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Aurora Baruto: la spia nei video e le teorie del complotto

Aurora Baruto: la spia nei video e le teorie del complotto

Aurora Baruto ha catturato l’attenzione dei suoi follower non solo per i suoi contenuti, ma anche per un dettaglio inaspettato apparso nei suoi video: una “spia”, ben visibile alle sue spalle. Questo elemento, che inizialmente potrebbe sembrare insignificante, ha scatenato un’ondata di speculazioni tra gli utenti sui social media. Molti hanno ipotizzato che la spia potesse indicare che qualcuno stesse osservando l’influencer, mentre altri hanno visto nella presenza dell’oggetto una possibile mossa strategica per aumentare l’engagement.

Le teorie complottiste e le speculazioni sui social media non sono una novità, specialmente quando si tratta di figure pubbliche come gli influencer. Questi fenomeni si manifestano in diverse forme e per vari motivi, alimentati dalla curiosità e dall’immaginazione degli utenti.

Nel caso di Aurora Baruto, le speculazioni sul significato della spia riflettono una tendenza comune nei social media: il desiderio di scoprire segreti nascosti e di interpretare ogni dettaglio come parte di una narrazione più ampia. Gli influencer, con la loro costante esposizione pubblica e la necessità di mantenere l’interesse del loro pubblico, possono trovarsi al centro di teorie complottiste che vanno ben oltre la realtà.

La presenza di elementi come una spia nei video può facilmente diventare il catalizzatore per tali teorie. In alcuni casi, gli influencer stessi possono giocare con questi dettagli per generare buzz e mantenere alta l’attenzione sui loro canali. La visibilità e il coinvolgimento sono fondamentali nel mondo dei social media, e ogni elemento che può stimolare la curiosità e il dibattito tra i follower è potenzialmente sfruttabile per incrementare l’engagement.

Nonostante la speculazione e le teorie complottiste possano sembrare esagerate, è importante riconoscere che fanno parte di una cultura mediatica in cui il confine tra realtà e finzione è sempre più sfumato. Per gli influencer, gestire questo tipo di attenzione richiede una certa dose di abilità e consapevolezza. Se da un lato le teorie complottiste possono generare traffico e discussione, dall’altro possono anche alimentare malintesi e distrarre dall’autenticità del contenuto.

Inoltre, il ricorso alle teorie complottiste può anche avere effetti collaterali. La diffusione di tali speculazioni può portare a una percezione distorta della realtà, creando aspettative irrealistiche o un’eccessiva curiosità invadente. Per questo motivo, è cruciale per gli influencer mantenere una comunicazione chiara e gestire con attenzione i dettagli che potrebbero innescare teorie e speculazioni.

In conclusione, la vicenda di Aurora Baruto e la presenza della spia nei suoi video evidenziano come le teorie complottiste siano una parte integrante del panorama dei social media. Sebbene possano essere utilizzate strategicamente per aumentare l’engagement, è fondamentale per gli influencer gestire tali dinamiche con attenzione, evitando che la curiosità e le speculazioni oscurino il valore autentico del loro lavoro e il rapporto genuino con il pubblico.

Ovviamente, aggiungo, il fatto che questa “spy story” con conseguente hype, si sia sviluppata proprio nei giorni dell’annuncio di Aurora dell’imminente uscita del suo libro, è una pura coincidenza. Ovviamente.




Leadership femminile. Dalla politica alle imprese, il mondo fa ancora fatica ad accettare le donne al vertice

Leadership femminile. Dalla politica alle imprese, il mondo fa ancora fatica ad accettare le donne al vertice

Cementata e impermeabile, la strada per la leadership è sempre stata lastricata da soli uomini. Apparso davvero immodificabile per decenni, il nostro è un sistema, economico e sociale, che ha previsto una struttura in cui il genere maschile è generalmente privilegiato. Da qualche anno pare che le problematiche legate alla gender equality siano arrivate al centro del dibattito e alcune dinamiche sembrano virare in una direzione diversa. Ma possiamo davvero ritenerci soddisfatti di quanto fatto finora? La realtà sta veramente cambiando?

In Italia, negli ultimi tempi, abbiamo assistito a eventi che hanno acceso il dibattito sull’uguaglianza di genere. Il risultato delle elezioni politiche del 25 settembre 2022 ha dato la possibilità alla leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, di essere eletta Presidente del Consiglio. Prima donna incaricata per il ruolo dopo trenta uomini. Nel mese di febbraio si sono svolte le primarie per decretare la nuova leadership del Partito Democratico. Con il 53,75% delle preferenze, Elly Schlein è stata eletta nuova Segretaria di quello che, stando ai sondaggi sulle intenzioni di voto pubblicati da Index Research il 3 marzo, continua ad essere il principale partito di opposizione. In questo momento, quindi, la scena politica italiana è “dominata” da due donne: completamente diverse per approccio, stile comunicativo e ideologia, con politiche diametralmente opposte e visioni che vogliono orientarsi verso ambienti e persone collocate in fazioni contrarie. Senza soffermarsi sull’analisi politica, e su quanto forse sia più facile affermarsi se non si ritengono di primaria importanza le misure per l’uguaglianza di genere (per quanto riguarda Meloni), è evidente quanto la notizia di entrambe le investiture vada accolta con sentimento positivo, se si considera la prospettiva in cui per decenni solo gli uomini hanno occupato i ruoli di protagonisti nello scenario politico italiano.

