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Se la reputazione fa “crash”, i talenti scappano: storie vissute di crisi nel libro di Luca Poma

Talk e presentazione del volume "CRASH REPUTATION" - Engage

In un’epoca come quella contemporanea in cui le aziende faticano a trattenere al lavoro i giovani talenti, una delle condizioni essenziali per “guadagnarsi la loro amicizia” è avere un’alta reputazione pubblica. Ottenere quest’ultima e mantenerla nel tempo è reso ancora più arduo dalla enorme esposizione mediatica amplificata dai social network. Per queste e altre ragioni, può essere utile leggere Crash Reputation, il libro che raccoglie 50 + 1 case-history di crisi reputazionali realmente accadute che hanno coinvolto brand e personaggi molto noti.

Pubblicato da Engage Edizioni, il volume è l’ultimo lavoro di Luca Pomaprofessore di scienze della comunicazione e reputation management all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino, nonché tra i più apprezzati esperti in gestione della reputazione nel nostro Paese.

Il testo è stato scritto in collaborazione con Giorgia Grandoni Alessio Garzina. Tra i casi raccontati ci sono storie che coinvolgono il settore pubblico e quello privato, dalla moda al mondo informatico, dall’azienda meccanica agli influencer digitali, dal professionista al politico, e riporta in modo circostanziato nomi e retroscena.

Sul tema oggetto del suo libro, Poma ha detto: «Quando si parla di reputazione poche cose affascinano il pubblico come tutto ciò che riguarda gli aspetti meno raccontati della gestione delle crisi: scandali, incidenti, emergenze, competizioni sleali tra concorrenti, tutti ingredienti irresistibili per il pubblico».

Alla maggior parte di noi, prosegue l’autore, interessa sapere «che cosa succede dietro le quinte quando le cose si mettono male, e questo – precisa ancora – è esattamente ciò di cui si parla nel libro, con un’analisi dettagliata di molti casi saliti all’onore delle cronache».

Crash Reputation è il libro scritto da Luca Poma con Giorgia Grandoni e Alessio Garzina che affronta la questione della reputazione di brand e personaggi pubblici attraverso il racconto di storie davvero accadute
Luca Poma

Tra i marchi protagonisti delle case history analizzate ci sono ad esempio Armani, Nike e Ferragni. Il testo analizza cosa è accaduto, cosa è stato gestito bene, ma anche cosa si sarebbe potuto fare meglio.

Lo scopo ultimo del volume è essere una sorta di manuale pratico, che possa dar modo ai lettori di imparare dagli errori (degli altri) e affrontare con maggior consapevolezza la gestione efficace della propria reputazione.

Su questo aspetto si è soffermata la co-autrice Giorgia Grandoni, ricercatrice nel centro studi della start-up innovativa Reputation Management, specializzata in servizi ad alto valore aggiunto nel settore della costruzione della reputazione e della gestione delle crisi reputazionali.

«Abbiamo deciso di illustrare i casi in modo trasparente, citando nomi, cognomi e brand, sia riguardo le crisi ben gestite che quelle mal gestite, perché siamo convinti che genuinità e autenticità siano valori fondamentali nel processo di costruzione della reputazione».

La tentazione di troppe aziende, continua la ricercatrice, è di «mettere la testa sotto la sabbia», quando le cose vanno male. Un atteggiamento del genere diventa però del tutto anacronistico oggi, «con l’avvento delle tecnologie 2.0 e l’affermarsi dell’impatto globale di Internet».

Nell’epoca attuale vale insomma solo una regola: «Il solvente universale di una crisi reputazionale è innanzitutto la capacità di saper chiedere scusa, un’azione catartica e un gesto straordinario. L’essere umano che sa farlo ha ‘la schiena dritta’, è in grado di guardare l’interlocutore negli occhi, capire il perché dei propri errori e impegnarsi a cambiare, affinché quanto è successo non accada mai più», rimarca ancora Grandoni.

Da segnalare, infine, anche la prefazione del testo, scritta da Nicola Menardo, avvocato penalista dello Studio Grande Stevens di Torino, e un contributo sulla storia della reputazione di Alberto Pirni, professore di Filosofia morale alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.




