La classifica delle aziende con la miglior reputazione al mondo: 7 sono italiane
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È stata pubblicata la classifica delle 100 aziende con la miglior reputazione a livello globalestilata da The RepTrak Company, società statunitense con sede a Boston che pubblica rapporti sulla reputazione di aziende e luoghi, sulla base di sondaggi sui consumatori e copertura mediatica. Setteimprese sono italiane.
Nel report sono anche indicati i criteri che le aziende devono rispettare per poter entrare nel Global RepTrak 100. Primo fra tutti, un fatturato totale superiore a 2 miliardi di dollari; una soglia di familiarità media globale superiore al 20% in tutti i 14 Paesi misurati e una soglia di familiarità superiore al 20% in valori in oltre 7 di questi Paesi presi in esame. In più, è necessario che queste raggiungano un punteggio di reputazione superiore a 67,3 punti.
Quali sono le aziende in classifica
Alla testa della classifica 2023, sul gradino più alto del podio, troviamo Lego. La famosa aziende danese dei mattoncini conferma il primo posto dell’anno passato con un ‘reputation score‘ di 76.8. Seguono al secondo e terzo posto della classifica Bosch e RollsRoyce.
La aziende italiane più in alto in classifica generale sono Ferrari al 13esimo posto e Pirelli al 15esimo. Mentre più in basso, nel settore alimentare, alle posizioni 30, 33 e 44 ci sono i colossi Ferrero, Barilla e Lavazza.Per il comparto moda, invece, al 47esimo posto c’è Giorgio Armani e sul penultimo gradino della classifica, al 99esimo, Prada, presente nel Global RepTrak 100 solo da due anni.
La classifica delle 100 aziende con la miglior reputazione – Foto Global RepTrak
I dipendenti di TikTok rendono i contenuti virali schiacciando un bottone
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Rivelazione scomoda su TikTok, il social cinese diventato celebre anche per l’unicità della sezione “Per te”, da sempre descritta come un Feed classificato da un algoritmo che prevede l’interesse degli utenti sulla base del loro comportamento sull’app. Ma questa non sembra essere tutta la verità. Secondo un recente rapporto pubblicato da Forbes, non è solo l’algoritmo a decidere quali contenuti diventeranno virali. A quanto pare, lo staff di ByteDance è in grado di selezionare segretamente alcuni video specifici e potenziarne la distribuzione, avviando una pratica internamente nota come “riscaldamento“.
“La funzione di riscaldamento si riferisce all’aumento dei video nel feed ‘Per Te’ attraverso l’intervento operativo per ottenere un certo numero di visualizzazioni video – si legge in un documento interno di TikTok intitolato “MINT Heating Playbook -. Le visualizzazioni totali di video riscaldati rappresentano gran parte delle visualizzazioni totali giornaliere, circa l’1-2%, che possono avere un impatto significativo sulle metriche fondamentali complessive”. Una rivelazione piuttosto sconcertante, soprattutto considerando che TikTok non ha mai ammesso di essere coinvolta in un’azione di questo tipo. Ma alcune fonti hanno chiaramente riferito che la piattaforma ha utilizzato la pratica del “riscaldamento” per corteggiare influencer e marchi, invitandoli a collaborare in cambio dell’aumento del numero di visualizzazioni dei loro video.
Se così fosse, è evidente che TikTok abbia volutamente avvantaggiato alcuni brand e creator rispetto ad altri. E solo per i suoi scopi commerciali. Pertanto, questo significa che molti dei video che visualizzate nella sezione “Per te” non sono lì perché l’algoritmo del social pensa che possano piacervi, quanto piuttosto per favorire un alto numero di visualizzazione dei video che interessano alla piattaforma. Il problema reale, in questo senso, è che non ci sono etichette specifiche che segnalano che si tratta di contenuti “riscaldati”. E non solo.
Secondo il rapporto di Forbes, i dipendenti di ByteDance hanno abusato della pratica di “riscaldamento” per rendere virali i video condivisi dal loro account o da quello dei loro cari, infrangendo di fatto la politica aziendale. L’intento della piattaforma, infatti, era chiaro: promuovere contenuti che fossero diversi da balletti e lyp-sinc, così da diversificare il più possibile l’esperienza degli utenti. Un portavoce di TikTok ha rilasciato la seguente dichiarazione: “Promuoviamo alcuni video per incentivare la diversificazione dell’esperienza dei contenuti, oltre che per far conoscere personaggi celebri e creator emergenti alla community di TikTok. Solo poche persone, basate negli Stati Uniti, hanno la possibilità di decidere quali contenuti promuovere, limitatamente agli Stati Uniti, e quei contenuti rappresentano circa lo 0,002% dei video del feed Per Te”.