Ciò che è importante ricordare, però, è come parte del nostro Paese ha accolto questi risultati. Centinaia di insulti, commenti sessisti e fotomontaggi sono stati riservati a Elly Schlein. Come Vivarelli Colonna, Sindaco di Grosseto, che ha scritto: “Per 2 euro che volevate, Belen?” riferendosi alla nuova Segreteria Dem e ai due euro che il Pd ha chiesto a coloro che si sono recati ai gazebo per votare. “Rana dalla bocca larga, scrofa”. Sono le parole che un docente dell’Università di Siena ha utilizzato nei confronti della leader di Fratelli d’Italia. E ancora: “Ma fai la casalinga per piacere”, il commento su Facebook che il segretario del Pd di Andria, Giovanni Vurchio, ha lasciato sulla bacheca Facebook di Giorgia Meloni. Sui quotidiani si è potuto assistere ad episodi simili, come la vignetta sul Fatto Quotidiano in cui si immagina un Titanic – quello citato dalla Meloni a proposito dell’Europa – come teatro di un accoppiamento sessuale nel quale Macron viene rappresentato in una versione sessuale dominante sulla leader di FdI. Questi sono solo degli esempi. In televisione, sui giornali, alla radio e sui social, i commenti si sono spesso concentrati sul genere: la critica, che quasi sempre degenera in insulto, è indirizzata al loro essere donna e non all’azione politica. Il problema, ovviamente, non è circoscritto nei nostri confini, lo stesso accadde oltremare nel 2020 con l’elezione di Kamala Harris per la carica di Vicepresidente negli Stati Uniti. E tanti altri episodi potremmo trovare in Italia e in giro per il mondo.

La problematica non è solo legata ai media e alle voci che commentano le leadership femminili. Nei fatti, le donne che occupano posizione di vertice in politica sono poche. Se ci concentriamo sull’Europa, i Paesi che hanno una donna come capo del governo in totale sono solo 6 su 31 (il 19,3%). Oppure, è già stato dimostrato quanto la leadership femminile in politica riesca spesso a concretizzarsi in esempi di ottimo operato sia in maggioranza che all’opposizione, come evidenziato dall’analisi del Professor Luca Poma.

È così difficile provare a lavorare per un mondo che non rimanga sorpreso e consideri “normale” l’elezione di una donna nei ruoli al vertice delle istituzioni? Perché sembra appartenere al sogno utopistico lo sviluppo di un futuro in cui nessuno si soffermi sul genere per l’analisi di una persona con impegno politico? Come possiamo intervenire in modo incisivo per invertire la rotta?

Nelle parole della scrittrice Chimamanda Ngozi Adichie, contenute nel libro Dovremmo essere tutti femministi, edito da Fourth Estate, si trova un’analisi capace di generare spunti di riflessione interessanti e possibili risposte a questi interrogativi.

Il genere, per come funziona oggi, è una grave ingiustizia. Vorrei che tutti cominciassimo a sognare e a progettare un mondo diverso. Un mondo più giusto. Fatto di uomini e donne più felici e più fedeli a se stessi. Ecco da dove cominciare: dobbiamo cambiare quello che insegniamo alle nostre figlie. Dobbiamo cambiare anche quello che insegniamo ai nostri figli. Facciamo un grave torto ai maschi educandoli come li educhiamo: soggioghiamo la loro umanità. Diamo della virilità una definizione molto ristretta, che diventa una gabbia piccola e rigida dentro cui rinchiudiamo gli uomini.

Il problema del genere è che prescrive come dovremmo essere invece di riconoscere come siamo. Immaginate quanto saremmo più felici, quanto ci sentiremmo più liberi di essere chi siamo veramente, senza il peso delle aspettative legate al genere. I maschi e le femmine sono indiscutibilmente diversi sul piano biologico, ma la socializzazione accentua le differenze e poi si avvia un processo che si auto-rafforza.

«Perché la parola “femminista”? Perché non dici semplicemente che credi nei diritti umani». Perché non sarebbe onesto. Il femminismo ovviamente è legato al tema dei diritti umani, ma scegliere di usare un’espressione vaga vuol dire negare la specificità del problema. Per centinaia di anni il mondo ha diviso gli esseri umani in due categorie, per poi escludere e opprimere uno dei due gruppi. Quindi è giusto che la soluzione al problema riconosca questo fatto. La cultura non fa le persone. Sono le persone che fanno la cultura. Se è vero che la piena umanità delle donne non fa parte della nostra cultura, allora possiamo e dobbiamo far sì che lo diventi. Tutti noi, donne e uomini, dobbiamo fare meglio”.

Dalla politica al mondo delle imprese: le donne al vertice sono ancora poche

Uno studio presentato dall’associazione European Women on Boards, il Gender Diversity Index (GDI), riportato su milionaire, ha come obiettivo il monitoraggio della rappresentanza di genere nelle più grandi aziende europee. Ciò che è emerso dall’edizione del 2021 è la bassissima presenza di donne nei CdA in Europa, la percentuale è ferma al 35%. Meno di un’azienda su 10 (il 7%) è guidata da donne Ceo. In Italia la percentuale è ancora più bassa: 3%, quattro punti in meno rispetto alla media.

Lo studio ha analizzato 668 società quotate di 19 Paesi europei. L’Unione Europea ha fissato un obiettivo per il 2025, con il 40% di donne in posizione di vertice. Considerando una scala da 0 a 1, in cui 1 rappresenta il 50% nei ruoli dirigenziali, il traguardo è ancora lontano: il GDI 2021 è allo 0,59 (solo in lieve crescita dallo 0,53 del 2019). Nel 2021 c’è stato un aumento di appena l’1% rispetto al 2020 nella presenza femminile nei Consigli di amministrazione. Una presenza ancora più ridotta nelle posizioni di vertice, che gli uomini occupano per l’81%, e tra i Ceo: su 668 aziende solo 50 sono guidate da donne, appena 8 in più rispetto al 2020.

