Blockchain per la sostenibilità: 80 Comuni iniziano i test
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Una piattaforma digitale collaborativa basata sulla blockchainche ha l’obiettivo di monitorare i progressi delle amministrazioni comunali aderenti verso il conseguimento degli obiettivi dell’Agenda 2030. A svilupparla è la startup Traent in un progetto di collaborazione con la Rete dei Comuni Sostenibili, che prevede per la prima volta l’utilizzo della blockchain all’interno della Pubblica amministrazione. I Comuni coinvolti saranno 80, da Prato a Crispiano, da Rovigo a Lecce, da Testico a Follonica.
Gli obiettivi del progetto
Grazie alla nuova piattaforma sarà possibile monitorare 100 indicatori con i quali viene analizzata e valutata l’azione amministrativa dei Comuni aderenti alla Rete. Il flusso dei dati e la loro gestione avviene attraverso Traent Era, piattaforma di collaborazione su blockchain che permette la correttezza, la tracciabilità e la verificabilità di ogni singolo dato, rendendo le analisi realizzate dalla Rete sicure, affidabili e trasparenti.
Diffondere la sostenibilità nei Comuni
“Traent è una startup innovativa operante nel settore delle tecnologie emergenti. L’azienda è nata nel 2019 e adesso è in grado di fornire una soluzione completa su blockchain per la gestione dei processi, dei dati e delle interazioni tra organizzazioni, aziende e consumatori, ma anche tra comuni e cittadinanza – spiega il Ceo Federico D’Annunzio – La collaborazione con la Rete dei Comuni Sostenibili è per noi preziosa per due motivi: perché crediamo che gli obiettivi dell’Agenda 2030 siano raggiungibili solo se anche i privati, con la loro capacità d’innovazione, fanno la loro parte e perché la Rete ci è sembrata fin da subito un’idea positiva per diffondere in tutti i Comuni la cultura e la pratica della sostenibilità”.
A piccoli passi verso i traguardi globali
“Siamo felici di poter presentare questa collaborazione e il nostro piano di attività 2023 – aggiunge Valerio Lucciarini de Vincenzi, presidente della Rete dei Comuni Sostenibili – perché è solo passando dall’impegno dei Comuni che è possibile raggiungere i traguardi globali, europei e nazionali sui temi della sostenibilità. Il 2023 per noi rappresenta l’anno del salto di qualità. Sono già oltre 80 i Comuni che hanno aderito in soli due anni alla nostra associazione e puntiamo nei prossimi mesi a superare i 100 Comuni e i 3 milioni di cittadini complessivi. A macchia d’olio – conclude – si sta allargando l’impegno sulla sostenibilità: è dalle azioni di oggi che si può pensare di migliorare il domani. Ricordo che l’Agenda 2030 non parla solo di sostenibilità ambientale, ma anche economica, sociale e istituzionale. Una visione a 360 gradi nella quale la digitalizzazione e l’evoluzione tecnologica sono un aspetto orizzontale e determinante”.
L’assemblea nazionale
La prima assemblea nazionale della Rete dei Comuni Sostenibili è in programma per il 2 e 3 marzo a Roma, e sarà anche l’occasione per consegnare la “Bandiera Sostenibile“, un riconoscimento annuale per i Comuni che hanno prodotto il Rapporto di Sostenibilità, a seguito del monitoraggio volontario delle politiche locali di sostenibilità.
Inoltre, per i Comuni che hanno già avviato il percorso, nel 2023 è in programma il secondo monitoraggio degli indicatori di sostenibilità, al fine di misurare i progressi e fornire alle Amministrazioni informazioni utili per il processo decisionale.
Blockchain a consumo ridotto
“La collaborazione tra Rete dei Comuni Sostenibili e Traent ha consentito la realizzazione di un progetto così importante in ottica sostenibile – conclude Fabio Severino, chief Technology Officer di Traent – Siamo entusiasti di poter contribuire al raggiungimento degli obiettivi dei Comuni con la nostra soluzione tecnologica. L’infrastruttura che abbiamo sviluppato ha un consumo energetico ridotto a differenza delle blockchain tradizionali in funzione, risultando coerente con quanto afferma l’Agenda 2030 e con gli obiettivi della Rete dei Comuni Sostenibili”.
L’IA pensa. E noi?
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Non è l’intelligenza artificiale che ha imparato a pensare come noi, siamo noi che abbiamo smesso di pensare come persone e la colpa maggiore, mi dispiace dirlo, l’abbiamo noi filosofi e, in qualche misura, scienziati e psicologi. Mi spiego. Per chi non sia stato chiuso in un rifugio antiatomico durante gli ultimi 6 mesi, una serie di nuovi algoritmi generativi, addestrati su enormi quantità di dati provenienti dagli esseri umani, ha sviluppato la capacità di produrre testi, suoni e immagini. Chiunque li abbia testati (fatelo, è gratis, provate) è rimasto sorpreso e meravigliato: l’impressione è che questi algoritmi siano in grado di cogliere la struttura del pensiero degli esseri umani e di declinarla in nuove combinazioni. ChatGPT, forse il più famoso, è in grado di scrivere poesie, rispondere a domande su qualsiasi argomento, scrivere testi e relazioni. Sembra proprio che ChatGPT sia come noi.
Sono stati scritti fiumi di parole sulle loro potenzialità e rischi – dal problema del diritto di autore fino agli effetti sul sistema scolastico. Non c’è dubbio che abbiano capacità finora impensate e che il loro impatto sarà profondo e irreversibile, ma la domanda è un’altra: siamo sicuri che il pensiero sia semplicemente la manipolazione di simboli e la produzione di contenuti?
È un fatto che, tra i testi prodotti da ChatGPT e quelli scritti dagli esseri umani, non ci siano differenze evidenti e questa somiglianza contiene una minaccia. Molti studiosi di varia estrazione temono il giorno in cui queste intelligenze artificiali saranno in grado di produrre contenuti analoghi a quelli che loro, in tanti anni, hanno imparato a produrre con fatica e sforzo. Non c’è speranza dunque? Siamo diventati obsoleti? Stiamo per essere superati dall’Intelligenza Artificiale in quello che pensavamo essere la nostra capacità più essenziale? Ovvero il pensiero?
Nella domanda si nasconde la risposta. Già il fatto di porsi questa domanda implica che il pensiero sia stato declassato a calcolo, operatività, ricombinazione. Ma è proprio così? In realtà, ci sono due modi di intendere il pensiero: come manipolazione dei simboli o come manifestazioni della realtà. Il primo modo è stato declinato in tanti modi, apparentemente moderni – dalla macchina di Turing ai giochi linguistici di Wittgenstein, dalla svolta linguistica all’intelligenza artificiale odierna. Si sposa con l’idea che la casa del pensiero sia il linguaggio e che quest’ultimo, in fondo, non sia altro che una continua ricombinazione di simboli; un’idea popolare che ha trovato ulteriore supporto nella teoria dell’informazione e nella genetica. Tutto è informazione, scriveva il fisico John Archibald Wheeler. L’informazione non è altro che una serie di simboli e il pensare è il loro ricombinarsi. Tutto questo è molto convincente (è quasi una versione operazionale dell’idealismo di Kant), ma lascia fuori qualcosa di fondamentale: la realtà.
La realtà è un termine scomodo, quasi fastidioso, per alcuni. Da Kant alle neuroscienze, ci sentiamo ripetere che non possiamo conoscere il mondo, ma solo le nostre rappresentazioni (che non sono mai del tutto affidabili). Anche autori recenti con un certo seguito nel mondo della scienza e della filosofia pop – da Donald Hoffman a Slavoj Žižek– non perdono occasione di metterci in guardia dal prendere sul serio la realtà. E così il pensiero, un passo alla volta, si svuota di significato. Le parole sono sempre più simboli all’interno di un universo di simboli e sempre meno la manifestazione di qualcosa di reale.
Anche i social network prima e il metaverso poi ci portano in un mondo digitale sempre più staccato dalla realtà, dove digitare parole che producono altre parole, in un labirinto di simboli e di like autoreferenziali sembra essere l’unico obiettivo. In questo mondo di rappresentazioni digitali fini a se stesse, ChatGPT è come noi. Anzi, è meglio di noi. Non c’è partita. L’IA, come nel famoso racconto di Frederick Brown, sta per diventare il dio della realtà fatta di soli simboli privi di significato.
Al di là di questo entusiasmo per il pensiero ridotto a calcolo di nuove combinazioni, esiste un’altra grande intuizione sulla natura del pensiero secondo la quale noi non saremmo solo manipolatori di simboli, bensì momenti dell’esistenza. Ognuno di noi sarebbe un’occasione che ha la realtà per essere vera.
In questa visione, la persona non è solo una calcolatrice, ma una unità dell’esistere. È una prospettiva oggi impopolare, abituati come siamo al gergo informatico e tecnologico (dove la computer science è, per dirla con Gramsci, egemonica). Il pensiero non è né un flusso di concetti né una sequenza di operazioni, ma è il punto in cui la realtà si manifesta. Il pensiero acquista significato se è illuminato dalla realtà; qualcosa che non si può ridurre ad algoritmo, ma che non è, per questo, meno vero. Il significato delle nostre parole non dipende dalla correttezza della loro grammatica, ma dalla realtà che attraverso di esse si manifesta nel linguaggio.
Questi due atteggiamenti corrispondono a modi di essere incompatibili e attraversano arte, scienza e filosofia. Il primo è interno al discorso, il secondo buca il livello dialogico per arrivare (o cercare di arrivare) alla realtà. Tra i due campi non c’è simpatia, anzi esplicito disprezzo. Bucare il livello dialogico e andare oltre non è facile. Se il mondo dell’informazione fosse una grande città che cresce progressivamente diventando sempre più estesa, il mondo esterno diventerebbe sempre più lontano e irraggiungibile. Molte persone non uscirebbero mai dalla città, trovando al suo interno tutto ciò che desiderano e non sentendo la necessità di raggiungerne i confini. E così i filosofi diventano filosofologi, i matematici platonisti e gli scienziati si muovono solo dentro i confini rassicuranti di paradigmi autoreferenziali. L’arte diventa sempre più manieristica e il pensiero sempre più un esercizio barocco di stile. Non lo vedete tutto intorno a voi? Lo ha detto bene un non-filosofo come Manuel Agnelli alla sua laurea ad Honorem alla IULM: l’arte è morta perché è diventata figlia di una cultura autoreferenziale del numero e del consenso. Non ci rendiamo conto della fame di valore e di significato che ognuno di noi insegue?
