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IL DIBATTITO SULL’AI

IL DIBATTITO SULL’AI

Microsoft ha annunciato che nei prossimi mesi integrerà Copilot, il suo assistente AI, in Windows 11. Sarà quindi possibile, fra le altre cose, chiedere all’assistente di “regolare le impostazioni” o di eseguire altre azioni su un computer (The Verge).
“Stiamo introducendo Windows Copilot, rendendo Windows 11 la prima piattaforma per computer ad annunciare un’assistenza AI centralizzata per aiutare le persone a intervenire facilmente e a realizzare le cose”, scrive Microsoft nel suo blog.

In un diverso post, sempre Microsoft spiega il concetto di Copilot (copilota). “Un Copilot è un’applicazione che utilizza la moderna AI e modelli linguistici di grandi dimensioni (LLM) come GPT-4 per assistere le persone in compiti complessi. Microsoft ha introdotto per la prima volta il concetto di Copilot quasi due anni fa con GitHub Copilot, un strumento AI di programmazione che assiste gli sviluppatori nella scrittura del codice, e continuiamo a rilasciare dei Copilot in molte delle attività principali dell’azienda. Riteniamo che il Copilot rappresenti un nuovo paradigma nel software alimentato dall’intelligenza artificiale e un profondo cambiamento nel modo in cui lo stesso software viene sviluppato”.

Sul concetto di Copilot torna anche il CTO di Microsoft, Kevin Scott, colui che sta al cuore di questa trasformazione dell’azienda all’insegna dell’AI. In una intervista a The Verge/Decoder, infatti dice: “Volevamo immaginare come utilizzare questa tecnologia per assistere le persone nel lavoro cognitivo che stanno svolgendo. Il primo che abbiamo costruito è stato GitHub Copilot, uno strumento che aiuta le persone a scrivere codice per svolgere le loro attività di sviluppatori di software. Molto rapidamente ci siamo resi conto che si trattava di un modello per un nuovo tipo di programma, che dunque non ci sarebbe stato solo GitHub Copilot, ma molti [altri] Copilot”.

Watermark sui contenuti sintetici

Altro spezzone interessante è quando Scott affronta il tema della generazione di contenuti sintetici e dell’effetto negativo che possono avere, dalla diffusione di disinformazione alla creazione di meccanismi di loop in cui le stesse AI si addestrano su contenuti sintetici, prodotti da altre AI.
“Abbiamo lavorato a un sistema di riconoscimento dei media che consente di inserire un watermark crittografico invisibile nei contenuti audio-visivi”, spiega Scott, in modo che, quando si riceve questo contenuto, un software possa decifrare le informazioni che lo riguardano e che indicano da dove arriva.
“È utile per il rilevamento della disinformazione in generale. L’utente può dire: “Voglio consumare solo contenuti di cui capisco la provenienza”. O si può dire: “Non voglio consumare contenuti generati dall’intelligenza artificiale”, prosegue Scott. Allo stesso modo, il sistema potrebbe essere usato quando si addestra una AI per eliminare contenuti sintetici dai dati di addestramento.

L’intervento di Bengio

Ma se ogni settimana ci sono annunci di prodotto (e non è compito di questa newsletter passarli in rassegna, anche perché sono tantissimi), ogni settimana arrivano anche nuovi spunti su quello che ho definito il dibattito sull’AI, ovvero la parte di discussione più sociale e politica (che include anche differenti visioni su quelle che sono le capacità tecniche attuali e future di questa tecnologia).

Così, dopo i commenti di Yann LeCunGeoffrey Hinton, e altri, non poteva mancare un altro dei pionieri della rivoluzione deep learning, Yoshua Bengio. Il vincitore del Premio Turing 2018 ha dichiarato “che la recente corsa di Big Tech al lancio di prodotti di intelligenza artificiale è diventata ‘malsana’ – scrive il FT –  aggiungendo di vedere un “pericolo per i sistemi politici, per la democrazia, per la natura stessa della verità”.

A proposito di verità: il problema di queste interviste​​ con esperti è che non sono vere e proprie interviste con domanda e risposta in cui i due interlocutori sono chiaramente separati, ma conversazioni che mescolano virgolettati con un resoconto di quanto detto. Questo rende difficile, specie su temi complessi e tecnici come questi, capire bene le priorità dell’intervistato e le sfumature che attribuisce ad aspetti diversi. Ad ogni modo, quella che traspare dall’articolo è una posizione più pragmatica rispetto ad altri ricercatori del settore. E ha il merito di mettere il dito nella piaga. Scrive il FT: “Bengio ha affermato che la cosa più urgente da fare per le autorità di regolamentazione è rendere i sistemi di AI più trasparenti, anche facendo degli audit sui dati utilizzati per addestrarli e i loro risultati. Inoltre, insieme ad altri colleghi, ha proposto una coalizione internazionale per finanziare la ricerca sull’AI in settori importanti per il pubblico, come il clima e la sanità. “Come gli investimenti nel CERN in Europa o nei programmi spaziali: questa è la scala che dovrebbe essere usata oggi per gli investimenti pubblici nell’AI per portare davvero i benefici dell’intelligenza artificiale a tutti, e non solo per fare un sacco di soldi”, ha detto”.

