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Il grande piano della Cina per il dominio sul digitale

Il grande piano della Cina per il dominio sul digitale

Il 28 febbraio il Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese (PCC) e il Consiglio di Stato hanno pubblicato “Il piano generale per la costruzione della Cina digitale”.

Il programma prevede di creare un nuovo dipartimento per migliorare e regolare l’infrastruttura tecnologica del Paese. Ma anche di dare un ruolo più importante al Ministero della Scienza e della Tecnologia, integrando il digitale con altri settori industriali. E poi di risolvere i problemi che impediscono il flusso e lo scambio di dati tra diversi dipartimenti governativi; e di aumentare la domanda interna per l’industria dei semiconduttori, di cloud computing e di AI. In ultima analisi, l’obiettivo è diventare una superpotenza leader nel digitale e autosufficiente nel giro di pochi anni, capace di guidare altri Paesi del mondo verso un concetto di modernizzazione non occidentale. Cinese, per l’appunto. Ma come si è arrivati a questo piano di così ampio respiro? In realtà, è un percorso che arriva da lontano. Solo se si esamina questa “lunga marcia” si può forse comprendere meglio il significato dell’attuale strategia digitale di Pechino.

Le riforme di Deng Xiaoping e la nascita dei colossi tech cinesi

“La Cina ha una lunga storia di scienza e civiltà. Furono il decadente sistema feudale e l’aggressione delle potenze imperiali a sprofondare la Cina nell’arretratezza e nell’umiliazione dei tempi moderni. Dalla fondazione della Repubblica popolare cinese, tuttavia, scienziati e ingegneri cinesi hanno iniziato a risolvere i numerosi problemi che un tempo ostacolavano lo sviluppo della nostra società”.
È il  30 giugno 2000 e l’allora presidente cinese Jiang Zemin scrive un articolo sulla rivista Science. Per Jiang è l’occasione per fare il punto dello sviluppo scientifico del paese, un anno prima dall’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio (che arriverà nel dicembre 2001). Jiang Zemin era arrivato al potere nel 1989, durante il tumultuoso periodo delle proteste e diventerà l’esecutore delle “aperture e riforme” volute da Deng Xiaoping, l’artefice dell’inserimento della Cina nel mercato globale dopo la morte di Mao Zedong (1976).

Alla morte di Mao, la situazione per la scienza e la tecnologia cinese non era delle migliori, nonostante durante il maoismo fossero stati raggiunti importanti risultati: la bomba atomica, quella termonucleare, il primo laser, il primo satellite e il primo personal computer prodotto interamente in Cina, dopo l’abbandono dei programmi di cooperazione da parte dell’Unione Sovietica a fine degli anni ‘50. Questi risultati erano arrivati nonostante alcuni progetti di Mao avessero creato morti, carestie e un dilaniamento sociale con il quale la Cina contemporanea non ha ancora fatto completamente i conti: il “Grande balzo in avanti” e la successiva “Rivoluzione culturale” finirono per complicare non poco la vita ai tanti scienziati cinesi, molti dei quali erano tornati dall’estero per prendere parte alla costruzione della “nuova Cina”.

Terminata la fase maoista e una volta conquistato il potere all’interno del Partito comunista, Deng Xiaoping aveva lanciato la “modernizzazione” del paese che prevedeva, tra le altre cose, una decentralizzazione della ricerca scientifica, non più quindi soltanto nelle mani dello Stato, e una progressiva crescita di imprese private che iniziarono a operare nel campo della tecnologia e delle telecomunicazioni. Inserire lo sviluppo tecnologico tra le priorità delle azioni del governo significava due cose: una pioggia di soldi per la ricerca e la creazione delle condizioni di mercato ottimali per le aziende cinesi.

Le “aperture e riforme” di Deng Xiaoping avevano portato alla nascita di alcune aziende cinesi che saranno destinate a dominare i propri mercati, sia internamente sia a livello internazionale: Haier era nata nel 1980 e sarebbe stata destinata a diventare una delle principali società al mondo nel settore degli elettrodomestici, Lenovo, fondata nel 1984, diventerà leader nel mercato mondiale dei personal computer (acquisendo, nel 2005, la divisione PC di IBM), Huawei fondata nel 1987 diventerà la più importante società di telecomunicazioni del pianeta. Quello degli anni ‘80 è un periodo di grande sperimentazione in Cina: il mondo della cultura vive un suo periodo d’oro, grazie all’apertura del paese e all’arrivo di tanti stranieri, quello aziendale vede nascere da lì a poco le prime joint ventures con aziende straniere. Un’occasione per confrontarsi e, in non pochi casi, per inglobare know how che permetterà poi alle aziende cinesi di muoversi con le proprie gambe. È anche un periodo bizzarro per il partito comunista: funzionari che fino a qualche anno prima si occupavano di controllare che le parole di Mao fossero recepite e ripetute un po’ da tutti, negli anni ‘80 e ‘90 si ritrovano a capo di regioni o aziende con fatturati impensabili fino a qualche anno prima. Non tutto infatti andrà per il verso giusto: la longa manus del Partito sia nelle aziende di Stato, sia nelle aziende private (la presenza di un funzionario, o ex funzionario, sarà spesso la chiave del successo anche di imprese private) porterà a fenomeni di corruzione che diventeranno endemici al sistema industriale e politico cinese. Ma nonostante questo, il Partito riesce a gettare le basi del suo futuro sviluppo digitale, cercando di piegare sempre di più le esigenze di innovazione con quelle di controllo dei processi produttivi.

La lunga marcia a tappe forzate della digitalizzazione

A un certo punto la Cina accelera: è Il 14 settembre 1987 e da Pechino parte la prima mail. Il mittente è il professor Qian Tianbai. Il testo della sua mail dice: “Attraverso la Grande Muraglia possiamo raggiungere ogni angolo del mondo”. Questo è l’evento considerato come l’inizio dell’ “era digitale” cinese. Il 20 aprile 1994 la Cina realizza la prima connessione TCP/IP completa con gli Stati Uniti. Nel 1995 il primo provider cinese InfoHighWay comincia a fornire servizi di accesso alle rete ai cittadini. Poi cominciano a nascere gli “eredi” di Haier, Lenovo e Huawei: dal 1997 al 1998 vengono fondati i portali Sina, Sohu e Netease. Un anno dopo è la volta di Alibaba, JD e dei motori di ricerca e social media Baidu e Tencent. Il 7 aprile 1998, Beijing Haixing Kaizhuo Computer Company e Shaanxi Huaxing Import and Export Company conducono la prima transazione di e-commerce in Cina utilizzando il sistema del China Commodity Exchange Center.

La Cina risente dello scoppio della bolla della “new economy” ma si riprende in fretta: nel 2003, Alibaba lancia Taobao e Alipay. Dieci anni dopo, nel 2013, il volume delle transazioni al dettaglio online supera 1,85 trilioni di RMB e la Cina diventa il più grande mercato al dettaglio online del mondo.

