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Innovazione nel rispetto della nostra cultura: come valorizzare l’industria italiana secondo Giordano Riello, fondatore di NPlus

Innovazione nel rispetto della nostra cultura: come valorizzare l’industria italiana secondo Giordano Riello, fondatore di NPlus

La Lombardia, il Veneto e l’Emilia Romagna figurano tra le prime dieci regioni in Europa per livello di valore aggiunto industriale. Secondo i dati Istat, aggiornati al 2021, la Lombardia è in testa a questa classifica, davanti alle due regioni tedesche di Stoccarda e dell’Oberbayern, con il Veneto al sesto e l’Emilia-Romagna all’ottavo posto. E pensare che il triangolo industriale italiano mantiene queste posizioni praticamente dal 2015 e continua, anno dopo anno, a confermare il notevole cambio di passo di un settore che negli ultimi anni è cresciuto molto di più della media europea.

“L’Italia è un Paese a vocazione manifatturiera”, afferma Giordano Riello. Un classe ’89 che ha mosso i primi passi nell’azienda di famiglia tra torni, presse e trapani verticali. Un ragazzo che crede fermamente nel valore del made in Italy, della manifattura e che si ‘sporca le mani’ quotidianamente nella fase produttiva delle sue imprese.

I primi passi nella Aermec, l’azienda di famiglia

Tra queste Aermec, fondata nel 1961 in Veneto e parte integrante della Giordano Riello International Group, gruppo diversificato di aziende con un fatturato aggregato di più di mezzo miliardo di euro, duemila collaboratori e otto stabilimenti produttivi. Aermec è la più grande del gruppo, con 800 collaboratori e 320 milioni di fatturato: “Tutto nacque a inizio ‘900 con la Riello, azienda che produceva caldaie. Negli anni ’60 mio nonno, per far fronte alla stagionalità di cui soffre questo tipo di prodotto, in seguito a un viaggio negli Stati Uniti iniziò a importare l’aria condizionata in Europa. Oggi la Riello Condizionatori, diventata Aermec, è leader europea della climatizzazione dell’aria”.

Oltre al nome, Giordano ha ereditato dal nonno il fiuto imprenditoriale e la passione per la fabbrica: “Durante i periodi estivi mi portava con sé in attrezzeria e mentre lavorava mi affidava dei compiti. Un giorno mi mise in mano la lima e un pezzo di ferro: avrei dovuto restituirgli a fine stagione estiva un cubo perfetto. Tutt’altro che semplice per un bambino”. E se oggi Riello è dirigente commerciale di questa azienda, non è soltanto per meriti ereditari: “Si entra nel gruppo soltanto se si fonda un’impresa manifatturiera sul territorio italiano con i capitali del mercato. Se l’azienda genera utili, si ha il permesso di entrare nell’azienda madre con ruoli operativi”.

La fondazione di NPlus nel 2016 e l’ingresso nella Riello

Un’ottima strategia per assicurare il ricambio generazionale. Un po’ per legittimare il suo ingresso nella Aermec, un po’ per un richiamo naturale verso il mondo dell’imprenditoria, Giordano fonda nel 2016 NPlus, società specializzata in progettazione e produzione di elettronica, attiva nel campo del monitoraggio strutturale di edifici, ponti e viadotti. Tra le aziende tecnologiche più avanzate del settore, ha chiuso il 2022 con 5,8 milioni di euro di fatturato e rappresenta un punto di riferimento a livello europeo.

“Con i nostri hardware andiamo a effettuare il cosiddetto structural health monitoring delle infrastrutture italiane, informando i gestori sullo stato di degrado e individuando eventuali criticità”, afferma il fondatore, che tra le referenze più importanti vanta le colonne del Duomo di Milano, sulla cui cima la Madonnina protegge la città. Un asset strategico invidiabile, all’interno di un settore in cui il crollo del Ponte Morandi ha acceso improvvisamente i riflettori: “Le opere in calcestruzzo compresso hanno una vita di circa 70 anni e sono state realizzate quasi tutte nel dopo guerra, intorno agli anni ’60: dunque è necessario verificare il loro stato di salute in questo momento”. E soprattutto orientare sapientemente le opere di manutenzione: “Non tutte le infrastrutture ne hanno bisogno in egual misura: i nostri monitoraggi permettono di indirizzare al meglio i controlli, ottimizzando al massimo le spese”.