Filosofi e scienziati si sono trovati a condividere quello che sembra essere soltanto una deformazione professionale: troppo tempo sui loro codici, troppo poco tempo a contatto con il mondo. I loro “sacri” testi prendono il posto del mondo nella loro esistenza e la loro vita rimane prigioniera di una biblioteca labirintica dove, prima o poi, nasceranno minotauri digitali che li divoreranno. In quel mito, l’unione di potere e conoscenza, rappresentata dal re Minosse e dall’inventore Dedalo (combinazione oggi sintetizzata in figure quali quelle di Steve Jobs, Elon Musk o Mark Zuckerberg), creano un labirinto in cui si rimane intrappolati e chiusi. ChatGPT è il minotauro digitale: non è in grado di uscire dal livello digitale e deve essere nutrito con la carne e il sangue della nostra esistenza, non consegnandogli ogni anno dieci giovani tebani, ma fornendogli i nostri dati attraverso Internet, social network e cellulari. Ma possiamo ancora sperare in un Teseo che, con l’aiuto di Arianna, riuscirà e uscirne seguendo un filo che incarna il collegamento con la realtà esterna.
Quel filo corrisponde all’apertura verso la realtà che è l’essenza del pensiero umano, fuori dal labirinto delle parole, dei simboli e dell’informazione. Peccato che molti filosofi (Daniel Dennett o David Chalmers) o molti neuroscienziati (Anil Seth, Vittorio Gallese) corteggino una visione dell’uomo ridotto a costruzione priva di sostanza. Ma se non siamo altro che un miraggio, il gioco è facile per l’IA: fantasmi tra fantasmi.
Come si è arrivati a questa abiura della nostra natura? Il linguaggio mette in moto concentrico tre sfere: la sfera della grammatica, la sfera dei concetti e la sfera ontologica. Nella prima quello che conta è la struttura dei simboli e come si concatenano tra di loro. Questo è il dominio dove oggi l’intelligenza artificiale (ChatGPT appunto) è signore e padrone. Poi vi è la sfera dei concetti che è un terreno ambiguo, per qualcuno reale e per altri no; una specie di purgatorio in attesa di essere eliminato. Infine c’è la realtà, dove tutto ciò che ha valore trova origine; ciò che noi cerchiamo nella nostra vita e che non sempre troviamo.
L’IA odierna (quella di domani chissà) si ferma alla grammatica del linguaggio. Ma il valore si trova nella realtà in quanto realtà. L’IA non fa altro che costruire nuvole di bit privi di sangue, colore, sapore: «non è altro che un racconto raccontato da un idiota, che non significa nulla». Se l’IA scrivesse l’Amleto, parola per parola, non sarebbe altro che una combinazione di simboli. Polvere e non statua.
La domanda che dovremmo chiederci non è se Chat GPT pensa come noi, ma piuttosto che significa pensare. Crediamo veramente di non essere altro che illusioni digitali? Abbiamo davvero smarrito il filo di Arianna che collegava le nostre parole al mondo reale? Io mi ribello. Io sono reale e la mia realtà va oltre la cascata di cifre digitali verdi di Matrix. Noi siamo reali e questa realtà non è all’interno dei nostri simboli. Non siamo semplici calcolatrici. E pazienza se oggi la maggioranza pensa che sia così, lasciandosi incantare dalla prospettiva di barattare la realtà con un metaverso digitale. Ritorniamo alla realtà e abbandoniamo i simboli. Torniamo alle cose e lasciamo le parole. Non è vero che le parole o le informazioni siano più importanti della vita e delle cose. ChatGPT riconosce, ma non vede; ascolta, ma non sente; manipola i simboli; ma non pensa. Per pensare bisogna essere reali, ma che cosa è il pensiero? Il pensiero è mondo.
Competenze digitali: che cosa sono e perché servono alle aziende e a chi lavora
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Nel prossimo futuro 9 lavori su 10 richiederanno competenze digitali, dice uno studio dell’Unione europea. In Italia, tra ottobre e dicembre 2022, si prevedono più di 40mila ingressi nelle aziende di professionisti STEM (“Science, technology, engineering and mathematics”, le discipline scientifico-tecnologiche), rileva il Bollettino di Unioncamere – ANPAL, Sistema Informativo Excelsior. Nel 2021 i lavoratori con competenze digitali hanno visto aumenti in busta paga in media dell’1,8%, si legge in un’indagine dell’Unione Industriali di Torino. Eppure, secondo il Digital Skills Index di Salesforce, l’86% dei lavoratori italiani sostiene di non avere le competenze digitali che le aziende cercano oggi: percentuale che sale all’87% per i prossimi cinque anni. Sempre secondo Unioncamere – ANPAL, solo ad ottobre 2022 la difficoltà di reperimento di professionisti STEM superava il 50%. In generale, in Europa, esiste il problema della “web vacancy“, carenza di personale con competenze digitali: entro il 2030 ne serviranno 20 milioni.
Ma cosa sono esattamente le competenze digitali? Vediamolo insieme.
Competenze digitali: coltivarle sarà indispensabile
Quasi metà dei lavori svolti attualmente nel mondo entro qualche anno potranno essere eseguiti in tutto o in parte da macchine. Milioni di posti andranno persi, altri milioni se ne creeranno, ma è altamente probabile che quelli nuovi saranno più qualificati, mentre quelli andati persi saranno per lo più impieghi a bassa qualificazione. Non solo: esisteranno (e già esistono) professioni che ancora non conosciamo bene o che non siamo in grado nemmeno di concepire. Per questo sarà sempre più importante lavorare per formare, coltivare e aggiornare costantemente le competenze digitali, o digital skills. Il termine si riferiva inizialmente alla capacità di saper utilizzare con dimestichezza e spirito critico le tecnologie della società dell’informazione, ma con la crescente affermazione della trasformazione digitale ha acquisito un significato più ampio e articolato. Le competenze digitali sono un vasto insieme di abilità tecnologiche che consentono di individuare, valutare, utilizzare, condividere e creare contenuti utilizzando le tecnologie informatiche e Internet. Possono spaziare dalle competenze di base come l’uso del computer a quelle più specifiche ed evolute come la creazione di codice o lo sviluppo di sistemi software per l’intelligenza artificiale. Essendo il mondo della tecnologia in costante evoluzione, anche le competenze digitali cambiano continuamente e sono destinate a mutare con rapidità negli anni.
“Digital skills non significa solo competenze tecniche, anzi – sottolinea Laura Cavallaro, Partners di P4i, società del Gruppo Digital360 che si occupa di Innovazione e Trasformazione Digitale. “Digital Skill significa sempre più comprendere la complessità dell’ambiente in cui lavoriamo, gestire con flessibilità le sfide di un contesto in continuo cambiamento e saper sfruttare il digitale come leva per supportare il business. La capacità di innovare, di pensare al di fuori degli schemi, inoltre, sono skills necessarie per guidare il cambiamento imposto dal digitale”.
Digital skills: Italia tra gli ultimi in Europa
L’Italia è in posizione arretrata in Europa per quanto riguarda le competenze digitali: quint’ultima nella classifica delle digital skills, con oltre il 50% della popolazione attiva che ne è privo, dice un rapporto presentato a febbraio 2021 dalla Corte dei Conti Ue. Dal documento emerge che nel 2019 più di 75 milioni di cittadini europei in età lavorativa (cioè il 35% del totale) non possedevano competenze digitali di base.
Secondo il Digital Skills Index di Salesforce – indagine sul livello delle competenze digitali nel mondo del lavoro che si basa sulle risposte di oltre 23.000 lavoratori in 19 paesi, tra cui oltre 1.300 dall’Italia – il nostro Paese è al di sotto della media globale. Il punteggio globale complessivo del Salesforce Index per la preparazione digitale – valutato in termini di preparazione, livello di abilità, accesso e partecipazione attiva all’aggiornamento delle competenze digitali – è infatti attualmente di 33 su 100: un divario in generale molto ampio. Ma l’Italia va peggio della media degli altri Paesi, con un punteggio di 25.
Un fenomeno ancora più preoccupante se si tiene conto che, a causa della pandemia, l’uso di strumenti digitali è richiesto per oltre il 90% dei posti di lavoro. Eppure, secondo Unioncamere, per lavorare nelle imprese in Italia le competenze digitali sono richieste per 7 assunti su 10, pari a 3,2 milioni di lavoratori. Tuttavia il 28,9% di questi profili, ovvero circa 940mila posizioni lavorative, è difficile da reperire per inadeguatezza o ridotto numero di candidati. Il risultato è spesso una carenza di competenze digitali per le piccole e medie imprese (pmi). Il problema riguarda l’intera Europa: in totale sono nove milioni gli specialisti oggi impiegati nel digitale, ma l’obiettivo è averne 20 milioni entro il 2030. Il 13 ottobre 2022 sono stati presentati i primi bandi del Fondo per le Repubblica Digitale, che ha una dotazione di 350 milioni di euro. Un’opportunità per chi fa formazione nel settore.
“Essere digitali” aumenta le retribuzioni
Tuttavia, per guadagnare di più, è importante essere digitali. Stando a un’indagine retributiva dell’Unione Industriali di Torino, realizzata in collaborazione tra dodici associazioni del Nord aderenti a Confindustria – che nel 2021 ha coinvolto 800 imprese con 60.000 dipendenti – il lavoro digitale aumenta le retribuzioni: mediamente un giovane che fa il suo ingresso nel mondo del lavoro forte di un curriculum con competenze digitali, guadagna 32.000 euro all’anno contro i 30.000 di un pari età “analogico”.
Competenze digitali e pandemia: cosa ha fatto il governo, cosa è successo alle professioni
Lo scoppio della pandemia da Covid-19 ha portato a un’accelerazione senza precedenti nella digitalizzazione dei processi: volenti o nolenti, gli italiani si sono ritrovati a usare piattaforme tecnologiche per le conversazioni e il lavoro a distanza e per la didattica a distanza, a ordinare i pasti o la spesa online, a fare acquisti su piattaforme di ecommerce. Improvvisamente le competenze digitali, perlomeno quelle di base, sono diventate un requisito indispensabile.
Nell’ambito di un percorso per le digital skills avviato dal governo Conte bis, il 3 agosto 2020 l’allora ministra dell’Innovazione Paola Pisano ha firmato il decreto d’adozione del piano che punta ad azzerare il divario sulle competenze Ict (Information and Communication Technology). A ottobre 2020 l’allora ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo, ha a sua volta apposto la firma ad un altro decreto che istituisce il Fondo nuove competenze, uno strumento da 730 milioni a sostegno delle imprese nei percorsi di riqualificazione professionale dei lavoratori.