Questo progredire del mondo digitale non poteva che porre degli interrogativi al Partito comunista, in particolare uno: come controllare tutto questo? L’infrastruttura digitale viene quindi pensata come un sistema per ottenere alcuni risultati precisi: tenere fuori i competitor più pericolosi per le future “piattaforme” cinesi, controllare in modo assiduo il flusso dei contenuti online (attraverso il Great Firewall e la censura), assicurarsi che le aziende private perseguano obiettivi desiderati anche dal Partito comunista.Che cos’è il Great Firewall

Da metà degli anni 2000 fino al 2020 la Cina sembra il paradiso delle piattaforme, sostenute da incentivi, sgravi fiscali e poca attenzione alle condizioni di vita dei lavoratori di queste aziende. Sono le varie Alibaba e Tencent a realizzare la digitalizzazione del paese che procede a passo spedito non solo nelle grandi città: con l’arrivo degli smartphone e-commerce e social media irromperanno anche nelle zone più rurali, rendendo la quasi totalità dei cinesi connessa alla Rete.

I Big Data diventano fattore di produzione

Arrivati a questo punto, il Partito comunista decide di razionalizzare tutto questo processo: non si trattava più di gestire e bloccare informazioni e aziende in arrivo dall’Occidente, o di controllare che le aziende private “servissero il popolo”. Era arrivato il momento di una vera e propria sistematizzazione, perché nella discussione pubblica cinese entrano in ballo i Big Data, il concetto di “data driven governance”e la necessità di regolamentare il settore, per rendere chiaro, a chi per caso lo avesse dimenticato, che è il Partito a comandare.
E così arriviamo all’accelerazione degli ultimi due anni: nel 2020 viene pubblicato il documento 建设数字中国, “La costruzione della Cina digitale” (di solito citato come “Digital China”), ovvero “la strategia generale per lo sviluppo nazionale informatizzato nella nuova era. Sebbene per lo più sconosciuta in Occidente, la “Cina digitale” ha enormi implicazioni “per il percorso di sviluppo della Cina, la competizione tra grandi potenze e le norme che sosterranno il sistema internazionale per i decenni a venire”

Poi nel gennaio del 2022 è la volta del “十四五”国家信息化规划“, il 14° piano quinquennale per l’informatizzazione nazionale nel quale si specifica che “Dal 2021 al 2025, l’economia digitale cinese dovrebbe entrare in una nuova fase di sviluppo standardizzato e inclusività per tutti; nel 2035, lo sviluppo dell’economia digitale sarà entrato in una fase prospera e matura, poiché la Cina si sforza di formare un mercato dell’economia digitale unificato, equo e completo con una concorrenza ordinata diventando una forza trainante nell’economia digitale globale”.

In questo documento i Big Data sono considerati come “quinto fattore di produzione” all’interno dell’economia nazionale (insieme a lavoro, terra, capitale e tecnologia). Si tratta di uno scarto fondamentale che porterà la dirigenza a ragionare sulla “Data driven governance”, ovvero una politica guidata dai Big Data (di cui la Cina è ricchissima) con conseguente corollario di norme e regolamenti.

Contrordine compagni: inizia la stretta sulle piattaforme interne

Mentre la Cina procedeva con i suoi piani per lo sviluppo digitale, sono accadute parecchie cose che hanno finito per influenzare il dibattito cinese sui temi quali digitalizzazione, Big Data e piattaforme. Da due anni a questa parte la Cina ha portato avanti una furiosa campagna contro le piattaforme, il cui scopo non era tanto quello di distruggere le aziende, quanto “rettificarne” il comportamento. Le piattaforme cinesi erano diventate troppo potenti, troppo interessate a business e profitti privati e andavano in qualche modo richiamate all’ordine. Pechino ne ha approfittato per perimetrare la loro attività, motivando la sua scelta con la scusa che anche tra la popolazione si erano alzate voci contrarie al loro strapotere, specie per quanto riguarda la raccolta e l’utilizzo dei dati.

Nel frattempo Pechino ha cominciato e aumentato i giri della sperimentazione dello yuan digitale, con l’obiettivo di riportare all’interno dei circuiti bancari la grande massa di popolazione cinese che non ha un conto in banca e nel tentativo di entrare nel redditizio business dei pagamenti online (dominato al 90%, guarda caso, proprio da Alipay di Alibaba e WeChat di Tencent).

Jack Ma, fondatore di Alibaba

(Nella foto Jack Ma, il fondatore di Alibaba, che ha da poco dovuto fare un passo indietro cedendo il controllo del colosso fintech Ant Group, via Flickr)

Lo scontro con gli Usa sui chip e l’urgenza dell’autosufficienza tecnologica

Infine, lo scontro commerciale con gli Stati Uniti si è via via svelato per quello che è, ovvero uno scontro tecnologico focalizzato, almeno in questo momento, nella produzione dei chip. E così alla necessità di proseguire nella digitalizzazione e a quella di gestire nel modo migliore i dati e farne uno dei pilastri delle attività di gestione governativa, Xi Jinping ha sottolineato quanto va dicendo da tempo: che la Cina deve essere autosufficiente in tutto ciò che è digitale e tecnologia. “Dobbiamo accelerare il ritmo dell’autosufficienza tecnologica per evitare di essere strangolati da paesi stranieri. La Cina dovrebbe sforzarsi di diventare un leader globale in importanti campi scientifici e tecnologici, un pioniere in aree interdisciplinari all’avanguardia e un importante centro scientifico e hub di innovazione per il mondo”, ha detto Xi Jinping a metà febbraio durante una riunione di studio del Comitato centrale.

A margine di questo Xi Jinping ha effettuato anche un altro discorso, di fronte ai membri del Politburo, ai vertici delle forze armate, ai nuovi membri del Comitato Centrale e ai funzionari locali e ministri. A loro Xi Jinping ha fatto un discorso sulla modernizzazione particolarmente rilevante alla luce anche dello sviluppo cinese dei piani “digitali”. Non che Xi Jinping non abbia mai trattato il tema, lo aveva fatto anche prima del Ventesimo Congresso, a ottobre, ad esempio. Ma in questo intervento Xi ha specificato molte cose che ci permettono di incrociare digitalizzazione, autosufficienza e “modello cinese”. 

