1

Il web del futuro, Google integrerà l’IA nella sua ricerca

Il web del futuro, Google integrerà l'IA nella sua ricerca

Google prevede di aggiungere funzionalità di intelligenza artificiale conversazionale al suo motore di ricerca.

Lo ha rivelato Sundar Pichai, amministratore delegato del colosso americano, al Wall Street Journal.

Secondo il manager, i progressi nell’intelligenza artificiale aumenterebbero la capacità di Google di rispondere alle domande, anche le più complesse, in tempo minore e con un più alto grado di affidabilità. Nessun rischio quindi ma tanti vantaggi: “Lo spazio di opportunità, semmai, è più grande di prima”, ha detto Pichai durante l’intervista.

L’ad non ha rivelato quando sarà possibile chattare con Google per avere risposte ai quesiti posti ma, per il Journal, il progetto non dovrebbe essere molto lontano dal rilascio, se non altro per non perdere troppo il passo nei confronti di Microsoft, che ha già integrato ChatGpt in una versione sperimentale del proprio motore di ricerca, Bing. Due mesi fa, Google ha reso disponibile, per test interni, Bard, il chatbot concorrente di ChatGpt, che si basa sul linguaggio di intelligenza artificiale proprietario PaLM, personalizzazione dei Large Language Model (LLM) da cui lo stesso ChatGpt deriva.

Pichai ha spiegato che l’obiettivo di Google è permettere agli utenti di interagire direttamente con i modelli linguistici attraverso chat semplici e accessibili via web. Secondo gli ultimi dati dell’agenzia Similarweb, Google detiene oltre il 90% di tutte le ricerche eseguite al mondo su internet, tra dispositivi mobili e computer. Dietro di lei Yahoo e Bing, entrambi poco oltre il 3%.




Juan Carlos De Martin: «Chiediamoci quali sono i costi nascosti dell’intelligenza artificiale»

Juan Carlos De Martin: «Chiediamoci quali sono i costi nascosti dell’intelligenza artificiale»

«Il mondo sta cambiando rapidissimamente. E temo che le nostre vite non siano in grado di tenergli il passo». Lo ha detto il regista Daniel Kwan nel ricevere l’Oscar per “Everything everywhere all at once”, dedicato a un multiverso in pericolo che scaraventa gli uomini nel caos degli universi paralleli.

Fuori dal film, l’accelerazione è ora: libri, articoli, convegni. E l’infosfera invasa dall’urgenza di raccontare un’intelligenza artificiale già pronta a stravolgere modi di apprendere, di lavorare, di curarci, di viaggiare: l’intera vita umana.

Non che l’influenza dell’algoritmo sia una novità: l’ammissione all’università, la richiesta di un prestito, l’assunzione o il licenziamento, persino la concessione o no della libertà vigilata dipendono già da uno schema sistematico di calcolo. Ma sono bastate alcune versioni di programmi basati sulla Generative AI, intelligenza artificiale applicata a stringhe di testo o di immagini, per annunciare che la rivoluzione c’è, qui e ora.

Cosa sta accadendo veramente? E quanto è vicino il tempo in cui le macchine saranno, se non più intelligenti degli uomini, almeno dotate di un’intelligenza di livello umano?

Lo abbiamo chiesto a Juan Carlos De Martin, vicerettore del Politecnico di Torino, dove insegna Ingegneria informatica, curatore di Biennale Tecnologia e condirettore di Nexa. L’occasione è stata Biennale Democrazia: la rassegna torinese che, nel promuovere una cultura democratica, punta lo sguardo ai diritti che mancano. E a un’innovazione che non deve procedere a scapito dei diritti umani.

Professore, siamo ciclicamente incalzati dall’arrivo di nuove tecnologie. Con una frequenza sempre più ravvicinata: big data, blockchain, auto a guida autonoma, ChatGPT. Con una narrazione rassicurante e seducente, queste tecnologie si impongono come imprescindibili. Perché?

