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Appello (serio) a tutti i creativi: donate un’idea per amor di patria

Appello (serio) a tutti i creativi: donate un'idea per amor di patria

La campagna internazionale di promozione turistica del Ministero del Turismo ed Enit è un obbrobrio. Manca di originalità, non ha un chiaro target (troppo pseudo-acculturata per chi non ha idea, troppo poco culturale per chi qualche idea ce l’ha), ma soprattutto proietta l’immagine stereotipata di un’italietta di provincia, un po’ sciocca e superficiale, inconsapevole della sua profonda ricchezza storica e culturale. Invece di essere interpretabile a più livelli, segno di una buona comunicazione che riesce a raggiungere persone e culture diverse, la campagna ha lo spessore di un souvenir aeroportuale. Tutto sembra un po’ troppo influencer, nel suo vuoto di contenuti, idee, valori, informazione, intelligenza (quanto mi dispiace essere d’accordo con Sgarbi su questo, ma pazienza). È la banalità non del male ma del nulla che omologa. È l’astuzia non della ragione, ma della furbizia cinica. Very much sanremista, direbbero loro.

Il danno è fatto, i 9 milioni di euro sono stati spesi. Ma forse si può ancora fare qualcosa. Ecco una piccola proposta. Care creative e cari creativi, unitevi! Per favore donate due idee per produrre una campagna pubblicitaria di un’Italia che merita molto di più, immagini che non includano frasi senza senso (“open to meraviglia” è ridicolo, ricalca l’ “open to business” e l’ “open to work”), pizza, mandolino … o una ragazzetta botticelliana con lo sguardo vacuo e solipsista, da influencer-pesce-lesso autoreferenziale. Fatelo per amor di patria, per non farci vergognare tutte e tutti, per orgoglio, per decenza, per spirito civile, per ribellarvi, per farvi anche un po’ di pubblicità … per favore. Affinché non si dica che questa è l’Italia, che è ridotta così, che tutto ciò ci rappresenta veramente. Io non so neppure fare la punta alla matita, ma se serve mi volontarizzo a dare una mano. Per favore! Una campagna alternativa potrebbe finire per attrarre l’attenzione internazionale, e così raggiungere il fine voluto: ritrarre l’Italia come un paese splendido e non come una caricatura.




Novità del terzo millennio: la diplomazia dev’essere green e digitale

https://www.huffingtonpost.it/politica/2023/04/30/news/novita_del_terzo_millennio_la_diplomazia_devessere_green_e_digitale-11948468/

Transizione digitale, mutamenti climatici, pandemia: negli ultimi vent’anni è cambiato il mondo, e con lui l’arte della diplomazia. Se per negoziare bisogna comunicare, il negoziatore 2.0. ha bisogno di nuovi ferri del mestiere: non più tastare il polso all’interlocutore nelle pause caffè di trattative fiume, ma padroneggiare la dittatura tecnologica, sorta di dad istituzionale che impone video-riunioni. Fino alla “twiplomacy” (almeno prima di Elon Musk), la declinazione per cui nel 2011 il ministro degli Esteri svedese fu contattato dal suo omologo del Bahrein attraverso un cinguettio. Ma andò peggio a Massimo D’Alema che nel 2007, da ministro degli Esteri, si ritrovò in prima pagina sulla stampa la lettera aperta di sei ambasciatori stranieri che lo invitavano pubblicamente a non abbandonare l’Afghanistan. Insomma, con il rimescolamento degli equilibri economici e finanziari globali portare a casa un accordo commerciale o un trattato di pace richiede competenze in costante
aggiornamento.

E proprio alla fluttuante arte della diplomazia novella è dedicato il manuale “Negoziato e comunicazione negli anni Venti” curato da Francesco Tufarelli, attuale segretario generale del Cnel, e da Monica Didò, direttrice del centro studi La Parabola (in uscita per edizioni The Skill Press).

Una “cassetta per gli attrezzi” con i contributi di una ventina di esperti tra cui Constantina
Skenteri docente della Swiss School of Management, Cristiano Zagari esperto di tecniche di negoziato e posizionamento internazionale, Luca Poma professore di reputation management alla Lumsa. Il titolo gioca sui parallelismi tra gli avvenimenti del primo ventennio del secolo scorso – Mussolini e il primo populismo tra partiti di massa e suffragio universale – e quelli del primo ventennio di questo millennio funestato da crisi economica e pandemia.