La Via della Seta digitale: ovvero la modernizzazione cinese modello per il Sud del mondo

Xi Jinping a proposito della modernizzazione, all’interno della quale finisce anche la “digitalizzazione”, ha detto che “La modernizzazione di un paese non deve solo seguire le leggi generali della modernizzazione, ma deve anche conformarsi alla propria realtà e avere caratteristiche proprie. La modernizzazione in stile cinese non solo ha le caratteristiche comuni della modernizzazione di tutti i paesi, ma ha anche caratteristiche distintive basate sulle proprie condizioni nazionali”. E chi è interprete di queste caratteristiche? Il Partito. Quali sono le caratteristiche di questa modernizzazione? Sono cinque: la popolazione enorme, la prosperità comune, l’equilibrio “armonioso tra civiltà materiale e civiltà spirituale”, tra uomo e natura, e caratterizzata dalla pace. Questo, specifica Xi, “non è solo un riassunto teorico, ma anche un requisito pratico, e indica un’ampia strada per costruire a tutto tondo un potente paese socialista moderno e per realizzare il grande ringiovanimento (rinnovamento) della nazione cinese”. E infine: “La modernizzazione in stile cinese rompe il mito di “modernizzazione = occidentalizzazione”, mostra un’altra immagine della modernizzazione”, ampliando “le scelte di percorso per la modernizzazione dei paesi in via di sviluppo e fornisce agli esseri umani una soluzione cinese per esplorare un sistema sociale migliore. La visione unica del mondo, i valori, la storia, la civiltà, la democrazia e l’ecologia contenuti nella modernizzazione in stile cinese e la sua grande pratica sono le principali innovazioni nella teoria e nella pratica della modernizzazione mondiale. La modernizzazione in stile cinese ha dato l’esempio ai paesi in via di sviluppo di muoversi verso la modernizzazione in modo indipendente e ha fornito loro una nuova scelta”.

Qui abbiamo la summa del pensiero di Xi Jinping che va tenuto in considerazione anche quando si parla di “digitale”. In sostanza Xi Jinping ritiene che oggi la Cina possa essere un modello di “modernizzazione” per tanti paesi del cosiddetto Global South e anche la “Cina digitale” può esserlo, considerando lo sforzo che la Cina sta producendo in un progetto di cui non si parla granché ma che rimane fondamentale per la leadership del Partito, ovvero la “Digital Silk Road”.

(Esempi di Stati che avevano iniziative legate alla Silk Road digitale secondo una mappatura del Council on Foreign Relations)

(Esempi di Stati che avevano iniziative legate alla Silk Road digitale secondo una mappatura del Council on Foreign Relations) 

Arriva il nuovo piano per la costruzione della Cina digitale

Il 28 febbraio la Cina ha dunque pubblicato il 数字中国建设整体布局规划, “Il piano generale per la costruzione della Cina digitale”, secondo il quale “Costruire una Cina digitale è importante per il progresso della modernizzazione cinese nell’era digitale e fornisce un solido supporto per lo sviluppo di nuovi vantaggi nella competitività del paese”.

Il piano si inserisce in un percorso che è ormai avviato da qualche anno e che si basa su alcuni assunti: secondo alcuni osservatori, il progetto è “la prima ‘grande strategia digitale’ al mondo”, dato che “Xi Jinping intende utilizzare gli effetti di trasformazione della Cina digitale per inaugurare un’era d’oro della governance (…). La realizzazione di una forma di governance più efficiente consentirà l’emergere di una nuova smart society, maggiormente in grado di provvedere al benessere, politico e materiale, dei cittadini cinesi. Altrettanto importante, questo nuovo modello di governance basata sui dati dimostrerà la superiorità e l’utilità del sistema cinese a livello globale”.

Nel Piano sono sottolineati alcuni aspetti: intanto che la Cina digitale dovrà rispondere alle esigenze di “modernizzazione in stile cinese”; poi che dovrà potenziare i seguenti settori: “la costruzione coordinata di reti 5G e reti ottiche, promuovere ulteriormente l’implementazione e l’applicazione su larga scala di IPv6, promuovere lo sviluppo completo dell’Internet of Things mobile e promuovere con forza l’applicazione su larga scala di Beidou (il sistema di posizionamento satellitare sviluppato da Pechino, ndr)”, oltre a “facilitare la circolazione delle risorse legate dati. Costruire un sistema e un meccanismo nazionale di gestione dei dati e migliorare le istituzioni generali per la gestione dei dati a tutti i livelli. Promuovere l’aggregazione e l’utilizzo di dati pubblici e creare banche dati nazionali in settori importanti come la sanità pubblica, la scienza e la tecnologia e l’istruzione. Liberare il potenziale dei dati commerciali, accelerare la creazione di un sistema di diritti di proprietà dei dati, svolgere ricerche sulla valutazione delle risorse di dati”.

I dati come risorsa semi-pubblica da sottrarre alle distorsioni del mercato

A fare da sfondo a tutto il documento ci sono due necessità della Cina di Xi: lavorare in termini di “standard” (da quelli di rete a quelli ad esempio relativi alle monete digitali) e sistematizzare la questione legata ai Big Data. A questo proposito la Cina sta lavorando anche a una regolamentazione che sia in grado di garantire sicurezza nazionale e controllo del Partito sui dati. Come ha scritto Rebecca Arcesati di Merics, “I leader cinesi vedono il controllo sui dati da parte delle burocrazie governative, delle imprese statali e delle imprese private, nonché la persistenza dei “silos di dati” come fallimenti del mercato che ostacolano lo sviluppo economico e una governance efficiente. (…) Il presupposto è che il mercato da solo non può far incontrare domanda e offerta, proteggere la sicurezza e la privacy e realizzare il potenziale dei dati come risorsa nazionale. Per il PCC, i dati sono un “fattore di produzione” insieme a terra, lavoro, capitale e tecnologia. E i leader cinesi credono che “l’allocazione dei fattori basata sul mercato” (要素市场化配置) non possa avvenire in modo sicuro ed efficiente se lasciata senza supervisione. Nell’ “economia di mercato socialista”, lo stato si considera il capo delle transazioni di dati. Come ha notato la ricercatrice tecnologica Lillian Li, designare i dati come un fattore di produzione implica la convinzione che “il valore dei dati per una nazione è sottovalutato e attualmente soggetto a distorsioni di mercato”. Gli attributi speciali dei dati come risorsa ne fanno una forma di bene semi-pubblico i cui benefici potrebbero non essere attribuiti alla società senza l’intervento del governo”.

Il nuovo assetto digitale per le sfide geopolitiche

Ma al di là di quelle che saranno poi le applicazioni interne cinesi, complice anche uno spostamento dell’attenzione del Partito su aziende più coinvolte nella supply chain tecnologica rispetto al passato, è interessante notare in che modo questi preparativi alla “Cina digitale” porteranno a delle conseguenze anche “esterne” alla Cina, specie per quanto riguarda gli “standard” e la reiterata – e presente anche nel piano per la costruzione di una Cina digitale – richiesta di Xi Jinping di arrivare all’autosufficienza tecnologica per evitare le insidie geopolitiche create dal confronto con gli Stati Uniti.