Insomma, le intenzioni del social cinese non sembravano essere cattive, anche se risultano poco credibili. Nonostante questo, già a dicembre TikTok ha annunciato che avrebbe aggiunto un nuovo pannello ai video consigliati intitolato “Perché questo video“, così da poter spiegare agli utenti perché l’algoritmo gli suggerisce un contenuto piuttosto che un altro. Tra le possibili motivazioni, però, non sembrerebbe esserci “Questo post è stato riscaldato”, il che significa che forse l’app non è davvero trasparente come afferma di essere. E questo è un bel problema.
Ma davvero il metaverso è già morto?
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Pochi giorni dopo aver annunciato la chiusura di AltSpaceVR (l’ambiente sociale in realtà virtuale acquistato nel 2017), Microsoft ha deciso di chiudere, dopo soli quattro mesi, anche l’intero dipartimento per lo sviluppo del suo cosiddetto metaverso industriale, licenziando circa 100 persone. Già qualche mese fa, invece, Tinder aveva deciso di rinunciare ai suoi ambiziosi (e paradossali) progetti in stile metaverso.
I ripensamenti hanno coinvolto anche la società che più di ogni altra ha scommesso il suo futuro su questa visione, vale a dire Meta. Prima è venuto il post in cui Andrew Bosworth, responsabile tecnico dei Reality Labs di Meta, raccontava i progetti futuri della società senza mai menzionare il metaverso poi si è scoperto come gli stessi dipendenti della società fondata da Mark Zuckerberg fossero molto scettici riguardo a tutta la faccenda.
Stando a un sondaggio anonimo su Blind, il 56% dei dipendenti di Meta pensa infatti che Zuckerberg non abbia “spiegato chiaramente cosa il metaverso sia”, mentre il 58% ritiene che “il metaverso non raggiungerà un miliardo di utenti nel prossimo decennio” (nel novembre 2021 questa percentuale era del 40%). In tutto ciò, è noto come il principale progetto di Meta in questo ambito, vale a dire Horizon Worlds, sia passato da 300mila a 200mila utenti nel corso del 2022 e abbia grandemente deluso le aspettative.
Per quanto importanti, questi incidenti di percorso non bastano da soli a mettere la parola fine all’ambizioso e (fin troppo) variegato progetto di metaverso. Come ha sottolineato Harry McCracken nella sua newsletter Plugged In, “il calo dell’interesse nei confronti di una categoria tecnologica non è la dimostrazione che sia destinata a svanire per sempre. Il decennale settore dell’intelligenza artificiale è noto per aver dovuto affrontare molteplici fasi in cui il pessimismo verso le sue potenzialità dominava”. È però proprio il confronto con l’intelligenza artificiale a essere particolarmente impietoso. A differenza del metaverso, che ha generato aspettative sproporzionate rispetto allo stato di avanzamento e adozione dei vari progetti, il deep learning negli ultimi dieci anni ha veramente cambiato il mondo, venendo integrato con enorme successo in un numero sempre crescente di ambiti ed evolvendo senza sosta, come dimostrato da ultimo proprio da uno strumento come ChatGPT.
Per quanto anche ChatGPT e la Generative AI in generale abbiano ricevuto la loro quota di aspettative eccessive, non è niente di paragonabile al clamore generato dal metaverso, che è riuscito nell’impresa di far credere – a colpi di pubblicità e campagne di marketing – che davvero già esistesse un ambiente in realtà virtuale, immersivo e aperto in cui trasferire una parte della nostra quotidianità (mentre in realtà esistevano soltanto svariate piattaforme estremamente diverse tra loro e che nella maggior parte dei casi non usavano neanche la realtà virtuale).
Alimentare aspettative eccessive non può che rivelarsi un boomerang quando viene promesso – come fatto da Zuckerberg nel 2021 – di poter partecipare con il proprio avatar a un concerto che si svolge fisicamente in qualche arena, senza apprezzabili differenze rispetto a chi si trova realmente sul posto. Qualcosa che – come ha scritto sempre McCracken – “ha tanto fondamento nella realtà quanto la macchina del tempo o il raggio rimpicciolente”.