La Presidente European Women on Boards, Hedwige Nuyens, ha commentato quanto emerso dall’analisi: “Visto che le donne rappresentano la maggioranza degli studenti universitari, è stupefacente vedere che poi solo il 7% delle aziende in Europa sia guidato da una donna. Deve esserci un cambiamento perché non possiamo permetterci di non impiegare una parte così importante dei nostri talenti. Il progresso è lento anche in alcuni Paesi noti per essere generalmente “gender equal”, come quelli nordici. Anche lì il potere economico è concentrato in una cerchia ristretta che spesso esclude le donne”.

Dal focus sull’Italia emerge che nel nostro Paese il GDI è di poco superiore alla media europea, 0,62, con una leggera crescita rispetto al 2020, al 6° posto nella classifica generale, davanti a Danimarca, Belgio, Olanda. Le migliori aziende italiane (su 33 analizzate) per Gender Diversity Index sono Unicredit, al 28° posto nella classifica generale, Reply, Fineco Bank e A2A.

L’Italia ha la più alta percentuale di donne nei Comitati di CdA/Consigli di Sorveglianza (47%), ma ha poche donne a capo dei CdA (15%) e nei livelli esecutivi (17%), pochissime e in calo (dal 4 al 3%) alla guida delle aziende. Siamo in fondo alla classifica per numero di Ceo, con Germania e Svizzera.

Il dato è preoccupante e dimostra che siamo molto lontani dalla parità e che c’è ancora tanto lavoro da fare per cambiare la cultura aziendale. È necessario accelerare, promuovere lo sviluppo della leadership inclusiva e creare una pipeline di talenti femminili.

Paola Mascaro, Presidente di Valore D.

Un altro aspetto negativo è mostrato dal tipo di carica che una donna occupa nei ruoli di vertice nelle imprese italiane. Rispetto al 2020 solamente le posizioni di CFO (30% contro 29%) e Chief Marketing Officer (22% contro 16%) sono in crescita ma restano comunque inferiori a quelle globali, rispettivamente (36%) e (23%). Funzioni come l’amministratore delegato, ad esempio, oltre ad essere dirette da un minor numero di donne rispetto al 2020 (18% contro il 23%) e inferiori rispetto a paesi come Germania (27%) e USA (28%), corrispondono solo alla metà della percentuale globale (36%).

Argomento importante da evidenziare è la differenza tra i salari degli uomini e quelli delle donne. Se si osservano i dati proposti da pagellapolitica, possiamo notare come nella paga oraria lorda (il cosiddetto gender pay gap) in Italia la differenza tra le retribuzioni di uomini e donne è tra le più ridotte dell’Unione europea. Secondo Eurostat, nel 2020 la paga oraria lorda delle donne era del 4,3 per cento più bassa di quella degli uomini, il quarto valore più basso tra i 25 Paesi membri dell’Ue per cui sono disponibili dati (mancano Grecia e Irlanda). Al primo posto c’era il Lussemburgo, dove la differenza era di appena 0,7 punti percentuali, e all’ultimo la Lettonia, con una differenza del 22,3 per cento.

La situazione però cambia notevolmente se si analizza il cosiddetto gender overall earnings gap, un parametro più esaustivo che considera non solo la differenza tra le paghe orarie, ma anche il tasso di occupazione femminile nei vari Paesi europei e il numero di ore lavorate da uomini e donne. Con l’unione di questi tre fattori, nel 2018 (ultimo anno per cui sono disponibili dati) l’Italia era il terzo Paese con le differenze più marcate tra gli stipendi di uomini e donne, pari al 43 per cento. Solo Austria (44,2 per cento) e Paesi Bassi (43,7 per cento) avevano due percentuali più alte di quella italiana. All’ultimo posto della classifica c’era invece il Portogallo, con il 20,4 per cento (il valore più basso dell’Ue).

Eppure, se si focalizza l’analisi sull’operato, si può notare che le imprese che affidano la guida ad una donna riescono ad ottenere dei risultati migliori. Uno studio del Peterson Institute for international economics di Washintgon, riguardante 21.980 imprese in 91 Paesi, segnala la grande capacità delle donne a generare utile quando sono alla guida di un’azienda. Secondo i ricercatori americani, infatti, le imprese dove almeno il 30 per cento del board è femminile conquistano un incremento del 6% della quota di utile netto.

Il 2023 potrebbe rappresentare l’anno della svolta, con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che prevede interventi mirati per le donne per un totale 3,1 miliardi di euro circa. La promessa è di riuscire a generare un aumento dell’occupazione femminile del 4% entro il 2026.

Pinkwashing. Il falso impegno per l’uguaglianza di genere

Il neologismo pinkwashing nacque come una critica per indicare campagne pubblicitarie e azioni di marketing che si ponevano in prima linea nella lotta del cancro al seno, proponendo i cosiddetti prodotti contrassegnati dal fiocchetto rosa. Così come il greenwashing, ovvero adottare una strategia di comunicazione volta a costruire un’immagine ingannevolmente positiva dal punto di vista della tutela ambientale o sociale, anche il pinkwashing punta a far diminuire l’attenzione sugli eventuali difetti del prodotto, seducendo l’acquirente con prodotti contrassegnati dal simbolo della lotta al tumore al seno o proponendo, più in generale, articoli che sensibilizzino i potenziali utenti sul tema dell’emancipazione femminile. Da un recente articolo si evince che le imprese aderenti alla Carta per le pari opportunità e l’uguaglianza sul lavoro sono state al centro di un’indagine portata avanti da 4.Manager nel 2020 e nel 2021 e rivela che in materia di parità di genere il tema più caldo affrontato dalle imprese è la genitorialità seguito dalla formazione continua, dalla parità nei ruoli apicali e dalla parità salariale. Emerge che le imprese oggi sono più propense a comunicare le azioni intraprese sulla parità di genere, ma questo avanzare della comunicazione, non è sempre sostenuto dallo sviluppo di progetti reali. Il 27,3% delle imprese oggetto d’analisi, infatti, comunica un’attenzione di facciata. Tutto ciò ha un grave impatto sulla reputazione di un’impresa, che – di conseguenza – ne subirà gli effetti anche in termini di fatturato e benessere economico.