Proprio per far fronte alle nuove esigenze geopolitiche e reagire in modo più rapido a eventuali oscillazioni rischiose dei rapporti tra Cina e Stati Uniti, alle “due sessioni”, le assemblee legislative che si svolgono una volta all’anno, è stato presentato un piano di riforme “istituzionali” che porteranno alla riorganizzazione del ministero della Scienza e della Tecnologia e alla creazione di un unico ente per la gestione dei dati, responsabile “della promozione dello sviluppo di istituzioni fondamentali relative ai dati, nonché del coordinamento della condivisione e dell’applicazione delle risorse dei dati”. Un ulteriore tassello che va a comporre un vistoso apparato burocratico e normativo con i quali, nell’idea di Xi Jinping, la Cina si appresta ad affrontare il futuro sviluppo digitale del Paese e – allo stesso tempo – le “tempeste” che il Paese dovrà affrontare a livello internazionale per quanto riguarda gli aspetti tecnologici, ormai centrali nei rapporti di forze tra grandi potenze.




No, a mente fredda, non vi dirò che “Open to Meraviglia” è una campagna orrenda

NO, A MENTE FREDDA, NON VI DIRÓ CHE “OPEN TO MERAVIGLIA” È UNA CAMPAGNA ORRENDA

La campagna sulla meravigliosa Venere botticelliana trasformata in influencer ha generato in pochi giorni fiumi di parole, analisi, dibattiti, scontri, forse qualche rapporto di stima compromesso, come sempre accade quando qualcuno che riteniamo esperto almeno quanto noi non ha esattamente il nostro stesso punto di vista. Perché quello è il principio dei Lovemark, come lo codificò Kevin Roberts, storico CEO dell’agenzia pubblicitaria Saatchi & Saatchi: ci immedesimiamo e riponiamo fiducia nel marchio che amiamo. Quindi se un Paolo Iabichino o un Massimo Guastini, entrambi a vario titolo “guru della pubblicità” (cito due amici a caso, solo perché sono essi stessi intrinsecamente lovermark) dissentono dal nostro sentire, quale che esso sia in un dato momento, per qualcuno si rischia di rompere l’incanto.

In ogni caso, ora che il rumore di fondo si è un poco placato, e al netto del rispetto comunque dovuto a chi a quella campagna ha lavorato, ci tenevo a condividere con voi qualche riflessione. Che la brillante (sic!) campagna pubblicitaria dell’ENIT (Agenzia Italiana per il Turismo, ex Ente Nazionale Italiano del Turismo) ideata allo scopo di promuovere il Belpaese la cui video-presentazione com’è noto è stata realizzata con immagini stock acquistate on-line e filmati girati in Slovenia, tanto che il Governo ha poi deciso di rimuoverla dal sito web dell’iniziativa – fosse così divisiva, neppure gli autori l’avrebbero forse mai previsto, e fin qui ci siamo.

Non desidero però aggiungere altri fiumi di inchiostro a quelli già versati, perché tutti – ma proprio tutti – quelli che conosco e che operano nel settore della comunicazione e delle relazioni pubbliche (e in 30 anni di lavoro in quei dintorni ne ho conosciuti parecchi), e con loro molti che non conosco, hanno giustamente già preso la parola sulla Venere, sul suo viso, sul payoff, sui 9 milioni investiti, sul tone-of-voice generale delle campagna, sul tone-of-voice specifico della lettera di spiegazioni dell’agenzia Testa che la campagna l’ha ideata, sulle uscite della Ministra Santanché, e via discorrendo. A volo d’uccello: Filippo Giustini, che registra il dominio del payoff della campagna, Open to Meraviglia appunto, perché il Governo si è dimenticato di farlo, e provocatoriamente lo fa puntare alla sua agenzia MarketingToys (geni!); Luca La Mesa, che critica da subito l’iniziativa per la sciatteria della confezione e per molto altro, e ha in larga parte ragione; Matteo Flora, che si affida a Chat GPT e commissiona una Venere che esce molto più affascinante di quella malamente copia-incollata dal quadro ideata dall’Agenzia Testa (e dagli torto); Selvaggia Lucarelli, che denuncia gli orrendi errori grammaticali e di traduzione sul sito web della campagna, e certo che ha due volte ragione; Daniele Chieffi, che con garbata fermezza commenta (fa a pezzi, in realtà) la lettera di spiegazioni (giustificazioni?) dell’Agenzia Armando Testa pubblicata a pagina intera sul Corriere della Sera, evidenziando quel tono supponente da Marchese del Grillo (cit: “Io so’ io, e voi nun siete n’caxxo”) e – come al solito – come non essere d’accordo con Daniele; Massimo Guastini, che invece riporta le parole di un suo collega direttore creativo che ha detto “viva Testa che ha preso la parola” (qui, meno d’accordo, Massimo non me ne volere, perché è vero che dovevano prendere la parola, ma nessuna buona prassi di crisis management suggerisce di far passare per idioti i tuoi interlocutori…), e con lui Giovanna Cosenza, che lucidamente dice cosa le piace e cosa no dell’annuncio di Testa, ma si tradisce quando scrive che “è la migliore possibile” (non è vero, Prof!); Luciano Floridi, che prende a sua volta la parola con un provocatorio appello ai creativi (“donate due idee per amor di patria); e potremmo continuare davvero a lungo, con le scuse per i tanti che per ragioni di spazio non posso citare, pena la noia del lettore.

Quindi se tutto è già stato detto su questa discussa campagna, su cosa ci sarebbe ancora, forse, da scrivere…? Beh, sulla sciatteria, darling.

La sciatteria di chi – sapendo di esporsi al giudizio della pubblica opinione, com’era tanto prevedibile quanto inevitabile – non ha istituito un comitato scientifico di specialisti delegando loro la scelta di una proposta creativa sulla base di un brief chiaro, nel rispetto di un perimetro estetico e semantico ben definito, e con caratteristiche pubblicizzate in modo trasparente, sgravandosi così da specifiche responsabilità. Si chiama pre-crisi, bellezza, e si insegna al primo anno di università.

La sciatteria di chi quella gara non l’ha messa a bando, con lo strattagemma di mantenerla giusto un pelo al di sotto della soglia che avrebbe fatto scattare l’obbligo di attivare una gara pubblica, perché, si sa, i cittadini sono coglioni, e quindi è da coglioni che bisogna continuare a trattarli; dimenticando (ignorando?) che l’autenticità è il secondo pilastro del reputation management, come codificato in letteratura, e varare un progetto con a monte un trucchetto non aiuta certamente la creazione di quella fiducia che è fattore indispensabile per costruire buona reputazione.

La sciatteria di chi ha deciso (perché qualcuno l’ha deciso…) di presentare una campagna pubblicitaria ancora in bozza (perché questa è stata la scusa per gli errori marchiani di traduzione, “è ancora in bozza”… e allora perché la presenti al pubblico?). Sappia l’autore di questa giustificazione – sciatta di per sé, appunto – che la scusa del tipo “non sapevo, non c’ero, se c’ero dormivo e comunque non è colpa mia” è una palese ed eclatante violazione di una delle norme fondamentali della comunicazione di crisi, quindi anche in questo caso c’è da tornare sui banchi a studiare.