In NPlus innovazione e rispetto della nostra cultura: “Basta scimmiottare la Silicon Valley”

Se non dovesse bastare il crollo del Ponte Morandi, a certificare l’importanza della manutenzione delle infrastrutture c’è il tema della viabilità: bloccare un’arteria di comunicazione tra Nord e Sud del Paese significa bloccare il Pil. “La politica deve porre attenzione a questo aspetto”. NPlus, dal lato suo, sta impiegando ogni mezzo a sua disposizione: le collaborazioni aperte con tre università e lo spirito giovane che si respira nel reparto ricerca & sviluppo – ci sono tre dottorati di ricerca e una prevalenza femminile nell’organico – testimoniano il suo impegno: “Stiamo sviluppando algoritmi di analisi dei dati e sistemi di autoapprendimento. Il machine learning e l’intelligenza artificiale sono due asset su cui stiamo spingendo molto, ma è anche e soprattutto l’atmosfera che si respira in fabbrica a fare la differenza”.

Con un matrimonio, due figli e una bambina in arrivo, Giordano Riello crede fermamente nei valori della famiglia, “la startup più bella che abbia mai fondato”. Crede nell’importanza di estenderli all’interno dell’azienda. E spera che il nostro Paese possa investire di più nel settore manifatturiero e nei giovani. “Non dobbiamo scimmiottare il modello d’impresa della Silicon Valley. Non che sia sbagliato, ma non rispecchia la nostra cultura. Dobbiamo reinterpretare quella che è la nostra storia in chiave moderna e dare sostegno alle imprese costituite dai giovani, che rappresentano il futuro della nostra industria, semplificando il quadro normativo esistente e introducendo nuovi incentivi fiscali”.

L’importanza di difendere il made in Italy nel mondo

Sempre per valorizzare e difendere il nostro più grande tesoro: il made in Italy. Un patrimonio che, se fino a qualche anno fa ci
permetteva di dormire sonni tranquilli, oggi è minacciato da una competizione più aggressiva. Il made in China, la manifattura tedesca e quella francese stanno crescendo in qualità e la bellezza del prodotto italiano non è più un fatto da dare per scontato. Riello difende le proprie origini all’estero non soltanto attraverso l’attività imprenditoriale, ma anche grazie alla sua esperienza passata in Confindustria Giovani e a quella attuale come vicepresidente di Confindustria Ungheria: “Ho conosciuto Budapest quando mio padre ha fondato la Rpm Hungaria, azienda che produce motori elettrici per il condizionamento”, afferma Giordano.

“L’Ungheria è un territorio molto importante a livello logistico: è vicino all’Italia, i costi sono inferiori ed è una porta verso l’Oriente. Ci sono molte pmi e la manodopera è qualificata: mi auguro che gli scambi commerciali con l’Italia possano prosperare”. Tutto questo dipenderà anche dalle politiche che verrano messe in atto dal nostro Paese, dalla sua capacità di rimanere competitivo, di garantire l’alto tasso di innovazione che gli ha permesso di rappresentare il traino dell’industria europea dal 2015 a oggi, di generare politiche di attrazione di talenti, di incentivare l’imprenditoria femminile e di continuare a seguire la propria vocazione: quella di un Paese manifatturiero, che ha costruito sulla manifattura le sue fortune. Giordano Riello, nel suo piccolo, lo sta facendo.




Le Culture del XXI Secolo

Le Culture del XXI Secolo

Superare il concetto di “digitalizzazione”

Una delle grandi sfide del XXI secolo sarà far convivere le complesse, stratificate, millenarie radici che abbiamo ereditato con le nuove ali in grado di far volare la matassa culturale ed artistica.

Superata, non senza qualche fatica, la dialettica tra fisico vs digitale, il dialogo si è focalizzato sul ruolo del digitale nella nostra quotidianità. L’approccio che ha prevalso è quello sintetizzabile come digitalizzazione. Termine diventato d’uso comune che nasconde una visione pienamente novecentesca nell’accettazione ed integrazione di nuovi linguaggi ed una propensione puramente tecnologica a scapito della matrice artistica e creativa.

Come suggerisce lo stesso vocabolo, digitalizzazione significa partire da un patrimonio fisico pre-esistente per convertirlo in un nuovo contenitore digitale. In questo è già ravvisabile l’idea del digitale come estensione del fisico e non come spazio di produzione indipendente, ma ci torneremo.

