1

Imprese, indotto della Germania in allarme sulle forniture green

Imprese, indotto della Germania in allarme sulle forniture green

«In Italia non se ne sta parlando affatto, ma la legge entrata in vigore quest’anno in Germania che impone l’obbligo di diligenza sulle catene di approvvigionamento, anche al di fuori dai confini tedeschi, avrà un impatto enorme sul nostro territorio, perché dovrà essere rispettato da tutti i fornitori di marchi tedeschi. Che si parli di meccanica, penso nell’automotive e ai gruppi Volkswagen, Bmw, Deimler o di agroalimentare, con big della grande distribuzione come Lidl e Aldi, ma anche di chimica o tessile sono migliaia le nostre imprese che dovranno adeguarsi alle nuove regole sul rispetto dei lavoratori e dell’ambiente».

È Michele Bulgarelli, segretario della Cgil di Bologna, a lanciare l’allarme per il preoccupante silenzio che regna sulla legge LkSG (Lieferkettensorgfaltspflichengesetz, meglio nota come “Supply chain due diligence act”), che dallo scorso gennaio si applica a tutte le imprese tedesche sopra i 3mila dipendenti, ma che dal 1° gennaio 2024 sarà estesa anche alle aziende dai mille addetti in su. Che impone loro di gestire le questioni sociali e ambientali delle filiere di fornitura e di risponderne, con multe fino al 2% del fatturato globale nel caso di violazioni. Significa che tutte le aziende che lavoreranno direttamente con partner tedeschi dovranno predisporre report per documentare ogni anno che non inquinano, non usano lavoro minorile, non discriminano, pagano salari equi.

L’Export dell’Emilia Romagna

A guardare i numeri dell’interscambio con la Germania e degli intrecci societari tra i due versanti alpini è chiaro che non sono sole le Pmi emiliano-romagnole a doversi preoccupare di essere tagliate fuori da clienti tedeschi per questioni reputazionali: la Germania è il primo partner della via Emilia con il 13% dell’export totale e sono oltre 4mila imprese regionali che vendono in terra alemanna. Ma quote ancora più alte si registrano in Lombardia (il 13,6% dell’export regionale è in Germania), Veneto (13,7%), Piemonte (14,1%) per arrivare al 25% in Trentino-Alto Adige.

«La Germania sta scomponendo le leggi moloch europee in pezzi più semplici per arrivare preparata ai traguardi di sostenibilità del 2030 e del 2050. La norma LkSG è una declinazione della CSRD-Corporate Sustainability Reporting Directive (oggi in vigore per grandi imprese e quotate, ndr) e anticipa un’analoga direttiva ora al vaglio del Parlamento europeo, cui le imprese italiane saranno costrette presto ad adeguarsi. Per rispondere alle policy sulla due diligence le uniche azioni coerenti sono le certificazioni etiche e sociali come SA 8000, ISO 14001, ISO 14044, che non si improvvisano, richiedono mesi di assesment e risorse», spiegano i tecnici di Confindustria Emilia che avranno un incontro la prossima settimana con la Camera del commercio italo-tedesca per discutere dell’impatto del “due diligence act”.

«È la cooperazione ormai decennale tra la Fiom bolognese (18mila iscritti) e la Ig Metall (80mila iscritti) che ci rende particolarmente sensibili a questo tema. Siamo rientrati la scorsa settimana dall’incontro annuale a Wolfsburg (quartier generale di VW, ndr) che è stato dedicato proprio alla legge sul dovere di diligenza dei fornitori», spiega Bulgarelli che nella missione ha coinvolto anche le altre sigle della Camera del lavoro bolognese, perché non ci sono settori esentati. La filiera del gruppo Volkswagen, dove è già in vigore la Carta sociale, non avrà problemi ad applicare la LkSG, «ma in un contesto di recessione in Germania, di riorganizzazione delle supply chain e di passaggio all’elettrico il rischio che le nostre imprese meccaniche siano tagliate fuori dalle forniture è concreto», rimarca il segretario Cgil. Che proprio per accorciare le distanze tra Emilia e Germania ha lanciato con Ig Metall una sorta di “Erasmus” dei sindacalisti «per formare una nuova generazione sindacale internazionalizzata: dalla seconda metà del 2023 delegazioni da Wolfsburg verranno a Bologna per una settimana di formazione e di incontri con aziende e istituzioni e viceversa, da Bologna a Wolfsburg».