La sciatteria – ancora – di chi permette all’agenzia Testa di rispondere pubblicamente con una pagina intera su un quotidiano nazionale, con un messaggio provocatorio, dicendo a mezza Italia (anzi, più di mezza, a giudicare il sentiment non propriamente positivo registrato sulla campagna…) “siete degli incompetenti, solo noi ne capiamo qualcosa”, perché è davvero svilente semplificare tutto così; e se la pagina l’avete pubblicata di vostra iniziativa, cari eredi di Armando Testa, è un grave sgarbo istituzionale, se invece era concordata o autorizzata dal Ministero è un’ulteriore dimostrazione di ignoranza dei meccanismi più elementari della comunicazione efficace, tertium non datur.

La sciatteria – anche – di chi sbandiera “9 milioni di investimento”, e di chi per contro critica tale presunto spreco di denaro pubblico: ebbene, in realtà si tratta di cifre semplicemente ridicole per una campagna di nation branding sui principali mercati internazionali: quante nazioni pretenderemmo di coprire con i denari a mala pena sufficienti per una campagna pubblicitaria decente al Festival di Sanremo?

Infine, la sciatteria di chi pare aver comprato account fake per pubblicare commenti farlocchi di “complimenti” in calce ai post Social della suddetta campagna (che se fosse successo davvero sarebbe uno scandalo peggio della campagna di per se…); e – come non sottolinearlo – la sciatteria, e davvero concludo, di chi dalle parti di Via di Vila Ada (sede del Ministero del Turismo, ndr) ha strombazzato ingenuamente online, ieri l’altro, festeggiando le 265.000.000 view “prima ancora che la campagna venga lanciata” (cit), come se il sentiment in larga parte negativo fosse un dettaglio (ancora con il “bene o male, purché se ne parli”…? Ma il modello Press agentry è di fine ‘800!) e come se rilevassero in qualche modo le view tutte nostrane/italiane di una campagna che in teoria dovrebbe essere esclusivamente indirizzata all’estero, fuori dai confini nazionali.

Impossibile non notare allora – ne scrivevo in un’analisi pubblicata in epoca non sospetta –  come le aziende abbiano da tempo compreso il valore enorme generato dalla costruzione di buona reputazione nel medio-lungo termine, mentre la politica pare muoversi in senso esattamente opposto, in preda ad un’ottusa coazione a ripetere gli errori nel tentativo di accaparrarsi facili consensi. Il sintomo più allarmante di questa “malattia”, che in un’intervista all’Harvard Business Review l’economista Stefano Zamagni definì “shortermismo”, ovvero ossessione per i risultati di breve periodo, lo riscontriamo anche nel pericoloso calo di adesione dei cittadini alla vita pubblica, con oltre il 40% degli aventi diritto al voto che sistematicamente disertano le urne. La reputazione è un asset che si costruisce nel tempo assieme ai propri pubblici, per durare nel tempo, ed essere “scambiata” con una più ampia licenza di operare: la verità è che la scelta dei politici di ignorare sistematicamente le best practices in materia di reputation management sta continuando a bruciare il loro capitale reputazionale, prova ne sia che, in Italia, i politici in genere godono di pessima reputazione.

Tornando alla campagna della Venere, cara Ministra Santanché, casomai Le fosse sfuggito, seppure con inspiegabile ritardo al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione è stata attivata da un paio d’anni una nuova Direzione Generale per la Diplomazia Pubblica e Culturale, guidata dall’Ambasciatore Pasquale Terracciano, diplomatico di lungo corso e grande esperienza, con l’obiettivo di rendere il “soft power italiano” uno strumento sempre più efficace di influenza e costruzione di un consenso globale attorno al “brand Italia”: comunicazione, progetti di diplomazia culturale, dialogo costante con il mondo dei mass-media e promozione del sistema Italia tramite una narrazione moderna, coerente e integrata. Lo so, la competenza sull’incoming è vostra come Ministero del Turismo, e il mandato di Terracciano è più ampio e strategico. Tuttavia, la prossima volta – ascolti un consiglio non richiesto, Ministra – date un colpo di telefono in Farnesina e fatevela una pausa pranzo con loro, per chiarirvi le idee: tutto sommato al Circolo sul Lungo Tevere non si mangia malissimo, e – soprattutto – agli Esteri ci sanno fare, davvero, e da sempre. Magari vi eviteranno altre figuracce tremende.

AGGIORNAMENTO del 12/06/23 h 19:51: da fonti che ritengo assai affidabili (diciamo di prima mano), ho appreso con un certo sconcerto che l’idea creativa alla base di questa campagna, già di per se assai criticata, è stata per giunta “riciclata” dall’Agenzia Armando Testa da un precedente bando, perso dall’agenzia stessa nel 2021 e vinto da concorrenti della AT. Ho quindi contattato l’agenzia chiedendo conferme (o smentite), e mi ha (non) risposto il responsabile relazioni esterne, come segue: “Gentile Prof . Poma, la ringrazio per la sua email. Ci dispiace se un nostro collaboratore ha diffuso materiale di proprietà dell’agenzia ma non lo riteniamo un problema . Cordiali saluti, Nini Collini”. Ad ognuno le proprie conclusioni…

AGGIORNAMENTO del 16/08/23 h 15:43: è release la campagna di promozione turistica destinata all’estero confezionata dal Ministero del Turismo francese, una (pur indiretta) risposta “a tono” all’iniziativa italiana della Venere Influencer. Stile straordinario, eleganza, colori, emozione: in poche parole, Francia 1/Italia 0. Potete vedere la clip qui




L’impatto della discriminazione nel mondo del lavoro: quando la pelle non è bianca, diminuiscono le possibilità di essere assunti

L’impatto della discriminazione nel mondo del lavoro: quando la pelle non è bianca, diminuiscono le possibilità di essere assunti

Nonostante le società europee siano sempre più diverse e multiculturali, sembra che il colore della pelle continui ad avere un impatto significativo sulle opportunità lavorative. Uno studio condotto da diverse università in Belgio, Spagna e Germania, riportato da Ansa, ha rivelato che i cittadini dell’Unione Europea sono ancora a rischio di subire discriminazioni razziali basate sull’aspetto.

La ricerca è fondata sulle esperienze di coloro che, non avendo la pelle “bianca”, si sono sentiti discriminati nella ricerca di un impiego. Questo studio mette in evidenza come chi ha un fenotipo non bianco sia discriminato fin dalle prime fasi di selezione, soprattutto quando i curriculum vitae sono accompagnati da una fotografia. La percezione soggettiva di chi valuta i CV danneggia il metodo di selezione, poiché non si punta a individuare il candidato più idoneo, ma piuttosto quello che rispecchia i pregiudizi del datore di lavoro.