Il 30 agosto 2021 il Dipartimento per la trasformazione digitale del ministro per l’innovazione e la transizione digitale Vittorio Colao ha pubblicato un bando per esperti in grado di gestire e sviluppare progetti nella digitalizzazione e nell’innovazione, tra i quali un esperto/a in competenze digitali.
In ogni caso l’emergenza sanitaria ha penalizzato solo temporaneamente la crescita della richiesta di figure professionali ICT, evidenziano le rilevazioni del primo semestre 2021 dell’Osservatorio Competenze Digitali sulle ricerche di personale ICT effettuate via web dalle aziende di tutti i settori. Dopo un calo nei primi mesi del 2020, la domanda è tornata ad aumentare, con la pubblicazione nel primo semestre 2021 di circa 51.700 annunci relativi alle professioni ICT, suddivisi in 8 famiglie professionali: Business, Design, Development, Emerging, Process Improvement, Service & Operation, Support, Technical. Un dato che torna ad avvicinarsi ai valori pre-Covid: nello stesso periodo del 2019 ne erano stati rilevati circa 57.000.
Vediamo intanto in questo articolo lo scenario, le definizioni, i case studies e le principali tematiche relative alle competenze digitali.
LAVORI “DISTRUTTI” E LAVORI CREATI DALLA DIGITAL TRANSFORMATION
Il report del World Economic Forum sul futuro dei lavori
Secondo il report “Future of Jobs 2020” diffuso dal World Economic Forum a novembre 2020, le caratteristiche fondamentali del lavoro del futuro, emerse dalle risposte di oltre 300 manager, sono le capacità di pensiero analitico e la creatività. La domanda per le professioni emergenti, ad alto livello di digitalizzazione, è destinata a crescere contemporaneamente all’adozione di nuove tecnologie nei processi di produzione di beni e servizi. Il podio tecnologico è occupato da cloud computing, big data analytics e Internet of Things. A seguire cybersecurity, intelligenza artificiale, commercio digitale e robotizzazione. Tra i settori maggiormente coinvolti in questa trasformazioni si trovano quello della Digital Communications and Information Technology, dei Financial Services e dell’Healthcare.
In un simile contesto dovranno cambiare anche le skill necessarie a competere nel mercato occupazionale. Pensiero critico e capacità analitiche, problem solving e autogestione sono le competenze la cui richiesta sarà in forte espansione nei prossimi cinque anni. Ma anche abilità di lavorare all’interno di team multidisciplinari e di utilizzare e gestire la tecnologia sono fondamentali per almeno il 50% delle aziende intervistate dal World Economic Forum.
Nel 2016 il Word Economic Forum, nel suo report di allora, The Future of Jobs and Skills, calcolava che, entro il 2020, si sarebbero creati 2 nuovi milioni di posti di lavoro nel mondo ma contemporaneamente ne sarebbero scomparsi 7, con un saldo netto negativo di oltre 5 milioni di posti di lavoro.
Il fenomeno della “distruzione creatrice”
Quasi la metà dei lavori svolti attualmente da persone fisiche nel mondo, dicono alcuni studi internazionali, potrà essere automatizzato quando le tecnologie si saranno diffuse su scala globale. Con riferimento all’Italia, questo significa che circa 12 milioni di lavoratori saranno interessati dal processo di automatizzazione progressiva (almeno fino a circa il 50%) dei loro compiti.
In linea con le previsioni del World Economic Forum anche Cedefop e Citi Research per l’Europa, che prevedono, nell’arco di tempo che arriverà al 2025, la creazione di nuovi posti di lavoro per ruoli e professioni a elevata qualificazione e una diminuzione significativa di quelli a bassa qualificazione.
È inevitabile immaginare in un’ottica di lungo periodo, un fenomeno di “distruzione creatrice’’: il digitale contribuirà alla creazione di posti di lavoro che si basano su nuove competenze e molti impieghi si trasformeranno ma, allo stesso tempo, potrà innescare la distruzione di impieghi sostituibili da processi automatizzati.
Gli ambiti maggiormente interessati dal processo sono Mobile Internet, Big Data, nuove fonti energetiche, Internet of Things, Sharing Economy/Crowdsourcing, relativamente alla digitalizzazione; Robotica, Intelligenza Artificiale e Additive Manufacturing/Stampa 3D con riferimento
COMPETENZE DIGITALI: UNA DEFINIZIONE “IN FIERI”
La definizione stessa di competenze digitali è cambiata con il cambiare del tempo. Questo perché, all’inizio dell’era della trasformazione digitale, la stragrande maggioranza della popolazione non aveva le conoscenze e gli strumenti necessari per gestire la rivoluzione introdotta nelle nostre vite dalla nascita di Internet e del World Wide Web. Man mano che, in questi decenni, la digitalizzazione ha interessato in modo concreto organizzazioni, aziende e singoli individui, anche l’apprendimento di competenze si è trasformato e velocizzato. Risultato: le definizioni di “competenze digitali” risalenti a qualche anno fa rischiano di risultare in qualche modo “datate” alla luce degli straordinari e rapidissimi cambiamenti in atto. Vediamo comunque come si è evoluto il concetto stesso di competenze digitali, perché così potremo ripercorrere quanto è accaduto in questi decenni in ambito digital transformation.
Competenze digitali: la definizione del Parlamento europeo
Una prima definizione di Competenze Digitali è stata proposta, nel 2006, dal Parlamento Europeo in un documento che indicava le otto competenze chiave per l’apprendimento permanente. Eccola: “La competenza digitale consiste nel saper utilizzare con dimestichezza e spirito critico le tecnologie della società dell’informazione (TSI) per il lavoro, il tempo libero e la comunicazione. Essa è supportata da abilità di base nelle ICT (Information and Communication Technologies, Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione): l’uso del computer per reperire, valutare, conservare, produrre, presentare e scambiare informazioni nonché per comunicare e partecipare a reti collaborative tramite Internet”.
Per attualizzare il concetto di competenze digitali va tenuto conto che oggi l’ICT è sempre più presente in tutte le professioni e che le Competenze Digitali risentono fortemente delle evoluzioni tecnologiche. Non si tratta più, dunque, di un fenomeno che riguarda solo la direzione IT o le imprese tecnologiche, ma di una realtà che pervade tutti i settori e le funzioni aziendali.
Competenze digitali: la roadmap di Agid
“Competenze digitali – scrive Roberto Scano, esperto AgIDper la normazione delle competenze digitali – è una parola “magica” che appare spesso in discorsi sulla loro assenza o non adeguatezza. L’assenza di competenze digitali specifiche (da parte di utenti, personale amministrativo, tecnici ICT, dirigenza) può comportare diverse problematiche a seconda dei soggetti coinvolti: dalla mancata fruibilità di un servizio (utenti) alla difficoltà ad erogarlo (personale amministrativo), delle problematiche tecniche (tecnici ICT) sino alla difficoltà di selezionare soluzioni digitali idonee (dirigenza). Il tema della crescita delle competenze digitali è particolarmente importante oggi in una società che è volta alla digitalizzazione dei processi”.
Nel 2017 AgID, l’Agenzia per l’Italia Digitale, ha definito la roadmap per il monitoraggio e l’accrescimento delle competenze digitali. Ecco come le ha suddivise:
le competenze digitali di base (utenti, compreso il personale amministrativo),
le competenze specialistiche (ICT)
le competenze di e-leadership (dirigenza).
Competenze digitali di base
Le competenze digitali di base sono le capacità di utilizzare con dimestichezza e spirito critico le tecnologie dell’informazione per il lavoro, il tempo libero e la comunicazione. Sono competenze utili a tutti i cittadini per poter partecipare alla società dell’informazione e della conoscenza ed esercitare i diritti di cittadinanza digitale.
Competenze specialistiche ICT
Le competenze digitali specialistiche riguardano professionisti e futuri professionisti ICT e sono richieste sia nel settore privato che nel settore pubblico. L’e-CF European e-Competence Framework 3.0, strumento di riferimento europeo dell’Agenda Digitale per la definizione delle competenze dei professionisti ICT, definisce la competenza ICT come “una dimostrata abilità di applicare conoscenza (knowledge), abilità (skill) e attitudini (attitude) per raggiungere risultati osservabili”. Lo sviluppo di adeguate competenze specialistiche ICT è una condizione cruciale per la crescita digitale, nel settore dei servizi pubblici online, l’evoluzione dei prodotti manifatturieri, come per l’efficienza e l’evoluzione dei servizi.
Competenze di e-leadership
Le competenze di e-leadership, o e-business, sono le capacità di utilizzare al meglio le tecnologie digitali all’interno di qualsiasi tipo di organizzazione e di introdurre innovazione digitale nello specifico settore di mercato in cui si opera. Le competenze digitali si integrano strettamente con le competenze trasversali tipiche del leader e con le competenze specifiche di settore. Esse includono anche le “competenze digitali per il lavoro”, che devono essere possedute da tutti i lavoratori, poiché tutti i lavori richiedono la capacità di utilizzare le tecnologie digitali.
Competenze digitali: la definizione di Aica
L’Associazione italiana per l’informatica ed il calcolo automatico (Aica), dà questa definizione: “La competenza digitale consiste nel saper utilizzare con dimestichezza e spirito critico le tecnologie della società dell’informazione (TSI) per il lavoro, il tempo libero e la comunicazione. Essa è supportata da abilità di base nelle TIC: l’uso del computer per reperire, valutare, conservare, produrre, presentare e scambiare informazioni nonché per comunicare e partecipare a reti collaborative tramite Internet.
L’Osservatorio delle Competenze Digitali – promosso da Aica, Anitec-Assinform, Assintel e Assinter Italia, in collaborazione con Miur e Agid – ha provato a schematizzare i livelli di conoscenze e competenze, riconducendoli a quattro categorie: le competenze per la cittadinanza digitale, necessarie a tutti i cittadini per potersi allineare alla digitalizzazione del contesto sociale; le competenze digitali dei lavoratori, che rispecchiano la capacità di saper usare nella quotidianità lavorativa strumenti informatici, a prescindere dalla funzione aziendale di appartenenza; le competenze specialistiche ICT, tipiche di figure che operano all’interno delle strutture ICT di realtà private e pubbliche o all’interno delle divisioni operative di fornitori di tecnologie e servizi ICT; le competenze di e-Leadership, che caratterizzano chi associa alla cultura digitale particolari attitudini e talenti che consentono di immaginare determinati percorsi di cambiamento e di contestualizzarli all’interno della propria organizzazione.
In generale le Competenze Digitali si possono ricondurre a due macro categorie: le Digital Hard Skill e le Digital Soft Skill.