Smorza i timori Cna Emilia-Romagna, che ancora non ha ricevuto segnalazioni dalle aziende associate di problemi con partner tedeschi: «Non siamo preoccupati – riferiscono – ma attenti. I temi Esg sono in cima alla nostra agenda di lavoro. E siamo convinti che i tedeschi non rinunceranno alla qualità di lavorazioni e prodotti italiani, si troveranno strumenti e indicatori adatti per salvaguardare le due parti».




Sostenibilità aziendale: dilaga il greenwashing

Sostenibilità aziendale: dilaga il greenwashing

Un nuovo fenomeno sta dilagando in ambito sostenibilità: il greenbickering. Si tratta di un battibecco green con il quale aziende, opinione pubblica, amministratori e soprattutto giudici e tribunali, dovranno prendere confidenza. Con il greenbickering un’azienda può agire contro un competitor per concorrenza sleale laddove ritenga utilizzi impropriamente la leva della sostenibilità aziendale per migliorare il suo percepito verso il mercato ed i consumatori e quindi per vendere di più.

Greenbickering VS Greenwashing

Sono sempre maggiori e incontrollati i casi di cosiddetto greenwashing ovvero quella comunicazione ingannevole incentrata sul rispetto dell’ambiente e sulla sostenibilità aziendale che è solo di facciata, che fa apparire un prodotto o il brand medesimo più ’verde’ di quanto sia in realtà; addirittura il 60% delle imprese sarebbe caduto almeno una volta in comunicazioni ad impronta green non valide o ingannevoli (dati Nielsen). Questo perché la sensibilità ecologica, soprattutto nei paesi occidentali, si è sviluppata al punto da determinare i comportamenti d’acquisto dei consumatori o persino da aumentare il valore del marchio o dell’azienda, così come conclamato da moltissimi studi.

Sostenibilità aziendale ingannevole: i provvedimenti del Parlamento Europeo

Un’indagine condotta dalla Commissione europea, dalle autorità nazionali di tutela dei consumatori insieme ad altre autorità internazionali, sotto il coordinamento della Ipcen (Consumer Protection and Enforcement Network) ha evidenziato nel 42% dei casi le autorità hanno ritenuto ingannevoli e non veritiere le comunicazioni green, e quindi messo in atto pratiche commerciali sleali. In oltre il 50% dei casi, le aziende non abbiano dato ai consumatori informazioni sufficienti per valutare quanto comunicato in materia di sostenibilità aziendale; nel 37% il claim conteneva formulazioni generiche, come ‘rispettoso dell’ambiente’, o ‘eco’ e nel 59% dei casi non venivano esplicitati elementi a supporto di quanto dichiarato.

In conseguenza di ciò pochi giorni fa il Parlamento europeo – con 544 voti favorevoli, 18 contrari e 17 astensioni – ha approvato la propria posizione negoziale sulla proposta di direttiva sulla responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde e contro il fenomeno del greenwashing. Il progetto legislativo prevede di vietare l’uso di diciture green generiche come ad esempio ‘a impatto zero’, naturale, biodegradabile, amico della natura, ecologico se non debitamente comprovate, inserendole, unitamente ad altre, in un elenco di pratiche commerciali da considerarsi in ogni caso scorrette e quindi illecite.

Ovvero”, spiega Rita Santaniello avvocato dello studio multinazionale Rödl & Partner, “io azienda posso intentare causa per concorrenza sleale verso uno o più miei competitori che utilizzino marchi, slogan o diciture green non comprovate per vendere di più, quindi sottraendo mercato agli altri, o per ‘inverdire’ la propria immagine, ottenendo così ingiustamente un vantaggio competitivo rispetto agli altri”.

Infatti secondo una recente ricerca GfK (Growh for Knowladge) in Italia, il 30% dei consumatori dichiara di evitare i prodotti con imballaggi in plastica, mentre il 36% ha smesso di comprare alcuni prodotti ad impatto ambientale negativo.

E la mia sensazione è che”, riflette Rita Sananiello, “definiti i paletti legislativi che comunque lasceranno spazio a ampie eccezioni, concrete attuabilità (i mercati sono oggi globali, ma gli ordinamenti giuridici no) e interpretabilità, le aziende non esiteranno a combattersi su questo fronte. Ma forse questo, al netto dell’aggravio del lavoro dei Tribunali, potrebbe essere anche un bene perché le varie sentenze ed esperienze agevoleranno una regolamentazione più puntuale in materia. Anche se ci vorrà parecchio tempo”.