L’indagine rivela che avere un fenotipo nero, asiatico o nativo americano riduce la probabilità di interesse da parte del datore di lavoro di circa il 20%. Allo stesso modo, le persone con un fenotipo caucasico dalla pelle scura, comuni nel Nord Africa, affrontano una riduzione di circa il 10% nell’interesse del datore di lavoro rispetto a coloro che hanno un fenotipo bianco.

Lo studio è stato condotto analizzando le risposte di quasi 13.000 aziende europee a domande di lavoro simulate, in cui veniva allegata una fotografia al curriculum vitae. I ricercatori hanno apportato modifiche ai nomi e alle fotografie sulle domande di lavoro fittizie, mantenendo identiche tutte le altre caratteristiche dei CV. Queste domande sono state presentate a offerte di lavoro reali in diverse occupazioni. Tutti i candidati fittizi erano giovani cittadini dei rispettivi paesi europei, nati da genitori provenienti da quattro grandi regioni del mondo.

“Esiste una forte evidenza sul fatto che l’aspetto razziale dei richiedenti innesca un comportamento discriminatorio” – affermano gli autori dello studio – “Per dirla senza mezzi termini, molti discendenti immigrati in Europa sono discriminati perché hanno fenotipi visibilmente atipici, ovvero non bianchi. Con l’aumento del numero di candidati di seconda generazione che entrano nel mondo del lavoro, aumenta anche il numero di nuovi cittadini europei a rischio di subire discriminazioni razziali basate sull’aspetto”.

Cosa succede in Italia?

Il colore della pelle è considerato uno degli elementi discriminatori quando si cerca un impiego, e le disparità persistono anche quando si interagisce con gli enti pubblici. Uno studio condotto dal Centro studi sulle migrazioni nel mediterraneo Medì di Genova insieme all’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, intitolato “Law-Leverage the access to welfare”, ha evidenziato questa situazione. L’indagine, condotta lo scorso autunno, si è concentrata sulla discriminazione percepita, le esperienze vissute e le testimonianze di 522 cittadini di origine straniera in Italia, quando si trovano in situazioni come gli sportelli pubblici, le banche, i patronati, i centri di assistenza fiscale e le selezioni per l’impiego.

La ricerca ha rivelato che 7 intervistati su 10 hanno dichiarato di percepire uno sguardo diffidente e sminuente nei loro confronti, una linea sottile che separa la pratica discriminante da una vera e propria discriminazione giuridica e istituzionale. è emersa anche una difficoltà nell’accesso ai concorsi pubblici: il 40% degli intervistati ha dichiarato di non aver potuto partecipare a un concorso perché richiedeva la cittadinanza italiana, mentre il 30% ha dichiarato di non essere stato assunto perché l’azienda ha fatto intendere che non assumeva stranieri. “Dal 2013, fatte salve le posizioni apicali, la legge ha abolito il requisito della cittadinanza per accedere a posti pubblici. Eppure molti bandi, in particolare a livello regionale, richiamano ancora quelle norme obsolete, come denunciano quasi quattro intervistati su dieci del nostro campione. Una parte delle discriminazioni è frutto della sciatteria e una parte è anche deliberata. Le prassi continuano a reiterare un requisito che non c’è più. Poi c’è una sorta di onda d’urto per cui le persone danno per scontato che a loro sia precluso quel tipo di lavoro. Questo dato di disparità percepita è evidente e questo significa che le istituzioni italiane non dedicano una cura sufficiente a dissipare l’ombra della discriminazione ” ha affermato Maurizio Ambrosini, docente al Dipartimento di Scienze sociali e politiche dell’Università di Milano e responsabile scientifico del Centro studi Medì di Genova.

Secondo lo studio, le discriminazioni percepite sembrano essere correlate al fatto di essere stranieri (30% delle risposte), all’accento o al modo in cui si parla italiano (16%), al colore della pelle (13%), al Paese di origine (12%) e alle credenze religiose (8%). Il fenotipo, come sottolineato nella ricerca italiana, ha un peso significativo, e ancora oggi esiste una “linea del colore” in base alla quale le persone sono maggiormente discriminate. In particolare, la diffidenza riguarda principalmente le persone di origine africana, soprattutto quelle provenienti dall’Africa sub-sahariana, ma lo stesso vale per coloro provenienti dai Balcani, come i cittadini albanesi. Anche chi è in Italia da anni, con un buon livello di integrazione sociale e lavorativa, non sembra essere immune dalle discriminazioni.

Non è solo una questione etica, diversità e inclusione rendono le aziende performanti

Innanzitutto è importante riconoscere che migliorare l’esperienza del cliente è una priorità fondamentale nel 2023. Infatti, secondo uno studio condotto da Salesforce, l’80% degli intervistati ha affermato che il rapporto e le interazioni con un brand sono più importanti dei prodotti e dei servizi offerti. Pertanto, garantire un’esperienza coerente e integrata attraverso tutti i punti di contatto rappresenta la base delle strategie di Customer Experience di molte aziende.

C’è un fattore chiave che le aziende possono sfruttare per crescere e offrire un’esperienza di alto livello: la promozione dei programmi di diversità, equità e inclusione (DEI). In primo luogo, perché c’è una maggiore possibilità di comprensione: un’azienda diversificata e inclusiva incoraggia le differenze nei processi di pensiero e favorisce un mix più ampio di strategie per risolvere i problemi dei clienti e interagire con loro. Consente quindi di acquisire nuovi modi di comprendere le informazioni, offrendo loro percorsi sempre più personalizzati. Secondo uno studio pubblicato dalla Harvard Business Review, se anche solo un membro ha tratti in comune con il cliente, l’intero team ha il 152% in più di probabilità di capire le esigenze dell’utente.

Le aziende inclusive sono inoltre in prima linea nell’innovazione, poiché la diversità favorisce il pensiero complesso. Esaminando i risultati di uno studio condotto dal BCG Group su 1700 organizzazioni in 8 paesi diversi, si è scoperto che le aziende con una diversità superiore alla media nei team di leadership hanno registrato un incremento dei ricavi provenienti da processi innovativi del 19%.

La diversità elevata di un’azienda attrarrà anche i migliori talenti, che contribuiranno a offrire una customer experience di alta qualità. Uno studio di Glassdoor ha rilevato che il 76% delle persone in cerca di lavoro considera un team diversificato un fattore importante nella valutazione delle offerte e il 32% non si candiderebbe per un’azienda che non dimostra un impegno verso la diversità e l’inclusione. Oltre alla motivazione e al rispetto che derivano dal fatto che i dipendenti possano portare la loro autenticità al lavoro, l’ambiente inclusivo offre sicurezza psicologica e un senso di essere ascoltati. Questo dimostra che l’azienda è lungimirante, impegnata a lungo termine e in grado di adattarsi ai cambiamenti di opinioni dei dipendenti e dei clienti.

