top management, a volte poco attento al “fattore umano”. Ci devono essere poi una comprensione e consapevolezza condivisa e diffusa dell’impatto della visione customer centric sull’organizzazione. Bisogna conoscere i propri clienti e i propri dipendenti, trasformando i dati che li riguardano in metriche e insight. Ci deve essere abilità nell’utilizzo di nuove tecnologie e si deve scegliere il corretto modello organizzativo, che consenta la responsabilizzazione dei dipendenti. Ultimo, ma non meno importante, bisogna ragionare sull’orizzonte temporale dei propri obiettivi.

In che modo?

Un dipendente soddisfatto resterebbe nella stessa azienda per 20 anni. Anche un cliente soddisfatto non sente alcuna necessità di cambiare azienda. Purtroppo, a volte è proprio il top management ad avere obiettivi ed incentivi di breve periodo, il che può impoverire l’organizzazione.

Per questo, quando parliamo di sostenibilità, non pensiamo solamente all’ambiente. Pensiamo piuttosto alla sostenibilità economica. I risultati di un’azienda sono sostenibili nel tempo solo se tali risultati sono generati da dipendenti soddisfatti e da clienti altrettanto soddisfatti.

Compito del CXO è tenere sotto controllo queste due variabili chiave, soddisfazione di clienti e dipendenti, le uniche che possono garantire all’azienda una lunga vita in salute.