Tesi di Laurea: IL CASO BIO-ON:STORIA E ANALISI DI UNA CAMPAGNA DIFAKE REPUTATION E BLACK PR

CORSO DI LAUREA IN SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE, MARKETING E
DIGITAL MEDIA

GESTIONE DELLA REPUTAZIONE E RELAZIONI PUBBLICHE DIGITALI

Anno Accademico 2023-24

Introduzione

Nella Tesi – che approfondisce un caso eclatante di danno reputazionale, quello della start-up Bio-on, quotata alla borsa italiana e delistata dopo il crack causato dalla diffusione di un video non genuino e pesantemente diffamatorio – inizierò affrontando il concetto di reputazione, ovvero partendo da un richiamo all’etimologia della parola, per poi tracciare un percorso che coinvolge diversi ambiti, soffermandomi sull’importanza per un’azienda di costruire una buona reputazione inun panorama internazionale dove questa componente della comunicazione assume un ruolo sempre più importante, considerando le moderne sfide poste dal mondo digitale e l’approccio inevitabilmente multi-stakeholder di qualunque strategia di relazioni pubbliche per un’impresa. Proseguirò parlando del fenomeno delle black PR: campagne elaborate a tavolino per diffamare individui, aziende e organizzazioni, basate sulla manipolazione dei destinatari del messaggio attraverso una narrazione distorta della realtà, usando argomenti denigratori, infondati, falsi e che spesso celano finalità di concorrenza sleale. Si tratta di attacchi con caratteristiche precise che approfondirò all’interno dell’elaborato, attacchi dai quali l’azienda bersagliata può difendersi grazie alla preparazione preventiva, al riconoscimento dei primi segnali di crisi e all’utilizzo della massima trasparenza durante la gestione del problema. Mi soffermerò poi specificatamente sul caso Bio-on: nascita, ascesa e distruzione dell’Unicorno Italiano delle plastiche green. L’azienda italiana, forte di un centinaio di brevetti, produceva biopolimeri completamente e totalmente biodegradabili: una svolta importantissima per l’industria italiana e mondiale nel settore dei prodotti plastici a basso impatto ambientale. Nel 2019 l’azienda è stata fatta fallire a seguito di un attacco speculativo mediante un’azione preordinata di black PR da parte di uno speculatore – cittadino italiano ma domiciliato alle Isole Cayman – che – tramite la diffusione di un video che ha compresso l’azienda – ha lucrato sul crollo del titolo in Borsa, facendo perdere centinaia di milioni di euro a investitori e risparmiatori. Nella Tesi presento la cronologia precisa dell’esperienza Bio-on, dai suoi albori sino alla sua “distruzione”, e inserisco anche un dettagliato Fact Checking. Da ultimo, non certo per importanza, ho avuto la possibilità di intervistare Marco Astorri, il fondatore di questo eccezionale progetto industriale, l’imprenditore che ha ideato Bio-on e l’ha portata a essere un’azienda leader nel settore della sostenibilità, che – a processi ancora in corso – mi ha onorato del suo tempo e della sua disponibilità.

Leggi il testo integrale della tesi (35 pagine) in formato .pdf




DALLA SVIZZERA A DUBAI, SULLE ALI DELL’AVIDITÀ

DALLA SVIZZERA A DUBAI, SULLE ALI DELL’AVIDITÀ

Quanto un “tradimento” fa danni (anche economici)

Raramente ho abusato dell’ospitalità di questa rivista digitale per raccontare vicende nelle quali ero o sono stato direttamente coinvolto, ma in quest’occasione farò un’eccezione, riportandovi quello che non esiterei a definire un caso di studio in termini di bad reputation (non mia, per fortuna).

Prima di venire al dunque, una premessa è necessaria, per fornirvi elementi di contesto.

Dopo un lungo e felice periodo di attività professionale con soddisfacenti risultati e qualche lusinghiero riconoscimento, nel periodo tra il 2013 e il 2018, come ben sanno le persone a me più vicine, il sottoscritto è stato sottoposto ad una situazione di forte stress psicologico e finanziario dopo aver prestato delle garanzie a favore di un imprenditore – presentatomi da una persona che ritenevo all’epoca essere un amico – imprenditore che poi fallì rovinosamente, processato per bancarotta, e che quindi mi creó non pochi problemi in virtù dell’avvallo che avevo prestato a terzi in suo favore, garantendo sulla sua onorabilità, per agevolarlo, presso un significativo numero di miei interlocutori (fornitori di servizi, commercialisti, avvocati, etc).

Può capitare, si dirà, ed è vero: ma se aggiungiamo che l’imprenditore in questione era già ben a conoscenza della propria situazione di dissesto irreversibile, e che anche “l’amico” che me l’ha presentato – ho poi scoperto – ne era egualmente al corrente, e che entrambi me l’avevano dolosamente taciuta, comprenderete quale possa essere stato l’impatto non solo dal punto di vista materiale, bensì anche e soprattutto dal punto di vista morale e psicologico: un senso di tradimento misto a profonda amarezza, che hanno connotato a tinte forti uno dei periodi non propriamente più sereni della mia esistenza.