Tuttavia Bengio questa settimana affronta anche il tema dei “rischi esistenziali” di una AI autonoma che che possa agire nel mondo in modo catastrofico in un post scritto di suo pugno.
“Il tipo di AI più sicuro che riesco a immaginare è quello privo di qualsiasi capacità di agire in modo autonomo (agency), ma dotata solo di una comprensione scientifica del mondo (il che potrebbe già essere immensamente utile). Credo che dovremmo stare alla larga dai sistemi di AI che assomigliano e si comportano come esseri umani, perché potrebbero diventare delle AI fuori controllo (rogue) e perché potrebbero ingannarci e influenzarci (per promuovere i loro interessi o gli interessi di qualcun altro, non i nostri)”
E ancora: “La sicurezza delle AI richiede ancora molta ricerca, sia a livello tecnico che a livello politico. Ad esempio, vietare i sistemi di AI potenti (ad esempio, quelli superiori alle capacità di GPT-4) a cui viene data autonomia e capacità di agire (agency) sarebbe un buon inizio. Ciò comporterebbe sia una regolamentazione nazionale che accordi internazionali. La motivazione principale che spinge i Paesi in conflitto (come gli Stati Uniti, la Cina e la Russia) a concordare su un trattato di questo tipo è che un’AI fuori controllo (rogue) può essere pericolosa per l’intera umanità, indipendentemente dalla sua nazionalità. Qualcosa di simile alla paura dell’Armageddon nucleare che probabilmente ha motivato l’URSS e gli Stati Uniti a negoziare trattati internazionali sugli armamenti nucleari fin dagli anni Cinquanta”. 

Il paragone col nucleare

Interessante notare che questi paragoni col nucleare fatti da parte di alcuni ricercatori, imprenditori e politici stanno aumentando (come documentato da settimane in questa newsletter). A rincarare la dose negli ultimi giorni è stato il parlamentare democratico statunitense Seth Moulton, membro della commissione Usa che si occupa di forze armate e difesa. 
“Ciò che ci distingue dall’era nucleare è che non appena abbiamo sviluppato le armi nucleari, c’è stato uno sforzo massiccio per limitarne l’uso”, ha detto in una intervista a una newsletter di Politico. “Non ho visto nulla di paragonabile a questo con l’AI. È molto più pericoloso. La Cina sta investendo enormi risorse nell’AI. Putin ha detto che chi vincerà la gara dell’AI controllerà il mondo. Tutti i nostri principali avversari sono in una vera e propria gara con noi sull’AI, e quindi stiamo perdendo la capacità di impostare la definizione di questi standard internazionali”.

Non parliamo abbastanza delle responsabilità attuali

E qui torniamo necessariamente dal piano della ricerca a quello della politica.
Nella scorsa newsletter avevo raccontato l’audizione sull’AI al Senato americano, con le testimonianze, tra gli altri, di Sam Altman, il Ceo di OpenAI (la società che ha rilasciato ChatGPT, DALL-E ecc). E avevo sottolineato due aspetti: l’atmosfera amichevole e la strana propensione a chiedere regole da parte dell’industria. Ci torno questa settimana perché in effetti James Vincent su The Verge si sofferma proprio sulle due questioni. E scrive: “La cosa più insolita dell’audizione del Senato di questa settimana sull’AI è stata l’affabilità. I rappresentanti dell’industria – in primis l’amministratore delegato di OpenAI Sam Altman – si sono trovati d’accordo sulla necessità di regolamentare le nuove tecnologie di AI, mentre i politici sembravano felici di lasciare la responsabilità di redigere le regole alle aziende stesse (…)    
Ma la stessa introduzione di un sistema di licenze, come proposto da Altman e altri all’audizione, potrebbe in realtà non avere un effetto immediato, prosegue Vincent. Mentre, durante l’audizione, i rappresentanti dell’industria hanno spesso richiamato l’attenzione su ipotetici danni futuri, prestando scarsa attenzione ai problemi noti che l’AI già determina.