Dal punto di vista finanziario il copione è lo stesso. Le aziende con alti livelli di diversità superano le altre. Secondo Deloitte, le aziende con una maggiore diversità generano un’entrata per dipendente 2,3 volte superiore rispetto a quelle con una inferiore e la Harvard Business Review ha evidenziato che le aziende con programmi DEI hanno generato un fatturato superiore del 19%.

Con oltre il 63% delle aziende che prevede di aumentare la spesa per la customer experience nel 2023, la diversità e l’inclusione continuano a giocare un ruolo fondamentale per il successo aziendale. In un mercato sempre più competitivo, questi aspetti sono essenziali per offrire un’esperienza al cliente di qualità superiore e distinguersi come leader di settore.




Matteo Paolillo e la foto negata: analisi del rapporto tra celebrità e fan

Matteo Paolillo e la foto negata: analisi del rapporto tra celebrità e fan

Matteo Paolillo, influencer e giovane “star” di Mare Fuori, è stato al centro di una controversia dopo aver negato una foto a una fan. Il rifiuto ha scatenato una valanga di critiche sui social media, con molti utenti che lo hanno accusato di atteggiarsi da “diva” nonostante la sua carriera ancora in fase emergente. L’episodio è uno stimolo per riflettere sul complesso rapporto tra celebrità e fan, e su come la percezione di sé possa influenzare il comportamento di personaggi pubblici con diversi gradi di notorietà.

È interessante notare come, paradossalmente, molte delle celebrità di grande rilevanza internazionale mantengano un atteggiamento aperto e amichevole nei confronti dei propri fan. Non è raro vedere star del cinema, della musica o dello sport concedere foto, autografi e momenti di interazione, consapevoli del fatto che il loro successo dipende dall’affetto e dal supporto del pubblico. Questo comportamento, oltre a consolidare la loro immagine pubblica, spesso crea un legame più forte con i fan, che si sentono apprezzati e valorizzati.

Dall’altro lato, però, vi sono casi in cui personaggi pubblici di minore notorietà, come Matteo Paolillo, sembrano adottare un atteggiamento distaccato o addirittura altezzoso. Questa tendenza potrebbe essere attribuita a diverse ragioni. In alcuni casi, potrebbe derivare da un senso di insicurezza o dalla percezione di non essere ancora completamente affermati, portando così questi individui a sovracompensare con atteggiamenti volti a mantenere distanza. Oppure, potrebbe trattarsi di un tentativo di proteggere la propria privacy e i propri spazi personali, soprattutto in una fase in cui l’equilibrio tra vita pubblica e privata è ancora in fase di definizione.

Un altro aspetto da considerare è la pressione mediatica e sociale a cui sono sottoposti gli influencer e le nuove celebrità. Essere costantemente sotto i riflettori può risultare stressante, e la necessità di soddisfare le aspettative di un pubblico vasto e variegato può generare un senso di frustrazione. In alcuni casi, questo può portare a comportamenti che vengono percepiti come arroganti o scostanti, quando in realtà potrebbero essere semplicemente una reazione alla pressione del successo.

Tuttavia, è importante che i personaggi pubblici, indipendentemente dal loro livello di notorietà, riconoscano il ruolo fondamentale che i fan giocano nelle loro carriere. Il supporto del pubblico è spesso il motore che alimenta il successo e la crescita personale e professionale di questi individui. Negare una semplice richiesta, come una foto, può sembrare un gesto insignificante, ma può avere un impatto significativo sull’immagine pubblica e sulla percezione che i fan hanno della celebrità.

In conclusione, il caso di Matteo Paolillo ci ricorda che la gestione della fama è un equilibrio delicato tra protezione della propria privacy e responsabilità verso i fan. Mentre è comprensibile che ogni individuo abbia i propri limiti e necessità, è altrettanto importante mantenere un atteggiamento di rispetto e gratitudine verso coloro che sostengono il proprio percorso. In un’epoca in cui l’immagine pubblica è fondamentale per il successo, la capacità di gestire con eleganza e rispetto le interazioni con i fan può fare la differenza tra una carriera brillante e una caduta nell’oblio.




Per le artiste la strada è ancora in salita: il mondo dell’arte è lontano dalla gender equality

Per le artiste la strada è ancora in salita: il mondo dell’arte è lontano dalla gender equality

Se è vero che il mondo dell’arte è da sempre considerato un microcosmo che riflette i valori e gli atteggiamenti della società in cui si sviluppa, è preoccupante notare che problematiche legate al gender gap siano ancora fortemente radicate. Sicuramente passi in avanti sono stati fatti, ma le recenti statistiche riguardanti la rappresentazione delle artiste nelle collezioni museali e nelle mostre evidenziano uno squilibrio di genere significativo. Per esempio, solo l’1 per cento delle opere della collezione della National Gallery è realizzato da donne, e l’opera di un’artista viene valutata in media solo un decimo di quella di un uomo. Inoltre, un rapporto che copre il periodo tra il 2008 e il 2020 ha rivelato che solo l’11% delle acquisizioni in trentuno musei statunitensi riguardava opere di artiste, mentre poco meno del 15% delle mostre era dedicato alle donne. Questi dati mettono in luce l’enorme disparità nel mondo dell’arte e sottolineano quanto lavoro ci sia ancora da fare per raggiungere una rappresentazione equa e inclusiva delle artiste donne.

Durante una visita alla Whitechapel Gallery, una delle istituzioni culturali più progressiste, Katy Hessel, scrittrice e storica d’arte, ha notato che solo cinque delle 86 didascalie che accompagnavano le opere facevano riferimento ad artiste, e solo in relazione agli uomini che conoscevano o frequentavano, come i mariti di Elaine de Kooning, Anna-Eva Bergman e Lilian Holt. Questo tipo di contestualizzazione delle artiste in relazione agli uomini mette in evidenza un problema più ampio nella narrazione delle opere d’arte femminili. Mentre è vero che l’opera stessa dovrebbe venire prima dell’artista e l’artista prima del suo genere, quando si tratta di

rappresentazione nelle mostre, è fondamentale valutare criticamente le narrazioni che vengono imposte ai visitatori.

È importante riconoscere che la storia dell’arte è stata storicamente dominata dal genere maschile, con le opere degli uomini che hanno goduto di una maggiore visibilità, valore e riconoscimento rispetto a quelle delle donne. Ciò è dovuto a una serie di fattori, tra cui le norme sociali e culturali che limitavano l’accesso delle donne all’educazione artistica, alle opportunità di esibizione e alle reti professionali, nonché alle aspettative di genere che relegavano le donne al ruolo di muse o modelle piuttosto che di artiste autonome. Queste disuguaglianze di genere hanno avuto un impatto duraturo sulla rappresentazione delle artiste nelle collezioni, creando un’immagine distorta della storia dell’arte in cui le donne sono state spesso ignorate o presentate solo in relazione agli uomini.