L’arresto di Matteo di Pietro e la responsabilità degli influencer alla guida

L’arresto di Matteo di Pietro e la responsabilità degli influencer alla guida

Il mese di giugno è stato segnato da un tragico incidente che ha avuto un impatto devastante sul mondo dei social media e su quello della sicurezza stradale. Matteo di Pietro, noto influencer e membro del gruppo di creatori “The Borderline” attivo su TikTok e YouTube, è stato arrestato dopo un incidente stradale che ha causato la morte di un bambino di 6 anni. L’auto di Matteo di Pietro è stata coinvolta in una collisione fatale, e successivamente è emerso che l’autista era sotto l’effetto di sostanze, scatenando un’ondata di indignazione sia sui social media che nei media tradizionali.

Il caso di Matteo di Pietro solleva una questione cruciale riguardo alla responsabilità degli influencer, non solo come figure pubbliche ma anche come cittadini. Gli influencer, grazie alla loro visibilità e al loro ampio seguito, esercitano una notevole influenza sui loro fan e sui giovani. Tuttavia, questa influenza non dovrebbe limitarsi alla loro presenza online, ma estendersi anche al loro comportamento nella vita reale. Quando un influencer è coinvolto in incidenti come quello di Matteo di Pietro, che includono guida sotto l’effetto di sostanze, la questione della responsabilità diventa particolarmente rilevante.

L’incidente ha dimostrato che il comportamento irresponsabile alla guida, soprattutto se accompagnato dall’uso di sostanze, può avere conseguenze tragiche e inaccettabili. Gli influencer, come tutte le persone, hanno la responsabilità di rispettare le leggi e di comportarsi in modo sicuro e responsabile. La loro visibilità e il loro status non esonerano loro né le loro azioni dalle conseguenze legali e morali.

La reazione della community social e dei media è stata di sdegno e shock. La morte di un bambino innocente ha colpito profondamente l’opinione pubblica, mettendo in luce le gravi implicazioni di comportamenti irresponsabili e pericolosi. La community social, nota per la sua capacità di mobilitarsi rapidamente, ha espresso indignazione attraverso commenti, post e campagne di sensibilizzazione, chiedendo maggiore responsabilità e consapevolezza tra i creator.

Il caso di Matteo di Pietro ha inoltre attirato l’attenzione dei media tradizionali, che hanno sottolineato l’importanza di rispettare le norme di sicurezza stradale e di evitare l’uso di sostanze mentre si è alla guida. Le notizie riguardanti l’incidente hanno messo in evidenza la necessità di promuovere una guida sicura e di garantire che i comportamenti irresponsabili siano adeguatamente sanzionati.

Per prevenire simili tragedie e garantire una maggiore responsabilità tra gli influencer e i creatori di contenuti, è fondamentale adottare una serie di misure:
Educazione e Sensibilizzazione: Gli influencer dovrebbero essere educati e sensibilizzati riguardo all’importanza della guida sicura e delle conseguenze dell’uso di sostanze. Le campagne di sensibilizzazione possono contribuire a promuovere comportamenti responsabili.
Politiche e Normative: È cruciale che le piattaforme social e i brand collaborino per creare e applicare normative che incoraggino comportamenti etici e responsabili anche nella vita reale. La promozione di valori di sicurezza e rispetto deve essere una priorità.
Supporto e Monitoraggio: Fornire supporto e monitoraggio agli influencer per garantire che mantengano standard di comportamento adeguati può aiutare a prevenire incidenti e comportamenti rischiosi.
Responsabilità Legale: È essenziale che gli influencer siano consapevoli delle implicazioni legali delle loro azioni e che affrontino le conseguenze delle loro azioni irresponsabili.

In conclusione, l’arresto di Matteo di Pietro e il tragico incidente che ha causato la morte di un bambino di 6 anni hanno messo in luce l’importanza della responsabilità alla guida e l’impatto delle azioni personali sulla sicurezza pubblica. Gli influencer, come tutti i cittadini, devono essere consapevoli delle loro responsabilità e agire con integrità e rispetto delle leggi. Solo attraverso un comportamento responsabile e consapevole si possono evitare tragedie simili e garantire un ambiente più sicuro per tutti.