Gebru e il problema dei discorsi sui rischi esistenziali

Su questo tema in settimana ritorna anche la ricercatrice di AI Timnit Gebru (più volte citata in questa newsletter) intervistata dal Guardian. A proposito del problema di concentrarsi sui rischi della superintelligenza, di una fantomatica AGI (Artificial General Intelligence) e dei cosiddetti “rischi esistenziali” per l’umanità (l’AI è piena di espressioni e termini ambigui il cui utilizzo tradisce però precise visioni filosofiche-politiche) dice:“Questo tipo di conversazione attribuisce capacità d’azione autonoma, [e relativa responsabilità] (agency) a uno strumento invece che agli esseri umani che lo costruiscono”. Così si può evitare di assumersi responsabilità, prosegue Gebru. “Si dice: ‘Non sono io il problema. È lo strumento. È superpotente. Non sappiamo cosa farà’. No, il problema sei tu. State costruendo qualcosa con caratteristiche precise e lo fate per il vostro profitto. [Tutta questa impostazione] distrae e distoglie l’attenzione dai danni reali e dalle cose che dobbiamo fare. Subito”.

Una via africana all’AI?

A questo proposito segnalo una discussione molto interessante su un magazine africano, The Continent, che proprio nella sua ultima edizione si sofferma su una visione differente dell’AI. Cita l’esempio di una startup, Lelapa AI, “fatta da africani, per africani”, come sottolinea il suo sito. 
“Lelapa AI non sta cercando di creare un programma che ci surclassi tutti. Al contrario, sta creando programmi mirati che utilizzano l’apprendimento automatico e altri strumenti per rispondere a esigenze specifiche”, scrive The Continent. “Il suo primo grande progetto, Vulavula, è stato concepito per fornire servizi di traduzione e trascrizione per lingue sottorappresentate in Sudafrica. Invece di raccogliere sul web i dati di altri, Lelapa AI collabora con linguisti e comunità locali per raccogliere informazioni, permettendo agli stessi di partecipare ai profitti futuri.(…)”. Lelapa AI si differenzia dunque da “quei programmi costruiti dall’Occidente su dati provenienti dall’Occidente che rappresentano i loro valori e principi”, ha commentato una delle sue fondatrici, Jade Abbott. Che nota come le prospettive e la storia africana siano in gran parte già escluse dai dati utilizzati da OpenAI e dai modelli linguistici di grandi dimensioni di Google. “Questo perché non possono essere facilmente “raccolti dal web(scraped)”. Gran parte della storia africana è registrata oralmente o è stata distrutta dai colonizzatori; e le lingue africane non sono supportate (parlate con ChatGPT in Setswana o in isiZulu e le sue risposte saranno in gran parte prive di senso). Per Lelapa, tutto questo rappresenta un’opportunità”, scrive ancora The Continent.

Chatbot e religioni

La localizzazione di questi strumenti in una specifica nazione o cultura può assumere però contorni anche molto diversi. Rest of the World racconta di come in India siano nati vari chatbot di AI a sfondo religioso. Ad esempio, GitaGPT. “il chatbot, alimentato dalla tecnologia GPT-3, che fornisce risposte basate sulla Bhagavad Gita”, il testo sacro più diffuso fra milioni di indiani. Secondo Rest of World “alcune delle risposte generate dai bot di Gita mancano di filtri per le discriminazioni di casta, la misoginia e persino la [violazione della] legge”




Aurora Baruto lancia il suo brand, ma viene criticata la banalità dei prodotti

Aurora Baruto lancia il suo brand, ma viene criticata la banalità dei prodotti

L’influencer Aurora Baruto ha lanciato il suo nuovo brand di abbigliamento, generando una notevole attenzione sui social media. Tuttavia, il debutto del marchio non è stato accolto senza controversie. Le t-shirt del nuovo brand sono state oggetto di critiche per la loro apparente semplicità, con molti utenti che le hanno paragonate a prodotti simili trovabili nei negozi a basso costo, come quelli delle catene di abbigliamento cinesi.

Il lancio di un brand da parte di un influencer è diventato sempre più comune negli ultimi anni. Con il crescente successo delle personalità sui social media, molti di loro hanno visto il potenziale di diversificare le fonti di guadagno attraverso la creazione di linee di prodotti, specialmente nel settore della moda. Aurora Baruto si inserisce in questo trend, tentando di capitalizzare la sua popolarità per avviare un’impresa che riflette il suo stile personale e il suo brand.

La creazione di un marchio da parte di un influencer può avere una serie di vantaggi, tra cui l’indubbia praticità di attingere a una base di fan già esistente potenzialmente pronta a sostenere e acquistare i prodotti facilitandone il successo iniziale. Tuttavia, la semplice popolarità non garantisce automaticamente il successo del brand, soprattutto sul medio e lungo termine.