Ciò detto, in virtù di quanto accaduto, e su consiglio dei miei avvocati, ho successivamente deciso di aderire, con riferimento al periodo in questione, a una procedura di “liquidazione controllata”, una specie di “commissariamento” da parte di un collegio di specialisti nominati dal Tribunale che hanno preso in carico l’intera vicenda proponendo delle transazioni ai pochi residui soggetti che avevano maturato dei crediti in quel turbolento periodo; pochi perchè – nonostante l’affanno – in realtà avevo provveduto io stesso, con beni e disponibilità mie, a saldare nel corso del tempo il 99% dei sospesi verso creditori privati, così da non deludere le aspettative di nessuno, come dimostrano varie dichiarazioni di miei fornitori di beni e servizi, tra le quali queste.

Tengo a precisare che a procedure come queste si accede solo dopo un’attentissima istruttoria, portata a buon fine dal Tribunale stesso, tramite gli esperti che vengono nominati dal Giudice, che approfondiscono anche gli elementi di “merito” a favore del richiedente, l’esclusione di manovre elusorie o fraudolente da parte del cittadino, nonché i fondati motivi alla base del sovraindebitamento. In sintesi, viene accertata la “meritevolezza” del beneficio da parte di chi richiede l’accesso alla procedura, e vengono accettate solo domande presentate da persone in grado di dimostrare l’assenza di colpe gravi e l’inesistenza di dilapidazione di patrimonio per futili motivi come gioco d’azzardo o altro, etc. Insomma, viene vagliata la buona fede del soggetto nell’essere incorso in una situazione problematica, ma senza colpe proprie per avventatezza, dissipazione di denaro, o peggio.

Certo, non una pagina felicissima della mia vita, ma neppure qualcosa di cui vergognarsi: una possibilità offerta “una tantum” dalla legge italiana per sistemare in modo decoroso un’eventuale disavventura, quale quella occorsa al sottoscritto, e voltare pagina. Cosa che peraltro già feci di mio, dal momento che – oltre alla risoluzione della quasi totalità delle pendenze, anche verso l’Agenzia delle Entrate dal 2018 in avanti la situazione si presenta impeccabilmente in pari, come conferma questa dichiarazione del consulente tributarista che segue la mia contabilità.

Ciò premesso, cosa c’entrano con questa personalissima e sgradevole vicenda, accaduta tra il 2013 e il 2018, la Svizzera e Dubai? Ebbene, lo scoprirete tra poco.

Banche e commercialisti svizzeri: esiste un problema di reputazione?

Che le banche svizzere non godessero di eccellente reputazione era cosa nota: i conti Elvetici sono infatti, secondo molti osservatori qualificati, luoghi dove proverbialmente si occultava il denaro.

In una prospettiva storica, è bene ricordare come la Banca Nazionale Svizzera sia stata il più grande centro di distribuzione dell’oro nell’Europa continentale prima della guerra, e che questo fu il principale aggancio utilizzato dalla Germania nazista per cambiare l’oro in valuta corrente: durante la guerra, la BNS ha ricevuto ben $ 440 milioni dell’epoca in oro, e parte di questo tesoro era proveniente dalla ripugnante spogliazione di famiglie ebree in tutta Europa, valori reclamati per decenni dai rappresentanti di eredi e sopravvissuti, con l’ausilio dei rispettivi governi, spesso senza alcun esito.

Si dirà che oggi le regole sono cambiate, e gli istituti di credito non dovrebbero più accettare clienti “problematici”… ma lo fanno davvero? Secondo le inchieste alimentate dai Panama Papers, lo scenario non è di molto cambiato, circostanza confermata anche da recenti statistiche in base alle quali i “pentiti da amnistia fiscale” sarebbero molti, con circa 3 miliardi di euro nascosti nelle sole banche del Ticino da parte di contribuenti (sic!) italiani.

Tuttavia, banche a parte, che vi fossero margini di miglioramento, sotto il profilo reputazionale, anche per altre organizzazioni finanziarie svizzere, come le fiduciarie e gli studi di tributaristi, è stata per me vera una sorpresa.