Lo stesso concetto è stato reiterato su Forbes: “Dopo otto anni di sviluppo e dopo aver speso miliardi di dollari, questo fantascientifico concetto sembra essere stato completato forse al 2%. Il problema di fondo di luoghi come Horizon Workrooms (il “metaverso” destinato alle riunioni di lavoro) o Horizon Worlds (quello invece più sociale) è che sono terribilmente brutti, a malapena funzionanti e sono terreni fertili per interazioni sociali che, nel migliore dei casi, sono impacciate e goffe”.
È davvero la fine del metaverso? Dipende da che cosa s’intende: il colossale progetto basato sulla realtà virtuale di Mark Zuckerberg potrebbe anche rivelarsi un fallimento, ma lo stesso non si può certo dire di molteplici altre realtà che sono state etichettate come tali (basti pensare ai clamorosi successi di Roblox e Fortnite), mentre gli stessi videogiochi in realtà virtuale in cui è anche possibile interagire con altri utenti (come Population One o Echo VR, che solo a posteriori sono stati fatti ricadere nella categoria metaverso) continueranno ad affascinare una fetta crescente di gamer.
Probabilmente, la cosa migliore sarebbe decretare la fine della parola “metaverso”: un termine troppo vago, confusionario, che lascia immaginare qualcosa che oggi non esiste e che racchiude ambienti ed esperienze estremamente diverse tra loro. D’altra parte, quando si vuol far passare per metaverso anche una semplice piattaforma in realtà virtuale per l’addestramento al volo, o giochi che esistono da oltre un decennio come Minecraft (e che non sono neanche in realtà virtuale), significa che si è tirato troppo la corda.
Protezione dei consumatori: permettere scelte sostenibili e porre fine al greenwashing
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La Commissione propone oggi criteri comuni per contrastare il greenwashing e le asserzioni ambientali ingannevoli. Conformemente alla proposta odierna, i consumatori beneficeranno di maggiore chiarezza e di maggiori garanzie del fatto che un prodotto venduto come ecologico lo è effettivamente, nonché di informazioni più complete per scegliere prodotti e servizi rispettosi dell’ambiente. A beneficiare di queste nuove norme saranno anche le imprese, poiché quelle che si sforzano realmente di migliorare la sostenibilità ambientale dei loro prodotti saranno più facilmente riconosciute e premiate dai consumatori e potranno incrementare le loro vendite anziché dover far fronte a una concorrenza sleale. La proposta contribuirà quindi a creare condizioni di parità per quanto riguarda le informazioni sulle prestazioni ambientali dei prodotti.
Uno studio della Commissione del 2020 ha rilevato che il 53,3% delle asserzioni ambientali esaminate nell’UE erano vaghe, fuorvianti o infondate e che il 40% era del tutto infondato. La mancanza di norme comuni per le imprese che presentano autodichiarazioni ambientali volontarie apre la strada al greenwashing e crea condizioni di disparità nel mercato dell’UE, a scapito delle imprese realmente sostenibili.
Informazioni attendibili, comparabili e verificabili per i consumatori
Secondo la proposta, le imprese che scelgono di presentare una “autodichiarazione ambientale” riguardante i loro prodotti e servizi dovranno rispettare norme minime sulle modalità per suffragare e comunicare tali autodichiarazioni.
La proposta riguarda le autodichiarazioni esplicite, quali: “T-shirt realizzata con bottiglie di plastica riciclata”, “consegna con compensazione di CO2”, “imballaggio in plastica riciclata al 30%” o “protezione solare rispettosa degli oceani”. Intende inoltre contrastare la proliferazione dei marchi e la questione della creazione di nuovi marchi ambientali pubblici e privati. La proposta riguarda tutte le autodichiarazioni volontarie riguardanti gli impatti, gli aspetti o le prestazioni ambientali di un prodotto, di un servizio o l’operatore stesso. Tuttavia, esclude le autodichiarazioni disciplinate dalle norme esistenti dell’UE,, come il marchio Ecolabel UE o il logo degli alimenti biologici, in quanto la legislazione in vigore garantisce già l’affidabilità di tali dichiarazioni regolamentate. Le autodichiarazioni che saranno contemplate dalle future norme regolamentari dell’UE saranno escluse per lo stesso motivo.