Nel caso di Aurora Baruto, le critiche sulla semplicità delle sue t-shirt mettono in luce un aspetto cruciale della creazione di un brand. Se da un lato la visibilità di un influencer può fornire una spinta iniziale significativa, la qualità e l’unicità del prodotto sono determinanti per il successo sostenibile. I commenti negativi sugli articoli troppo simili a quelli economici di altre catene suggeriscono che, nonostante la visibilità dell’influencer, il prodotto deve avere caratteristiche distintive che giustifichino il suo prezzo e la sua proposta di valore.

Il processo di creazione e lancio di un brand richiede attenzione non solo al marketing e alla promozione, ma anche alla progettazione e alla qualità del prodotto. La semplicità del design può essere una scelta stilistica valida, ma deve essere accompagnata da un valore aggiunto che risuoni con il pubblico target. Se le t-shirt di Aurora Baruto risultano percepite come poco distintive, potrebbe essere necessario rivedere la proposta del brand per migliorare l’unicità e l’appeal.

In sintesi, mentre la creazione di un brand da parte di un influencer è una strategia sempre più comune e può beneficiare enormemente della popolarità del creatore, il successo di lungo termine dipende dalla capacità di offrire prodotti che si distinguano per qualità e innovazione. La sfida per Aurora Baruto e per molti altri influencer che intraprendono questa strada è quella di tradurre la loro visibilità in un valore reale e percepito dai consumatori, superando le critiche iniziali e costruendo una reputazione solida e distintiva nel mercato.




Moda, tessile, sostenibilità, greenwashing: in Europa l’Italia non ha voce

Moda, tessile, sostenibilità, greenwashing: in Europa l’Italia non ha voce

Si chiama SAC (Sustainable apparel coalition) il comitato a cui l’Unione Europea ha affidato il compito di formulare i criteri che consentiranno ai produttori del comparto tessile-abbigliamento di dichiarare su base volontaria la sostenibilità dei loro prodotti. Si tratta di una delle ultime tessere mancanti all’European Green Deal in gran parte già elaborato dalla Commissione europea per rendere le politiche climatiche dei Paesi membri idonee a ridurre le emissioni di gas a effetto serra, entro il 2030, di almeno il 55% rispetto ai livelli del 1990.

MODA E SOSTENIBILITÀ: LA RELAZIONE SUI PRODOTTI TESSILI

Il SAC però non è l’unico dei comitati al lavoro. Lo scorso maggio a Bruxelles è stata pubblicata la Relazione sui prodotti tessili sostenibili e circolari prodotta dalla Commissione per l’ambiente, la sanità pubblica e la sicurezza alimentare. Si tratta di un’inquietante sequenza di rilievi sullo stato del tessile mondiale, dove viene sottolineato come sia in particolare il tessile europeo (di cui quello italiano costituisce da solo quasi la metà) a essere sotto attacco. Di paragrafi che iniziano con “Considerando che…”, nel documento, ce ne sono diciannove. Ma già nel primo viene evidenziato come la produzione tessile mondiale tra il 2005 e il 2015 sia quasi raddoppiata, mentre nello stesso periodo la durata di utilizzo degli indumenti è diminuita del 36%. Entro il 2030, il consumo di indumenti e calzature è destinato a crescere da 62 a 102 milioni di tonnellate. Le diciotto considerazioni seguenti assegnano al tessile il quarto posto come responsabile in termini di effetto serra, inquinamento chimico, perdita di biodiversità, utilizzo di risorse idriche e terrestri, microplastiche immesse negli oceani. Per giungere alla seguente conclusione: la necessaria transizione verso la neutralità climatica rende impossibile mantenere pratiche e tendenze di consumo come sono attualmente.

I NUMERI DEL SISTEMA TESSILE EUROPEO

Nei suggerimenti, corposo è il numero di righe dedicato a temi come la Gestione dei rifiuti (92 milioni di tonnellate ogni anno), l’Innovazione (un imprescindibile tool per uscire dalla situazione attuale), il Greenwashing (che indica il 53% delle dichiarazioni ecologiche in circolazione come vaghe e fuorvianti). Di grande rilievo sono i passaggi dedicati alla difesa del tessile europeo: fatturato annuo 147 miliardi di euro, esportazioni per 58 miliardi, importazioni per 104. Il sistema è costituito da 143mila PMI che danno lavoro a 1,3 milioni di unità: per l’88,8% microimprese, con meno di 10 dipendenti. Un sistema fragile che deve far fronte alla sempre più intensa concorrenza di Paesi dell’area asiatica. I dati sono allarmanti: il 73% dei capi di abbigliamento e tessili per la casa consumati in Europa arriva da Paesi in cui tanto le norme ambientali che quelle sociali (a fronte di paghe da povertà, restrizione indebita dei diritti sindacali, lavoro minorile e di soggetti fragili, mancanza di sicurezza) sono quasi inesistenti. “La commissione rileva che l’onere normativo che colpisce direttamente e indirettamente l’industria tessile dell’UE, sommato alla pandemia di COVID-19, alla guerra di aggressione russa contro l’Ucraina, all’aumento dei prezzi dell’energia e alle conseguenze dell’inflazione sull’industria, sta minacciando la competitività̀ delle imprese dell’UE”. Anche per questo viene sottolineata l’urgenza di normative che garantiscano che i prodotti tessili in circolazione sul mercato europeo siano durevoli, riutilizzabili e privi di pericoli per la persona: almeno 60 sostanze chimiche presenti attualmente in questi prodotti sono cancerogene, mutagene o tossiche per la riproduzione.