I protagonisti di una vera e propria “doccia Svizzera”

Come per la famosa doccia scozzese, la mia “doccia Svizzera” fu un enorme shock. Vediamo allora gli “attori” protagonisti e gli elementi di scenario parte di questa intrigante e a tratti poco edificante vicenda:

  • una società di consulenza londinese che avevo interesse a rilevare, amministrata da uno studio di tributaristi di Lugano, la NOR Consulting;
  • un incontro presso il loro Studio, dove mi vennero fatti firmare dei contratti che – ingenuamente – io neppure lessi, fidandomi all’epoca di questi interlocutori;
  • l’esistenza a capo di questa società di consulenza britannica di alcuni scoperti e pendenze accumulate a favore dello Studio in questione, prima della firma del mandato da me sottoscritto;
  • lo studio di tributaristi NOR Consulting che emette senza preavviso una parcella astronomica per il recupero del pregresso e per le proprie attività di supposta gestione di quella società britannica, senza però – lo scoprirò solo dopo – aver registrato in contabilità una sola fattura né aver svolto qualunque altro tipo di attività, se non il pagamento di un’imposta annuale in misura fissa ammontante a poche centinaia di Pound, in quanto la società non fece attività né registro alcuna operazione contabile nel periodo in cui venne domiciliata da loro;
  • i contratti da me firmati, praticamente in bianco, densi di clausole vessatorie, e senza neanche la doppia firma normalmente prevista per legge dal diritto italiano ed europeo.

Questi gli elementi parte del gioco: in parole povere, una “fregatura”, la seconda – vedi sopra – in diversi decenni di onorata attività.

Lo studio di tributaristi in questione non perse un attimo: un’ingiunzione al mio indirizzo, e io mi ritrovai obbligato a pagare, con interessi e spese, una cifra davvero importante a fronte di… nulla! E la ragione era, clamorosamente, dalla loro: la firma sui contratti era stata da me ingenuamente e avventatamente – ma regolarmente – apposta (la menzogna a fini di tutela dei miei interessi non era un’opzione… quanto meno per me, loro come vedremo tra poco non si sono posti gli stessi scrupoli) e – per la legge Svizzera – loro avevano quindi ragione. Infatti, il fatto che professionisti della contabilità e della gestione pretendano parcelle a fronte di nessuna concreta attività gestoria e contabile pare che per la normativa legale di quel Paese non rilevi: apparentemente, basterebbe “l’onore” di essere stati ricevuti in un ovattato studio di un lussuoso palazzo al centro di Lugano, e aver firmato un incarico di domiciliazione, per essere obbligati a dover pagare cifre anche esorbitanti, senza alcuna giustificazione apparente.

Ma gli indizi di comportamento poco genuino non finirono qui, perché, a differenza mia, per certe persone la menzogna è, eccome, un’opzione, se serve a guadagnare più soldi: financo arrivando a mentire, o quanto meno raccontare mezze verità, anche dinnanzi a un Giudice.

La doccia Svizzera si fa “gelata”

Avete capito bene, i tributaristi in questione hanno avuto anche l’ardire di mentire durante il giudizio in Tribunale, giudizio che – grazie al carattere vessatorio delle clausole contrattuali dei mandati da me firmati sulla fiducia a loro favore, che prevedevano la possibilità di fatturare anche senza dover svolgere alcuna attività contabile – vinsero, ottenendo appunto un’ingiunzione di pagamento contro di me: il punto è che durante il contenzioso giudiziario essi – dopo aver appreso che io non avevo intenzione di pagare le loro esose e del tutto immotivate parcelle – affermarono per iscritto di aver “liquidato la società britannica di consulenza”, come risulta da questi stralci documentali tratti dalle loro memorie difensive.

Ebbene, ho scoperto successivamente che non andrò esattamente così.

Un amico diplomatico in forza alla nostra Ambasciata di Londra, con il quale ho mantenuto consuetudine di rapporti dopo aver io servito la Repubblica come Consigliere del Ministro degli Esteri, mi suggerì di estrarre dalla Company House (il corrispondente del Registro società delle nostre Camere di Commercio) un certificato sulla società di consulenza domiciliata presso quei tributaristi, per fare qualche verifica. Così feci, e con enorme sorpresa scoprì la verità: non solo la società non era affatto stata chiusa come loro avevano affermato dinnanzi a un Giudice, ma essi se ne erano “appropriati”, cambiando l’amministratore e il nome della società stessa, come dimostra questa Visura, e, presumibilmente, utilizzandola per loro fini e attività.

Non credevo ai miei occhi: mi si chiedeva di pagare parcelle per la gestione di una società – dall’importante avviamento, esistendo essa da quasi vent’anni – la cui proprietà mi era stata “scippata” dalle persone di fiducia che avrebbero dovuto gestirla per mio conto, e che pur di ottenere il loro risultato avevano anche affermato il falso durante un contenzioso in Tribunale, finendo poi per richiedere parcelle astronomiche a fronte di nessuna concreta attività professionale. Ma gli organismi di vigilanza sulle fiduciarie Svizzere, che fanno…?