Archivi, quadri, statue, opere teatrali, edifici, spazi urbani, concerti vengono travasati nei “nuovi” mondi e diventano virtual tour, passeggiate dei direttori via Youtube, streaming di performance, archivi digitali. Questa ossessione per la de-materializzazione acquisisce valenza strategica se intesa come punto di partenza per future rielaborazioni altrimenti rischia di configurare un depauperamento dell’originale.

In fondo è impossibile chiedere molto ad un atto meramente tecnologico in cui non interviene alcuna nuova forma, o rielaborazione, creativa ed artistica.

Se si escludono le ragioni di ricerca e accessibilità, chi visiterà i numerosi database di beni culturali digitalizzati su cui sono già stati investiti centinaia di milioni di euro? Chi visiterà mai una città in modalità virtual tour quando può recarvisi fisicamente? Chi preferirà assistere in streaming alla Cavalleria Rusticana quando vi è la possibilità di esserne parte in un teatro?

Porto un esempio a esemplificazione di questa visione.

Dopo un iniziale successo commerciale accompagnato da numerosi articoli che lasciavano presagire la morte del libro cartaceo, il Kindle ha progressivamente visto calare i propri dati di vendita. A distanza di vent’anni dalla digitalizzazione avviata da Amazon ed altri player tecnologici, non solo il libro cartaceo non è morto ma sembra essere più vivo che mai. Se sono innegabili alcuni benefici legati al trasferimento tecnologico come la possibilità di ingrandire il carattere di lettura, immagazzinare grandi quantità di libri in soli cento grammi di scatola tecnologica o impostare ricerche velocemente tra migliaia di libri, questa esperienza di digitalizzazione non ha minimamente alterato i tre grandi pilastri di ogni esperienza culturale:

  • PRODUZIONE: la modalità con la quale si concepiscono e scrivono i libri non è cambiata nel passaggio dal libro fisico al lettore digitale.
  • CIRCUITAZIONE: Il modello economico e distributivo non è sostanzialmente cambiato. Il libro si acquista e la filiera distributiva è rimasta pressoché identica con Amazon che si sostituisce alle librerie.
  • FRUIZIONE: Il modo in cui si legge un libro digitale è identico ad uno cartaceo, da pagina 1 a pagina 100 e da sinistra e destra (almeno in Occidente).

Digitale Nativo: verso nuovi contenuti

La digitalizzazione non solo non innova il modello pre-esistente ma spesso perde alcune delle caratteristiche intrinseche. Nel caso del libro perde l’odore delle pagine, la tattilità dello sfogliare il materiale cartaceo ed anche i processi di sottolineatura e prendere appunti rendono meno coinvolgente la nuova esperienza.

La risposta alla digitalizzazione è quella che amo chiamare Digitale Nativo. Un nuovo contenuto è pensato appositamente per un nuovo contenitore. Un’operazione in cui la componente tecnologica è sempre sussidiaria a quella creativa e culturale (al contrario di quanto accade nella digitalizzazione). Il contenuto può essere di totale nuova immaginazione o attingere a dei linguaggi e contenuti precedenti per ri-mediarli nella nuova esperienza.

Rimanendo nell’esempio connesso al libro, potrebbe essere l’evoluzione portata avanti da piattaforme come WATTPAD in cui si prova a disarticolare completamente il modello tradizionale. La comunità di centinaia di milioni di lettori e scrittori, largamente under 20, presenta una inedita modalità di scrittura. L’autore, che in un’epoca di digitale nativo ha più senso definirlo attivatore, scrive su una piattaforma che consente al lettore di leggere in tempo reale man mano che le righe, le pagine ed i capitoli prendono forma. La comunità può inserire suggerimenti, indirizzare la storia così come i personaggi ed i dialoghi. Nascono addirittura amicizie e dialoghi tra i follower di quell’opera work in progress, una vera e propria comunità di pratica che si coalizza intorno ad un contenuto non ancora cristalizzatosi.

I metaluoghi saranno processo ancora prima che prodotto. Paradossalmente saremo davanti a quello che definisco “opere nell’era della irriproducibilità tecnica” con le tecnologie native digitali in grado di invertire l’assunto del 1936 elaborato da Walter Benjamin. Se le tecnologie, e nel nostro bipolarismo la digitalizzazione, hanno favorito la riproducibilità tecnica potenzialmente infinita di un’opera d’arte, oggi i processi generativi la rendono mai finita e quindi irriproducibile (se non in un caleidoscopio di varianti). È quello che accade nelle installazioni di collettivi composti da centinaia di artisti come il giapponese Teamlab, è ciò che accade nei dialoghi con le intelligenze artificiali o ancora in quei videogiochi che offrono possibilità generatrici ai giocatori come Minecraft o Roblox.