“Perché nessuno è qui a difendere gli interessi delle 43mila PMI italiane che costituiscono da sole il 45% dell’intero comparto europeo?”

LA LOBBY DEL FAST FASHION E L’ASSENZA DELL’ITALIA

Sembrerebbero decisi passi avanti. Ma quel che sta accadendo è assai più complesso e pericoloso di quanto appare. Perché tra le commissioni al lavoro la SAC è decisamente la più autorevole: da sola raccoglie oltre il 50% delle aziende del settore abbigliamento e calzature, riunendo marchi, rivenditori, produttori, associazioni di fibre e altre importanti parti del sistema. E tuttavia tra queste solo 15 hanno diritto di voto. Vale la pena di elencarle. La spagnola Inditex ( Zara e Zara Home, Bershka, Pull&Bear, Massimo Dutti, tra gli altri), la svedese H&M (H&M, H&M Home, Cos, Monki tra gli altri), la danese C&A e la francese Decathlon. A seguire Nike, VF_Corporation (Eastpack, North face, Timberland, Vans tra gli altri) e produttori di sintetico come Gore-Tex (americana) e Sympatex (tedesca). Insomma aziende leader del fast fashion e dell’outdoor. È pur vero che sono presenti i francesi di Ademe (per la transizione ecologica pulita) e la Federation de la Haute Couture. E pure un paio di rappresentanze internazionali: per la lana il WTO (Belgio), per il cotone Cotton Incorporate.

Le bandiere dell'Unione Europea

Le bandiere dell’Unione Europea

PERICOLO GREENWASHING

Nel panorama brilla l’assoluta mancanza di una qualsiasi rappresentanza italiana: nessuna azienda grande o piccola, nessuna associazione di categoria, nessuna fondazione milanese, romana o fiorentina ha qui diritto di voto. Perché nessuno è qui a difendere gli interessi delle 43mila PMI italiane che costituiscono da sole il 45% dell’intero comparto europeo? Perché mai devono prevalere nella SAC i colossi del fast fashion, gli stessi che la Relazione sui prodotti tessili sostenibili e circolari indica come i principali responsabili del disastro ambientale connesso tessile? È dunque logico, lecito e allarmante ritenere che le lobby all’interno della SAC a Bruxelles potranno partorire indicazioni verbalmente rassicuranti, ma in realtà utili a difendere innanzitutto il loro interesse. Un greenwashing al quadrato, insomma.




Greenwashing: si stringe la morsa in Europa e anche in Italia

Greenwashing: si stringe la morsa in Europa e anche in Italia

A un anno dalla prima sentenza per pubblicità ingannevole e greenwashing, che ha coinvolto un’azienda italiana che attribuì impropriamente a propri prodotti la caratteristica “verde” (precedente giurisprudenziale assai interessante, anche perché l’azienda in questione è finita in Tribunale su denuncia di una concorrente, desiderosa di “far pulizia” di dichiarazioni ingannevoli sul mercato), la ricerca sui “false ESG” presentata al Parlamento Europeo di Bruxelles la scorsa settimana evidenzia come il grado di fiducia dei cittadini nelle dichiarazioni di sostenibilità da parte delle aziende risulta tra il basso (44,44%) e il bassissimo (19,55%), e che una parte significativa del pubblico ritiene che le aziende utilizzino il tema della sostenibilità più che altro per motivi pubblicitari e di marketing (45,47%) e non per genuino interesse. L’assenza di norme stringenti sull’attribuzione dei rating ESG e la conseguente facilità con la quale vengono rilasciati, rischia di svilire l’impegno delle aziende davvero virtuose, e – soprattutto – evidenzia una crescente sfiducia da parte dei cittadini UE su queste importanti e attualissime tematiche.

Ora, una nuova tempesta si staglia all’orizzonte dei promotori della sostenibilità non genuina.