E le docce fredde non finirono qui.

Una transazione (quasi) a buon fine: ma il credito improvvisamente “vola” a Dubai

Nonostante tutto quanto sopra illustrato, obtorto collo, con le spalle al muro, incaricai a quel punto uno dei miei avvocati di maggior fiducia di attivare una trattativa per transare e chiudere questo vergognoso contenzioso.

Dopo vari mesi di dialogo con la controparte, ottenemmo un assenso allo stralcio della posizione a fronte del pagamento di una cifra non trascurabile, versata immediatamente in un’unica soluzione, più una cifra di eguale importo, distribuita in un certo numero di rate mensili costanti. Denaro – ribadisco – gettato dalla finestra a fronte di nulla: ma meglio, a mio avviso, chiudere il triste capitolo e passare oltre.

Sorprendentemente, mente gli avvocati delle due parti si stavano scrivendo per limare, concludere e dare attuazione a una transazione ormai apparentemente definita, dall’oggi al domani il mio Avvocato ricevette una comunicazione nella quale lo si informava che NOR Consulting, come conferma questo documento, aveva ceduto l’intero credito dalla Svizzera… a Dubai, e che la base di trattativa era interamente da ridiscutere.

E chi è l’acquirente del credito? Da non crederci: un funzionario di NOR Consulting, lo stesso manager del team con il quale io avevo interloquito durante l’intero contenzioso (!). La mano destra, quindi, cede i diritti sul credito alla mano sinistra, ma non senza approfittarsene, perché ora, quando tutto era pressoché definito e che si aveva – lato loro – certezza dell’incasso di una certa somma, data virtualmente per acquisita, i denari non bastavano più: o si paga (molto) di più, o si torna in ballo da capo.

Sconcertante? Anche no, è la Svizzera, baby, dove l’unica cosa che conta è il guadagno: a qualunque costo. E se non paghi, partono anche poco velate minacce.

Intimidazioni ed estorsioni? Forse no, ma di sicuro minacce

Passarono pochissimi giorni, prima che il soggetto in questione si facesse sentire. Era notte fonda, qualche settimana fa, quando ricevetti un messaggio via Whatsapp, che mi svegliò di soprassalto, in un periodo estremamente delicato nel quale tra l’altro stavo gestendo una terapia per combattere una malattia, terapia che richiedeva di essere accompagnata dalla massima tranquillità e serenità. Poi un altro messaggio, e un altro ancora. Guardai il display dello smartphone: incredibilmente, era il socio e dirigente dello Studio di tributaristi, l’acquirente del credito, che mi scriveva da un’utenza telefonica Dubaina (!), e mi confermava la svolta. In sintesi:

  • l’offerta in dirittura d’arrivo per essere sottoscritta era ora, secondo lui, decaduta (nota: in realtà la loro offerta di sistemazione, formulata solo due mesi prima, e ancora in corso di limatura tra legali, non includeva una data di scadenza);
  • ora, affermava, era lui, come persona fisica, il nuovo titolare del credito (per le famose prestazioni di contabilità mai rese);
  • i soldi proposti e discussi con la società tributaristica della quale lui stesso è socio, non gli bastavano più, ora voleva di più, molto di più;
  • se io non avessi accettato, le conseguenze – a suo dire – sarebbero state terribili, perché tutta la mia rete sociale e professionale e financo gli studenti delle università dove insegno asarebberon stati da lui messi a conoscenza della situazione, del fatto che mi sono “rifiutato di pagare” i denari richiesti, e anche che ho avuto accesso a una procedura di liquidazione controllata per i famosi fatti del periodo 2013-2018 (come se fosse qualcosa di cui vergognarsi o da nascondere, ndr).

Frasi inequivocabili, le sue: “Cosa penserà la gente se io raccontassi che un illustre professore come lei ha avuto queste disavventure?”; e anche: “Questo potrebbe diventare un bel case study per i suoi studenti!”; e poi: “Poveri ragazzi, forse non sanno tutto di lei…”; e ancora: “Ascolti me, professore: paghi! Paghi! Mi dia retta!”. Pressioni continuate in modo assai spregiudicato anche dopo aver informato questa persona che in quei giorni ero impegnato in una terapia medica che richiedeva totale attenzione e tranquillità.

Sconcertato, senza parole, ho sollecitamente contattato il mio avvocato, per valutare e decidere il da farsi.

Cedere ai “ricatti”?