Da attrattore ad attivatore

Un luogo culturale che porta avanti pratiche di digitalizzazione continua in una visione da Attrattore Culturale. Il luogo ambisce ad attrarre, fisicamente fino a pochi anni fa e digitalmente più recentemente, visitatori nei propri spazi, tempi e modalità. In sintesi sono le persone a dover fare uno sforzo di avvicinamento verso quel contenuto culturale. È questa la strada per essere rilevanti, memorabili e coinvolgenti nella vita di 8 miliardi di persone?

Lavorare sul digitale nativo per traslazione significa, invece, sperimentare approcci da Attivatore Culturale.

È un superamento dell’idea di attrattore da intendersi come un bene, materiale o immateriale, che avoca una centralità verso cui i pubblici dovranno convergere nei tempi e negli spazi indicati. È così per un museo, che tende a voler diventare un attrattore generando processi di gentrificazione culturale. L’attivatore invece trasporta il proprio contenuto nei tempi e nei luoghi dei pubblici e si avvale, necessariamente, di differenti linguaggi e della creazione e co-creazione dei pubblici che diventano soggetti attivi della circuitazione.

Le politiche tradizionali di tutela dell’immagine rientrano nella sfera dell’attrattore quasi in antitesi con istanze di accesso, rimodulazione e libero riutilizzo, anche commerciale, portate avanti spontaneamente nella rete o da istituzioni come Rjijksmuseum di Amsterdam che sono incasellabili nell’attivazione culturale. È un cambio epocale: da secoli siamo abituati ad un modello economico fortemente connesso alla proprietà intellettuale e diritto d’autore, al pagare per accedere a quell’atto creativo molto autoriale. Per quasi tutta la storia dell’uomo parole come diritto d’autore, proprietà intellettuale, copyright non sono esistite: questo sistema di tutela inizia a nascere a seguito della rivoluzione tecnologica della stampa a caratteri mobili e bisognerà attendere il 1700 per vedere emanati i primi corpus legislativi sulla tutela. Nelle società pre-alfabetiche così come nell’Antica Grecia o ancora nel Medioevo rielaborare creazioni altrui non solo era la norma ma anche parte integrante dei processi artistici e di diffusione e valorizzazione di quel contenuto. Ciò che è accaduto esclusivamente negli ultimi 500 anni entrerà a breve in una profonda crisi, perché ogni grande cambiamento tecnologico porta ad una distruzione e ricostruzione dei rapporti sociali, identitari ma anche economici.

Un nuovo modello di creazione del valore

L’ancoraggio a vecchi paradigmi, si pensi alle recenti sentenze sull’utilizzo dell’Uomo Vitruviano o al mercato degli NFT che provano ad attribuire chiuse proprietà in un’epoca di mura aperte, certifica la crasi in atto tra i vecchi sistemi novecenteschi o di digitalizzazione, ed i nuovi modelli di creazione collettiva e connettiva della pratica artistica.

Oggi il vero valore dei beni materiali ed immateriali è generato dalla ripetizione dell’esposizione a quel contenuto e la facilità con la quale, tecnicamente e legislativamente, potrà essere ripreso, rielaborato e re-immesso nella rete.  È ciò che ha dimostrato pioneristicamente il Rjiksmuseum che, oltre una dozzina di anni fa, ha non solo digitalizzato e reso accessibili le proprie collezioni ma ha anche attribuito loro il libero utilizzo anche commerciale. A fronte di una immediata perdita di revenue generate dalla cessione dei diritti, si è assicurata nel medio-lungo periodo un aumento dei visitatori paganti, nuovi e diversificati incassi da bookshop, un aumento del valore delle proprie collezioni, un più ampio pubblico internazionale esposto ai contenuti e messaggi dell’istituzione etc etc. La continua circuitazione delle opere, la rielaborazione creativa da parte di creativi digitali e di aziende tradizionali (opere sui packaging del latte, texture a tema Van Gogh etc etc) ha aumentato il valore dell’originale ed aperto la strada a nuovi ed inediti modelli economici.