Berlusconi, il futuro di Mediaset appeso a un filo? I messaggi in codice nel discorso di Pier Silvio

Berlusconi, il futuro di Mediaset appeso a un filo? I messaggi in codice nel discorso di Pier Silvio

Mediaset, i messaggi in codice di Pier Silvio Berlusconi nel discorso ai dipendenti

La fine di un’era rappresenta sempre un nuovo inizio. E, in questo caso, comincia ufficialmente la nuova “vita” di Mediaset senza il suo fondatore Silvio Berlusconi. Ma non è così semplice: il futuro del Biscione rappresenta un tema molto caldo per il panorama economico italiano.

C’è solo una domanda, infatti, che arrovella i grandi analisti e addetti ai lavori in questi ultimi giorni: Mediaset verrà venduta? E nel caso, a chi? Sebbene diverse voci suggeriscano che il destino dell’azienda possa finire lontano dalla famiglia Berlusconi, un segnale della corrente opposta arriva proprio da Pier Silvio, secondogenito del Cavaliere.

Ieri sera, mercoledì 14 giugno, dopo i funerali del padre, il rampollo e Amministratore delegato del Biscione è tornato nei “suoi” studi televisivi trovando, con sorpresa, numerosi dipendenti rimasti oltre l’orario di lavoro per dargli sostegno. E Pier Silvio, con grande tenerezza, ha ringraziato il personale con un discorso da vero leader, lucido (malgrado qualche attimo di commozione) e già proiettato verso il futuro.

“Da domani, noi facciamo ‘click’ e torniamo a essere l’azienda viva ed energica che siamo sempre stati”, ha detto convinto Pier Silvio ai suoi dipendenti. “Da domani cambiamo marcia e guardiamo avanti, lui rimarrà sempre nei nostri cuori. Dobbiamo continuare a fare il nostro lavoro con orgoglio e rispetto. Noi siamo e saremo sempre una prova di libertà”, ha affermato ancora.

“Siamo una società editoriale libera nell’agire in termini imprenditoriali e soprattutto in tutto quello che portiamo nelle case degli italiani, degli spagnoli e speriamo, presto, anche in altri Paesi. Dobbiamo lavorare con ancora più convinzione e decisione, per rendere la nostra carissima Mediaset ancora più forte, viva ed energica di quello che è ora. Dobbiamo essere ambiziosi”, ha detto il numero uno di Mediaset. Infine, il dolce e sentito ringraziamento al suo personale: “Siete un pezzo enorme della mia e della nostra vita. Io vi voglio bene, anzi, vi amo. Grazie”.

Insomma, il discorso di Pier Silvio Berlusconi davanti a centinaia di suoi dipendenti potrebbe far pensare a tutto, tranne che a una cessione nel breve termine della televisione di Cologno Monzese. Anzi, sembrano proprio le parole che anticipano un nuovo inizio per l’azienda, concentrata sul migliorarsi ed espandersi con l’obiettivo di creare un polo panaeuropeo leader dell’informazione e dell’intrattenimento partendo da Mediaset Espana e la partecipazione in ProSiebenSat.1.

Ma siamo sicuri che nell’orazione non ci fossero messaggi in codice, difficili da captare per i meno esperti della comunicazione? Per capirne di più Affaritaliani.it ha interpellato Luca Poma, professore di Reputation management all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino, oltre che specialista in digital strategy e crisis communication.

“Dalla registrazione dell’intervento”, spiega l’esperto, “non traspare – analizzando il verbale e anche il non verbale – nessun indizio o elemento utile per definire quali siano le strategie di governance future della famiglia Berlusconi riguardo all’azienda, che potrebbero (oppure no) includere cambi di rotta, cessioni in tutto o in parte, diverse alleanze”.

“Se Pier Silvio seguirà la strada tracciata da Giovanni Ferrero (che all’indomani della morte del padre Michele rassicurò tutti circa il fatto che l’azienda non sarebbe stata ceduta “né ora né mai”) è presto per saperlo”, continua Poma. “Ciò che è invece interessante è analizzare con attenzione la semiotica e la mimica del discorso: Pier Silvio è in realtà Silvio. In tutto: scelta degli aggettivi, tono della voce, utilizzo delle “leve” psicologiche sugli interlocutori (in questo caso, le lodi molto enfatizzate ai dipendenti), e via discorrendo”, sostiene.