Ebbene, avrei potuto, ingoiando l’ennesimo rospo, cedere a quello che ho personalmente percepito come una specie di ricatto, e mettere mano al portafoglio, anche – qualora non fossi riuscito a tacitare con le mie modeste entrate da docente i desideri di denaro degli svizzeri/emiratini – chiedendo eventualmente aiuto a chi attorno a me mi stima, per fortuna non poche persone, dal momento che in decenni di vita e attività in molti hanno maturato un’opinione del sottoscritto ben diversa da quella di questi rapaci personaggi.

Certo, avrei potuto: ma resto convinto debba esservi un limite preciso in termini di rispetto delle persone e di fame di denaro, e che questo limite – lascio valutare anche a voi – in questo caso sia stato superato. Per questo, ho sollecitamente approntato e depositato una denuncia penale a carico di questi soggetti (qui la ricevuta di deposito), e ora il loro prossimo interlocutore non sarò più io, ma un Procuratore della Repubblica.

Una domanda però resta: cosa ho portato a casa da questa esperienza?

La lezione

“Tempi duri per i troppo buoni”, recitava un vecchio Carosello che pubblicizzava i biscotti Colussi. E anche per i troppo fessi come me, aggiungerei io. Tuttavia, qualcosa sarà ben necessario portare a casa da tutto ciò, se non altro in termini di esperienza.

Riguardo alla prima vicenda, la morale potrebbe essere semplice: ad esempio, non aiutare mai più nessun amico imprenditore in difficoltà. Ebbene, non è la prima volta che un genuino intento solidale viene oltraggiato da un “tradimento” di portata talmente forte da mettere in discussione una specifica amicizia e forse anche, in senso più esteso, il concetto stesso di amicizia. A me è capitato almeno quattro o cinque volte, nella vita, e altre ennesime volte è capitato a persone che conosco direttamente.

Eppure, se la stoffa è di un certo tipo, è difficile farci un abito diverso da quello per la quale era stata tessuta e tagliata: quando qualcuno tende la mano, ognuno di noi ha probabilmente nel proprio piccolo l’impulso del tutto naturale ad aiutare, e mi sarebbe sinceramente difficile pensare di fare diversamente.

Ben venga l’aiuto, quindi, ma quantomeno in modo meno sprovveduto, questo si, meno ingenuo, meno semplicistico e privo di tutele. È possibile – ed è bello! – aiutare, qualora se ne abbia la possibilità; ma è anche doveroso tutelarsi, e questa è una lezione davvero importante. Quindi, consultate un avvocato prima di prendere impegni, non dopo, a cose già fatte.

Riguardo alla seconda vicenda, quella Svizzera, che si è saldata con la prima: mai, mai e poi mai firmare un contratto senza neppure leggerlo, magari facendosi abbacinare dal contesto, dall’immagine, da uno studio lussuoso, da una presunta seniority professionale alla quale non necessariamente si abbina un’analoga statura etica. E poi, anche, smetterla di pensare che tutti siano orientati alla ricerca di soluzioni tali da contemperare in modo equilibrato gli interessi di tutte le parti in causa, perché così non è: a molti personaggi l’unica cosa che interessa è di portare a casa quanto più denaro possibile. Costi quel che costi.

Tuttavia, come scriveva Epicuro, filosofo dell’antica Grecia, fondatore nel IV secolo A.C. di una delle maggiori scuole filosofiche dell’età ellenistica e romana, “Lo smodato amore di ricchezze, se contro giustizia, è empio; ma anche quando è con giustizia, è vergognoso; perché è condotta indecorosa risparmiare in modo sordido anche se in conformità con la giustizia”. E mai l’affermazione del filosofo calzò meglio che non a questa vicenda Svizzero-emiratina.

Infine, potremmo aggiungere, richiamando l’antico detto popolare che affonda la propria origine nelle favole di Esopo, “chi troppo vuole, nulla stringe”: i famelici tributaristi svizzeri avrebbero avuto modo di “accontentarsi” di una cifra per nulla trascurabile, perfezionando la transazione che eravamo a un passo dal firmare, transazione assai equilibrata (specie se si considera che erano denari che avrebbero ricevuto a fronte di nessuna attività professionale prestata) e invece ora tutto è nuovamente in discussione, con una denuncia penale pendente contro di loro, ben motivata dal tentativo di ricavare della trattativa più denaro mediante pressioni improprie e assurde violenze psicologiche.

La pagina finale di questa vicenda dev’essere ancora scritta, ma ritenevo importante condividere queste mie esperienze, forse di interesse generale per molti, nella speranza che il racconto di esse possa essere d’aiuto a qualcuno, specie nelle giovani generazioni, a non commettere anch’esso gli stessi errori.