Anni, questi ultimi, adrenalinici anche per chi tesse i fili delle intese. Cambiamo strumenti e modalità negoziali. I grandi game changer sono due: la transizione ecologica – che intreccia obiettivi politici e bilancia degli scambi – e quella digitale che ha introdotto nel linguaggio comune criptovalute, fintech e metaverso. Emerge quello che Zagari chiama “effetto Bruxelles”: il ruolo dell’Unione europea come titolare di un soft power a livello mondiale, crocevia di regole certe e autorevoli, mercato enorme di consumatori consapevoli, infine partner affidabile ma non temibile (troppo arretrate la sua tecnologia e le sue infrastrutture) per Usa e Cina, al punto da diventare quasi un arbitro nelle loro contese commerciali. Un ruolo che la partita collettiva dei vaccini anti-covid ha amplificato. E che ora si trova davanti alla sfida del Pnrr, “cigno bianco” per il futuro degli Stati, frutto di un braccio di ferro in guanti di velluto: moltiplicatore di valore sul piano delle riforme e della formazione di classe dirigente (attenzione: a valle come a monte, inutile avere grandi cervelli programmatori se negli enti locali si strozza l’imbuto). Mentre caso di scuola delle difficoltà pratiche sono stati gli estenuanti round per arrivare alla direttiva sul tabacco aromatizzato, contemperando interessi economici dei produttori e tutela della salute collettiva.

Il negoziatore moderno, poi, deve tenere conto dei novelli stakeholder: non più solo pubbliche amministrazioni e governi. In partita sono entrate le grandi aziende capaci di influenzare il dibattito (un esempio su tutte: le Big Tech che detengono il potere assoluto sui nostri dati sensibili) e i gruppi di pressione e interesse civico. Si è affermato nel tempo un concetto che affianca quelli tradizionali della “diplomazia segreta” – la Triplice Alleanza versus la Triplice Intesa – e della “diplomazia aperta e trasparente” tessuta dal presidente americano Wilson che portò alla nascita della Società delle Nazioni. Et voilà la “public diplomacy”, la diplomazia pubblica che consiste – spiega il professor Poma – nell’insieme di azioni e procedure per influenzare le opinioni pubbliche. Insieme al “nation branding” ovvero l’applicazione di tecniche di marketing e comunicazione aziendale a supporto della reputazione di uno Stato.

Tutto questo esisteva già durante la Guerra Fredda, quando gli Usa combattevano i sovietici a colpi di blue jeans e rock’n’roll, e la propaganda si rivelava più efficace delle minacce. Penultima evoluzione (prima appunto della twiplomacy) è la “digital diplomacy” cavalcata da Barack Obama, che in campagna elettorale fece distribuire non gadget ma 10mila questionari per “profilare” gli elettori e rispondere alle loro attese. Anche se ogni regola contiene un’eccezione: accusato di laconicità, Mario Draghi stroncò i cronisti con un “parlerò quando avrò qualcosa da dire”. Tufarelli mette in guardia dagli eccessi tecnologici: “Nelle video call il
negoziato ha perso la sua vera anima”. Già: qualsiasi comunicazione parte dall’empatia, dalla chimica che si sviluppa tra le persone. E il “diaframma del video”, oltre ai costi, spesso riduce anche i risultati.

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La classifica delle aziende con la miglior reputazione al mondo: 7 sono italiane

La classifica delle aziende con la miglior reputazione al mondo: 7 sono italiane

È stata pubblicata la classifica delle 100 aziende con la miglior reputazione a livello globale stilata da The RepTrak Company, società statunitense con sede a Boston che pubblica rapporti sulla reputazione di aziende e luoghi, sulla base di sondaggi sui consumatori e copertura mediatica. Sette imprese sono italiane.

Nel report sono anche indicati i criteri che le aziende devono rispettare per poter entrare nel Global RepTrak 100. Primo fra tutti, un fatturato totale superiore a 2 miliardi di dollari; una soglia di familiarità media globale superiore al 20% in tutti i 14 Paesi misurati e una soglia di familiarità superiore al 20% in valori in oltre 7 di questi Paesi presi in esame. In più, è necessario che queste raggiungano un punteggio di reputazione superiore a 67,3 punti.

Quali sono le aziende in classifica

Alla testa della classifica 2023, sul gradino più alto del podio, troviamo Lego. La famosa aziende danese dei mattoncini conferma il primo posto dell’anno passato con un ‘reputation score‘ di 76.8. Seguono al secondo e terzo posto della classifica Bosch e Rolls Royce. 

La aziende italiane più in alto in classifica generale sono Ferrari al 13esimo posto e Pirelli al 15esimo. Mentre più in basso, nel settore alimentare, alle posizioni 30, 33 e 44 ci sono i colossi Ferrero, Barilla e Lavazza. Per il comparto moda, invece, al 47esimo posto c’è Giorgio Armani e sul penultimo gradino della classifica, al 99esimo, Prada, presente nel Global RepTrak 100 solo da due anni.