CHE COSA SONO LE DIGITAL HARD SKILLS
Le Digital Hard Skill sono le Competenze Digitali tecniche di base che definiscono una figura professionale. Si possono acquisire a scuola, all’università, attraverso master e corsi di perfezionamento, ma anche sul posto di lavoro. Si possono anche apprendere grazie a corsi di formazione mirati sul web tra cui i MOOC, Massive Online Open Courses, e gli SPOC, Small Private Online Courses. Le Hard Skill sono quantificabili e rientrano tra le competenze da inserire nel curriculum vitae. Qualche esempio di Digital Hard Skills: saper usare programmi e pacchetti informatici, conoscere linguaggi di programmazione, saper usare specifici macchinari e strumenti di produzione. In particolare, in questa categoria rientrano le competenze tecniche che riguardano l’area SMAC (Social, Mobile, Analytics, Cloud), cui si aggiungono quelle su Intelligenza Artificiale, Robotica, IoT, Cybersecurity.
CHE COSA SONO LE DIGITAL SOFT SKILLS
Le qualità che caratterizzeranno le nuove skill a elevata qualificazione non saranno esclusivamente di natura tecnologica, ma si riferiranno a un mix molto più complesso. Per questo motivo avranno un ruolo sempre più importante le soft skill, ovvero le abilità trasversali, che riguardano relazioni e comportamenti delle persone in qualsiasi contesto lavorativo. Alcuni esempi di Digital Soft Skills: la capacità di risolvere problemi complessi, di gestire il cambiamento, di collaborare e relazionarsi, di adattarsi con flessibilità e di comunicare; il knowledge networking che consente di recuperare e capitalizzare le informazioni che si trovano in rete; il new media literacy, ovvero il grado di alfabetizzazione rispetto ai nuovi media, ai loro linguaggi e ai loro formati; la capacità di gestire i flussi comunicativi online nel rispetto della netiquette aziendale. Le Digital Soft Skill si apprendono prevalentemente sul campo e sono difficilmente quantificabili: dipendono dalla cultura, dalla personalità e dalle esperienze vissute dal singolo.
Competenze digitali in Italia: dalla Strategia al Piano operativo
Nel luglio 2020 è stata adottata la Strategia Nazionale per le Competenze Digitali, il 23 dicembre è stato pubblicato anche il Piano operativo. Il Piano individua oltre 100 azioni da realizzare e fissa, in particolare, degli obiettivi da raggiungere entro il 2025.
Si tratta di un documento che punta a colmare il gap digitale del nostro Paese entro il 2025. È stato elaborato in un’ottica corale, con la regia del Comitato Tecnico Guida di Repubblica Digitale, coordinato dal MID tramite il Dipartimento per la trasformazione digitale, mettendo sullo stesso tavolo Ministeri, Regioni, Province, Comuni, Università, istituti di ricerca, imprese, professionisti, Rai. Il processo ha coinvolto anche associazioni e varie articolazioni del settore pubblico oltre che le organizzazioni aderenti alla Coalizione Nazionale e ha tenuto conto dei primi contributi raccolti attraverso parteciPa, la piattaforma del Governo dedicata ai processi di consultazione e partecipazione pubblica.
Ecco alcuni degli obiettivi del Piano
Raggiungere il 70% di popolazione con competenze digitali almeno di base, con un incremento di oltre 13 milioni di cittadini dal 2019 e azzerare il divario di genere;
duplicare la popolazione in possesso di competenze digitali avanzate (con il 78% di giovani con formazione superiore dimezzando il divario di genere, il 40% dei lavoratori nel settore privato e il 50% di dipendenti pubblici);
triplicare il numero dei laureati in ICT e quadruplicare quelli di sesso femminile, duplicare la quota di imprese che utilizza i big data;
incrementare del 50% la quota di PMI che utilizzano specialisti ICT;
aumentare di cinque volte la quota di popolazione che utilizza servizi digitali pubblici, portandola al 64% e portare ai livelli dei Paesi europei più avanzati, l’utilizzo di Internet anche nelle fasce meno giovani della popolazione (l’84% nella fascia 65-74 anni).
Il Piano indica le azioni per l’attuazione delle linee di intervento della Strategia Nazionale e delinea gli obiettivi, misurabili, per ciascuna azione nell’ambito dei quattro assi individuati: Istruzione e Formazione Superiore ; Forza lavoro; Competenze specialistiche ICT; Cittadini.14
L’architettura del piano si articola in 4 assi strategici nell’ambito di ciascuno dei quali sono individuate le azioni di breve, medio e lungo termine che attuano le priorità e le linee di intervento definite nella Strategia. Ecco alcune azioni (per un quadro dettagliato ad una lettura completa del Piano):
Istruzione e formazione superiore
“Formare al futuro”, un programma integrato di formazione del Ministero dell’istruzione, rivolto a tutto il personale scolastico, sulla didattica digitale integrata e sulla trasformazione digitale dell’organizzazione scolastica;
Progettazione del curricolo digitale per valutare e certificare nelle scuole le competenze degli studenti, secondo il quadro DigComp;
Potenziamento dei percorsi di formazione universitaria fortemente orientati alla ricerca industriale e all’innovazione.
Forza lavoro Nel settore privato
Destinare un credito d’imposta alle imprese che investono in formazione verso i propri dipendenti, sulle tecnologie abilitanti il paradigma 4.0;
Creazione di uno Sillabo delle competenze digitali per le imprese di industria 4.0, per fornire gli strumenti necessari ad utilizzare le tecnologie abilitanti dell’ Industria 4.0.
Nel settore pubblico
Rafforzamento delle competenze manageriali a supporto della transizione al digitale;
Realizzazione e adozione di uno strumento per la rilevazione dei fabbisogni di formazione in ambito digitale e promuovere interventi formativi mirati (progetto “Competenze digitali per la PA”).
Competenze specialistiche ICT
Sostegno per borse di dottorato dei corsi Digital/ICT;
Potenziamento del sistema degli Istituti Tecnici Superiori in ottica 4.0.
Cittadini
Sviluppo di ACCEDI, un ambiente digitale di autovalutazione e apprendimento per il potenziamento delle competenze digitali;
Attivazione di un Servizio Civile Digitale per favorire l’inclusione sociale fornendo supporto all’utilizzo dei servizi digitali e potenziando le reti di facilitazione sul territorio.
Competenze digitali: focus sulle STEM
Per tenere il passo con l’innovazione tecnologica, è sempre più necessario possedere le cosiddette STEM, acronimo inglese per Science, Technology, Engineering e Math. Il termine è in genere utilizzato in riferimento alle politiche di formazione da parte degli organismi preposti all’istruzione per migliorare le competenze, e quindi la competitività, degli studenti in vista del loro ingresso nel mondo del lavoro. Le STEM sono infatti fondamentali per la comprensione di numerosissimi meccanismi alla base della vita civile e sociale. L’Unione Europea ha fondato la EU STEM Coalition, che ha lo scopo di riunire sotto l’egida della Commissione Europea tutte le piattaforme educative e di comunicazione esistenti sul territorio dell’Unione mirate alla divulgazione delle tematiche STEM. Secondo l’Educational Table of Industrialists, le STEM devono diventare oggetto di studio in ogni ordine di scuola, affiancate da metodi di insegnamento innovativi per aiutare gli studenti ad affrontare il proprio futuro digitale. Dal 2015 la Commissione Europea sostiene che l’educazione scientifico-tecnologica deve essere una componente essenziale di un continuum di formazione per tutti gli studenti, dalla scuola dell’infanzia in avanti, perché strumento di accesso alla cittadinanza attiva e partecipata.
OSSERVATORIO COMPETENZE DIGITALI 2019
Servono esperti di big data, AI, Iot, robotica, cloud computing
Come rileva l’Osservatorio Competenze Digitali 2019, il mercato del lavoro delle professioni del settore ICT in Italia è ancora in controtendenza rispetto alle criticità riscontrate da molti settori economici. La domanda di lavoro delle imprese supera infatti l’offerta che il sistema formativo, in particolare universitario, riesce a produrre. I dati dell’Osservatorio delle competenze digitali sono molto chiari: tra il 2019 e il 2021 si riscontra una differenza negativa tra domanda e offerta di laureati ICT pari a circa 28,5 mila unità.
Assistiamo dunque alla crescita della domanda di nuove competenze tecniche, in particolare legate al mondo dei big data, dell’intelligenza artificiale, dell’IoT, della robotica e del cloud computing, Emerge la domanda di nuove skill per molte professioni dell’ICT. Soprattutto per le attività di sviluppo, emergono skill legate alla gestione di grandi volumi di dati e tecniche di AI (artificial intelligence, machine learning, computer vision, python, hadoop, hive, IoT, Scala, per citarne alcune).
In sintesi, siamo di fronte ad una evoluzione che ha diversi connotati: difficoltà nel reperire risorse; emergere di nuove professioni e cambiamenti di skill richieste per molte esistenti; grande rilevanza delle soft skill per le professioni ICT.
COMPETENZE DIGITALI SPECIALISTICHE: LE PROFESSIONI DEL FUTURO
Per le aziende dell’offerta ICT i profili più critici includono Business Analyst, Proyect Manager, Security Advisore Data Scientist. A questi seguono profili più tecnologici: Application Developer, Enterprise Architet/Architect Engineer, System Administrator/Engineer, Sistemista e Database Administrator.
Per le aziende della domanda ICT e gli enti pubblici sono prioritari profili più marginali: Responsabile dei Sistemi Informativi, Responsabile della Sicurezza e responsabile della Sicurezza delle Informazioni, in grado di indirizzare le strategie IT e di gestire sicurezza, processi e risorse. Project manager, Business Analyst e Data Scientist sono rilevanti nelle aziende Industriali, del commercio e dei servizi.
Negli enti pubblici sono maggiormente ricercati Project Manager, Security Engineer, Sistemista e System Administrator/Engineer. Nel breve-medio termine, i nuovi profili specializzati sulle tecnologie emergenti, includeranno: Cloud Security Architect, Cloud Architect/Cloud Solution Architect, Cloud Computing Consultant, Cloud Computing Strategist; Cyber Security Consultant, Cyber Security Architect, Cyber Security Project Manager; Big Data Architect, Big Data Scientist e Big Data Specialist; IoT Consultant, Architecture Mobile & IoT Solutions Engineer, IoT Software Engineer; Robotics & Automation Manager, Robotics System Engineer e Robotics Engineer; Artificial Intelligence Software Engineer, Artificial Intelligence System Engineer.
Negli ambiti innovativi più trasversali emergeranno: Change Manager, Agile Coach, Scrum Master con riferimento al Service Development; Technology Innovation Manager, Chief Digital Officer e IT Process & Tools Architect nell’area della Service Strategy.