“Se riascoltate il video calcando leggermente l’accento brianzolo avrete Silvio Berlusconi in tutto e per tutto”, afferma l’esperto. “Il che potrebbe anche suggerire, in effetti, un qualche senso di forte continuità nella gestione dell’azienda… Pur tuttavia, vero è che Berlusconi quando ne ebbe buona occasione vendette anche il “suo Milan“: tutte le opzioni sono quindi, a mio avviso, sul tavolo”, conclude infine Luca Poma.

E come ha spiegato ad Affari Aldo Martinale, Portfolio Manager della Sgr Symphonia, la scelta di vendere Mediaset non sarebbe così lontana dal buon senso. Infatti, il business model sul quale verte l’azienda non avrebbe vita lunga.

Nel dettaglio, il sistema della raccolta pubblicitaria (la quale ha fruttato a Mediaset ben 1,9 miliardi nel 2022 a fronte di 2,8 miliardi di ricavi totali) sta vivendo un periodo di forte crisi. Non solo. Il settore della televisione rientra ormai tra i business più complicati da far stare in piedi vista l’enorme concorrenza dei colossi dello streaming e non solo.

Una situazione non propriamente ottimistica, questa, potenzialmente capace di creare non poche perplessità agli eredi di Silvio. Staremo a vedere.




Crisis Management: come salvare la reputazione di un brand

Crisis Management: come salvare la reputazione di un brand

Se hai avuto un danno alla reputazione della tua azienda e devi rimediare, ecco che ti arriva in aiuto il crisis management! Queste indicano delle strategie fondamentali per superare al meglio un momento di crisi, ma anche evitarle con alcune semplici mosse.

Le organizzazioni contemporanee sono caratterizzate da una maggiore orizzontalità. Al contrario di quelle novecentesche che vedevano all’apice della piramide il leader, al secondo gradino il Consiglio di Amministrazione, e poi tutta la scala degli impiegati. Oggi un brand è supportato da una maggiore diffusione del lavoro in team che rompe gli schemi piramidali.

Se nella fabbrica gran parte delle decisioni erano relegate al direttore, oggi il peso è alleggerito da impiegati esperti. Ognuno di essi concorre a gestire il bene e il male all’interno dell’azienda. Questo implica anche che tutti hanno il compito di sviluppare anche delle soft skills per gestire le tensioni e generare relazioni positive. E’ importante pensare che una crisi aziendale non può averla solo un grande marchio che fattura milioni, ma anche un e-commerce o qualsiasi piccola azienda.

Non solo, può avere bisogno di una strategia di crisis management anche una persona singola che fa si sé un marchio, come ad esempio un cantante, o un personaggio famoso. Spero certamente che chiunque legga l’articolo non debba mai mettere in atto queste tecniche, ma è meglio essere preparati, come si dirà più avanti nell’articolo.

Il primo obiettivo della gestione positiva della crisi è mantenere la cosiddetta reputazione aziendale, ovvero l’insieme di tutte le aspettative e opinioni che clienti, dipendenti, fornitori e investitori hanno di un brand. Il concetto di reputazione è dinamico e stratificato, questo si sviluppa a partire da alcuni comportamenti che l’organizzazione fa nel tempo. Scopri in questo nostro articolo come raccontare al meglio il tuo brand. Perché è importante mantenere una buona reputazione? Potrebbe sembrare una domanda scontata, ma questa è fondamentale per due aspetti:

  1. la reputazione ti permette di ridurre l’incertezza verso gli stakeholders, ovvero investitori e pubblici. Ad esempio si è più propensi a parlare bene di un’azienda che dura negli anni e ha avuto pochi scandali durante la sua vita. Questo ridurrà anche i tempi di decisione se qualcuno vorrà investire sul vostro marchio.
  2. una buona reputazione ti permette di partire da una posizione di vantaggio sui concorrenti. A dirlo è il professor Gianluca Comin, docente del corso in Strategie di comunicazione e tecniche pubblicitarie alla Luiss Guido Carli di Roma, nel suo libro “Tu puoi cambiare il mondo. La reputazione personale: promuovere il talento, condividere il valore“.

Per rendere più chiaro il concetto di reputazione immagina un cono rovesciato. Abbiamo alla base tutti quei comportamenti che: da un lato compongono la narrazione dell’azienda e dall’altro lato ne innescano la fiducia. I comportamenti creano l’immagine. Questa può variare a seconda del punto di vista da cui ci si pone. Se vista dal lato dell’azienda ci si attende un’immagine positiva dopo aver diffuso la propria comunicazione. Questa però può essere uguale o discordante se vista dal lato dai pubblici. Infine tutto confluisce sulla punta del nostro cono che è la reputazione, ovvero il risultato di tutti gli sforzi dell’azienda e tutte le percezioni dei pubblici.

