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Cosa c’è sotto l’intelligenza artificiale, generativa e conversazionale

Cosa c’è sotto l’intelligenza artificiale, generativa e conversazionale

L’intelligenza artificiale di cui stiamo discutendo da un anno e mezzo ha un nome e un cognome. No, non sto parlando di Sam Altman, il celebre “papà” di ChatGPT e neppure di Elon Musk. Parlo del fatto che questa particolare forma di intelligenza artificiale si chiama di “nome” generativa e di “cognome” conversazionale.

I cognomi, come è noto, hanno un loro peso. Indicano una storia, portano conseguenze. Vale anche per il “cognome” conversazionale. Questo è un attributo fondamentale dell’intelligenza artificiale generativa, fondamentale per le ricadute sociali e antropologiche che porta con sé e delle quali in questo anno e mezzo si è ragionato poco. Troppo poco.

Per la verità, qualcosa si è mosso dopo la presentazione di GPT-4o, a metà maggio. Questa ultimissima versione di intelligenza artificiale generativa e conversazionale sviluppata da OpenAl  rende l’interazione uomo/algoritmo «più fluida e naturale», come ha detto Mira Murati, Cto di OpenAl, durante la presentazione. Non a caso la “o” sta per “omni”, cioè indica la capacità di gestire tutto, testi, suoni, video, con modalità che pressoché simili al linguaggio di noi esseri umani. Infatti questa versione di ChatGPT dialoga in modo molto più realistico: rileva le emozioni nelle voci, analizza le espressioni facciali, cambia il proprio tono a seconda dei desideri e dello stato d’animo dell’essere umano che ha di fronte, ha ridotto i tempi di latenza nelle risposte, insomma, funziona molto meglio. Sempre più “umanamente”.

Al riguardo, il New York Times ha titolato così: “Per l’IA è iniziata l’era Her”, citando il titolo del film del 2013 di Spike Jonze in cui il protagonista, Theodore (Joaquin Phoenix), stringe una relazione sempre più intima e si innamora di un’intelligenza artificiale che ha la voce di Scarlett Johansson. Al di là delle polemiche – ben raccontate da Pier Luigi Pisa – che hanno coinvolto l'(ab)uso della voce dell’attrice da parte di OpenAI per rendere più suadente ChatGPT, resta la conseguenza: rendere più possibile a misura d’umano il rapporto con l’intelligenza artificiale generativa, attivare “l’empatia artificiale”, è una illusione, una trappola emotiva. Infatti questo modo di conversare con l’intelligenza artificiale generativa ci illude di avere un rapporto con un “tu”. Un tu che, almeno al momento, non esiste. Abbiamo ancora a che fare con una macchina calcolatrice di parole – come ci ricorda sempre e opportunamente il filosofo del digitale Cosimo Accoto – non con un essere senziente. È quindi sbagliato antropomorfizzare il rapporto con l’algoritmo. Non è una “her”, una lei. È e rimane un “it”, una cosa, un prodotto digitale.

A questa prima conseguenza, ne segue immediatamente un’altra.

La capacità sempre più incisiva  dell’intelligenza artificiale generativa di conversare con noi ci fa correre il rischio di considerarla un oracolo, una sorta di bocca della verità, le cui sentenze vanno prese per oro colato. Rischiamo di «confondere l’aumento della qualità dell’interazione con quello della correttezza delle informazioni fornite», come ha sottolineato Stefano Epifani, fondatore e presidente della Fondazione per la sostenibilità digitale.

Proprio perché non abbiamo a che fare con un organismo, ma con un meccanismo, i software di intelligenza artificiale generativa e conversazionale non sanno valutare se le loro risposte sono vere o false. Tuttavia, continua Epifani «l’elevata qualità dell’interazione può, paradossalmente, ridurre la consapevolezza degli utenti riguardo alla necessità di verificare le informazioni». Noi siamo naturalmente portati a unire buona comunicazione e affidabilità: questo atteggiamento è rinforzato dall’avere a che fare con un’interfaccia che «sembra comprendere e rispondere in modo umano. Di conseguenza, – conclude Epifani – la fluidità e la qualità dell’interazione con sistemi come Chat-GPT4o possono indurre gli utenti a sospendere il loro giudizio critico, accettando le risposte generate come verità». Come ripeto da qualche tempo, l’intelligenza artificiale generativa e conversazionale dice quello che sa – vale a dire costruisce risposte ai prompt di richiesta sulla base di modelli probabilistici relativi ai dati sui quali è stata addestrata – ma non sa quello che dice, nel senso che non ha consapevolezza e quindi nemmeno può cogliere la differenza tra vero e falso.

Terza e ultima conseguenza, forse la più importante dal punto di vista antropologico. Noi esseri umani siamo esseri relazionali. Lo siamo per natura, siamo stati fatti così. Nasciamo, cresciamo, viviamo, all’interno di rapporti, di contatti, di interazioni. Siamo l’unico essere vivente i cui cuccioli per tanti anni hanno bisogno di accudimento materiale e, soprattutto, relazionale. Se questo è vero, è altresì vero che tutti i rapporti, tutte le relazioni, anche le più belle sono faticose, sono impegnative, perché noi siamo esseri relazionali ma pieni di limiti e di difetti, limiti e difetti che si ripercuotono nei rapporti e impongono fatica, anche con le persone che ci sono più care.