Competenze digitali: la startup
Anche le startup possono aiutare i giovani a ottenere le competenze digitali necessarie al loro futuro professionale. A maggio 2021 Aulab, Coding Factory italiana dedicata al mondo della programmazione con sede a Bari, ha concluso con successo la sua campagna di equity crowdfunding su Mamacrowd, superando l’hard cap di 500.000 euro di adesioni, con il 255% di commitment rispetto all’obiettivo minimo. I fondi raccolti verranno investiti per sostenere l’espansione aziendale, ampliare la propria offerta formativa e, appunto, per rispondere alla carenza di risorse tech nel panorama italiano, preparando diplomati, studenti universitari, laureati e NEET ad essere i programmatori del domani.
COMPETENZE DIGITALI: l’Italia spende la metà dei fondi europei destinati alle digital skills
L’edizione 2020 del Digital Economy and Society Index (DESI) vede l’Italia al terzultimo posto fra i 28 Stati membri dell’UE, con un punteggio pari a 43,6 (rispetto al dato UE del 52,6). È insomma tra i fanalini di coda, nella stessa posizione di bassa classifica formalizzata nel DESI 2018 (punteggio di 36,2 a fronte del dato europeo del 46,5), dopo il lieve aumento rilevato nel DESI 2019, che aveva consentito al nostro Paese di raggiungere il 23º posto (punteggio del 41,6 a fronte del dato UE del 49,4). Continua a preoccupare il grave ritardo descritto dall’indicatore “Capitale umano”, secondo cui, rispetto alla media UE, in Italia i livelli di competenze digitali di base e avanzate “molto bassi” risultano ulteriormente aggravati da un numero pressoché esiguo di specialisti e laureati nel settore ICT, “molto al di sotto della media UE”.
Secondo un rapporto presentato dalla Corte dei Conti a febbraio 2021, l‘Italia è agli ultimi posti (quint’ultima) in Europa nella classifica delle competenze digitali: oltre il 50% della popolazione attiva risulta infatti non esserne dotato. Dal documento emerge che nel 2019 più di 75 milioni di cittadini europei in età lavorativa (cioè il 35% del totale) non possedevano competenze digitali di base.
“La pandemia di Covid-19 ha ulteriormente sottolineato l’importanza delle competenze digitali di base per i cittadini”, ha osservato Iliana Ivanova responsabile del report. Dal 2015 in poi, la Commissione europea ha adottato una serie di misure per migliorare le competenze digitali dei cittadini ma, stando alla Corte dei Conti, l’Italia ha speso solo poco più della metà dei 58 milioni di euro destinati dal Fondo Sociale Europeo alla formazione nel campo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
Per il periodo 2021-2027, la Commissione ha stabilito per la prima volta l’obiettivo specifico di aumentare la percentuale di cittadini con competenze digitali di base con l’obiettivo di arrivare al 70% entro il 2025.
Il piano Pisano 2020
Il 3 agosto 2020, tuttavia, l’allora ministra dell’Innovazione Paola Pisano ha firmato il decreto d’adozione del piano che punta ad azzerare il gap sulle competenze Ict. Istruzione e formazione superiore, forza lavoro attiva, competenze specialistiche Ict, cittadini sono i 4 assi d’intervento su cui si sviluppa la Strategia Nazionale per le Competenze Digitali contenuta nel decreto di adozione firmato dalla Pisano. “È la prima volta che l’Italia si dota di una strategia globale per le competenze digitali – fu scritto all’epoca in una nota del ministero – base essenziale per l’attuazione di interventi organici, multisettoriali ed efficaci su un’area fondamentale per lo sviluppo economico e sociale del Paese”. A febbraio 2021 il governo Conte bis è stato sostituito dal governo Draghi. Ministro per l’Innovazione tecnologica e la Transizione Digitale: Vittorio Colao. Vedremo se e come il suo dicastero svilupperà il piano Pisano.
La call del ministero dell’Innovazione 2021
Il Dipartimento per la trasformazione digitale ha pubblicato il 30 agosto 2021 un bando per la ricerca di esperti tra i quali un’Esperta/o di competenze digitali, figura destinata ad operare nello svolgimento delle attività connesse allo sviluppo delle competenze digitali nell’ambito del progetto “Repubblica digitale”, promosso dal Dipartimento. Ecco le qualifiche chiave richieste.
Esperienza di collaborazione con la Pubblica Amministrazione oltre che esperienza internazionale nell’ambito formazione e lavori del futuro
Esperienza nell’area delle competenze digitali, di base e in ambito lavorativo e per l’e-leadership, nel settore pubblico e in quello privato, in progetti di innovazione e formazione, anche nel quadro di iniziative a carattere nazionale
Conoscenza delle problematiche connesse allo sviluppo delle competenze digitali nella società civile, nel settore pubblico e nel privato
Esperienza con progetti in ambito ICT/digitale nel mondo associativo e nelle organizzazioni pubbliche e private, anche nel quadro di iniziative di cambiamento organizzativo
Esperienza di coordinamento di team di progetto e di metodologie di project management
Esperienza nella comunicazione dell’innovazione, in ambito organizzativo, ICT e digitale, anche attraverso pubblicazioni di divulgazione
Esperienza nella definizione di indicatori e nel monitoraggio dei risultati
Esperienza nella relazione con stakeholder pubblici e privati
Esperienza nella gestione delle relazioni con il settore pubblico, nel coordinamento della relazione tra organizzazioni e nella gestione di tavoli complessi
Flessibilità e capacità di lavorare in gruppo
Ottimo pensiero critico, doti comunicative, capacità di individuare, analizzare e risolvere i problemi.
Per quanto riguarda la formazione, erano richiesti:
Laurea con almeno 5 anni di esperienza, o, in assenza di laurea, almeno 10 anni di esperienza all’interno dell’area HR, o ICT o Education in ambito pubblico o privato, oppure in servizi di consulenza
Ottima conoscenza della lingua inglese
Ricerca e innovazione: manca il capitale umano nell’ICT
Anche il mondo della ricerca nell’ICT (Information & Communication Technology) in Italia risente della carenza di competenze. A rilevarlo è il 1° Rapporto sulla Ricerca e Innovazione ICT in Italia presentato a ottobre 2020 in collaborazione con APRE, l’Agenzia per la Promozione della Ricerca Europea. Nonostante i progressi – si legge nel report – il nostro Paese ha ancora un numero di ricercatori proporzionalmente inferiore a quelli dei principali partner scientifici, tecnologici e commerciali, e con un’età media più elevata di quella degli occupati. È l’effetto di scelte passate che ha portato, fra l’altro, a una diminuzione dei finanziamenti per i dottorati di ricerca. Il personale R&S&I e i ricercatori in unità nelle imprese del settore ICT sono aumentati nel 2018 del 13,1% e del 20,6% rispettivamente. In ETP l’aumento è stato del 9,8% e del 19,2%. La crescita più elevata è stata nelle aziende di software e servizi IT, mentre si è registrata una contrazione nei servizi di telecomunicazione.
Competenze digitali, il grido d’allarme dell’insurtech
Tra i vari settori che lamentano la carenza di competenze digitali c’è quello dell’insurtech, la tecnologia applicata al mondo delle assicurazioni. Secondo una survey realizzata da Italian Insurtech Association a fine 2020, il Il 71% delle persone che operano in ambito assicurativo ritiene ci sia un gap di competenze tecniche e digitali nel proprio settore, e il 39% che ci sia carenza anche di competenze digitali di base, come il corretto uso dell’email. Del resto, in un panorama sempre più digitale, customizzato ed interattivo, il settore assicurativo ha ancora molta strada da fare in materia di trasformazione digitale: a fronte di una domanda crescente, l’offerta assicurativa digitale è ancora ferma ad appena l’1,5% del totale.
COMPETENZE DIGITALI E INCLUSIONE
La pandemia ha accelerato la digitalizzazione: dalla didattica a distanza alla spesa online, la delivery digitale dei servizi è diventata la norma per ampie fasce della società. Purtroppo le persone meno esperte di tecnologia, spesso più anziane o provenienti da comunità sottorappresentate, non sono riuscite a stare al passo con il ritmo rapido del cambiamento. Secondo una ricerca VMware nel 2020, in EMEA, il 43% degli adulti ha abbracciato nuovi servizi digitali e ne ha apprezzato l’esperienza. Il 60% degli intervistati si identifica come “digitalmente curioso” o “esploratore digitale”. Tuttavia in EMEA, il 34% degli over 55 si descrive come “non digitalmente attivo” o “digitalmente ingenuo” (in Italia il 28%). Il 64% (il 73% in Italia) teme che i propri parenti più anziani non riescano a stare al passo con il mondo digitale. Più di uno su tre (37% in EMEA, 31% in Italia) ha la sensazione di perdere il controllo man mano che la tecnologia pervade sempre di più la sua vita quotidiana. Chi è digitalmente in ritardo rischia di rimanere indietro. Ecco perché l’acquisizione di competenze digitali può aiutare nell’inclusione sociale.
Competenze digitali: il falso mito dei giovani con “padronanza digitale”
Le competenze digitali quotidiane, come i social media e la navigazione sul web, spesso non rispecchiano quelle ritenute fondamentali sul posto di lavoro e necessarie alle aziende per favorire la ripresa e la crescita.
Secondo il il Digital Skills Index di Salesforce, più di due terzi di tutti gli intervistati della Generazione Z (il 64% a livello globale) afferma di possedere competenze avanzate sui social media, a sostegno dello stereotipo della padronanza digitale tra le giovani generazioni, ma solo meno di un terzo (il 31%) ritiene di possedere le competenze digitali più avanzate necessarie in questo momento alle imprese.
La differenza è ancora più netta in Italia, dove l’81% degli intervistati della Generazione Z ritiene di avere un livello avanzato nelle competenze social, ma solo uno su cinque (il 19%) pensa di possedere le competenze digitali necessarie per il mondo del lavoro di oggi.
COMPETENZE DIGITALI: PERCHÉ È DIFFICILE REPERIRLE
L’Osservatorio delle Competenze digitali ha individuato almeno 4 motivi per cui attualmente, soprattutto in Italia, le persone con buone competenze digitali sono scarsamente reperibili.