Il falso impegno per l’uguaglianza di genere non è circoscritto solo al mondo del lavoro e delle imprese. La politica, per esempio, continua troppo spesso ad essere ostacolo per l’intervento sul gender gap. Nel nostro Paese, ma anche in Europa e nel mondo, rimane in più di un’occasione assente la volontà di applicare misure che possano modificare realmente un sistema che il più delle volte ancora non prevede l’uguaglianza di genere. Il pinkswashing, in questo caso, si sviluppa con l’ideazione di interventi che non influiscono realmente sul problema ma che invece sono utili al personaggio, al partito o all’organizzazione per apparire sensibili alle problematiche legate al genere. Sicuramente è possibile individuare una delle cause nella presenza in maggioranza degli uomini nello scenario politico italiano e globale, ma ciò accade anche quando nelle posizioni di vertice delle istituzioni c’è una leadership femminile. Essere donna non coincide sempre con la voglia di lavorare per l’ideazione di politiche attive in grado di cambiare il sistema dal punto di vista economico e culturale.




L’INDUSTRIA PESANTE DELL’ACCIAIO ‘SOSTENIBILE’: È POSSIBILE? “CERTO, HO IN MENTE UN ‘ACCIAIERIA GREEN’, E LA REALIZZEREMO NOI”. IN GRECIA

Da ciò che ho compreso, la tua è una figura professionale particolare, a metà strada tra un ingegnere fortemente specializzato e un direttore vendite. La competenza tecnica è un enorme pregio, che un venditore puro non ha, e che ti ha permesso di contribuire a far nascere intuizioni che vi hanno portato a diventare leader nella costruzione di acciaierie a basso impatto ambientale. Spiegaci innanzitutto come e dove avete innovato…

Tutto nasce da una sequenza di idee, osservando l’esistente e interrogandosi su come migliorarlo. Per fondere l’acciaio, fino al 2016 c’erano solo due sistemi, l’altoforno tradizionale e poi l’acciaio da forno elettrico, che ricicla rottami e quindi se vogliamo ha un minore impatto ambientale, ma dà qualche impurità nel prodotto finito, come quelle derivanti dalla presenza di rame, che fonde a temperature più basse, e quindi non garantisce un prodotto finale completamente omogeneo. In ogni caso, da anni non c’erano innovazioni di processo. Inoltre, con il forno elettrico è vero che si ricicla materiale preesistente, quindi apparentemente è più sostenibile, ma serve tantissima energia per fondere, 700kW per tonnellata, energia che può essere iniettata da fonte elettrica, piuttosto che da gas, etc. Immaginate però iniettare tutta questa potenza in un pentolone che può avere un diametro mediamente dai cinque a otto/nove metri, rivestito di sessanta centimetri di materiale refrattario: sono come delle ceste dentro le quali entra dentro il rottame, e che poi si aprono sul fondo, si vedono a volte anche nei film…ma lì dentro si creano continuamente cortocircuiti aperti, e questo ti obbliga ad aver reti molto performanti a livello di robustezza, perché se no “spegni” tutto quello che c’è vicino all’impianto. Inoltre, la rete lunga comporta inevitabili perdite…

Quali soluzioni avete indentificato per ovviare a questi inconvenienti?

Come primo lavoro, io progettavo anche Inverter, cioè strumenti per la conversione della corrente da alternata a continua, e poi di nuovo alternata: quando generi una conversione di questo tipo, significa che dalla corrente continua ripassi all’alternata, in poche parole sei tu che hai il controllo, e non l’elettrodo. La corrente a quel punto deve fare quello che voglio io. Quando io genero qualcosa che è controllato digitalmente, a quel punto io posso dire ai miei elettrodi, tramite un insieme di algoritmi di controllo, “voi più di questa corrente non fate passare”, qualsiasi sia il carico che hai; come un rubinetto al quale quando senti che la corrente arriva a un certo livello, tu ordini “chiuditi”, e quando ridiscende dici “riapriti”. Questo può accadere a una velocità di 500 microsecondi, cioè ogni 500 microsecondi vado a leggere quanta correte sta passando, e dico ad un microprocessore, che comunica con i transistor di potenza, di aprirsi o chiudersi come un rubinetto. Bene, diciamo che adesso abbiamo generato quello che mi serve a livello di potenza, ma non controlliamo solo la tensione, facciamo altro, un’altra cosa molto affascinante, che non puoi fare con le reti convenzionali (ad esempio la 50Hz in Europa, la 60Hz in USA, etc), cioè possiamo anche variare la frequenza, e questo ci permette di contrastare “l’effetto pelle”: con le frequenze alte, proprie della corrente alternata, essa si sposta sempre sulla superficie del conduttore, anziché transitare in tutto il conduttore come nella corrente continua; in corrente continua gli elettroni transitano in tutta la sezione del  cavo, invece in corrente alternata più alzi la frequenza più essi tendono a circolare solo all’esterno della superfice (l’effetto “pelle”, appunto), e questo significa che inevitabilmente il sistema si scalda di più, e, scaldandosi il materiale, aumenta di resistenza, cioè banalizzando più si scalda più fatica fa la corrente, e più perdite ci sono… Riuscire ad abbassare la frequenza, quindi, garantisce meno “effetto pelle”, la corrente va più all’interno del conduttore, si scalda meno la superficie, e diminuiscono le perdite. Inoltre, l’arco elettrico ha una temperatura di 5500 gradi circa, quello che poi ti aiuta a fondere: più si abbassa la temperatura di frequenza, più l’arco elettrico penetra dentro l’acciaio liquido e lo scalda in minor tempo. Dal momento che parliamo in senso assoluto di consumi enormi di energia, di vere industrie energivore, ogni soluzione tecnologica finalizzata a risolvere o attutire questi problemi si rivela preziosissima. Un’acciaieria da un milione di tonnellate lavora come fondesse centomila automobili ogni mese, non so se rendo l’idea. Sia chiaro, la tecnologia Inverter esisteva già, quello che abbiamo fatto noi, con i nostri brevetti, è stato di testarla e utilizzarla, per primi al mondo, per un controllo di così alta potenza e caratterizzato da così frequenti cortocircuiti e carichi imprevisti.