Un calo di reputazione può portare ad un momento di crisi. Questa non accade spesso, è infatti un qualcosa di insolito e gli elementi caratteristici sono eccezionalità e visibilità. Un esempio di crisi nel mondo dello spettacolo può essere quello che è accaduto durante una conferenza stampa di Sanremo 2020. In quell’occasione Amadeus definì la valletta come “capace di stare un passo indietro a un grande uomo”. Immediatamente sui social si sono scatenati commenti sulla presunta frase maschilista. Questo è stato un piccolo momento di crisi scatenato da un errore di comunicazione, ovvero un errore umano. Esistono però diversi tipi di crisi.

Tipi di crisi

I momenti di crisi vengono divisi in base a quanto viene considerata responsabile l’azienda, il sociologo Gianluca Comin le divide in 3 tipi:

1. Crisi di cui l’azienda è vittima. Genera solidarietà da parte di altre aziende e pubblici, come un disastro naturale. Dipende da elementi che vanno al di là della sfera di controllo, ad esempio gli uragani, terremoti, ecc.

2. Crisi accidentali. Hanno un basso rischio di danno alla reputazione perché l’organizzazione aveva la minima possibilità di prevenzione. Solitamente è derivata da un errore umano o un guasto meccanico. Questo tipo non diventa una crisi se non provoca danni ingenti ai clienti o all’azienda. 

3. Crisi prevedibili. Sono derivati da comportamenti scorretti dell’organizzazione solitamente per interessi finanziari. In questo caso ci sono persone che sono a conoscenza di questo comportamento ma non si organizzano per gestire l’eventuale impatto pubblico. Si divide in:

  • Sabotaggio è un’azione di una persona esterna o interna all’organizzazione, che agisce per danneggiare l’azienda. Un esempio eclatante fu quando nel 1982 alcuni slot dell’antinfiammatorio Tachipirina, fu contaminato da un veleno. Questo causò 7 morti per avvelenamento e il ritiro di circa 31 milioni di confezioni. Nonostante il mandante dell’atto fu un ex dipendente come gesto di ripicca verso l’azienda, i rappresentanti assicurarono un’informazione tempestiva e accurata che gli permise di non perdere troppa reputazione. Inoltre per rassicurare i cliente fecero un rebranding del prodotto così da non associare il farmaco all’evento.
  • Degenerazione di un problema trascurato o sottovalutato. Un esempio di questo tipo di crisi è quello che è accaduto alla Toyota nel 2010, quando ritirarono dal mercato oltre un milione di auto negli Stati Uniti per un difetto di fabbrica. Il problema era già noto dalla casa automobilistica giapponese ma tacquero per 10 anni fino a quando non si ritennero responsabili di 4 morti e più di 900 feriti.

Riduci le probabilità che un commento negativo si trasformi in una crisi

I momenti di crisi possono essere innescati anche per un’errata risposta ad un commento negativo. È infatti fondamentale assicurarsi di non peggiorare la situazione mentre si cerca di risolverla.

  1. Niente panico. Vedere una recensione negativa può essere spiacevole, ma non è la fine del mondo. Valuta la portata reale di questa situazione: si tratta di un vero errore o è il risultato della frustrazione momentanea di un utente?
  2. Non farti prendere dalla rabbia. I nostri cervelli reagiscono d’istinto quando la nostra integrità o le nostre competenze professionali vengono messe in discussione. Considerando il clima di ostilità presente nella maggior parte delle discussioni online, uno strumento potente è la serenità. Un atteggiamento tranquillo può aiutare anche i tuoi collaboratori. Non si può gestire efficacemente un commento negativo quando ci sentiamo sopraffatti, quindi è importante trovare un modo sano per rilassarsi. Se anche dopo un grande respiro ti risulta difficile controllare le emozioni, lascia che qualcun altro risponda per primo. E ricorda che la gentilezza è sempre un’arma a tuo favore!
  3. Non “affrontarlo lunedì” o ancora peggio non pensare che la crisi si risolva da sola. Gianluca Comin nel suo manuale, “Comunicazione integrata e reputation management“, afferma quanto sia importante la velocità di risposta. Il sociologo parla di quanto sia fondamentale una comunicazione nelle prime 24 ore per non lasciare che altri facciano la propria narrazione dell’evento. Infine, per quanto siano gravi le minacce alla reputazione, è fondamentale che le comunicazioni siano trasparenti e coerenti. 