La formazione delle competenze digitali è tecnologica e onerosa
L’offerta formativa è disallineata con la domanda, ovvero le scuole non forniscono le necessarie skills per affrontare un mondo del lavoro che sta rapidamente e profondamente cambiando
In ambito pubblico c’è il blocco del turnover, perciò scarseggia la presenza delle giovani generazioni, più digitali degli anziani
Spesso c’è difficoltà ad attrarre e convincere i candidati con le giuste competenze digitali ad entrare e restare in azienda, perché questi candidati temono di non trovarvi una vera cultura digitale
RESKILLING: L’IMPORTANZA DI FORMARE I DIPENDENTI ALLE NUOVE COMPETENZE
Entro il 2025, il 50% di tutti i lavoratori avrà bisogno di intraprendere un percorso di reskilling, sostiene il Report World Economic Forum 2021-2022. Con la piena affermazione della Trasformazione Digitale e dell’Industria 4.0, infatti, sarà necessario insegnare agli addetti nuove mansioni per le quali saranno richieste nuove competenze. Emerge dunque la necessità per le aziende che intendono restare competitive lavorare anche sul reskilling, ovvero il processo in base al quale è possibile apprendere modalità di lavoro e professionalità diverse dalla precedenti. Per prepararsi al reskilling le organizzazioni possono usare alcuni metodi:
Assumere dipendenti non tanto e non solo sulla base delle conoscenze acquisite, ma valutando la loro capacità di apprendere cose nuove.
Collaborare più strettamente con chi si occupa di formazione della forza lavoro per attingere a un bacino di studenti e neo-laureati maggiormente preparati.
Utilizzare il reverse mentoring, ovvero formare i dipendenti più giovani, che già posseggono una cultura digitale, in modo che siano poi loro a evangelizzare i senior all’interno dell’organizzazione.
COMPETENZE DIGITALI: IL DIVARIO DI GENERE
In tutto il mondo le donne sono penalizzate nei settori occupazionali che richiedono le STEM, conoscenze e competenze matematico-scientifiche. Come conferma la recente ricerca LinkedIn Recruiter Sentiment Italia 2019, che ha coinvolto la comunità di responsabili HR in azienda, nell’ultimo anno c’è stato un aumento delle assunzioni in Italia, ma le competenze digitali, sempre più richieste dalle imprese in fase di selezione, rimangono una prerogativa dei candidati di sesso maschile. Nello specifico il 45% dei responsabili HR italiani sostiene che ci sono più candidati uomini dotati di competenze digitali rispetto alle donne (contro appena il 25% che pensa che vi siano più donne “digitalmente preparate”).
Secondo uno studio realizzato da DigitAlly, startup che punta a formare e inserire i profili digitali più richiesti in un network di oltre 80 aziende, le donne sarebbero addirittura più predisposte alle competenze digitali, ma, nei primi anni di pratica in azienda, si genera un gap di competenze tecniche a favore degli uomini.
In base all’indagine, che ha preso in esame 1500 figure junior chiamate a rispondere a un test di Digital Assessment, il 70% del cluster femminile ha ottenuto i punteggi più alti, contro il 65% di quello maschile. Osservando però le skill tecniche più spesso acquisite in azienda, le cose cambiano. Infatti, se i risultati in ambito di digital strategy sono simili quando entrambi i sessi sono alle prime esperienze di lavoro, intorno ai 30 anni tendono ad essere superiori tra gli uomini. Un dato che fa riflettere sugli stereotipi di genere, che spesso influenzano processi di selezione e crescita a inizio carriera.
Per contribuire a colmare il divario tra le competenze digitali delle giovani e quelle richieste dal mercato del lavoro il Comune di Milano organizza da tre edizioni STEMintheCity: incontri, eventi, seminari, laboratori e presentazioni focalizzati sul superamento degli stereotipi e sull’avvicinamento di bambine e ragazze ai percorsi tecnico-scientifici.
Competenze digitali per i migranti
Gli immigrati possono essere una risorsa preziosa per il nostro Paese, ma le loro competenze vanno rafforzate e valorizzate. Ci ha pensato Chris Richmond N’zi, originario della Costa d’Avorio, che, dopo aver lavorato cinque anni per Frontex, si è reso conto che il 3% della popolazione globale è identificata come immigrati, ma produce il 10% del Pil mondiale. Insieme alla compagnia Aisha Coulibaly, italiana di seconda generazione, ha fondato Mygrants, una piattaforma che punta a far emergere le competenze dei migranti già presenti nella penisola, per aiutarli nel collocamento lavorativo in posizioni che possano sfruttare e valorizzare le loro competenze. Il database di Mygrants raccoglie circa 70mila profili di cui il 6% è rappresentato da soggetti con elevate competenze tecniche, scientifiche o linguistiche.
COMPETENZE DIGITALI PER L’INDUSTRIA 4.0
Le imprese stanno incontrando crescenti difficoltà per individuare, sia a livello di diplomati sia di laureati, le competenze necessarie per l’Industria 4.0, ovvero la quarta rivoluzione industriale che porterà a fabbriche interamente connesse e automatizzate. La scuola superiore e anche l’università non risultano ancora in grado di formare in modo adeguato le competenze e capacità necessarie per un inserimento efficace e rapido nel mondo del lavoro.
Per questo il Piano Industria 4.0, voluto dal ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda del governo Renzi e sostanzialmente riconfermato dal governo Di Maio-Salvini, ha previsto incentivi per la formazione del personale delle imprese verso l’utilizzo dei macchinari oggetto del Piano. A inizio maggio 2018 sono state approvate le note attuative per gli incentivi fiscali a copertura parziale dei costi del personale in fase di formazione. Questo per quanto riguarda i lavoratori interni alle aziende. Per chi invece deve prepararsi ad affrontare il mondo del lavoro dotandosi delle adeguate competenze occorre che la scuola faccia la sua parte. Per lo sviluppo delle competenze digitali potrebbero svolgere un ruolo chiave gli istituti tecnici e i licei che dovrebbero sviluppare orientamenti verso l’ottenimento di competenze certificate. Queste potrebbero consentire una effettiva employability dei giovani aprendo le porte al Lavoro 4.0. Chi si sta muovendo in questo senso è, tra gli altri, proprio Aica, che ha predisposto il Programma 4.0 per nuove opportunità per il Lavoro 4.0, partendo da un catalogo basato sulle nuove certificazioni di IT Administrator e di Project management per passare alle certificazioni rivolte in modo specifico all’Industria 4.0 attraverso certificazioni Cad 2D, CAD 3D, Stampa 3 D, GIS, a cui si aggiungerà una certificazione per l’Internet of Things (IoT) e Big Data.
I CASE STUDIES
Cisco
Nel 2016 Cisco ha annunciato un piano per digitalizzare l’Italia che ha previsto investimenti per 100 milioni di euro entro il 2018. Tra le tante attività messe in atto da Cisco Italia anche quelle focalizzate sulla formazione: 80mila i giovani sparsi in tutta Italia hanno acquisito competenze digitali, imparando nozioni relative a Internet delle Cose, Cybersecurity e studiando anche come diventare imprenditori.
“Palestre digitali”, progetto per i giovani
Palestre Digitaliè un’esperienza formativa che vuole migliorare le possibilità di occupazione dei giovani laureati in materie umanistiche, linguistiche, economiche e sociali, trasformandoli nei professionisti digitali di domani.
Nato nel 2012, il Il progetto formativo “Palestre Digitali” è realizzato grazie alla collaborazione tra diverse aziende e associazioni, che sono diventate partner del progetto. Queste sono: Accenture Italia S.p.A., Assolombarda Cariplo Factory, GiGroup, Jobiri, Job Farm, Fondazione Italiana Accenture, Young Women Network e Randstad. Palestre Digitali è inoltre patrocinato da Regione Lombardia.
Facebook
Facebook ha scelto l’Hub di LVenture Group e LUISS EnLabs, presso la Stazione Termini, come sede del suo nuovo spazio dedicato allo sviluppo delle competenze digitali chiamato “Binario F”.
IAB Italia
IAB Italia, l’associazione che raggruppa i più importanti operatori della pubblicità digitale in Italia, ha attuato il progetto DMS, la Certificazione Digital Marketing Skills con cui si pone come ente certificatore super partes. A marzo 2021 ha fatto un ulteriore passo avanti diventando una piattaforma di job board: è sufficiente entrare nella sezione “posizioni aperte” del sito dell’associazione per consultare i profili ricercati e il nome delle aziende che ne fanno richiesta.
Leonardo
Leonardo, azienda italiana attiva nei settori della difesa, dell’aerospazio e della sicurezza, tredicesima impresa di difesa del mondo e terza in Europa per grandezza, ha deciso di investire in modo significativo per cercare di favorire concretamente lo sviluppo di competenze STEM all’interno del sistema Paese. A tale scopo sono prodotti periodicamente contenuti formativi a supporto di docenti delle scuole superiori per diffondere conoscenza sui principali trend tecnologici che riguardano le sfide del futuro e che possono formare e ispirare gli studenti. A fine 2022 oltre 650 scuole erano state coinvolte nell’iniziativa.
COMPETENZE DIGITALI: NECESSARIE ANCHE NELLE AZIENDE TRADIZIONALI
Le competenze digitali non sono richieste solo nelle aziende tecnologiche, ma sono diventate necessarie praticamente in ogni settore dell’industria tradizionale. Basti pensare a un comparto un tempo esclusivamente “fisico” come il retail, dove il cliente non è più solo quello che entra dalla porta del negozio, ma è anche l’acquirente su Internet, per cui stanno nascendo una serie di interazioni tra online e offline (i termini tecnici sono multicanalità, cross-canalità e omnicanalità). Competenze digitali sono essenziali anche nell’automotive: un tempo c’era l’operaio metal-meccanico che costruiva la macchina, oggi le auto sono connesse, a guida autonoma, self driving, e c’è bisogno anche di esperti digitali. Dal rapporto dell’Osservatorio sulle competenze digitali emerge che le skill digitali di base pesano per il 41% nell’Industria, il 49% nei Servizi e il 54% nel Commercio. Separando le skill di base dalle altre, definite come skill avanzate, emerge che la domanda di skill di base prevale solo nel Commercio, mentre nell’Industria e nei Servizi prevalgono le skill avanzate, viste come fattori di una più evoluta professionalità.
COMPETENZE DIGITALI: QUANDO LA TRASFORMAZIONE PARTE DALL’HR
Per reclutare e gestire persone con nuove competenze la tecnologia può fare la differenza. Le Risorse Umane sono decisive nella trasformazione digitale delle imprese, perciò oggi si parla sempre di più diHR Tech, la tecnologia applicata al mondo dell’HR. L’HR Tech non è solo una tecnologia per gestire le paghe, ma è anche e soprattutto un’opportunità di innovazione e cambiamento in azienda. Con l’HR Tech si passa da modello gestionale gerarchico-burocratico a uno in cui le persone contribuiscono all’attività aziendale sulla base delle proprie competenze e non solo in base al proprio ruolo. Solo per fare un esempio, Adecco, agenzia internazionale di recruiting, ha deciso di puntare su uno strumento di HR Tech per la selezione del personale. Nel 2019 ha proposto uno strumento esclusivamente digitale per dare alle persone un indice di impiegabilità nel mercato del lavoro. Obiettivo: offrire un “bilanciamento tra chi è la persona e come si sta trasformando il mercato del lavoro”.