Prima che le imprese possano comunicarle ai consumatori, le “autodichiarazioni ambientali” contemplate dalla proposta dovranno essere verificate in modo indipendente e convalidate da prove scientifiche. Nel quadro dell’analisi scientifica, le imprese dovranno identificare gli impatti ambientali che sono effettivamente pertinenti per i loro prodotti, come anche gli eventuali compromessi tra i vari impatti, onde fornire un quadro completo e accurato.
Norme e marchi chiari e armonizzati
Diverse norme garantiranno che le autodichiarazioni siano comunicate in modo chiaro. Saranno vietate le autodichiarazioni o i marchi che utilizzano il punteggio aggregato dell’impatto ambientale complessivo del prodotto, tranne se rientrano nelle norme dell’UE. I confronti tra prodotti o organizzazioni dovrebbero essere fondati su informazioni e dati equivalenti.
La proposta disciplinerà anche i marchi ambientali. Attualmente esistono almeno 230 marchi diversi, cosa che genera confusione e sfiducia nei consumatori. Per controllare la proliferazione di tali marchi, non saranno consentiti nuovi sistemi pubblici di etichettatura, a meno che non siano sviluppati a livello dell’UE, e qualsiasi nuovo sistema privato dovrà dimostrare di perseguire obiettivi ambientali più ambiziosi rispetto ai sistemi esistenti e ottenere un’approvazionepreventiva. Esistono norme dettagliate riguardanti i marchi ambientali in generale, che devono essere affidabili, trasparenti, verificati in modo indipendente e periodicamente riesaminati.
Prossime tappe
Conformemente alla procedura legislativa ordinaria, la proposta di direttiva sulle autodichiarazioni ambientali sarà sottoposta all’approvazione del Parlamento europeo e del Consiglio.
Contesto
La proposta odierna integra la proposta del marzo 2022 sulla “responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde” stabilendo norme più specifiche in materia di asserzioni ambientali, oltre a un divieto generale di pubblicità ingannevole. La proposta odierna è inoltre presentata unitamente a una proposta riguardante norme comuni volte a promuovere la riparazione dei beni, che contribuirà anche al consumo sostenibile e rafforzerà l’economia circolare.
La proposta odierna concretizza un impegno importante preso dalla Commissione nel quadro del Green Deal europeo. Insieme alla proposta relativa a norme comuni volte a promuovere la riparazione dei beni, si tratta del terzo pacchetto di proposte sull’economia circolare. Il primo e il secondo pacchetto sull’economia circolare sono stati adottati nei mesi di marzo e novembre 2022. Il primo pacchetto comprendeva la nuova proposta di regolamento sulla progettazione ecocompatibile dei prodotti sostenibili, la strategia dell’UE per prodotti tessili sostenibili e circolari e la proposta di direttiva sulla responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde. Il secondo pacchetto comprendeva la proposta di regolamento sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio, la comunicazione sulle plastiche a base biologica, biodegradabili e compostabili e la proposta di regolamento su una certificazione europea degli assorbimenti di carbonio.
Promuovere la riparazione e il riutilizzo – sito web
Citazioni
Noi tutti vogliamo fare del nostro meglio per limitare l’impatto delle nostre scelte di consumo sull’ambiente, ma fare scelte ecologiche non è facile. Siamo subissati di informazioni. Sul mercato dell’UE si contano 230 marchi di qualità ecologica diversi. Potersi fidarsi delle autodichiarazioni ambientali e dei marchi che accompagnano i prodotti è importante. Le proposte presentate oggi dalla Commissione proteggeranno le imprese e i consumatori dalle pratiche dannose di greenwashing e contrasteranno la proliferazione dei marchi. Vogliamo aiutare i consumatori a scegliere con maggiore fiducia e far sì che siano premiate le imprese che si impegnano concretamente a ridurre il loro impatto sulla natura, sull’uso delle risorse, sulle emissioni climatiche o sull’inquinamento. Dobbiamo altresì fare progressi nell’uso di marchi comuni affidabili, come il marchio di qualità ecologica dell’UE, emblema di eccellenza ambientale nel nostro mercato unico.