La classifica delle 100 aziende con la miglior reputazione – Foto Global RepTrak



I dipendenti di TikTok rendono i contenuti virali schiacciando un bottone

I dipendenti di TikTok rendono i contenuti virali schiacciando un bottone

Rivelazione scomoda su TikTok, il social cinese diventato celebre anche per l’unicità della sezione “Per te”, da sempre descritta come un Feed classificato da un algoritmo che prevede l’interesse degli utenti sulla base del loro comportamento sull’app. Ma questa non sembra essere tutta la verità. Secondo un recente rapporto pubblicato da Forbes, non è solo l’algoritmo a decidere quali contenuti diventeranno virali. A quanto pare, lo staff di ByteDance è in grado di selezionare segretamente alcuni video specifici e potenziarne la distribuzione, avviando una pratica internamente nota come “riscaldamento“.

La funzione di riscaldamento si riferisce all’aumento dei video nel feed ‘Per Te’ attraverso l’intervento operativo per ottenere un certo numero di visualizzazioni video – si legge in un documento interno di TikTok intitolato “MINT Heating Playbook -. Le visualizzazioni totali di video riscaldati rappresentano gran parte delle visualizzazioni totali giornaliere, circa l’1-2%, che possono avere un impatto significativo sulle metriche fondamentali complessive”. Una rivelazione piuttosto sconcertante, soprattutto considerando che TikTok non ha mai ammesso di essere coinvolta in un’azione di questo tipo. Ma alcune fonti hanno chiaramente riferito che la piattaforma ha utilizzato la pratica del “riscaldamento” per corteggiare influencer e marchi, invitandoli a collaborare in cambio dell’aumento del numero di visualizzazioni dei loro video. 

Se così fosse, è evidente che TikTok abbia volutamente avvantaggiato alcuni brand e creator rispetto ad altri. E solo per i suoi scopi commerciali. Pertanto, questo significa che molti dei video che visualizzate nella sezione “Per te” non sono lì perché l’algoritmo del social pensa che possano piacervi, quanto piuttosto per favorire un alto numero di visualizzazione dei video che interessano alla piattaforma. Il problema reale, in questo senso, è che non ci sono etichette specifiche che segnalano che si tratta di contenuti “riscaldati”. E non solo. 

Secondo il rapporto di Forbes, i dipendenti di ByteDance hanno abusato della pratica di “riscaldamento” per rendere virali i video condivisi dal loro account o da quello dei loro cari, infrangendo di fatto la politica aziendale. L’intento della piattaforma, infatti, era chiaro: promuovere contenuti che fossero diversi da balletti e lyp-sinc, così da diversificare il più possibile l’esperienza degli utenti. Un portavoce di TikTok ha rilasciato la seguente dichiarazione: “Promuoviamo alcuni video per incentivare la diversificazione dell’esperienza dei contenuti, oltre che per far conoscere personaggi celebri e creator emergenti alla community di TikTok. Solo poche persone, basate negli Stati Uniti, hanno la possibilità di decidere quali contenuti promuovere, limitatamente agli Stati Uniti, e quei contenuti rappresentano circa lo 0,002% dei video del feed Per Te”.

Insomma, le intenzioni del social cinese non sembravano essere cattive, anche se risultano poco credibili. Nonostante questo, già a dicembre TikTok ha annunciato che avrebbe aggiunto un nuovo pannello ai video consigliati intitolato “Perché questo video“, così da poter spiegare agli utenti perché l’algoritmo gli suggerisce un contenuto piuttosto che un altro. Tra le possibili motivazioni, però, non sembrerebbe esserci “Questo post è stato riscaldato”, il che significa che forse l’app non è davvero trasparente come afferma di essere. E questo è un bel problema. 




Ma davvero il metaverso è già morto?

Ma davvero il metaverso è già morto?

Pochi giorni dopo aver annunciato la chiusura di AltSpaceVR (l’ambiente sociale in realtà virtuale acquistato nel 2017), Microsoft ha deciso di chiudere, dopo soli quattro mesi, anche l’intero dipartimento per lo sviluppo del suo cosiddetto metaverso industriale, licenziando circa 100 persone. Già qualche mese fa, invece, Tinder aveva deciso di rinunciare ai suoi ambiziosi (e paradossali) progetti in stile metaverso.