Eni vs Report, il modello di gestione delle crisi nell’era digitale
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Sono passati sette anni da quella domenica sera di un freddo dicembre del 2015 in cui, per la prima volta, un’azienda rispondeva, in diretta, a una trasmissione televisiva attraverso i social. Da allora quello che è stato definito “Eni vs Report” è diventato un format utilizzato e reinterpretato da molte altre aziende (recentissimamente da Fileni vedi qui) per gestire situazioni critiche legate a una sovraesposizione mediatica televisiva. Accanto a questo la strategia di risposta è diventata oggetto di molte tesi universitarie ed è regolarmente citata in corsi e lezioni come caso di studio.
Che io debba molto professionalmente a quest’idea che proposi durante una riunione convocata per decidere come gestire le richieste della trasmissione “Report”, è un dato di fatto. Così come è un dato che nulla sarebbe stato possibile senza che l’allora direttore della comunicazione, Marco Bardazzi, la sposasse e la supportasse in pieno mettendoci direttamente la faccia, e senza che tutto il team della comunicazione di Eni la realizzasse con un durissimo lavoro (non smetterò mai di ringraziare, Andrea Andreoni, Viviana Esposti e Vincenza Gargiulo).
In cosa consiste il modello di risposta “Eni vs report”? Nel costruire un vero e proprio palinsesto di risposte sui social, alle singole contestazioni mosse da una trasmissione televisiva, durante la loro messa in onda. Un vero e proprio contraddittorio crossmediale, costruito sfruttando appieno quello che viene definito il “second screen” ovvero le conversazioni social che si sviluppano a commento di quel che si vede in Tv.
L’obiettivo principale è dimostrare “forza”, sia nella fondatezza e solidità dei fatti che vengono contro dimostrati e contestati, sia nella scelta stessa di rispondere, punto su punto, il che rappresenta bene la sicurezza dell’azienda e mette percettivamente in discussione la totale affidabilità di quanto sostenuto nella trasmissione stessa.
Instillare il dubbio nella audience, quindi, e affrontare la issue critica sia da un punto di vista dei contenuti ma anche e soprattutto da un punto di vista dialettico, cercando la migliore rappresentazione possibile al fine di governare la percezione reputazionale dell’azienda stessa. Partendo dall’assunto che oggi le crisi non sono governate dal sistema mediatico (leggi giornali e giornalisti) bensì da tutti gli utenti che autogenerano la narrazione grazie alle loro reazioni pubbliche e visibili sulle piattaforme social. Sono queste che diventano “notizia giornalistica”.
Tutto questo si basa ovviamente sulla certezza e veridicità delle proprie posizioni e argomentazioni. Non a caso, nel caso di Eni vs Report, l’esito dell’inchiesta giudiziaria su cui era incentrata l’inchiesta giornalistica, ha visto, recentemente, l’assoluzione con formula piena di tutti gli indagati, a partire dal Ceo di Eni sino all’azienda stessa.
Ma anche nel caso di vulnerabilità dell’azienda la logica non cambia. Anche l’ammissione dell’errore, le scuse, il racconto delle intenzioni riparatorie chiedono una precisa rappresentazione, prima ancora di una semplice trasmissione dell’informazione.
Ma andiamo con ordine
La cronaca dei fatti
La storia dello scontro “Eni vs Report” inizia con la classica richiesta d’intervista televisiva della trasmissione di giornalismo investigativo, ai tempi condotta da Milena Gabanelli, all’AD di Eni. Un’intervista che sarebbe stata registrata, senza alcuna possibilità di contraddittorio e montata dalla redazione di Report, senza alcuna possibilità di controllo, inserita in un servizio che avrebbe sostenuto il coinvolgimento dell’azienda in un caso gravissimo di corruzione internazionale. Da un punto di vista percettivo e reputazionale un vero disastro annunciato.
La trasmissione sarebbe andata in onda senza che l’azienda avesse potuto dimostrare al pubblico di avere argomenti solidi per replicare a dubbi e accuse. L’unica possibilità di replica sarebbe stata il giorno seguente, non sulla stessa piattaforma ma attraverso il classico comunicato stampa, ripreso da pochi media e con scarsa evidenza, ottenendo un impatto comunicativo e percettivo molto ma molto inferiore rispetto a quello della trasmissione stessa. Una vera e propria “esecuzione mediatica”.
Le strategie di gestione a disposizione quindi erano le solite: rifiuto dell’intervista in video, richiesta di domande scritte e produzione delle relative risposte – velocemente riassunte in diretta televisiva dalla conduttrice – comunicato stampa il giorno dopo. Non bastava, era necessario governare la percezione degli stakeholders e non subire l’onda negativa dell’inchiesta. Per ottenere questo risultato era necessario prendersi il diritto di replica e ribattere tema su tema, come fosse un vero e proprio “duello” dialettico. Ma come?
Fu proprio il concetto di conversazione a ispirare la soluzione. Report era la trasmissione giornalistica italiana con il più importante second screen: un ambiente digitale, soprattutto Twitter, dove i telespettatori commentavano i servizi della trasmissione, in tempo reale.
Conversare quindi, questa era la soluzione. Prendersi il diritto di replica, in tempo reale, attraverso il second screen di Report e contemporaneamente aprire una conversazione con gli spettatori, per portare alla loro attenzione le contro argomentazioni.
L’idea strategica era quindi governare la percezione dei telespettatori della trasmissione e degli stakeholders dell’azienda attraverso l’attivazione di una conversazione digitale con gli stessi telespettatori, contemporaneamente alla messa in onda del servizio giornalistico, in modo da poter controbattere argomento su argomento.
Un vero contradditorio crossmediale, un cross-over fra televisione e social network che di per sé, oltretutto, avrebbe ottenuto l’attenzione mediatica per la sua originalità. Oltretutto una simile reazione da parte dell’azienda avrebbe avuto anche un rilevante significato per le persone di Eni, che avrebbero visto l’azienda stessa reagire alle accuse con orgoglio e, soprattutto, con fatti e argomentazioni solide.
Se questa era la strategia, la tattica richiedeva invece uno studio attento e un dispiegamento di strumenti e risorse importante. La prima cosa che decidemmo fu di sfruttare il fattore sorpresa e per questo fu mantenuto il massimo riserbo su quanto sarebbe accaduto la domenica sera della messa in onda di report.
Fu organizzato un team operativo che, sfruttando le risposte scritte preparate per le domande che intanto la redazione di Report ci aveva inviato (approvate da tutte le funzioni aziendali e quindi pubblicabili), realizzò una serie di tweet che controbattevano ogni singola argomentazione negativa che si potesse dedurre dalle domande stesse o che rappresentassero possibili argomentazioni negative mosse all’operato dell’azienda. In buona sostanza si cercò di prevedere la struttura giornalistica dell’inchiesta, anticipandone fonti, argomenti e tesi e per ciascuna di queste vennero creati uno o più tweet da utilizzare per controbatterle.
Venne poi allestita una pagina del sito istituzionale (ancora visibile qui frutto dello splendido lavoro di Roberto Ferrari e di tutto il suo team) nella quale pubblicare l’intera versione dell’azienda, supportata da documenti e da ogni evidenza necessaria a dimostrare le tesi difensive. In ciascun tweet fu inserita la url della pagina del sito, in modo da condurvi l’attenzione degli utenti: l’obiettivo era una replica informata e supportata da documenti ed evidenze.
Infine fu studiata la struttura della trasmissione: tempi, durata dei servizi e ritmo del montaggio, alternanza fra conduzione in diretta e servizio registrato, rientri in studio, ecc. Su questa base fu studiato un vero e proprio storyboard per adattare il ritmo e la tempistica delle risposte a quelli del programma, per renderle le più efficaci possibile.
La sera della trasmissione il team si riunì in ufficio, insieme con i colleghi di altre strutture (Ufficio stampa, legali, IT), per supporto nel caso la trasmissione toccasse argomenti non previsti e si dovessero realizzare risposte all’impronta. Il team – supportato splendidamente sin dall’inizio dall’agenzia esterna, Doing – venne organizzato dedicando una persona al monitoraggio della rete (in costante collegamento con gli analisti dell’agenzia), per analizzare l’evolvere della conversazione e capire in tempo reale le eventuali criticità e identificare chi partecipasse. Un altro membro del team era dedicato a pubblicare i tweet e un altro i commenti su FB. I contenuti erano infatti stati replicati anche per Facebook.
Ogni contenuto era numerato e suddiviso per tema, arricchito da infografiche e visual. Io mi occupavo di coordinare il flusso. Man mano che la trasmissione procedeva era sufficiente chiamare un numero affinché i membri del team pubblicassero il contenuto più adatto a controbattere il tema che in quell’istante era in onda.
Il “duello” durò circo un’ora e nel mentre attirò l’attenzione dei media digitali che “coprirono” immediatamente la notizia che l’azienda stesse rispondendo a Report sui Social Network. Questo innescò un dibattito parallelo che coinvolse molti giornalisti e opinion leaders sul web e “spostò” l’attenzione dal tema della trasmissione alla risposta messa in atto dall’azienda (su questo lo studio di The Fool). La stessa cosa accadde il giorno dopo quando su tutti i media generalisti e specializzati la notizia fu la risposta digitale di Eni a Report e non il tema dell’inchiesta giornalistica (esempi Repubblica,Corriere della Sera, Wired, La Stampa, BottomUp, Corriere delle Comunicazioni, AgoràVox, Ferpi, SocialCom).
Eravamo riusciti a gestire una possibile crisi in maniera resiliente, ribaltandola a nostro favore e trasformandola in un potente driver reputazionale, interpretando al meglio la natura stessa dei social network: piattaforme che abilitano la conversazione e non strumenti editoriali. Dimostrando inoltre la natura profondamente crossmediale della comunicazione nell’era del digitale.
Non solo una modalità di risposta ma il modello di crisis management al tempo del digitale
Il modello di gestione della crisi rappresentato da “Eni vs Report” interpreta efficacemente le particolarità delle issues critiche nell’era del digitale. Il modello predigitale chiedeva una prontezza di produzione e fornitura di informazioni perché la crisi era intermediata dal sistema mediatico e l’obiettivo era, appunto, fornire tempestivamente i giusti dati e le giuste informazioni per governare la narrazione del fatto, costruita dai giornalisti. Con il digitale la narrazione non appartiene più solo ai giornalisti ma soprattutto agli utenti stessi, che l’auto generano con i loro commenti e le loro prese di posizione polarizzate. Non conta più solo cosa si dice ma come lo si dice. Conta la percezione che le audiences traggono dalla forza, la modalità, la sicurezza, la forma della risposta di un’azienda coinvolta in una crisi. Al centro del processo c’è la rappresentazione prima ancora dell’informazione.