Il superamento dell’attuale diritto d’autore è un fattore fondante per il passaggio dalla digitalizzazione al digitale nativo. Per tutelare una percentuale infinitesimale di contenuti blockbuster (si pensi alle estensioni ad personam di cui gode la Disney), si condanna alla irrilevanza il 99% del patrimonio creativo mondiale. Come potrebbero diventare centrali archivi come le Teche Rai o Alinari se provassero a cambiare il proprio approccio verso ciò che conservano. Un immenso serbatoio creativo sostanzialmente inaccessibile per via delle restrizioni economiche e procedurali, che invece potrebbe generare nuove economie laddove libero di sprigionare le proprie ali grazie alle riprese di makers analogici e digitali.

Il modello economico potrebbe essere non più legato alla contrattazione individuale per accedere a quel contenuto ma, ad esempio, ad una percentuale legata all’eventuale successo di quella rielaborazione. O ancora come accaduto in ambito musicale, la distruzione del modello tradizionale basato sulla vendita degli album è stato compensato da incassi aumentati legati al concerto (più circola quella canzone liberamente maggiore sarà l’esposizione dell’artista), al boom del merchandising ed a nuove forme di interazione economica diretta tra artista e fan.

Quello che a prima vista potrebbe apparire come un depauperamento dell’opera in realtà conferisce una maggiore aura ed eternità. La riappropriazione creativa e popolare della matassa culturale di partenza ha consentito ai poemi omerici, alla Bibbia, alla Divina Commedia, alla fotografia Tank Man di Widener o ancora a Peter Pan di sopravvivere nei millenni o secoli. Cosa sarebbe accaduto se la Divina Commedia fosse stata congelata dal diritto d’autore? Avremmo perso la recitazione intorno al focolare dei contadini toscani, non sarebbero nate opere d’arte figurative come la Porta dell’Inferno di Rodin, Dorè non avrebbe potuto creare le iconiche incisioni e non sarebbero nati videogiochi come Dante’s Inferno. Questa continua ripresa ha contribuito a rendere ancora più classica l’opera e progressivamente attualizzarla in contesti cronologici successivi. Oggi la ripetizione dell’esposizione, la velocità con la quale circola e la facilità con la quale può essere rielaborata, forma il perimetro di una immagine. Tanto più è libera di viaggiare, anche a costo di essere interpretata in modo diametralmente opposto rispetto al pensiero dell’attivatore (Peter Pan che diventa addirittura una sindrome trattata in psicologia) maggiore sarà l’insorgenza di processi di spettattorialità.

Spettatore – spettATTORE – spettAUTORE

Una pre-condizione dei contenuti interattivi è la loro ripresa, mix, alterazione, condivisione e riappropriazione. Lo spettatore diventa spettATTORE attraverso un protagonismo a diversi gradienti che, pur mantenendo spesso chiara la matrice originaria del contenuto, consente al suo interno forme di protagonismo e partecipazione.

Al ruolo dello spettATTORE, negli anni recenti, sta subentrando lo spettAUTORE. Da intendersi come coloro i quali non si limitano ad agire all’interno di una cornice di movimento più o meno rigida ma creano e co-creano nuovi contenuti. Talvolta generati ex novo, in altri casi partendo da un contenuto/linguaggio pre-esistente, questa nuova generazione di creatori rompe definitivamente gli schemi del passato contribuendo ad un radicale passaggio dal focus sul “prodotto” finale a quello sul “processo”. Sintetizzando e semplificando si potrebbe affermare che il processo ha una attivazione iniziale e mai una fine, l’opera è in costante divenire e chi la maneggerà come spettatore la vivrà sempre in uno stadio intermedio. L’immagine interattiva come segno espressivo della società del XXI secolo con tutte le sue contraddizioni dettate dall’istantaneità, velocità, precarietà, desiderio di protagonismo e partecipazione.

Il futuro è un rapporto osmotico tra le competenze

Ho volutamente evitato di soffermarmi sulle singole tecnologie oggi in voga: realtà virtuale, realtà mixata, realtà aumentata, intelligenza artificiale, blockchain, metaverso perché da sole non fanno altro che creare nuove verticalità e spostare i perimetri dallo spazio materiale al nuovo spazio immateriale. Il futuro è nelle mani di quelle istituzioni che sapranno coniugare al proprio interno competenze umanistiche e scientifiche, un rapporto osmotico necessario a guidare la complessità del XXI secolo. Da questo dialogo nasceranno le risposte sulle nuove concezioni di spazio e tempo, il ruolo dello spettatore, i nuovi modelli economici legati alla produzione e circuitazione dei contenuti.