La presunzione di malafede dei pm dietro il caos edilizio di Milano

La presunzione di malafede dei pm dietro il caos edilizio di Milano

a una parte gli spietati imprenditori edili, pronti a violare qualsiasi legge pur di inondare Milano di colate di cemento. Dall’altra i politici e i funzionari del Comune, pronti ad autorizzare costruzioni abusive per favorire i re del mattone (senza però intascare tangenti). Sembra essere questa la concezione del mondo adottata dalla procura di Milano, che da  due anni ha dato via a una campagna giudiziaria su vasta scala incentrata su presunte irregolarità nel settore immobiliare, fatta di continue indagini e sequestri. Ad attribuire questa presunzione di malafede da parte dei pubblici ministeri nei confronti di costruttori, politici e impiegati comunali sono direttamente i giudici del tribunale del Riesame di Milano in un’ordinanza del 30 giugno 2023, riguardante uno dei primi casi di presunto abuso edilizio: quello della palazzina di sette piani in corso di costruzione in piazza Aspromonte. Secondo il pool di magistrati guidato dall’aggiunto Tiziana Siciliano (e composto dai colleghi Marina Petruzzella, Paolo Filippini e Mauro Clerici), la palazzina sarebbe stata realizzata sulla base di “permessi di costruire illegittimi per violazione delle norme che regolano l’altezza delle costruzioni nei cortili”. Permessi “emessi sulla base di pareri ideologicamente falsi della commissione per il paesaggio” del Comune di Milano. 

I pm avevano chiesto il sequestro dell’immobile, di proprietà della società Bluestone Aspromonte (difesa dagli avvocati Andrea Soliani e Nicolò Pelanda), ma la richiesta è stata bocciata addirittura cinque volte: una dal gip, due volte dal Riesame e due dalla Cassazione. Anche in questo caso, come nei tanti casi che poi sono seguiti, a colpire è innanzitutto l’assenza di ipotesi corruttive. In altre parole, secondo i pm, i politici e i funzionari del Comune avrebbero agevolato l’autorizzazione della costruzione di immobili abusivi senza ricevere tangenti, dunque solo per il piacere di farlo. 

Ciò che risulta interessante della vicenda della palazzina in piazza Aspromonte non è tanto la questione giuridica attorno alla quale la procura ha innestato il suo debole impianto accusatorio (cioè il fatto che la palazzina sarebbe stata realizzata in un “cortile” in cui non si sarebbe potuto costruire, tesi smentita da tutti i giudici), ma è appunto la presunzione di malafede mostrata dai pm, evidenziata dallo stesso tribunale del Riesame che ha rigettato la richiesta di sequestro dell’immobile. Nel 2014, quindi ben prima della realizzazione della palazzina, il Comune era intervenuto con una determina per chiarire la nozione giuridica di “cortile”, che non risultava ben chiara a causa dell’affastellamento di svariate norme. Ebbene, secondo i pm milanesi quella determina nasceva da una “preordinata malafede degli organi comunali e dei suoi funzionari”. Il tribunale del Riesame ha invece chiarito che il provvedimento del Comune “non è (stata) una iniziativa compiacente rispetto agli interessi dei costruttori”, bensì “il tentativo di offrire al cittadino e agli organi deputati alla gestione dell’edilizia parametri trasparenti”. Insomma, un atto di chiarificazione e di trasparenza delle norme da parte del Comune è stato interpretato dalla procura come un’iniziativa furbesca in favore degli interessi degli imprenditori edili. 

La stessa logica di presunzione di malafede si rintraccia proprio attorno all’azione dei costruttori. Per quale ragione un’impresa che per il suo progetto edilizio ha ottenuto legittimamente tutte le autorizzazioni necessarie dai tecnici del Comune, peraltro attraverso un iter lungo diversi anni, deve essere accusata di aver ottenuto il permesso per costruire in modo illecito? Nel caso della palazzina di piazza Aspromonte (ma questo sarebbe facilmente replicabile anche agli altri), il Riesame “rileva la evidente buona fede” dei costruttori, la cui pratica edilizia “ha registrato per tre volte il parere positivo della Commissione Paesaggio in varia composizione, con pareri formulati all’unanimità, che ha visto ripetute interlocuzioni con i funzionari comunali preposti all’istruttoria”, i quali hanno dato “prova di attenzione con la quale risulta esaminata la richiesta di permesso e dell’affidamento che il privato poteva riporre nel titolo rilasciato”. 

La presunzione di malafede della procura di Milano contribuisce a spiegare la valanga di inchieste aperte negli ultimi mesi, che sta facendo scappare gli imprenditori dalla città e sta bloccando l’ufficio urbanistico del Comune. E conferma l’urgenza dell’intervento del Parlamento per mettere fine a questa aggressione giudiziaria. 