I ripensamenti hanno coinvolto anche la società che più di ogni altra ha scommesso il suo futuro su questa visione, vale a dire Meta. Prima è venuto il post in cui Andrew Bosworth, responsabile tecnico dei Reality Labs di Meta, raccontava i progetti futuri della società senza mai menzionare il metaverso poi si è scoperto come gli stessi dipendenti della società fondata da Mark Zuckerberg fossero molto scettici riguardo a tutta la faccenda. 

Stando a un sondaggio anonimo su Blind, il 56% dei dipendenti di Meta pensa infatti che Zuckerberg non abbia “spiegato chiaramente cosa il metaverso sia”, mentre il 58% ritiene che “il metaverso non raggiungerà un miliardo di utenti nel prossimo decennio” (nel novembre 2021 questa percentuale era del 40%). In tutto ciò, è noto come il principale progetto di Meta in questo ambito, vale a dire Horizon Worlds, sia passato da 300mila a 200mila utenti nel corso del 2022 e abbia grandemente deluso le aspettative.

Per quanto importanti, questi incidenti di percorso non bastano da soli a mettere la parola fine all’ambizioso e (fin troppo) variegato progetto di metaverso. Come ha sottolineato Harry McCracken nella sua newsletter Plugged In, “il calo dell’interesse nei confronti di una categoria tecnologica non è la dimostrazione che sia destinata a svanire per sempre. Il decennale settore dell’intelligenza artificiale è noto per aver dovuto affrontare molteplici fasi in cui il pessimismo verso le sue potenzialità dominava”. È però proprio il confronto con l’intelligenza artificiale a essere particolarmente impietoso. A differenza del metaverso, che ha generato aspettative sproporzionate rispetto allo stato di avanzamento e adozione dei vari progetti, il deep learning negli ultimi dieci anni ha veramente cambiato il mondo, venendo integrato con enorme successo in un numero sempre crescente di ambiti ed evolvendo senza sosta, come dimostrato da ultimo proprio da uno strumento come ChatGPT.

Per quanto anche ChatGPT e la Generative AI in generale abbiano ricevuto la loro quota di aspettative eccessive, non è niente di paragonabile al clamore generato dal metaverso, che è riuscito nell’impresa di far credere – a colpi di pubblicità e campagne di marketing – che davvero già esistesse un ambiente in realtà virtuale, immersivo e aperto in cui trasferire una parte della nostra quotidianità (mentre in realtà esistevano soltanto svariate piattaforme estremamente diverse tra loro e che nella maggior parte dei casi non usavano neanche la realtà virtuale).

Alimentare aspettative eccessive non può che rivelarsi un boomerang quando viene promesso – come fatto da Zuckerberg nel 2021 – di poter partecipare con il proprio avatar a un concerto che si svolge fisicamente in qualche arena, senza apprezzabili differenze rispetto a chi si trova realmente sul posto. Qualcosa che – come ha scritto sempre McCracken – “ha tanto fondamento nella realtà quanto la macchina del tempo o il raggio rimpicciolente”.

Lo stesso concetto è stato reiterato su Forbes: “Dopo otto anni di sviluppo e dopo aver speso miliardi di dollari, questo fantascientifico concetto sembra essere stato completato forse al 2%. Il problema di fondo di luoghi come Horizon Workrooms (il “metaverso” destinato alle riunioni di lavoro) o Horizon Worlds (quello invece più sociale) è che sono terribilmente brutti, a malapena funzionanti e sono terreni fertili per interazioni sociali che, nel migliore dei casi, sono impacciate e goffe”.

È davvero la fine del metaverso? Dipende da che cosa s’intende: il colossale progetto basato sulla realtà virtuale di Mark Zuckerberg potrebbe anche rivelarsi un fallimento, ma lo stesso non si può certo dire di molteplici altre realtà che sono state etichettate come tali (basti pensare ai clamorosi successi di Roblox e Fortnite), mentre gli stessi videogiochi in realtà virtuale in cui è anche possibile interagire con altri utenti (come Population One o Echo VR, che solo a posteriori sono stati fatti ricadere nella categoria metaverso) continueranno ad affascinare una fetta crescente di gamer.

Probabilmente, la cosa migliore sarebbe decretare la fine della parola “metaverso”: un termine troppo vago, confusionario, che lascia immaginare qualcosa che oggi non esiste e che racchiude ambienti ed esperienze estremamente diverse tra loro. D’altra parte, quando si vuol far passare per metaverso anche una semplice piattaforma in realtà virtuale per l’addestramento al volo, o giochi che esistono da oltre un decennio come Minecraft (e che non sono neanche in realtà virtuale), significa che si è tirato troppo la corda.