Anche perché, può sembrare paradossale, più si andrà avanti più conoscenze che sembravano ormai desuete acquisiranno nuova centralità. Per far funzionare le intelligenze artificiali come MidJourney e ChatGPT ritorna centrale la conoscenza linguistica ed il bagaglio lessicale unito all’immaginazione. Come potremo generare contenuti di qualità se non saremo in grado di fornire comandi (prompt) estremamente immaginifici, creativi e variegati?

ABSTRACT

Every profound technological change is matched by an ‘initial phase of rejection, followed by a superficial co-optation in which innovation is ancillary to the pre-existing model, and then leading to a traumatic disarticulation of what was there before in favor of what will be there in the future. Ideally, closing the cycle is the moment of re-mediation, in which the past and the present are sublimated, giving rise to social transformation. How will change the ways in which content is produced, circulated, and enjoyed in an era of “native digital” outpacing the current “digitization” paradigm? What will the audience’s role be in a society where space and time cancel out? How will copyright be overcome in an age when many of the new productions are collective and connective and therefore no longer crystallizable?




Medicina: dalla chemioterapia al parto, come funziona la realtà virtuale contro il dolore

Medicina: dalla chemioterapia al parto, come funziona la realtà virtuale contro il dolore

Creare mondi virtuali per ridurre il dolore cronico. Questo nuovo e suggestivo scenario potrebbe rivoluzionare la medicina, sempre alla ricerca di cure aggiuntive e più efficaci di quelle tradizionali. Tanto che la Fda, la Food and Drug Administration, l’agenzia statunitense che regolamenta i farmaci, a maggio 2022 ha autorizzato il primo trattamento per il dolore basato sulla realtà virtuale (VR) contro la lombalgia. Una vera e propria “terapia della distrazione”, come l’ha definita Antonio Giordano, oncologo, direttore dell’istituto Sbarro di Filadelfia e professore all’Università di Siena.

Come funzionano i visori e la loro utilità in ambito medico

Gli aspetti positivi di questa terapia sono molteplici: il visore regolarizza la respirazione e favorisce sensazioni di benessere utili a tenere a bada ansia, paura e depressione, così da facilitare la riabilitazione dopo un ictus o altre patologie, a gestire le contrazioni del parto o lo stress causato da chemioterapia e terapie dolorose. Secondo lo studio SnowWorld, il primo di questo genere e risalente a fine anni Novanta, i benefici di questa terapia sono paragonabili a quelli che danno gli oppioidi per via endovenosa, portando così una diminuzione dell’attività neuronale nelle zone collegate al dolore. Per Giordano, la VR può essere considerata un ottimo alleato dei farmaci: “Certamente non la si può considerare un suo sostituto, ma sicuramente un elemento utile che funziona in sinergia con loro. Trovandoci nell’era della terapia personalizzata, bisogna individuare la cura giusta per la singola persona e in molti piani sono previsti regimi combinatoriali”.

I progetti in Italia: “the patient dream” a Roma e i trattamenti di bulimia a Verona

“L’utilizzo della VR permettere di ridurre i livelli di stress e rendere più “piacevole” il tempo trascorso all’interno della struttura ospedaliera. L’idea è quella di creare una sorta di sollievo dalla realtà, senza la necessità di ricorrere ad altre terapie o prescrizioni mediche”, afferma Giordano, che ormai da molti anni sostiene l’introduzione dei visori durante le infusioni anti-cancro. Nel 2015, una ricerca all’ospedale Giovanni Pascale di Napoli, coordinato da un team di medici tra cui lo stesso Giordano, ha dimostrato che durante la chemioterapia la realtà virtuale abbassa il rischio di nausea, reazioni avverse e quindi di discontinuità nelle sedute, da risultare persino superiori a quelli ottenuti con la musicoterapia.

Altre iniziative sono state realizzate in Lombardia, Puglia e Lazio, dove ha destato grande interesse, nel 2019, il progetto dell’ospedale Regina Elena di Roma ‘The patient dream’, che ha permesso a donne sotto chemioterapia di utilizzare i visori per estraniarsi dalla realtà e ridurre così angoscia e stress in corso di terapia.

“Alcuni istituti ospedalieri italiani stanno implementando la VR nei loro protocolli di cura”, afferma Giordano. I visori si sono rivelati importanti anche nelle cure odontoiatriche e per la diagnosi e il trattamento dei disturbi psichiatrici, soprattutto di tipo ansioso e nel comportamento alimentare. Bulimia e anoressia sono stati così affrontati fino all’emergenza pandemica nella clinica veronese Villa Santa Chiara.