Cosa è successo? L’ASA prende posizione contro il greenwashing

La potente e rispettata autorità inglese sulla pubblicità (ASA – Advertising Standards Authority) ha vietato nel Paese, con una delibera, la diffusione di una campagna pubblicitaria – digitale, TV, radio e cartellonistica – della multinazionale del petrolio Shell, perché giudicata ingannevole. Fin qui, ci sarebbe poco di nuovo: le istituzioni nel mondo anglosassone sono da sempre molto sensibili sul tema della genuinità delle comunicazioni dirette al pubblico. La novità risiede però nella motivazione.

Non è, infatti, la campagna di per sé ad essere ingannevole (Shell Energy UK, che si occupa di energia elettrica a basse emissioni di carbonio, investe in rinnovabili, è impegnata nella costruzione di una delle più grandi reti pubbliche di punti di ricarica per veicoli elettrici, e si sta impegnando attivamente nella transizione ‘verde’ del Regno Unito), bensì il fatto che contemporaneamente a queste pur lodevoli iniziative, la capogruppo SHELL nei primi tre mesi del 2023 ha prodotto un milione e mezzo di barili di petrolio al giorno mediante sistemi di estrazione tradizionale a medio o alto impatto ambientale.

La pubblicità quindi “non s’ha da fare” perché sponsorizza esclusivamente alcuni degli investimenti dell’azienda – quelli in energie rinnovabili – tacendo per contro su tutto il resto delle attività inquinanti che quotidianamente promuove, e che di fatto – incidentalmente – sono la principale fonte di incassi della multinazionale stessa. Semplificando, è una delle prime delibere finalizzate a colpire gli specchietti per le allodole, ovvero le “foglie di fico verdi” utilizzate dalle grandi aziende per distorcere la percezione che il mercato ha delle loro attività, spesso inquinanti.

Non bastasse, la stessa ASA ha anche deciso di bloccare – sostanzialmente per le stesse identiche ragioni – anche le campagne della società spagnola Repsol, attiva in quasi 30 Paesi del mondo nei settori del petrolio e del gas naturale, e della Petronas, altro colosso petrolifero, Malaysiano; stesso dicasi per una campagna di Etihad Airways, la compagnia aerea di bandiera degli Emirati Arabi Uniti, e una della tedesca Lufthansa, accusate entrambe di scarsa chiarezza nel dichiarare il vero impatto ambientale dei voli aerei. In tutti questi casi, la pubblicità è stata giudicata colpevole di enfatizzare la (presunta) vocazione “verde” delle multinazionali, violando – aggiungo io – uno dei fondamentali del reputation management, il pilastro dell’autenticità, indispensabile – com’é noto sia in letteratura che in pratica professionale – per costruire buona reputazione.

Una storia già vista all’epoca per BP, British Petroleum, che  effettuò il rebranding del proprio logo, trasformandolo in una margherita verde, con il payoff “Beyond Petroleum” (oltre il petrolio, ndr): al netto della mia incredulità verso “i macellai che si predicano vegani”, pochi mesi dopo l’operazione d’immagine di BP avvenne la tragica vicenda del Golfo del Messico, con il collasso della piattaforma Deepwater Horizont e il più grande disastro ambientale di tutti i tempi, costato agli azionisti di BP decine di miliardi di euro in richieste danni e sanzioni.

Greenwashing: reputazione (e valore) sempre più a rischio, anche in Italia

Anche in Italia si stanno promuovendo approfondimenti sempre più stringenti: un’assoluta eccellenza investigativa dell’Arma dei Carabinieri, l’alto ufficiale Massimiliano Corsano, segue con sempre maggiore attenzione, in stretta collaborazione con l’autorità giudiziaria, diversi filoni di indagine sulle dichiarazioni etiche aziendali non genuine, che – come ha dichiarato anche recentemente in occasione di un suo intervento al Parlamento Europeo – “dovrebbero essere sanzionate penalmente al pari del falso in bilancio, in quanto sono manipolative del mercato, fuorvianti, ed anche offensive dell’impegno di quelle aziende che fanno della sostenibilità un driver di sviluppo autentico”.

Ora, la Commissione europea ha proposto una Direttiva per stabilire criteri comuni per contrastare il fenomeno delle asserzioni ambientali ingannevoli, iniziativa assai apprezzabile: chissà se arriveranno prima le direttive UE o le sentenze giudiziarie, con le relative sanzioni e con l’inevitabile e conseguente danno reputazionale per le aziende coinvolte.