Quanto le vostre soluzioni tecnologiche portano a risparmiare, rispetto ad un’acciaieria di taglia media?

Diciamo che se parliamo di forno elettrico un’acciaieria da 1 milione di tonnellate è considerata media: ce ne sono tantissime da mezzo milione, ce ne sono parecchie da un milione, e ne sono poche oltre i due milioni. Allora, anche se adesso il trend per la decarbonizzazione è quello di spostarsi verso le grandi fonderie, noi abbiamo ottenuto un sistema che ti permette di risparmiare non solo in termini di efficienza di processo ma anche di impatto ambientale. Diciamo che ad oggi possiamo migliorare l’efficienza di almeno un 10%, e se consideriamo che un’acciaieria media consuma cento milioni di dollari all’anno di energia ci rendiamo conto di cosa parliamo.

Sul fronte dell’innovazione di processo, voi siete anche riusciti a creare uno strano ma interessante “ibrido”, sotto il profilo dell’iniezione di energia che questi mega impianti necessitano per poter funzionare…

Si, il fatto di controllare il passaggio da corrente continua ad alternata e viceversa ci permette un’altra piccola “magia”: io in un modo semplice posso andare a iniettare contemporaneamente oltre all’energia che arriva dalla rete tradizionale, anche energie rinnovabili autoprodotte. Ad esempio, se nelle vicinanze del mio impianto ho un deserto (per esempio un nostro cliente sta costruendo un impianto in California, a 100 Km ad est di Los Angeles, nel deserto), ebbene, di giorno noi gli faremo funzionare l’impianto 100% con il solare, ok? Così facendo hai una flessibilità da punto dell’energy-saving, e inoltre un diverso modo di ripagarti l’investimento, perché risparmi concretamente l’energia della rete, che dovresti pagare, e dopo sei o sette anni ti sei ripagato anche l’investimento. Poi, ci avvantaggiamo anche di innovativi processi di lavorazione che ci permettono di non dover riscaldare l’acciaio per laminarlo: noi facciamo questo prodotto, i rotoli di laminato sottile, senza passare dal forno di riscaldo, ovvero dal liquido direttamente lo coliamo e lo laminiamo, senza doverlo riscaldare, e questo è un enorme vantaggio sia in termini di tempi che di impronta ecologica.

Può esistere – secondo te, oggi – un impianto per la produzione di acciaio a “zero impatto ambientale”?

Forse si, ma il problema è il costo di trasformazione. Ad esempio, se al posto del carbone metti idrogeno, l’idrogeno per produrlo devi farlo con fonti rinnovabili, e questo ha un costo, perché le devi trasformare, hai dei rendimenti, hai una resa solo del 60%…se invece immetti energia da metano, hai una certa quantità di emissioni, che sono circa il 40% di quelle di un altoforno, ma comunque ci sono. Insomma, ripeto, il sistema totalmente green e nel contempo sostenibile anche finanziariamente forse non esiste, ma quello che è certo è che possiamo ridurre l’impatto ambientale, se vogliamo, mantenendo comunque una profittabilità adeguata, questa è la mia certezza. In questo senso non ci sono più scuse. Oggi la CO2 generata dall’industria metallurgica mondiale vale l’8 per cento della CO2 generata al mondo: immagina se dovessimo, applicando queste soluzioni innovative, ridurla di venti volte. Chiaro che per essere sostenibili finanziariamente questi impianti chiedono gas a costo contenuto, e questo è un tema anche politico, anzi, geopolitico, in questo periodo di crisi con la Russia. Il tema del costo dell’energia che deve approvvigionare l’impianto – e di un eventuale ruolo dello Stato come ammortizzatore in questo senso – è enorme.

Ci sono Stati più avanti sotto questo profilo?

Un impianto 100% green lo potresti forse fare in Svezia o Norvegia. Puoi partire tranquillamente da minerale di ferro che noi chiamiamo pre-ridotto, che è già più pulito, e usi idrogeno da energie rinnovabili. Perché indico questi due Paesi: perché hanno tantissime aziende idroelettriche ad un costo di energia bassissima, 20 euro a MegaWatt. L’energia idroelettrica è quella che ha il rendimento più alto in assoluto. Allora tu sei in grado di usare l’idrogeno per il processo di immissione diretta, ma anche l’energia poi per il forno elettrico: questo cambia tutto il processo, arrivi a limitare le emissioni a 150 kg. di CO2 per tonnellata, contro i 2.500 kg. di CO2 per tonnellata di un altoforno: la differenza in termini di impatto ambientale è francamente enorme, parliamo di 20 volte meno.