Lo studio di Giordano: chi usa la VR è meno ansioso

Nel gennaio 2020 Antonio Giordano pubblicò uno studio sulla rivista scientifica ‘Journal of Cellular Physiology’, mostrando l’efficacia dell’utilizzo della realtà virtuale durante i trattamenti chemioterapici. A 94 donne sottoposte a chemioterapia sono stati effettuati dei test per misurare con precisione lo stress e l’umore prima e dopo il trattamento.

Durante la chemioterapia, queste sono state divise in tre gruppi: il primo ha indossato un visore di realtà virtuale, il secondo ha ascoltato della musica, mentre il terzo non ha ricevuto alcun trattamento di supporto. I risultati hanno mostrato che il gruppo che ha fruito della VR ha potuto beneficiare della terapia con un abbassamento sostanziale dei livelli di ansia, mentre nel gruppo di donne senza visore e musica come supporto l’ansia non è diminuita e l’umore in alcuni casi è peggiorato dopo la chemioterapia.

Giordano: “La risposta dei pazienti è positiva, ma c’è ancora molta strada da fare”

“Il nostro studio ha evidenziato l’innovatività di questa tecnologia e le sue potenziali applicazioni nell’ambito della riabilitazione oncologica e la telemedicina – afferma Giordano – Credo però che ci siaancora molto da fare”.Poi conclude: “Grande sfida sarà comprendere il processo biomolecolare o neurologico che comporta l’efficacia della VR”. Per il momento la risposta dei pazienti è positiva e in molti accettano di buon grado il trattamento: “Ovviamente è soggettiva come cosa, dipende dalla componente caratteriale del paziente e dal tipo di patologia che deve affrontare, ma tendenzialmente i pazienti oncologici sono sempre disponibili nello sperimentare nuove cure”. Una conferma che la cura sarà anche virtuale, ma i suoi effetti sono molto concreti.




Disney Shuts Down Metaverse Unit as Part of First Wave of Layoffs

Disney Shuts Down Metaverse Unit as Part of First Wave of Layoffs

As part of a companywide cost-cutting effortDisney has axed its cross-divisional Next Generation Storytelling & Consumer Experiences group, which encompassed the Mouse House’s metaverse ambitions.

The elimination of Disney’s Next Generation Storytelling & Consumer Experiences group, led by company veteran Mike White, affects about 50 employees, Variety confirmed. The news was first reported by the Wall Street Journal. A Disney rep declined to comment.

The shutdown of Disney’s metaverse group came Monday with the first wave of the company’s move to slash 7,000 jobs under interim CEO Bob Iger, which is part of its attempt to reduce $5.5 billion in costs. Following this week’s layoffs, there will be a larger second round of cuts next month, Iger told employees in a memo Monday. A final round of layoffs will hit “before the beginning of summer,” according to Iger.

In early 2022, then-CEO Bob Chapek appointed White to a new role coordinating the company’s metaverse efforts. As senior VP of the division, White, who has worked at Disney for more than a decade, was tasked with developing company initiatives that combined “physical and digital worlds,” Chapek wrote in a memo to staff at the time. Disney also had hired Mark Bozon, a top Apple gaming executive, as a senior creative leader for the Next Generation Storytelling & Consumer Experiences team.

Under Chapek, who was abruptly fired in November 2022 by Disney’s board and replaced with former CEO Iger, the company had been developing a cross-divisional membership program that was envisioned as bringing together perks and exclusive offers from across theme parks, cruises, Disney+, retail outlets and other touch points. Disney also has scrapped that project under Iger’s restructuring.

White is expected to remain at Disney but the status of other members of the company’s metaverse unit is unclear. In addition to serving as SVP of Next Generation Storytelling & Consumer Experiences, White has been in charge of Disney’s consumer digital products team, overseeing the technology strategy, engineering and product teams charged developing digital experiences across brands including ABC, ABC News, Disney, ESPN, FX, Marvel, National Geographic and Star Wars. After joining Disney in 2011, White previously led technology organizations at Disney Parks Experiences and Products, Disney Consumer Products and Interactive Media, and Disney Interactive.

In one of his first moves in returning as CEO, Iger dismantled the former Disney Media & Entertainment Distribution (DMED) division, led by Kareem Daniel. White had dual-reported to Daniel and Josh D’Amaro, chairman of Disney Parks, Experiences and Products.