«È vero. In 35-40 anni ho visto una sequenza di annunci sul digitale, prima circoscritti agli addetti ai lavori, dagli anni Novanta in poi rivolti a un pubblico sempre più ampio, che spesso li ha accolti con l’entusiasmo della corsa all’oro. C’è una tendenza chiarissima: si parla di tecnologie digitali “a ondate”, che provengono infallibilmente dalla Silicon Valley, presentano una novità con parole ambigue e ammiccanti, non proprie del mondo scientifico ma tipiche del marketing: pensiamo al cloud computing una decina di anni fa, il “calcolare sulle nuvole”, o alla moda dei big data, fino a ripescare quell’espressione nata negli anni ’50 – “intelligenza artificiale” – e rimetterla in circolo. La novità arriva, satura la società, sembra che sia indispensabile adottarla in ogni ambito. Poi l’onda inizia a scendere, si comincia a dare voce alle critiche, a capire di cosa stiamo parlando».

È quello che le chiedo io: in quale momento realmente ci troviamo? E qual è lo stato dell’arte dell’IA?
«Parliamo di un filone di ricerca informatica nato nel 1956, che ha vissuto momenti di entusiasmo e di delusione, e che ha effettivamente avuto, negli ultimi dieci anni, un balzo di prestazioni in alcuni settori specifici. Il motivo di questo aumento di prestazioni è che algoritmi, magari degli anni Ottanta, sono stati migliorati, ma soprattutto hanno avuto a disposizione molti più dati e molta più potenza di calcolo di quanto non fosse possibile prima. Questo ha messo in moto aumenti di prestazioni – nel riconoscimento del parlato naturale, ad esempio, nelle traduzioni automatiche, nel gioco degli scacchi, nel riconoscimento delle immagini – che hanno generato aspettative esorbitanti. Faccio un esempio: le macchine a guida autonoma che nel 2018-19 venivano date per imminenti, tanto da indurre Uber a investimenti pesanti, si sono rivelate una tecnologia più difficile del previsto: forse le vedremo nelle strade tra decenni o forse mai. Questa è la situazione in cui ci troviamo: effettivi avanzamenti. E contemporaneamente bolle mediatiche e, in certi casi, finanziarie».

Dal suo punto di vista, e sulla base di investimenti e risultati, l’intelligenza artificiale conquisterà mai un livello umano?
«No. Questa è una delle aspettative per me più infondate. Non perché sia, a priori, teoricamente impossibile che gli esseri umani costruiscano una macchina con caratteristiche simili all’intelligenza umana. Però l’intelligenza umana è ancora poco conosciuta. Non sappiamo dal punto di vista fisiologico molte cose del nostro cervello, e grandi temi sono aperti, come la coscienza. Condivido la posizione di John Searle: prima capiamo come funziona l’intelligenza umana, a quel punto avremo le condizioni necessarie, ma non sufficienti, per poterla replicare su base silicio, se la tecnologia sarà quella attuale, o su altre basi, persino organiche».

Dunque la singularity, e la prospettiva di macchine più intelligenti degli uomini, o almeno in grado di eguagliare l’intelligenza umana, non la appassionano?

«No. Non passerei del tempo a occuparmi di questi scenari per alcuni distopici e per altri entusiasmanti di un’intelligenza superumana. Concentriamoci sui problemi che abbiamo davanti, tangibili, importanti».

Modelli linguistici come ChatGPT sono imitativi, “pappagalli” che riassemblano in modo casuale sequenze di forme linguistiche da un numero enorme di dati. Sappiamo anche che l’IA non sa generalizzare, non coglie i rapporti di causa-effetto, manca di senso comune. Se non ha niente di paragonabile all’intelligenza umana, perché la chiamiamo “intelligenza”?
«Io cambierei subito l’espressione con una più neutra, asciutta, meno fuorviante rispetto a ciò che l’IA può fare. Così potente e ambigua, è stata coniata da scienziati in cerca di fondi della Rockfeller Foundation».

Concentriamoci sui problemi che l’IA pone, diceva prima. Facciamolo.
«Sì, ma non voglio dare un quadro solo negativo. Se troviamo tecniche di riconoscimento di immagini che ci aiutano ad analizzare radiografie o a identificare i tumori in maniera precoce, evviva. Non dobbiamo demonizzare le tecnologie, ma capire cosa fanno, come, cosa implicano. Chiediamoci quali sono i costi dell’IA, magari nascosti. Alcuni ricercatori hanno gettato un po’ di luce sullo sfruttamento di moltissime persone che lavorano non solo a etichettare i dati necessari per l’addestramento di questi algoritmi, ma anche per correggere risultati imperfetti. Se Alexa ci risponde correttamente, qualcuno magari in Madagascar o in Albania, in condizioni di lavoro usuranti e alienanti, ha corretto gli errori. Non ignoriamo le ricadute sul lavoro, o sull’ambiente, il consumo di energia, di terre rare di una tecnologia, non solo dell’IA».