Dunque quando ci si trova di fronte davanti ad un momento di crisi ci sono varie emozioni da dover gestire come rabbia e rifiuto. Di seguito segnaliamo quelle che secondo Gianluca Comin sono le 5 fasi di una crisi:

  1. Sorpresa
  2. Rabbia
  3. Rifiuto
  4. Consapevolezza
  5. Ricostruzione della reputazione

Gli ultimi due punti sono le fasi di risposta efficace. E’ fondamentale assumersi le proprie responsabilità e avere un atteggiamento emopatico. Questo significa cogliere le emozioni altrui, e calibrare di conseguenza le comunicazioni per ridurre al massimo eventuali danni e paure, chiedendo scusa se necessario

Come formare i propri dipendenti al crisis management

Ogni dipendente rappresenta il tuo marchio e ha un ruolo da svolgere nella prevenzione e nella gestione delle crisi. Avere uno staff ben preparato è la chiave per evitare crisi, è quello che insegna anche Luca Poma, professore in Reputation Management presso Università LUMSA di Roma, nei suoi corsi di studio. Ogni dipendente dovrebbe avere un certo livello di istruzione in materia di crisis management per:

  1. Individuare i problemi prima che si verifichino. Le tecniche di gestione della crisi prevedono anche una strategia di pre-crisi. Questa include il monitoraggio di quello che dicono gli stakeholder online e offline. Dunque è importante il controllo di commenti negativi sotto un post sui social, ma anche essere spinti da una nota narcisistica e cercare la propria azienda su Google, magari accanto alla parola “recensioni”. Se il vostro marchio sarà abbastanza conosciuto troverete tra i primi link qualche sito con la vostra menzione, e lì potrete trovare i semi che in futuro potrebbero innescare la vostra crisi. Ma anche in questo caso: niente panico. Tenete sempre a mente che in rete oppure offline chiunque potrà avere oggi un commento negativo sul tuo marchio e domani uno positivo. Nel caso in cui le recensioni negative aumentassero è bene che il capo dell’azienda sia informato. Infatti chi svolge un ruolo importante ha la visione quasi totale delle dinamiche e potrà individuare il livello di pericolosità dei commenti. Quindi fai attenzione se gestisci il team, e non lo sei corri a dirlo al tuo superiore! Questo può impedire di allarmare inutilmente tutta l’azienda o di non sottovalutare un problema che può diventare una crisi in piena regola.
  2. Preparare un team con competenze diverse prima che si verifichi una crisi: avvocati, tecnici informatici, comunicatori – anche esterni, come un’agenzia di comunicazione – e tutte le persone che potrebbero servire per un crisis management. Ma anche luoghi secondari dove svolgere il proprio lavoro in caso di evento naturale catastrofico, come un’allagamento dell’edificio. Anche un sito web alternativo potrebbe essere fondamentale in caso di attacco hacker (Intranet). Infine è importante identificare un portavoce ufficiale in caso di crisi avanzata in cui occorrerà rispondere alle richieste mediatiche.
  3. Allena i tuoi dipendenti ad essere critici sull’azienda. Tutti i dipendenti sono rappresentanti del marchio e posso funzionare anche come campanelli di allarme per l’arrivo di una crisi. E’ importante monitorare costantemente il grado di soddisfazione dell’azienda e di come viene percepita. Questo può essere fatto tramite la compilazione anonima di un form di gradimento, che impedirà ai dipendenti di essere riconosciuti nel caso facessero una recezione negativa.

Eppure il rischio reputazionale è sempre dietro l’angolo: un incidente sul lavoro, fughe di notizie, partnership negative etc. possono spesso danneggiare la fama dell’azienda. L’importante però è non averne paura, ma fare un buon crisis management con nervi saldi e strategia. Si può definire solida un’organizzazione se le persone che riconoscono l’importanza degli sforzi di gestione delle crisi e comprendono i loro ruoli durante periodi critici. Questo permetterà di prevenire un maggior numero di eventi negativi e ridurre significativamente la durata di una situazione di crisi rispetto a coloro che non sono preparati. Investire tempo nell’educazione dei dipendenti in questo ambito si rivelerà un investimento prezioso che darà buoni frutti.