Il paese dei boicottaggi

Il paese dei boicottaggi

L’estate scorsa un articolo della Reuters riportava un dato sorprendente: uno statunitense su quattro stava boicottando un prodotto o un’azienda che aveva comprato o finanziato in passato. C’erano anche numeri più dettagliati su quali fossero le persone più inclini a partecipare ai boicottaggi: quelle che guadagnano almeno un milione di dollari all’anno (37 per cento); chi fa parte della generazione Z, cioè i nati a partire dalla metà degli anni novanta (32 per cento); i millennials, nati tra l’inizio degli anni ottanta e la metà dei novanta (28 per cento); gli elettori democratici (31 per cento) un po’ più di quelli repubblicani (24 per cento).

Ho ripensato a quei dati di recente, leggendo articoli sul boicottaggio contro la Bud Light, la più famosa birra statunitense. L’iniziativa è cominciata all’inizio di aprile, quando si è saputo che il marchio stava per lanciare una collaborazione con l’influencer transgender Dylan Mulvaney. I consumatori conservatori, che costituiscono una buona fetta del target di quella birra, hanno smesso di comprare Bud Light, fomentati dagli influencer di destra. Celebrità come il cantante Kid Rock e l’ex giocatore di football Trae Waynes hanno pubblicato online dei video in cui sparavano a delle casse di Bud Light. Non bere quella birra è diventata una sorta di dimostrazione di fedeltà ai valori tradizionali. In poche settimane le vendite sono crollate. La destra americana, quella del Make America great again, ha ottenuto il risultato paradossale di portare la Modelo Especial, una birra prodotta in Messico, in cima alle classifiche delle birre più vendute negli Stati Uniti.

Al di là delle sue implicazioni economiche e politiche, questa vicenda è interessante perché può aiutare a capire il rapporto degli americani con i boicottaggi, quindi anche con il consumo e l’attivismo politico. Come ha scritto lo storico Lawrence Glickman, i boicottaggi fanno parte della storia e della cultura americana quanto la torta di mele. Gli statunitensi hanno cominciato a usare le tattiche di consumo nell’ambito delle loro lotte politiche ancora prima di potersi veramente definire statunitensi. Negli anni sessanta del settecento le colonie cominciarono a boicottare i prodotti commerciati dalle aziende britanniche (in particolare il tè proveniente dalla Cina e venduto dalla Compagnia britannica delle Indie orientali), in risposta all’aumento delle tasse stabilito dal parlamento del Regno Unito. Quelle iniziative contribuirono ad accelerare gli eventi che portarono alla guerra rivoluzionaria e all’indipendenza.

Dopo la nascita degli Stati Uniti emerse un sentimento ambivalente nei confronti dei boicottaggi come forma di protesta: da un lato venivano esaltati per aver contribuito alla conquista della libertà di un popolo oppresso, dall’altro erano considerati una pratica destabilizzante e pericolosa. Il motivo è facile da immaginare: in un paese che andava rapidamente verso un’economia basata sulla libera impresa e il consumo ma era ancora molto disuguale, i gruppi subordinati potevano cercare di colpire le aziende – smettendo di comprare i loro prodotti – per combattere i potentati economici e politici. In questa visione l’acquisto di beni non era una decisione privata, ma un atto fondamentalmente sociale con conseguenze di vasta portata.

Di fronte a questa dinamica, i gruppi di potere temevano quello che poteva succedere nell’immediato (perdere soldi) e ancora di più nel lungo periodo (cambiamenti sociali radicali). Glickman riporta molti commenti critici di giornali e industriali contro i boicottaggi in varie epoche storiche: “Nel 1887 Philip D. Armour, imprenditore del settore della carne di Chicago, bersaglio di un boicottaggio, disse che ‘questa pratica non è un’istituzione americana’, riferendosi al gran numero di lavoratori immigrati che partecipavano alla protesta”. Qualche anno dopo anche il Los Angeles Times scrisse che il boicottaggio è un’“istituzione antiamericana”. Durante il movimento per i diritti civili, negli anni sessanta del novecento, i boicottaggi organizzati dagli afroamericani furono denunciati non solo come una forma di terrorismo economico, ma anche come un’arma di guerra interrazziale.

Una cultura politica

Gli sforzi per definire l’attivismo dei consumatori come una pratica aliena alla cultura americana spesso non funzionavano, proprio perché in realtà era molto radicata nella storia nazionale. Nel corso degli anni i boicottaggi sono stati usati in molte lotte sociali e hanno fondamentalmente plasmato la cultura politica nazionale, collegando gli individui a cause lontane. Gli esempi più importanti riguardano il razzismo. Ci vengono subito in mente i boicottaggi degli anni sessanta del novecento, ma in realtà ce ne erano stati molti, altrettanto dirompenti, nei decenni precedenti. Dopo la guerra rivoluzionaria e prima dell’abolizione della schiavitù, nacque un movimento chiamato “free produce”, che incoraggiava i consumatori a boicottare i prodotti fabbricati dagli schiavi.