Esiste un impianto così? Tu lo hai disegnato?

C’è a livello di prototipo, e vorrei realizzarne uno non appena possibile. È la mentalità che deve cambiare: mi serve tanta energia per un impianto? Bene, vado a realizzarlo dove posso averla a un costo accettabile. Penso ad esempio alla Grecia, dove c’è tantissimo vento, potrebbe essere un posto ideale dove hai sole, hai vento… Nel nostro settore, nessuno considera oggi la Grecia, eppure hai anche tante isole, e molte disabitate, vai a fare impianti li, così non ha neppure un impatto dal punto di vista della convivenza tra impianto e insediamenti umani. Poi c’è il tema dell’accumulo e distribuzione dell’energia prodotta, ed anche qui la tecnologia sta facendo grandi progressi.

Impianti del genere sarebbero redditizi già oggi?

Il profitto è legato a tanti fattori: la domanda, nel senso che un anno fa c’era una richiesta incredibile nel mondo e non c’era materia prima, quindi di conseguenza salivano i prezzi, ma anche i margini, e aumentava il profitto. Il profitto è generato poi anche dall’efficienza: se tu hai un impianto efficiente solitamente non fai errori. Poi c’è la manutenzione preventiva dei tuoi impianti, che non si devono mai fermare…Insomma, il profitto viene centrato quando sono in asse davvero molti fattori complessi. L’unica certezza che abbiamo, è che la scelta green non è alternativa al profitto, di questo siamo fortemente convinti.

Esistono fenomeni di green-washing anche nel vostro mondo?

Altrochè. Un cliente può dirmi: faccio l’impianto elettrico così sono a zero emissioni, e io chiedo “dove prendi l’energia per far funzionare l’impianto, dalla rete?”. Bene, da dove trae energia la rete? Magari dal carbone? Ok, allora l’intera filiera non è sostenibile, otterresti meno CO2 immessa se usassi i bruciatori a gas al post di prendere l’energia dalla rete. È come le batterie elettriche delle auto: è vero che l’auto elettrica non inquina, ma dobbiamo guardare all’intero ciclo di produzione includendo anche lo smaltimento, sennò facciamo puro greenwashing. Poi ovviamente la scienza e la tecnologia evolvono, quello che potrebbe non essere sostenibile oggi, potrebbe diventarlo domani. 

Hai accennato al ruolo dello Stato come facilitatore di scelte più sostenibili.

Certamente. Noi in Europa abbiamo regole che in altre zone del mondo non ci sono, ad esempio altrove non c’è la Carbon Tax, eppure gli imprenditori dell’acciaio di quei paesi si stanno comunque spostando sul green, anzi, lo stanno facendo più veloci di noi. Perché? Per esempio in Giappone o in Korea hanno altri altiforni e hanno progetti consolidati che vanno verso la decarbonizzazione semplicemente perché diversamente il loro cliente non gli compra più l’acciaio. In definitiva, l’ultima parola è del cittadino, dell’utente, del cliente finale: la sensibilità cresce, e le persone si chiedono perché se è possibile inquinare di meno ciò non viene fatto? Quindi i gruppi dell’acciaio sentono la pressione e obtorto collo devono adeguarsi. Succederà entro un certo tempo quello che successo con le calorie sui cibi confezionati: quanta CO2 hai immesso in atmosfera per fare quella lattina di Coca Cola, questo è il messaggio, e quindi quanta CO2 hai immesso per produrre questa infrastruttura in acciaio? Chi arriverà primo su questo fronte, vincerà la sfida.

Ci sono realtà che spiccano particolarmente sul fronte del sostegno finanziario a questi progetti?

Il Giappone, ad esempio. Abbiamo adesso due progetti con clienti Giapponesi, dove stiamo approntando un processo di micro colaggio e laminazione continua senza forni di riscaldo. Ebbene, il governo ha compreso il valore del progetto e il loro Ministero dell’Industria, il MITI, ha finanziato il 100% del progetto ai nostri clienti, sostenendo a fondo perduto tutte le attrezzature e macchinari. Spettacolare sensibilità, che vorrei vedere anche in Europa. Praticamente in Giappone hanno un elenco di tecnologie, diciamo pre-qualificate, dove vi sono anche nostri prodotti: se il tuo progetto include queste tecnologie è finanziato in automatico, e la cosa notevole e che ogni hanno stanno aumentando i budget statali per questi investimenti, perché vedono che funziona.

Ultime battute: cosa diresti a te quaranta anni fa, e oggi a un giovane che iniziasse la tua carriera?

Di fare esperienze sul campo, perché si impara in un modo estremamente più rapido; e secondo di fare esperienze globali, stringersi il naso e andare ovunque, non dire solo “a me piace New York, Londra, Parigi”; no, io mi sono fatto andar bene l’isola di Sumatra dove mi sono trovato a quattro ore di distanza dal primo paese, piuttosto che nei sommergibili della Korea del Sud, e tutto questo mi ha permesso di contaminarmi con un insieme di culture, tecniche e stili di vita profondamente differenti, e di far mia quella curiosità intellettuale che mi porta a comprendere le persone prima ancora che parlino. Ho una solida formazione accademica, ma queste cose non le impari certamente in università, quindi benissimo l’università ma dopo devi girare il mondo, coraggiosamente, non accettando offerte solo nelle grandi capitali. Questo è il limite, ragazzi, muovetevi, fuori, fuori, fuori: fate esperienza, ma soprattutto vi fate conoscere, e tra l’altro crescete sia professionalmente che umanamente, e le due cose credetemi vanno di pari passo.