Carabinieri: un nuovo Digital Body cattura l’attenzione delle giovani generazioni e ridisegna la percezione online dell’Arma

La nuova "veste" social dell'arma dei Carabinieri

Ha generato eccezionale stupore e attenzione la recente svolta stilistica e contenutistica della comunicazione social dei Carabinieri. Per comprenderne ragioni, strategie e obbiettivi, abbiamo intervistato il Col. Andrea Corinaldesi, Capo Ufficio Stampa del Comando Generale dell’Arma.

Colonnello, il vostro digital body ha subito una trasformazione, una virata improvvisa verso una comunicazione molto più fresca e di appeal, a tratti disorientante con riguardo a quanto appare ancora “ingessata” la comunicazione Social nel nostro Paese. A quale agenzia specializzata vi siete affidati?

Non ci siamo affidati ad alcuna agenzia specializzata ma abbiamo fatto ricorso alle nostre “risorse interne”: sia Carabinieri dell’Ufficio Stampa, che occupandosi da anni di comunicazione digitale conoscono cambiamenti e tendenze delle piattaforme social, sia giovani militari dell’Arma con la passione per la realizzazione di contenuti video.

Qual è stato il “momento zero”? A chi, perché, e in quale istante è venuto in mente di predisporre, presentare, far approvare e realizzare un progetto così innovativo?

Non c’è stato un vero e proprio “momento zero”:  osservando attentamente la nostra pagina Instagram, nel corso dell’ultimo anno è possibile trovare dei reels che testimoniano primi tentativi di modernizzare la nostra comunicazione. A settembre, l’elemento di novità è stato quello di pubblicare, in rapida successione, video ancora più innovativi, con scene brevi e di forte impatto visivo, transizioni rapide, riferimenti al mondo dei videogames e utilizzo di brani musicali contemporanei. È stata una decisione maturata in seno all’Ufficio Stampa, con la finalità – condivisa con i vertici – di raggiungere in modo efficace l’utenza più giovane e rendere più attrattiva l’immagine digitale dell’Arma. Si tratta, comunque, di “innesti” e non di una vera e propria trasformazione: continuiamo, ancora oggi, ad utilizzare i nostri canali per divulgare notizie di interesse come operazioni di servizio, ricorrenze ed eventi.

Che tipo di accoglienza ha ricevuto questa “novità”? Esternamente, ma anche internamente…

Le interazioni degli utenti social, inizialmente, hanno testimoniato apprezzamento e curiosità. Una curiosità che presto si è trasformata in entusiasmo: i followers stanno utilizzando i commenti per chiedere di realizzare nuovi reels su specifici settori, oltre che per manifestare l’impazienza per la pubblicazione di nuovi contenuti. Per quanto riguarda l’accoglienza interna, registriamo positive reazioni, con Carabinieri che manifestano l’orgoglio di appartenere ai reparti che stiamo mostrando attraverso i nuovi reels. Allo stesso tempo, colleghi i cui reparti non sono stati ancora coinvolti nel piano di comunicazione ci chiedono di realizzare presto contenuti che mostrino la loro attività in chiave altrettanto attrattiva.   

I risultati ad oggi, numeri alla mano

I risultati parlano di circa 120.000 nuovi followers in poco più di un mese, con un tasso di crescita del 1800% rispetto al periodo precedente.

Quali strategie nella fase II, di consolidamento?

Sappiamo che i nuovi contenuti, seppur privi di messaggi strutturati, sono validi per stuzzicare curiosità e convogliare sull’Arma l’attenzione dell’utenza più giovane. La nostra priorità non è però quella di trasmettere intrattenimento, bensì messaggi chiave relativi alla sicurezza e alla legalità. Certamente proseguiremo con la pubblicazione di ulteriori reels della medesima tipologia, ma immaginiamo, per una fase successiva, contenuti che possano far conoscere meglio l’Istituzione, magari anche attraverso brevi racconti sulle peculiarità del lavoro quotidiano dei militari impiegati nei vari Reparti.

Cosa significa essere Carabiniere oggi, e come sta man mano cambiando l’Arma?

Oggi, i giovani Carabinieri vanno incontro a sfide insidiose e complesse, che devono affrontare con determinazione per rendere ai cittadini un servizio esemplare, anteponendo il bene comune alle prospettive personali. Da sempre, il Carabiniere esprime una straordinaria capacità di porsi in ascolto delle persone: oggi più che mai, l’orientamento al cittadino è il metro di valutazione dell’impegno di ciascun Carabiniere.