Virginijus Sinkevičius, commissario per l’Ambiente, gli oceani e la pesca – 22/03/2023
Le autodichiarazioni ambientali sono ovunque: magliette rispettose degli oceani, banane neutre in termini di emissioni di carbonio, succhi rispettosi delle api, consegne con compensazione al 100% delle emissioni di CO2. Purtroppo tali autodichiarazioni sono troppo spesso presentate senza alcuna prova o giustificazione, aprendo la strada al greenwashing, a scapito delle imprese che producono prodotti realmente sostenibili. Numerosi cittadini europei vogliono contribuire a un mondo più sostenibile attraverso le loro scelte in materia di acquisti. Devono quindi potersi fidare delle autodichiarazioni presentate. Con la presente proposta diamo ai consumatori la garanzia del fatto che i prodotti venduti come rispettosi dell’ambiente lo sono veramente.
Frans Timmermans, vicepresidente esecutivo per il Green Deal europeo, 22/03/2023
Ecosistemi vegetali per la rigenerazione ecologica delle città
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Una riduzione della temperatura interna in estate fino a 3 °C grazie al “cappotto verde”di piante su tetti e pareti di edifici che consente di abbattere quasi il 50% del flusso termico tramite l’ombreggiamento e la traspirazione di coltri vegetali disposte a protezione dalla radiazione solare. Sono questi alcuni dei nuovi risultati ottenuti dal progetto ENEA“Infrastrutture ‘verdi’ per migliorare l’efficienza energetica degli edifici e la qualità del microclima nelle aree urbane”, finanziato nell’ambito dell’Accordo di Programma per la Ricerca di Sistema Elettrico 2019-2021 del Ministero dello Sviluppo Economico, oggi in capo al Ministero della Transizione Ecologica.
La copertura vegetale agisce tutto l’anno come isolante termico, con effetti maggiori nel periodo primavera-estate quando le piante agiscono anche come estrattore naturale di calore dall’ambiente. In generale, l’effetto benefico di regolazione termica è dovuto all’ombreggiamento estivo, all’evapotraspirazione e alla fotosintesi clorofilliana delle piante
“Grazie a un sofisticato sistema di sensori per il monitoraggio microclimatico, abbiamo verificato che le coltri vegetali messe a copertura del solaio e delle pareti esterni dell’edificio prototipo presso il Centro Ricerche ENEA Casaccia, vicino a Roma, sono in grado di mantenere le temperature superficiali al di sotto dei 30 °C e quindi di evitare le forti variazioni termiche che si verificano a livello delle superfici di tetti e pareti privi di vegetazione, che raggiungono picchi di temperatura di oltre 50 °C nelle ore più calde”, spiega Arianna Latini, ricercatrice del Dipartimento Unità per l’Efficienza Energetica. “Non solo. I dati preliminari fanno supporre che si possa ottenere una riduzione dei consumi elettrici di circa 2 kWh/m². Mediamente questo si traduce in un risparmio di energia elettrica di circa 200 kWh per la climatizzazione estiva di un’abitazione di 100 m², tenuto conto di una temperatura di comfort dell’ambiente interno non superiore a 26 °C”, aggiunge Latini.
Edificio verde con parete verde (vista da Sud) in fase vegetativa caratteristica del periodo primavera-estate presso il CR ENEA Casaccia di Roma. Tra le foglie sono visibili alcuni sensori climatici e ambientali
Nella sperimentazione avviata nel 2013 dall’allora Servizio Agricoltura ENEA guidato da Carlo Alberto Campiotti, furono impiegate sul tetto verde piante grasse del genere Sedum della famiglia delle Crassulaceae, in quanto ritenute più adatte all’uso in ambito mediterraneo per il loro apparato radicale poco profondo, l’efficiente utilizzo dell’acqua, la tolleranza a condizioni di estrema siccità e il tipico metabolismo CAM (Crassulacean Acid Metabolism) per fissare il carbonio. “Oltre a una ricca collezione di Sedum abbiamo impiegato in seguito anche un mix di piante Festuca e Poa su un settore dedicato alle Graminaceae, con risultati che indicano come il contributo delle essenze vegetali sia in relazione tanto alle loro caratteristiche in sé che alle condizioni microclimatiche locali”, spiega Patrizia De Rossi, ricercatrice del Dipartimento ENEA Unità per l’Efficienza Energetica.