Il tuo più grande errore, e la cosa più bella che hai fatto…

Bilanciando ciò che ho detto prima, avrei vissuto di più, professionalmente, gli USA. Io sono rimasto stregato dalla cultura orientale e ho fatto moltissima esperienza ad est dell’Europa, ma dal punto di vista tecnologico non c’è niente da fare, le innovazioni vere si fanno in America, e se avessi fatto una parte più consistente della mia carriera in USA oggi guadagnerei 15 milioni all’anno. E per quanto riguarda invece le soddisfazioni, forse quando nel 2008 ho venduto la più grande acciaieria al mondo, a dei clienti giapponesi, a Tahara, vicino a Thoyoashi, clienti che non avevano mai comprato un chiodo da noi: quella è stata davvero una grande soddisfazione. Anche perché è difficilissimo vendere a loro, sono talmente meticolosi, seri e precisi… Ho vissuto anche qualche difficoltà interna, se così si può dire: a volte ho dovuto combattere contro una serie di corvi neri, tutti quelli che sperano che fallirai, che ti dicono “Ah, ci avevo già provato io…”. Poi invece se performi, se riesci, anche grazie a chi ti sponsorizza, che in questo caso è il mio Chairman che è un visionario, e ci ha creduto dal giorno uno, allora tutti, tutti, tutti, vogliono vendere quel prodotto lì, perché è l’unico al mondo, di fatto non c’è concorrenza qualificata e quindi diventa più facile venderlo.

Nella fattispecie, quale è il prodotto?

Questo nello specifico si chiama Q-ONE, è un forno elettrico digitale per la lavorazione dell’acciaio. È un prodotto moto complesso, sia dal punto di vista dell’hardware che del software di controllo, ma ci pone all’avanguardia nel mondo. Io comunque ci credo, e voglio ripeterlo con forza: l’acciaio verde è possibile, dobbiamo solo insistere convintamente in questa direzione. Le resistenze esistono, ma una volta intrapreso il percorso, non si tornerà mai più indietro.




Se la rivoluzione linguistica parte dalla Segretaria

Se la rivoluzione linguistica parte dalla Segretaria

Il PD ha una nuova Segretaria. Di partito.

La novità non riguarda solo il volto di chi la incarna, ma anche e soprattutto il cambiamento che sta prendendo atto in termini linguistici. Perché se prima la parola “segretaria” al femminile aveva una connotazione puramente stereotipata legata all’essere l’assistente di qualcuno, oggi viene – finalmente – sdoganata un’altra accezione. Perché se il Segretario di un partito porta con sé il tema della leadership, non può accadere la stessa cosa anche per la sua declinazione al femminile?

Come spiega la linguista Vera Gheno nel suo libro “Femminili singolari. Il femminismo parte dalle parole”: “È assolutamente vero: la segretaria fa pensare istintivamente a un lavoro meno blasonato del segretario, come la direttrice di un direttore (non a caso, alcune donne “al comando” si fanno chiamare direttora), la maestra di un maestro come direttore d’orchestra. Ciononostante, queste connotazioni possono essere cambiate dall’uso. Il giudizio che diamo istintivamente su queste parole è quasi come un riflesso pavloviano, non del tutto cosciente: un automatismo linguistico dovuto a un pre-giudizio che quasi non passa dal giudizio raziocinante.”

Ma non solo. Spesso ci nascondiamo dietro al muro della cacofonia, ovvero quell’effetto sgradevole provocato dagli accostamenti strani delle sillabe che ha la peculiarità di creare un suono fastidioso. Ma vi svelerò un segreto: ci risulta cacofonico tutto ciò che il nostro orecchio non è abituato ad ascoltare. “Ministra o sindaca, non si possono sentire!” è l’affermazione più comune, ma in realtà quelle parole rappresentano una novità per il nostro udito e pertanto è necessario più tempo per metabolizzarle ed inserirle nel nostro vocabolario. Lo stesso concetto vale per quelle professioni che rimandano l’attenzione a parole antipatiche. “Non voglio essere chiamata architetta perché volgare!”, mi disse una volta una ragazza, come se le tette rappresentassero una parola illecita, inammissibile. Da domani allora bandiamo anche l’uso di “pene d’amore” perché decisamente troppo peccaminoso come modo di dire.

La verità è che come non ci sconvolge l’uso delle parolacce, lo stesso dovrebbe accadere anche per l’utilizzo di un linguaggio più inclusivo, dove una – a faccia la differenza per garantire l’uguaglianza di opportunità, anche nel mondo del lavoro. Solo utilizzando termini, pronomi e frasi che siano sensibili alle questioni di genere, si può raggiungere l’obiettivo di creare un ambiente più equo e rispettoso per tutte le persone, indipendentemente dal loro sesso o dalla loro identità.

Di fronte all’elezione di Daniela Bianchi come Segretaria il tema è stato dibattuto anche nel Consiglio di FERPI, arrivando abbastanza velocemente ad una conclusione: una federazione di comunicatori non può far altro che sposare la causa, prendendo parte a questa rivoluzione linguistica, perché le parole sono importanti, ci servono a concettualizzare la realtà per guardarla con occhi nuovi, magari diversi.