Attingendo all’umanitarismo del tempo, gli attivisti cercavano di far passare l’idea che i consumatori non potessero considerarsi innocenti rispetto al crimine della schiavitù. Al contrario, erano più colpevoli dei proprietari di schiavi, che avrebbero abbandonato la schiavitù se non avessero avuto un mercato per i beni prodotti con quella forza lavoro. “In quest’ottica”, spiega Glickman, “gli acquirenti dovevano essere intesi come datori di lavoro responsabili delle condizioni di chi produceva i beni che, di fatto, commissionavano. I sostenitori del movimento promossero anche una nuova concezione dei consumatori come forza politicamente potente. Si basavano sul presupposto introdotto dall’economista Adam Smith, secondo cui ‘il consumo è l’unico fine di tutta la produzione’ e prendevano sul serio le rivendicazioni morali alla base di questa visione”. In sostanza cercavano di appropriarsi del concetto di libertà in campo economico (il consumatore ha il diritto di comprare quello che vuole) e di farlo coincidere con una rivendicazione sociale collettiva.

Molto tempo dopo, negli anni sessanta e settanta del novecento, una strategia simile fu usata dalla United farm workers union, il sindacato che si batteva per i diritti degli immigrati che lavoravano nei campi dell’ovest del paese. Disse la leader sindacale Dolores Huerta: “Ogni vera espressione di solidarietà deve essere accompagnata dal tentativo di punire gli industriali del settore agroalimentare”. Poiché ai lavoratori agricoli venivano negati i diritti e le tutele di cui godevano gli altri lavoratori in base alla legge, i boicottaggi non solo erano legali ma erano anche una delle poche armi potenti a loro disposizione. Quelle azioni, in particolare quella contro i produttori d’uva, portarono risultati importanti.

Boicottaggio organizzato dai lavoratori del settore agricolo in California, settembre 1968. - Denver Post/Getty Images
Boicottaggio organizzato dai lavoratori del settore agricolo in California, settembre 1968. (Denver Post/Getty Images)

Questa ricostruzione storica aiuta a capire perché i boicottaggi sono ancora frequenti e perché in molti casi funzionano ancora. Brayden King della Kellogg school of management ha studiato i casi di 133 boicottaggi avvenuti tra il 1990 e il 2005. E ha scoperto che un quarto delle aziende boicottate ha effettivamente modificato il proprio comportamento in risposta alle proteste. King ha spiegato anche che i boicottaggi oggi ottengono risultati in modo diverso rispetto al passato: “Quelli efficaci in genere hanno avuto successo non facendo diminuire le vendite di un prodotto ma concentrando l’attenzione dei mezzi d’informazione sulle aziende, danneggiando la loro immagine pubblica e facendo scendere il prezzo delle loro azioni”.

Ci sono altre differenze importanti tra i boicottaggi di oggi e quelli del passato, e capirle può aiutare anche a comprendere come sono cambiate le dinamiche sociali e politiche negli Stati Uniti. Facendo un confronto tra le campagne attuali (comprese quella contro la Bud) e quelle del passato citate in precedenza, si nota che le prime sembrano avere obiettivi limitati, cioè si esauriscono nel momento in cui riescono a infliggere un danno, mentre le seconde erano concepite come iniziative di trasformazione sociale. Questa discrepanza è dovuta probabilmente a una serie di fattori. Oggi grazie ai social network è molto più facile diffondere un invito a boicottare un marchio (bastano i post di poche persone molto influenti) e non serve un’organizzazione sindacale e politica nel mondo reale; di conseguenza la campagna raggiunge subito un grande pubblico, si esaurisce altrettanto in fretta e chi vi ha partecipato si concentra verso nuovi obiettivi (nel caso dei conservatori le tante aziende statunitensi considerate troppo “woke”).

Anche la polarizzazione politica potrebbe aver dato un contributo. Sia a destra sia a sinistra, i boicottaggi sembrano diventati un modo per segnare una piccola vittoria nell’ambito di una più ampia guerra culturale. L’ingresso in politica di Donald Trump potrebbe aver accelerato questo meccanismo. Glickman ha scritto che i boicottaggi sono aumentati dopo la sua vittoria, nel 2016. Non solo perché Trump è un imprenditore che nella sua carriera ha provato a inserirsi praticamente in ogni settore commerciale, ma anche perché la sua strategia politica è stata fondamentalmente il tentativo di vendere un marchio, il marchio Trump. “Questo tentativo di monetizzare la presidenza e di convincere i consumatori a sostenerlo politicamente ha anche dato ai suoi critici una possibilità per attaccarlo, come dimostra la campagna #grabyourwallet, il boicottaggio contro i prodotti della Trump Organization lanciato nel 2016”.