Quali regole le sembrano più urgenti per l’IA? L’etica può bastare?
«Bisogna dire chiaramente che chi mette in campo queste tecniche è responsabile delle conseguenze. È un principio di buon senso che una cortina fumogena di interessi economici tenta di nascondere. L’etica non basta. Vuol dire porsi come obiettivo linee guida, autoregolamentazioni, ma è solo un rallentamento dell’intervento legislativo e pubblico: certe applicazioni vanno o regolate o proibite. La proposta di direttiva europea, dall’iter complicatissimo, è partita dicendo che il riconoscimento facciale in ambito pubblico, e il cosiddetto social score, il punteggio sociale, sono proibiti: punto. Lo stesso bisognerebbe dire delle armi letali autonome. E dei dati raccolti in certi ambiti lavorativi: da vietare».

La tecnologia non è un dato di natura, possiamo raddrizzare ciò che non va?
«La tecnologia è umanità. Dietro ogni sviluppo tecnologico, parafrasando Federico Caffè, c’è un uomo e un cognome e un soprannome. Essendo umana è sempre reversibile. Serve responsabilità politica. E di chi ha gli strumenti culturali per smascherare gli elementi di seduzione e gli interessi economici. La tecnologia non è di per sé progresso. Se fa morire di fame migliaia di persone devo accettarla lo stesso? Io credo di no. La tecnologia è una cosa umana, usiamola quando vogliamo, nel modo che riteniamo utile. In certi casi il modo più utile è non usarla».




Oltre il Pil: la spinta di cinque governi per rilanciare l’economia del benessere

Oltre il Pil: la spinta di cinque governi per rilanciare l’economia del benessere

Misurare ciò che conta”, avevano scritto nel 2021 Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia, Jean-Paul Fitoussi (da tempo in odore di Nobel, ma purtroppo morto nell’aprile del ‘22) e Martine Durand. Perché è proprio il momento di andare al di là del Prodotto interno lordo, uno strumento che indica quantità di ricchezza prodotta e non qualità dei risultati delle scelte economiche. E “ciò che conta davvero è il benessere”.

Il libro, pubblicato in Italia da Einaudi, riprendeva i temi di un famoso rapporto, firmato nel 2009 appunto da Stiglitz, Fitoussi e da un altro premio Nobel, Amartya Sen, per incarico di Nicolas Sarkozy, allora presidente della Repubblica francese e poi approfondito da un comitato di esperti dell’Ocse, sulla misurazione delle performance economiche e dei processi sociali. L’idea di fondo: proporre una nuova agenda economica, con un insieme di metriche per stabilire lo stato di salute e l’accettabilità di una società, tenendo in primo piano le misure sulla diseguaglianza e sulla vulnerabilità economica, sulla sostenibilità ambientale e su come le persone percepiscono la propria vita e ne possono progettare il miglioramento.

Il tema, al di là del dibattito economico, è stato rilanciato con un’iniziativa politica di rilievo, proprio negli ultimi giorni del 2022, da cinque capi di governo, Jacinda Arden (Nuova Zelanda), Sanna Marin (Finlandia), Katrín Jakobsdóttir (Islanda), Nicola Sturgeon (Scozia) e Mark Drakeford (Galles), che hanno scelto di lavorare insieme per una “Wellbeing Economy Governments Partnership”, cui potrebbero presto aderire anche Canada e Australia. Wellbeing, benessere, appunto. Una scelta politica di grande valore strategico.

L’idea di fondo, infatti, è quella di orientare le scelte politiche verso la qualità della vita e la sostenibilità, ambientale e sociale, dello sviluppo economico, andando al di là della dimensione puramente quantitativa della crescita, proprio quella misurata dal Pil. E la scelta dell’unità di misura ha una straordinaria valenza politica ed etica. Guardando non soltanto alla ricchezza prodotta ma soprattutto alla sua distribuzione, alle opportunità offerte alle nuove generazioni, alla salute, all’istruzione, agli impegnativi abbattimenti delle diseguaglianze.