A partire dalle specie tipiche più comunemente utilizzate nelle coperture vegetali dei tetti verdi, lo studio ENEA è stato ampliato ulteriormente, testando alcune specie spontanee e autoctone del Mediterraneo, come l’Echium plantagineum e l’Echium vulgare, piante che favoriscono anche la biodiversità degli impollinatori
Sulle facciate di sud-est e sud-ovest dell’edificio prototipo, i ricercatori ENEA hanno impiegato la Parthenocissus quinquefolia [1], nota come “vite americana”, un rampicante resistentissimo sia al caldo che al freddo (in autunno le sue foglie diventano rosso intenso). “Abbiamo rilevato che le temperature superficiali della parete verde sono fino a 13 °C inferiori rispetto alla facciata non vegetata, con una riduzione dei flussi termici verso l’interno di circa 7 kWh/m² e un abbattimento delle emissioni fino a 1 kg di CO2/m² per il minore consumo di energia elettrica”, sottolinea Latini.
Premio speciale nell’ambito del Forum Internazionale ECOtechGREEN (21-22 aprile 2022) per il Rapporto Tecnico ENEA Gli Ecosistemi Vegetali per la Rigenerazione Ecologica delle Città
Passando dall’edificio alla città, l’inverdimento del 35% della superficie urbana dell’Unione europea (oltre 26 mila km²) permetterebbe di ridurre la domanda di energia per il raffrescamento estivo di edifici pubblici, residenziali e commerciali fino a 92 TWh l’anno, con un valore attuale netto (VAN) di oltre 364 miliardi di euro, e di evitare le emissioni di gas serra equivalenti a 55,8 milioni di tonnellate di CO2 l’anno [2]. Per avere un’idea realistica delle emissioni evitate, si pensi che il settore agricoltura in Italia emette 30 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti l’anno (dati ISPRA 2021).
Da qui la necessità di intervenire sulle aree urbane al più presto, avviando iniziative e interventi per contrastare gli impatti negativi del riscaldamento globale, che comprendono l’eccesso di consumi di energia fossile (la climatizzazione estiva rappresenta circa il 30% dei consumi complessivi con un trend in crescita), le isole e le ondate di calore sempre più frequenti nei mesi estivi, l’inquinamento ambientale e la perdita di biodiversità.
I tetti verdi, infatti, oltre a ridurre gli aumenti di temperatura dovuti all’effetto isola di calore in città, migliorano la qualità dell’aria. Da uno studio condotto su specie di alberi e cespugli comunemente presenti nel verde urbano, la capacità media di mitigazione degli inquinanti atmosferici è risultata mediamente di 58-140 g di ozono (O3), di 17-139 g di particolato PM10, di 11-20 kg di anidride carbonica CO2 per pianta l’anno.
La vegetazione sugli edifici è utile anche nell’assorbimento dei composti organici volatili (COV): l’edera ed altre specie vegetali rampicanti sulla parete verde presso il Centro Ricerche ENEA Casaccia hanno consentito una riduzione di circa il 20% di benzene, toluene, etilene e xileni – i COV più comuni in ambiente urbano – nonostante l’area in esame non sia a forte esposizione di tali composti gassosi inquinanti e poco salubri per l’uomo.
Il verde urbano svolge anche una serie di servizi ecosistemici come il miglioramento estetico dell’ambiente per vivere e lavorare, la tutela della biodiversità e il rallentamento del deflusso delle acque piovane in eccesso
https://www.youtube.com/embed/gGCPk5HjPPE
“Gli Ecosistemi Vegetali per la Rigenerazione Ecologica delle Città” (Qui)
Il documento tecnico ha ottenuto un premio speciale nell’ambito del Forum Internazionale “ECOtechGREEN” per l’importanza delle ricerche condotte, mirate a valorizzare l’impiego del verde parietale e dei tetti verdi sugli edifici come elementi innovativi al fine di migliorare la sostenibilità energetica e ambientale del settore edile.
[1] I dati della sperimentazione ottenuti sulla parete verde con la copertura vegetale a Parthenocissus quinquefolia sono oggetto di un articolo in corso di pubblicazione in uno Special Issue dedicato alla tematica delle infrastrutture verdi in città per la sostenibilità e il risparmio energetico (https://www.mdpi.com/si/88334).
[2] Quaranta E, Dorati C & Pistocchi A. 2021. Water, energy and climate benefits of urban greening throughout Europe under different climatic scenarios. Sci Rep 11, 12163 (2021).