Le limitazioni storiche per le donne artiste

La difficoltà ad emergere nel mondo dell’arte per le artiste proviene da lontano. Il ruolo delle donne è stato spesso sottovalutato e limitato nel corso della storia. Fino al 1870, sono state tenute lontane dalle professioni artistiche, e anche dopo quell’epoca, hanno affrontato molte sfide nel cercare di farsi strada nel mondo dell’arte.

Sebbene ci siano state artiste talentuose anche prima di quegli anni, spesso non sono state valutate come meriterebbero e questo atteggiamento si riflette anche nella storia dell’arte che viene insegnata nelle scuole, dove le biografie e le opere delle artiste sono frequentemente trascurate o addirittura ignorate. È solo a partire dagli anni ’70 che si è iniziato a sollevare la questione del ruolo delle donne nell’arte in modo più approfondito. Nel 1971, Linda Nochlin pubblica un saggio provocatorio dal titolo “Perché non ci sono mai state grandi artiste donne?” in cui affronta la questione della scarsa presenza delle donne nel mondo delle arti figurative.

Nochlin sostiene che le donne artiste sono state escluse dal ruolo di protagoniste nel campo sociale e istituzionale a causa di un condizionamento culturale che ha limitato la loro produttività artistica. L’arte non è stata considerata un’attività autonoma e libera, ma è stata influenzata dalle accademie, dalle istituzioni culturali, dagli organismi economici e familiari. Inoltre, alle donne è stato spesso proibito studiare dal vero con modelli e modelle, a differenza degli uomini, limitando così la loro formazione e la loro possibilità di esercitarsi con tecniche e mezzi adeguati.

Le donne aspiranti artiste hanno dovuto lottare per inseguire le proprie ambizioni, affrontando spesso derisione e etichette dispregiative. Sono state divise tra le aspirazioni personali e le aspettative sociali, costrette a confrontarsi con una concezione distorta di femminilità imposta dalla società. Questo ha messo a dura prova la loro autostima e ha creato una costante ambivalenza nel cercare di affermarsi come artiste.

Nonostante queste sfide, molte donne artiste hanno raggiunto risultati significativi nel corso della storia. Dalle pittrici rinascimentali come Artemisia Gentileschi, alle scultrici come Barbara Hepworth, alle fotografe come Cindy Sherman, alle artiste contemporanee come Yayoi Kusama, molte donne hanno lasciato un’impronta duratura nel mondo dell’arte, dimostrando un talento e una creatività straordinari.

Tuttavia, la lotta per il riconoscimento delle donne nell’arte è ancora in corso. Nonostante i progressi compiuti negli ultimi decenni, le donne artiste continuano ad affrontare discriminazioni di genere, disparità salariale, e limitazioni nella visibilità e nelle opportunità di carriera.

Qual è la situazione attuale?

Una ricerca condotta nel 2020 da Kooness, realtà milanese operante nel settore artistico, e riportata in questo articolo, ha evidenziato alcuni dati preoccupanti sulla parità di genere nel sistema artistico attuale.

Innanzitutto, il valore economico delle opere create da artisti uomini risulta essere significativamente più alto rispetto a quello delle donne. L’indagine ha rilevato che gli artisti uomini guadagnano in media il 24% in più rispetto alle artiste, con un prezzo medio per un’opera di circa 3.700 euro per gli uomini e 2.900 euro per le donne.

Oltre la disparità economica, la ricerca ha rivelato che la presenza maschile prevale in modo significativo nel mondo dell’arte contemporanea. Su oltre 2.700 opere d’arte prese in considerazione, il 63,3% è stato realizzato da uomini, mentre solo il 36,7% da donne. Questo dato è particolarmente interessante se confrontato con i dati relativi agli iscritti alle accademie pubbliche di belle arti in Italia, dove le donne rappresentano la maggioranza. Questo solleva la domanda su quale tipo di carriere e percorsi scelgano dopo la formazione accademica e se ci siano ostacoli o discriminazioni di genere che limitano la loro presenza e visibilità nel mondo dell’arte.

Un altro aspetto evidenziato dalla ricerca riguarda i premi assegnati agli artisti. Tra i cinque premi più prestigiosi dell’arte contemporanea presi in considerazione nello studio, il 62,3% dei vincitori sono uomini, mentre solo il 37,7% sono donne.

Infine, l’analisi si è soffermata anche su un problema di percezione pubblica del valore dell’arte in base al genere dell’artista. Le opere d’arte delle donne hanno una probabilità tre volte maggiore di essere sottovalutate rispetto a quelle degli uomini. Più della metà delle opere d’arte femminili, il 51,6%, è stata valutata al di sotto del suo reale valore dagli intervistati, mentre solo il 12,2% è stato valutato al di sopra del suo valore. Al contrario, il 31,8% delle persone ha sopravvalutato le opere d’arte prodotte dagli uomini. Questo dimostra che la percezione pubblica del valore dell’arte è influenzata dal genere dell’artista, con un pregiudizio che porta spesso a sottovalutare l’arte delle donne.

Thegreatwomenartists: cosa possiamo fare per colmare il gender gap

Conquiste sono state fatte nell’arco di decenni, ma come evidenziato in questa analisi siamo ancora lontani dal raggiungere quegli obiettivi che potrebbero avvicinarci a una reale parità di genere nel mondo dell’arte. È quindi importante mettere in campo azioni e progetti che possano invertire la rotta, come l’idea che Katy Hessel ha deciso di sviluppare a partire dal 2015, lanciando l’iniziativa su Instagram con la pagina @thegreatwomenartists. Hessel pubblica un post al giorno per ridare la giusta fama a pittrici, scultrici, fotografe e altre professioniste che sono state tenute in ombra dalla storia passata, recente e attuale. Il suo lavoro si è poi trasformato in un podcast e, sette anni dopo, in un saggio di 500 pagine intitolato La storia dell’arte senza gli uomini, edito da Einaudi.

Hessel sottolinea che non crede nella diversità delle opere dettata dal genere. Piuttosto, è stata la società e i suoi guardiani ad assegnare sempre il primato a un gruppo, ed è di vitale importanza affrontare e mettere in discussione questa situazione.

La buona notizia è che negli ultimi anni si sono fatti molti progressi grazie agli sforzi collettivi di artiste, studiose e curatrici di tutto il mondo, che sono salite anche nelle gerarchie museali. Ad esempio, per la prima volta nella storia, le donne sono alla guida della Tate Modern, del Louvre e della National Gallery of Art di Washington. Anche in Italia ci sono più di 20 manager che dirigono istituzioni culturali e musei.

Insomma, la strada è ancora lunga. Se vogliamo che il mondo dell’arte, insieme a tutti gli altri ambiti che costituiscono la nostra scoietà, raggiunga la parità di genere dobbiamo impegnarci affinché la comunicazione e il dibattito si concretizzino in azioni e progetti incisivi. Perché tanto è stato fatto, ma tantissimo è ancora da fare.