I tempi di crisi che stiamo vivendo, fin dall’inizio del nuovo millennio (disastri climatici e ambientali, pandemie, crolli finanziari, tensioni geopolitiche sino alle esplosioni di guerra, fratture sociali, aumento dei divari geografici, generazionali, di genere) hanno portato alla ribalta la necessità di ripensare radicalmente i parametri economici tradizionali, in direzione di una “economia giusta” (l’espressione cara a Papa Francesco) e di seguire nuovi paradigmi di sviluppo.

Nulla a che vedere, naturalmente, con la “decrescita felice” teorizzata da economisti eccentrici alla Serge Latouche (in realtà, infelice: senza crescita non ci sono risorse da redistribuire, né investimenti in innovazione né nuovo lavoro). C’è molto, invece, da discutere proprio nel momento in cui i temi dell’ambiente e della giustizia sociale e della risposta alle drammatiche fratture dei tradizionali e distorti equilibri di produzione e di scambio impongono la ridefinizione di relazioni, poteri, valori. E la scrittura di nuove mappe economiche e non soltanto il riaggiustamento marginale della distribuzione del valore generato dall’economia (profitti, corsi di Borsa). Mappe essenziali, anche per il riequilibrio della globalizzazione.

Economia civile, economia circolare, economia generativa sono termini che sempre più spesso arricchiscono il dibattito culturale e sociale e che incidono sulla ricerca di nuovi e migliori assetti d’esistenza e di futuro.

Trova, insomma, rilievo crescente anche in politica l’essenziale passaggio, diffuso nel mondo dell’impresa, dal primato dello shareholders value (profitti, appunto) a quello degli stakeholders values (i valori che riguardano tutti coloro che hanno a che fare con l’impresa: dipendenti, fornitori, clienti e consumatori, cittadini delle comunità e dei territori su cui impatta l’attività aziendale) e la cui eco risuona con forza nei “bilanci sociali” e “di sostenibilità” e soprattutto nelle scelte di parecchi gruppi industriali e finanziari di incorporare proprio quelle voci nell’unico bilancio aziendale: una scelta chiara di buona etica d’impresa, d’una radicata “morale del tornio”. Benessere, dunque. E sostenibilità.

Analizzando bene le recenti scelte economiche della Ue con il Recovery Fund come risposta alla crisi post pandemia da Covid19, si ritrovano chiare le tracce di queste nuove sensibilità: attenzione alla next generation, istruzione, salute, ricerca economica, sostenibilità nella twin transition ambientale e digitale. Una migliore idea di futuro. In cui proprio l’Europa, riscoprendo, rilanciando e riformando la proprio profonda sensibilità storica e contemporanea per il welfare, ha un ruolo fondamentale. La sintonia con la Wellbeing Economy della Arden e della Marin è evidente.

L’Italia, in questo processo riformatore, ha una posizione di primo piano. Come dimostra proprio un indicatore, il Bes, l’indice del “Benessere equo e sostenibile”, elaborato dall’Istat e dal Cnel, che dal 2017 accompagna il Documento di Economia e Finanza del Governo, misurando con 12 parametri l’andamento delle condizioni sociali del Paese. Un indicatore di cui è necessario tenere sempre più conto.

Vale la pena, in questo processo riformatore dell’economia, dei suoi valori e dei suoi indici, rileggere anche una lezione politica fondamentale, quella di Robert Kennedy, in un discorso fatto agli studenti dell’università del Kansas nel marzo del 1968, tre mesi prima di essere ucciso. Proprio sul Pil che “misura tutto, eccetto ciò che rende che rende la vita veramente degna di essere vissuta” e che “può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani”.

Eccolo, dunque, il monito kennediano: “Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del Paese sulla base del prodotto interno lordo”. Il Pil, infatti, “comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine settimana. Il Pil mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzino la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari”.Il Pil, insomma, “non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei nostri valori familiari o l’intelligenza del nostro dibattere. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione, né la devozione al nostro Paese”. Più di mezzo secolo dopo, il messaggio è quanto mai attuale. 