Big tech companies cut AI ethics staff, raising safety concerns

Big tech companies cut AI ethics staff, raising safety concerns

Microsoft, Amazon and Google among those to cut ‘responsible AI’ teams as part of broader reductions

Big tech companies have been slashing staff from teams dedicated to evaluating ethical issues around deploying artificial intelligence, leading to concerns about the safety of the new technology as it becomes widely adopted across consumer products.

Microsoft, Meta, Google, Amazon and Twitter are among the companies that have cut members of their “responsible AI teams”, who advise on the safety of consumer products that use artificial intelligence.

The numbers of staff affected remain in the dozens and represent a small fraction of the tens of thousands of tech workers whose jobs were cut by companies in response to a broader industry downturn.

The companies said they remained dedicated to rolling out safe AI products. But experts said the cuts were worrying, as potential abuses of the technology were being discovered just as millions of people began to experiment with AI tools.

Their concern has grown following the success of the ChatGPT chatbot launched by Microsoft-backed OpenAI, which led other tech groups to release rivals such as Google’s Bard and Anthropic’s Claude.

“It is shocking how many members of responsible AI are being let go at a time when arguably, you need more of those teams than ever,” said Andrew Strait, former ethics and policy researcher at Alphabet-owned DeepMind and associate director at research organisation Ada Lovelace Institute.

Microsoft disbanded all of its ethics and society team in January, which led the company’s initial work in the area. The tech giant said the cuts amounted to fewer than 10 roles and that Microsoft still had hundreds of people working in its office of responsible AI.

“We have significantly grown our responsible AI efforts and have worked hard to institutionalise them across the company,” said Natasha Crampton, Microsoft’s chief responsible AI officer.

Twitter has slashed more than half of its headcount under its new billionaire owner Elon Musk, including its small ethical AI team. Its past work included fixing a bias in the Twitter algorithm, which appeared to favour white faces when choosing how to crop images on the social network. Twitter did not respond to a request for comment.

Twitch, the Amazon-owned streaming platform, cut its ethical AI team last week, making all teams working on AI products accountable for issues related to bias, according to a person familiar with the move. Twitch declined to comment.

In September, Meta dissolved its responsible innovation team of about 20 engineers and ethicists tasked with evaluating civil rights and ethics on Instagram and Facebook. Meta did not respond to a request for comment.

“Responsible AI teams are among the only internal bastions that Big Tech have to make sure that people and communities impacted by AI systems are in the minds of the engineers who build them,” said Josh Simons, former Facebook AI ethics researcher and author of Algorithms for the People.

“The speed with which they are being abolished leaves Big Tech’s algorithms at the mercy of advertising imperatives, undermining the wellbeing of kids, vulnerable people and our democracy.”

Another concern is that large language models, which underlie chatbots such as ChatGPT, are known to “hallucinate” — make false statements as if they were facts — and can be used for nefarious purposes such as spreading disinformation and cheating in exams.

“What we are beginning to see is that we can’t fully anticipate all of the things that are going to happen with these new technologies, and it is crucial that we pay some attention to them,” said Michael Luck, director of King’s College London’s Institute for Artificial Intelligence.

The role of internal AI ethics teams has come under scrutiny as there is debate about whether any human intervention into algorithms should be more transparent with input from the public and regulators.

In 2020, the Meta-owned photo app Instagram set up a team to address “algorithmic justice” on its platform. The “IG Equity” team was formed after the police murder of George Floyd and a desire to make adjustments to Instagram’s algorithm to boost discussions of race and highlight profiles of marginalised people.

Simons said: “They are able to intervene and change those systems and biases [and] explore technological interventions that will advance equity… but engineers should not be deciding how society is shaped.”

Some employees tasked with ethical AI oversight at Google have also been laid off as part of broader cuts at Alphabet of more than 12,000 staff, according to a person close to the company.

Google would not specify how many roles had been cut but that responsible AI remains a “top priority at the company, and we are continuing to invest in those teams”.

The tension between the development of AI technologies within companies and their impact and safety has previously emerged at Google. Two AI ethics research leaders, Timnit Gebru and Margaret Mitchell, exited in 2020 and 2021, respectively, after a highly publicised row with the company.

“It is problematic when responsible AI practices are deprioritised for competition or for a push to market,” said Strait from the Ada Lovelace Institute. “And unfortunately, what I am seeing now is that is exactly what’s happening.”