LA BUONA REPUTAZIONE COME ACCELERATORE DI BUSINESS NELLE RELAZIONI BILATERALI ITALIA/ALBANIA – Tirana, 16 marzo 2023 h. 16.00 – 19.00

LA BUONA REPUTAZIONE COME ACCELERATORE DI BUSINESS NELLE RELAZIONI BILATERALI ITALIA/ALBANIA - Tirana, 16marzo 2023 h. 16.00 – 19.00

Aristotele scriveva, due millenni orsono, che la buona opinione che gli altri hanno di noi “è il più grande dei beni esteriori, ma esso – per non essere solo apparente – deve accompagnarsi alla virtù, poiché l’opinione che conta non si limita alle apparenze, ma include la natura stessa dell’uomo”. Oggi, nell’epoca di Instagram e di Tiktok, questa affermazione è quanto mai di attualità, e pare anche essersi realizzata l’illuminante profezia di Warren Buffet, “guru” della finanza USA, quando disse “Reputazione: 20 anni per costruirla, 5 minuti per distruggerla”.

Si consolida la consapevolezza – scientificamente documentata – che la reputazione sia il più importante asset immateriale per qualunque organizzazione (aziendale e industriale, ma anche politica, istituzionale, no profit) e che costruirla – e tutelarla dalle frequenti “crisi” che la coinvolgono – sia qualcosa di ben più complesso e articolato che non solo “dotarsi un buon ufficio stampa”.

In base alle più recenti ricerche, oltre il 60% del valore di qualunque organizzazione è attribuibile alla reputazione; la buona reputazione, quindi, equivale a denaro, e può agire come “acceleratore di business” tra due paesi già strettamente e virtuosamente interconnessi, quali sono l’Italia e l’Albania.

Inoltre, è da tempo scientificamente dimostrato che le aziende che maturano migliori utili siano infatti proprio quelle che hanno inserito preoccupazioni di carattere etico nel proprio business a livello strategico, circostanza questa che ha colpito l’immaginario anche dei gestori dei grandi fondi di investimento, fino a spingere l’amministratore delegato del più importante al mondo di essi, Blackrock, a ribadire ripetutamente, nelle sue lettere di fine anno, l’importanza dell’inserimento di preoccupazioni etiche nel business, e non già non per ragioni solamente “morali”, bensì perché le aziende con questo tipo di “sensibilità” sarebbero le più resilienti, le più floride, e quindi le più interessanti per gli investitori.

Per questi motivi, l’Ambasciata d’Italia in Albania, in collaborazione con alcuni tra i più noti accademici italiani esperti in reputation management, e alla presenza di alte cariche del mondo istituzionale e imprenditoriale albanese e di una qualificata rappresentanza dei vertici di aziende italiane, ha organizzato, su questi temi di straordinaria attualità, un convegno di approfondimento presso l’Università della Signora del Buon Consiglio di Tirana, durante il quale si analizzerà lo stato dell’arte sul tema della reputazione e della gestione delle crisi reputazionali, e le più innovative buona prassi in materia, ascoltando anche numerosi casi pratici di studio, emblematici della tendenza per piccole e grandi aziende a costruire “buona reputazione” per far espandere e affermare il proprio business.

Programma

h 15:30 registrazione dei partecipanti (chiusura porte/ultimi ingressi h 15:55)

h 16:00 discorso di benvenuto del Presidente della Fondazione NSBC Dott. Ruggero Valentini

h 16:05 discorso di benvenuto del Magnifico Rettore dell’UCNSBC

h 16:10 Saluti istituzionali di S.E. l’Ambasciatore d’Italia in Albania Dott. Fabrizio Bucci

h 16:15 Saluti istituzionali della Ministra dell’Istruzione Dott. sa Evis Kushi

h 16:20 Saluti istituzionali della Ministra dell’Economia e Finanze Dott. sa Delina Ibrahimaj

h 16:25 discorso di saluto del Prof. Alessandro Giosi, Presidente del corso di Laurea in Comunicazione d’Impresa Marketing e Nuovi Media e delegato del Rettore dell’Università LUMSA di Roma

h 16:35 introduzione storica sul concetto di reputazione, a cura del Dott. Alberto Pirni, Professore di Filosofia morale all’Università Sant’Anna di Pisa, con una relazione dal titolo “La reputazione come riconoscimento individuale e di gruppo: storia e prospettive”

h 16:50 colloquio con il Prof. Luca Poma, docente di Reputation management all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino: “Reputazione è eguale a denaro: come costruirla, e cosa fare quando va in crisi”

h 17:10 colloquio con Col. Massimiliano Corsano, Comandante Nuclei Operativi Ecologici dell’Arma dei Carabinieri: “La narrazione ‘green’ delle aziende per costruire reputazione: quando realtà, e quando finzione?”

h 17:25 avvio di 2 talk/tavole rotonde sul tema della reputazione, moderate da Luca Yuri Toselli (giornalista esperto in sostenibilità e reputation management) coadiuvato sul palco da Giorgia Grandoni, ricercatrice presso il Centro-studi della start-up innovativa Reputation management:

  • h 17:30 primo talk, “Reputazione transnazionale”: Prof. Giovanni Lagioia, Avvocato e Preside della Facoltà scienze economiche politiche e sociali della UCNSBC; Dott. Alessandro D’Oria, CEO di Intesa San Paolo Bank Albania, Dott. sa Barbara Cimmino, socia fondatrice ed Head of CSR & Innovation gruppo Inticom/Yamamay; Dott. Paolo Rossi, Socio fondatore di Promos SB e Promos Albania, Dott. Andrea Carson, architetto e Italian Design Ambassador Tirana 2023;

  • h 18:00 secondo talk, “Reputazione digitale 2.0”: Avv. Fabio Romito, Docente di diritto internazionale all’UCNSBC, Dott. Massimo De Donno, CEO della rete d’imprese GenioNet, Dott. Oselito Duro, Country manager Albania di WebHelp, Altin Prenga, imprenditore titolare dell’agriturismo Mrizi i Zanave

h 18:30 domande del pubblico

h 19:00 conclusione dei lavori