Un viaggio sostenibile

Un viaggio sostenibile

Le crisi degli ultimi anni (pandemia, guerre, clima) hanno risvegliato le coscienze di molti. Davvero iniziamo a chiederci che impatto hanno le nostre azioni su natura e società? Questa nuova consapevolezza è solo un fuoco di paglia o è destinata a durare?

Senza dubbio tutti questi avvenimenti, sia sociali che ambientali, hanno scosso le coscienze. Soprattutto si è preso consapevolezza del fatto che le nostre azioni hanno un impatto: sappiamo che i gesti che compiamo generano degli effetti sul mondo e sulle persone che ci circondano. Purtroppo, però, ancora non siamo in grado di riportare questa consapevolezza ad un criterio decisionale. Faccio un esempio: nel momento in cui acquistiamo un’auto, facciamo valutazioni di prezzo, di consumo, di estetica, di dimensioni, di necessità… difficilmente prendiamo in considerazione l’ambiente o l’impatto sociale, soprattutto di fronte a un prezzo “eco” più elevato. Insomma, sappiamo che le nostre azioni influenzano l’ambiente e la società, ma non prendiamo decisioni in base a questo. Questo è uno dei passaggi chiave per concretizzare la sostenibilità.

Un altro ostacolo è il fatto che spesso tendiamo a giustificarci: è difficile rinunciare alle nostre comodità, al nostro status quo, perciò invece che fare scelte sostenibili, magari faticose, ci diciamo che «l’impatto che generiamo nel nostro piccolo è nullo rispetto a quello di grandi aziende e che sono gli altri (politici, imprenditori…) a dover fare qualcosa». Questo pensiero è profondamente sbagliato, perché la somma dell’impatto dei singoli, in realtà, è enorme: siamo talmente tanti e viviamo in maniera così individualistica, che è come se ogni nostro gesto fosse amplificato. Dovremmo iniziare a vedere ogni nostra azione come una parte di azioni condivise.

Questa presa di consapevolezza influisce sul settore turismo sostenibile?

Sì e non solo in questo settore: il risveglio di coscienze sta portando a un cambio della domanda un po’ in tutti gli ambiti e ambienti. La differenza, però, è che nel Turismo è ancora difficile percepire l’impatto generato, perché è multifattoriale. E poi ci sono effetti assolutamente invisibili nel breve periodo. Faccio un esempio. Se vado in Thailandia a visitare i villaggi con le donne giraffa, difficilmente mi renderò conto che sto alimentando meccanismi di appropriazione culturale, che sto in qualche modo limitando la libertà di queste persone nel vivere pienamente le loro tradizioni: gli effetti di questo tipo di turismo si vedranno tra trent’anni, quando quelle tradizioni saranno abbandonate o mortificate in qualche modo. E trent’anni sono lunghi…

Un aspetto invece palese è quello del trasporto: ormai sappiamo tutti l’impatto che genera in termini di CO2, quindi molti iniziano a preferire i mezzi collettivi (pullman, treni…) a quelli individuali o all’aereo.

Per esempio, il turismo lento, che ha preso piede negli ultimi anni, può essere considerato turismo sostenibile o è tutt’altro?

, è decisamente una forma di sostenibilità turistica. Vorrei sottolineare che “turismo sostenibile” non è una nuova tipologia di turismo: è lo stesso turismo che avremmo fatto in precedenza, ma con maggiore rispetto di ambiente e comunità dove scegliamo di recarci. Anche lo sci e il turismo in montagna possono essere sostenibili, dipende sempre da come mi comporto e dalle scelte che faccio!

Finora abbiamo parlato dei viaggiatori, ma anche gli operatori turistici devono essere sensibilizzati perché la sostenibilità sia vera e “totale”. Quali sono le difficoltà maggiori che incontrate in questo percorso?

La mentalità. La stragrande maggioranza degli operatori turistici è abituata a lavorare (quindi a prendere decisioni) secondo un certo schema: ogni azione genera un profitto, tendenzialmente immediato. Se entra in gioco la sostenibilità, il profitto non sarà più immediato, ma arriverà nel medio o lungo periodo. Cambiare questo schema mentale è molto difficile, soprattutto se consideriamo l’impatto che ha avuto la pandemia sul settore e il momento d’incertezza in cui stiamo vivendo.