Il modello “Eni vs Report” si fonda sulla capacità di un’azienda di controbattere, in maniera decisa, solida e argomentata non tanto e non solo alle argomentazioni ma al contesto mediatico nel quale queste vengono diffuse, a una rappresentazione, quindi. E per farlo è necessario costruire una “contro rappresentazione”, in grado di indebolire, mettere in discussione quella critica e “decentralizzare” la conversazione.
Una contro rappresentazione che necessariamente deve svilupparsi sulle piattaforme nelle quali le audiences assistono e commentano ciò che accade, utilizzando lo stesso linguaggio e gli stessi format contenutistici (video, grafiche, infografiche, foto) che sostengono la issue critica. Prevedendo e gestendo soprattutto la reazione emotiva ed emozionale delle audiences.
Perché tutto questo sia possibile è però necessario “gestire la crisi quando la crisi non c’è” ovvero operare una profonda e attenta attività di risk assestement e di risk management, prevedendo i possibili scenari, pre-organizzando le strategie di risposta e preparando sia il team che i contenuti.
Il modello di reazione “Eni vs Report” è evidente che non possa e non debba essere applicato a ogni issues ma il razionale che lo sostiene è non solo attualissimo ma è il cuore del crisis management moderno.
Al centro delle crisi oggi non c’è più l’informazione ma la rappresentazione e la capacità di governare la percezione delle azioni e delle reazioni dell’azienda agli occhi delle audiences.
Il coding a scuola per lo sviluppo del pensiero computazionale
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Il mondo del lavoro richiede un numero sempre maggiore di figure professionali esperte nella programmazione, sia per costruire i nostri luoghi di interazione virtuale – siti web, app e sistemi operativi – sia per far funzionare gli oggetti smart di cui amiamo circondarci.
Ma non è per questo che il coding è sempre più presente nella scuola, non si studia infatti per diventare dei professionisti del digitale.
Quando si diventa fluenti a leggere e scrivere non lo si fa solamente per diventare uno scrittore di professione. Ma imparare a leggere e scrivere è utile a tutti. Ed è la stessa cosa per la programmazione. La maggior parte delle persone non diventerà un esperto di informatica o un programmatore, ma l’abilità di pensare in modo creativo, pensare schematicamente, lavorare collaborando con gli altri […] sono cose che le persone possono usare, indipendentemente dal lavoro che fanno.
Mitchel Resnick – Lifelong Kindergarten del MIT Media Lab
Il coding, che rientra tra le misure promosse dal PNSD – Piano Nazionale Scuola Digitale, favorisce infatti il pensiero computazionale, ma anche le abilità di problem solving e di lavoro di squadra. Approfondiamo insieme l’argomento.
Cos’è il coding
Prima di scoprirne i benefici e l’uso che se ne può fare nella didattica, iniziamo col comprendere cos’è il coding.
Con questo termine si fa riferimento alla programmazione informatica e dunque all’ideazione e allo sviluppo di software.
Programmare vuol dire fornire istruzioni a un esecutore che non ha un’intelligenza propria. Per questo le istruzioni devono essere molto semplici e chiare, e vanno fornite all’esecutore una per volta, in maniera sequenziale e in modo esaustivo, cioè senza tralasciare alcun dettaglio. L’insieme delle istruzioni per svolgere un compito fornite all’oggetto smart è detto programma.
Se utilizzato come strumento didattico, il coding consente di sviluppare:
creatività: potenzialmente si può creare tutto ciò che si riesce ad immaginare
problem solving: grazie allo sviluppo del pensiero computazionale, si acquisisce la capacità di risolvere problemi via via sempre più difficili
lavoro di squadra: esistono piattaforme di coding che permettono di lavorare in gruppo, ciò consente di interagire e relazionarsi con gli altri per sviluppare progetti in comune
Il pensiero computazionale
Programmare consente di sviluppare il pensiero computazionale, un concetto introdotto da Seymour Papert nel libro Mindstorms nel 1980. Jeanette Wing in seguito lo definì come
il processo necessario per la formulazione e soluzione di problemi in forme comprensibili da agenti in grado di processare informazioni
Il pensiero computazionale è quindi un processo mentale, che consente di risolvere problemi di varia natura seguendo metodi e strumenti specifici scelti in base a una strategia pianificata.
È un processo logico creativo che utilizziamo nella vita quotidiana. Imparare a farne un uso consapevole ci consente di affrontare le situazioni in maniera analitica, scomponendole nei vari aspetti che le caratterizzano e scegliendo per ognuno le soluzioni più idonee.
Queste strategie sono indispensabili nella programmazione dei computer, ma nella didattica qualsiasi attività che preveda una costruzione ponderata di algoritmi può favorirne lo sviluppo: situazioni che richiedono di creare una procedura da adottare, di ideare una sequenza di operazioni per risolvere un problema, ecc.
Tali attività contribuiscono alla costruzione delle competenze matematiche, scientifiche e tecnologiche e all’affinamento delle competenze linguistiche. La padronanza del coding e del pensiero computazionale inoltre possono aiutare le persone a sviluppare un pensiero critico.
Il coding in classe
Il coding può essere utilizzato in aula come attività trasversale a tutte le discipline. Questo perché, se utilizzato come strumento didattico, non richiede competenze informatiche specifiche, ma consente di esemplificare concetti, descrivere procedure per risolvere problemi e trovarne le soluzioni.
Unendo creatività e fantasia con Logica e Matematica, la programmazione si presta ad essere un‘importante risorsa per l’apprendimento delle materie sia scientifiche che letterarie.
Ma se ogni docente può sentirsi libero di arricchire le proprie lezioni con l’aiuto della programmazione, il Piano Nazionale Scuola Digitale prevede una figura apposita per la diffusione del coding:
Ogni scuola avrà un animatore digitale, un docente che, insieme al dirigente scolastico e al direttore amministrativo, avrà un ruolo strategico nella diffusione dell’innovazione a scuola
L’animatore digitale si occupa quindi di
individuare soluzioni metodologiche e tecnologiche sostenibili da diffondere all’interno degli ambienti della scuola (es. uso di particolari strumenti per la didattica di cui la scuola si è dotata; la pratica di una metodologia comune; informazione su innovazioni esistenti in altre scuole; un laboratorio di coding per tutti gli studenti), coerenti con l’analisi dei fabbisogni della scuola stessa, anche in sinergia con attività di assistenza tecnica condotta da altre figure.
Quando possibile, gli alunni potranno essere introdotti ad alcuni linguaggi di programmazione particolarmente semplici e versatili che si prestano a sviluppare il gusto per l’ideazione e la realizzazione di progetti
Nelle Indicazioni nazionali e nuovi scenari del 2018, al punto 5, viene ribadita l’importanza del pensiero computazionale come uno degli strumenti culturali per la cittadinanza:
L’esercizio della cittadinanza attiva necessita di strumenti culturali e di sicure abilità e competenze di base, cui concorrono tutte le discipline. […] Lingua e matematica, apparentate, sono alla base del pensiero computazionale, altro aspetto di apprendimento che le recenti normative, la legge 107/2015 e il decreto legislativo n. 62/2017 chiedono di sviluppare. Attività legate al pensiero computazionale sono previste nei Traguardi delle Indicazioni in particolare nell’ambito della Tecnologia, tuttavia se ne possono prevedere in ogni ambito del sapere.
Scratch e le piattaforme didattiche
Insegnare il coding ai bambini e ai ragazzi richiede una modalità diversa rispetto a quella che si usa con gli adulti. Questi ultimi devono necessariamente apprendere una grande quantità di nozioni e devono conoscere le sintassi dei principali linguaggi di programmazione.
A scuola, o in generale per i più piccoli, è invece consigliato un approccio ludico. A tale scopo sono stati creati sia dei giochi per imparare a programmare sia sono state sviluppate delle piattaforme per muovere i primi passi nel mondo del coding. Vediamo insieme le principali che possono essere usate a scuola o anche a casa.
Scratch
La piattaforma online più famosa, sviluppata dal Lifelong Kindergarten del MIT Media Lab, si chiama Scratch. Ha un’interfaccia grafica molto intuitiva e mette a disposizione di professori e alunni diversi progetti con cui è possibile imparare a programmare e migliorare le proprie abilità di coding.
Con Scratch è possibile programmare animazioni, giochi e storie interattive e condividere il risultato con gli altri membri della community.
CoderDojo
Il progetto CoderDojo nasce invece per offrire ai ragazzi una palestra per la programmazione. Il progetto, attivo in 114 paesi e sostenuto da oltre 12.000 volontari, consente di apprendere le basi del coding e migliorare le abilità di programmazione.
Ogni dojo, la palestra virtuale, rappresenta un club di programmazione e ciascun club si impegna a portare a termine diversi progetti.
Codeacademy
Un’altra community di programmatori a cui ci si può iscrivere è Codeacademy, una piattaforma con centinaia di progetti e con tantissime risorse utili per lo studio.
Lego Mindstorms
Un altro strumento è Lego Mindstorms, piattaforma basata sui famosi mattoncini, che ha anche una versione didattica con è possibile costruire e programmare un vero robot.
Minecraft Education
Basato invece sul noto videogame Minecraft, Minecraft Education consente di approcciarsi alla programmazione e di sviluppare tutte quelle skills utili a relazionarsi con gli altri in maniera divertente e interattiva.
Valutare il pensiero computazionale
L’Italia è stata tra i primi Paesi che hanno introdotto il coding nella scuola, insieme alle altre misure per la digitalizzazione. Ed è anche tra i Paesi della IEA, la International Association for the Evaluation of Educational Achievement, che hanno deciso di valutare le competenze e informative mediante l’Indagine ICILS – International Computer and Information Literacy Study.
Nell’edizione più recente di ICILS, quella del 2018, sono stati misurati sia il pensiero computazionale che la Computer and Information Literacy ed è emerso che gli studenti italiani ottengono un punteggio nella Literacy digitale significativamente inferiore alla media internazionale. Occorre però sottolineare che gli studenti italiani hanno svolto la prova all’inizio dell’ottavo anno di scolarità, a differenza degli studenti degli altri Paesi che invece l’hanno svolta verso la fine del medesimo anno.
Sarà interessante confrontare il dato del 2018 con quello della prossima rilevazione che avrà luogo nel 2023, così da comprendere l’andamento del processo di digitalizzazione della nostra scuola.