Inoltre non sono ancora molti i viaggiatori che cercano accommodation sostenibili: magari viaggiano in bici, ma quando poi si trovano all’interno della struttura non fanno richieste di sostenibilità (come prodotti locali, proposte vegetariane o certificazioni). Questo tipo di domanda ancora non c’è, o quanto meno non è percepita, di conseguenza gli operatori (a meno che non siano persone attente a questo tipo di tematiche) non hanno interesse ad agire in questa direzione. È un circolo vizioso, che si romperà quando la sostenibilità avrà un peso nelle scelte dei consumatori.

Nota delle differenze tra operatori italiani ed esteri?

Al di là della sensibilità personale e/o collettiva, i paesi nordeuropei sono guidati da leggi regolamenti che impongono alle strutture tutta una serie di standard minimi da rispettare: non è, quindi, solo una scelta del singolo operatore, quanto proprio una necessità per poter far parte di quel mondo imprenditoriale.

Parlando di leggi e regolamenti, crede che siano un aiuto o un ostacolo?

Un aiuto. Un enorme aiuto! E anche una necessità da mettere in campo il prima possibile. La definizione di standard minimi che riportino anche principi e criteri di sostenibilità segnerà un punto di svolta per le strutture turistiche e per il turismo in generale.

Con la mia startup sto provando a farlo: abbiamo creato la Certificazione Faroo, uno standard di turismo sostenibile ispirato a modelli internazionali; per gli operatori è totalmente gratuito perché l’obiettivo è dare loro uno strumento per valutare meglio la propria sostenibilità. Stiamo anche lavorando per far riconoscere il nostro quadro normativo a livello internazionale: vorremmo vederlo adottato come standard minimo condiviso e riconosciuto… un po’ come le stelle per gli alberghi. Questo aiuterebbe i consumatori a conoscere facilmente il livello di sostenibilità di una struttura e permetterebbe loro di scegliere consapevolmente.

A proposito di Faroo, oltre all’offerta B2B (team building sostenibili), avete anche proposte per i singoli viaggiatori?

Non ancora, ma ci stiamo attrezzando! L’obiettivo, come per il B2B, è proporre pacchetti di turismo sostenibile dove l’impatto generato sia misurabile: stiamo lavorando a un prodotto innovativo e trasparente, evitando qualsiasi forma di green washing.

Ci può dare tre consigli per essere sostenibili anche in vacanza?

Parto dal più semplice, che può adottare chiunque e nell’immediato: per la cura del corpo usare solo prodotti solidi. Tutto il packaging, quindi la plastica, dei nostri prodotti si traduce in rifiuti da smaltire e diventa un peso (fisico e simbolico) per i territori dove ci rechiamo.

Poi possiamo ricercare e scegliere strutture turistiche che siano gestite dalla popolazione locale, o comunque che non siano intermediate. Se poi riusciamo anche a capire il loro grado di attenzione alla sostenibilità (dalle iniziative, da eventuali report pubblicati su sito o social), meglio ancora.

Infine, soprattutto in questo periodo estivo, evitare attività poco etiche con gli animali: in questi periodi può capitare di uscire in barca per avvistare mammiferi, delfini, balenottere, di fare snorkeling, di toccare la barriera corallina, le stelle marine… magari di portarle a casa insieme alle conchiglie! Cerchiamo di evitarlo: un’attività etica preserva gli ecosistemi ed evita lo sfruttamento animale.




Deepfake: cosa sono, chi ne è stato vittima e come riconoscerli

Deepfake: cosa sono, chi ne è stato vittima e come riconoscerli

Negli ultimi giorni in molti possono essersi imbattuti in un annuncio pubblicitario sui social che mostra una donna identica ad Emma Watson in atteggiamenti provocanti che richiamano quelli di un filmato porno. Ma la protagonista non è la celebre attrice britannica: il video è infatti parte di una campagna promozionale di un’applicazione deepfake che consente di sostituire il protagonista di un filmato con qualunque altro reperibile in rete, come nel caso di Watson. Molto usato per realizzare contenuti pornografici, questa campagna dimostra chiaramente come il deepfake si stia diffondendo anche su applicazioni di consumo alla mercé di tutti.

Cos’è e come viene usato il deepfake

Il deepfake è una tecnica che permette di creare video falsi ma abbastanza realistici da trarre in inganno. Si fa infatti ricorso all’apprendimento automatico che sfrutta l’intelligenza artificiale per ricreare in maniera artificiosa il volto e la voce di una persona, sovrapponendoli poi a un video esistente. La principale applicazione di questa tecnica è quella dei video a sfondo sessuale: un rapporto del 2019 di DeepTrace, una società con sede ad Amsterdam che monitora i media online, ha infatti rilevato che il 96% del materiale deepfake in rete è di natura pornografica. Ma il deepfake può anche essere utilizzato per diffondere notizie false o compiere atti di cyberbullismo e vari altri crimini informatici.

Se fino a poco tempo fa per realizzare questo tipo di contenuti erano necessari programmi sofisticati e a pagamento, adesso l’operazione sta diventando sempre più semplice anche per gli utenti comuni, dal momento che i reel di Instagram o i video di TikTok offrono agli utenti i volti di milioni di individui, famosi e non, da poter ‘sfruttare’ e le app che consentono la manipolazione del materiale anche senza approfondite conoscenze informatiche.

Casi celebri: da Zelenski a Matteo Renzi e Barack Obama

Diversi personaggi pubblici si sono purtroppo ritrovati in situazioni spiacevoli a causa dei deepfake, come nel caso di politici apparsi in video nei quali sembravano pronunciare parole che in realtà non avevano mai detto. Pochi giorni dopo l’inizio dell’invasione russa, lo stesso presidente ucraino Volodymyr Zelensky ne fu vittima. Un video mal riuscito lo ritraeva mentre si rivolgeva ai suoi soldati, incoraggiandoli ad arrendersi. Nonostante il falso fu subito smascherato, (il labiale era ben sincronizzato, ma l’accento di Zelensky era sbagliato, la sua testa troppo grande e con una risoluzione diversa rispetto al corpo e allo sfondo), quelle immagini fecero suonare un campanello d’allarme, per le potenziali dannose conseguenze della diffusione di questo tipo di contenuti se utilizzati per influenzare l’opinione pubblica. Anche i politici italiani non sono rimasti immuni al fenomeno: celebre era il caso di Striscia La Notizia che nel 2019 aveva realizzato un finto fuori onda di Matteo Renzi Matteo Salvini.

Di deepfake si parla molto anche nel cinema, dove da tempo si discute se sia giusto utilizzarlo per ‘ringiovanire’ alcuni attori o addirittura ‘riportarne in vita’ altri, come accadde con il film di Star Wars Rogue One del 2016, quando il defunto Peter Cushing (1913-1994) è ‘tornato’ a interpretare il Grand Moff Tarkin grazie all’animazione digitale. Il regista premio Oscar Jordan Peele, per sensibilizzare sul tema, realizzò nel 2018 un deepfake dell’ex presidente Barack Obama, già allora molto credibile, a dimostrazione della crescente difficoltà di distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è.

Limitazioni: in Cina posti dei paletti alla creazioni di video

Le preoccupazioni sui deepfake hanno portato ad una proliferazione di contromisure. Il 10 gennaio è entrata in vigore in Cina una nuova normativa volta a disciplinare la creazione e la diffusione di contenuti ottenuti tramite le intelligenze artificiali generative, compresi i deepfake. Alcune piattaforme social, tra cui Facebook e Twitter, li hanno banditi dalle loro reti. E il Garante della Privacy nel 2020 mise a punto una scheda informativa per sensibilizzare gli utenti sui rischi connessi agli usi malevoli di questa nuova tecnologia.

Come riconoscere un deepfake

Seppure la qualità stia migliorando di giorno in giorno, smascherare un deepfake è ancora possibile: l’attuale tecnologia ha problemi ad animare realisticamente i volti ed il risultato è un video in cui il soggetto non sbatte mai le palpebre o lo fa troppo spesso e in modo innaturale. Si possono inoltre trovare anomalie per ciò che riguarda la pelle ed i capelli, oppure volti che sembrano essere più sfocati rispetto all’ambiente in cui sono posizionati. Anche la luce del video può rappresentare un indizio: spesso gli algoritmi di deepfake conservano l’illuminazione delle clip originali, che finiscono per non corrispondere a quella dei video a cui vengono sovrapposte. Infine sono spesso rintracciabili problemi relativi all’audio, che alle volte non emula adeguatamente la voce del protagonista o non viene manipolato con la stessa attenzione del video.