Invece, il rapporto con l’intelligenza artificiale generativa è esente da questo tipo di fatica. Per l’intelligenza artificiale generativa è sempre la giornata mondiale della gentilezza. Ci tratta sempre con i guanti perché è stata impostata così. Non essendo un essere senziente è priva dei limiti propri di noi esseri umani. È sempre “perfetta”. Il terzo impatto del conversazionale consiste nell’eliminare la fatica dei rapporti. Quindi corriamo il rischio di disabituarci a comprendere i bisogni dell’altro. Infatti le relazioni si deteriorano quando ci concentriamo sui limiti e non sui bisogni della persona che abbiamo davanti. Disporre di una intelligenza artificiale generativa capace di emulare un’esperienza di interazione che può sembrare indistinguibile da quella che siamo abituati ad avere con un altro essere umano che impatto psicologico potrà avere sulla nostra capacità di reggere i rapporti? Vale per noi adulti, a maggior ragione vale soprattutto per i ragazzi, che cresceranno abituati ad avere rapporti con una intelligenza artificiale “amica perfetta”. Peraltro una “amica” la cui voce corrisponde a una concezione di donna «accondiscendente, in grado di esaudire ogni richiesta dell’interlocutore, e che lo fa utilizzando un tono seducente, quasi sessualizzato», come opportunamente rilevato da Valerio Bressan.

In conclusione, queste tre implicazioni del conversazionale mostrano che dobbiamo rimanere attenti e vigili. Viviamo un’epoca straordinaria, che impone uno straordinario sforzo di attenzione, di pensiero, di comprensione, di educazione.

Foto: Pexels




LE FAKE NEWS POSSONO DISTRUGGERE LA REPUTAZIONE DEI BRAND? LA “SETTA DEGLI ANTI-SETTE” E IL CASO “GENIO IN 21 GIORNI”

Fake-news, analfabetismo, sette, Genioin21giorni.

Il presente articolo è stato tradotto e reso disponibile sul nostro sito anche in lingua inglese, francese e spagnola

Dopo il successo della nostra recente inchiesta di portata nazionale su BioOn, la start-up green della plastica biodegradabile arrivata a capitalizzare più di un miliardo di euro in Borsa Milano e distrutta da una speculazione finanziaria malevola che includeva proprio un video di fake-news al fine scatenare il panico in borsa e lucrare sul crollo del titolo, e l’inchiesta sullo scontro tra Procura di Milano e Comune di Milano in merito ai progetti di rigenerazione urbana, con centinaia di cantieri bloccati e danni per miliardi sulla base della notizia, non genuina e smentita dagli accertamenti, di rapporti poco chiari tra amministratori pubblici e impresari edili, ci occupiamo ora con questo nostro nuovo approfondimento – ampliando il focus sul tema della disinformazione – della questione della reputazione aziendale messa a rischio dalle fake-news e dalle campagne di blackPR, esaminando in particolare – tra gli altri – il caso della “multinazionale tascabile dell’apprendimento”, Genio Net, la nota azienda di formazione la cui business continuity è stata messa a dura prova a causa di una campagna di diffamazione e odio online. Una vicenda che si inserisce tuttavia – come vedremo – in un fenomeno inquietante, e per certi versi molto più ampio.

Le fake news sono legate all’analfabetismo funzionale?

Secondo molte ricerche, la risposta a questa domanda è SI, ma andiamo con ordine, e definiamo innanzitutto il profilo di un analfabeta funzionale: mentre una persona completamente analfabeta non è in grado di leggere o scrivere, una persona vittima di analfabetismo funzionale ha invece una padronanza di una base dell’ alfabetizzazione (può leggere e scrivere, esprimersi con un grado variabile di correttezza grammaticale e di stile, e svolgere semplici calcoli aritmetici); in poche parole riesce a comprendere il significato di singoli vocaboli, ma non riesce comunque a raggiungere un livello adeguato di comprensione e di analisi e a ricollegare e dare senso corretto ai contenuti nel quadro di un discorso più complesso. Cosa c’entra questo con le fake news?

Ebbene, secondo il Rapporto Ital Communications-Censis “Disinformazione e fake news in Italia. Il sistema dell’informazione alla prova dell’Intelligenza Artificiale del 2023, il 20,2% degli italiani crede di non avere le competenze per riconoscere una fake news, il 61,1% crede di averle solo in parte, ma – ancora più preoccupante – è da notare come il 29,7% nega l’esistenza delle bufale e pensa che non si debba proprio parlare di fake news, ma – con una vena malcelata di complottismo – “di notizie vere che vengono deliberatamente censurate dai palinsesti” (!). Quindi, non solo quasi 1 italiano su 3 non sa come difendersi dal problema, ma non è neanche consapevole che esso esista.

Nel concreto, quello che può succedere è che una notizia non verificata venga messa in circolo da qualcuno che non è stato sufficientemente responsabile da indagarne le fonti, e poi non venga adeguatamente vagliata dallo spirito critico del lettore, che a sua volta – il più delle volte in buona fede – fa circolare ancora di più la notizia falsa.

La riprova? Quante volte abbiamo sentito la frase “Io nel dubbio l’ho condivisa, vedete voi se è vera”?

Inoltre, il fenomeno delle fake news sta da qualche tempo creando molta turbolenza anche in ambito aziendale: : “Le notizie false assediano i brand e mettono a rischio la reputazione”, titolava proprio in questi giorni l’ottimo Giampaolo Colletti su Il Sole 24 Ore. Pochi mesi fa, le azioni del colosso farmaceutico Eli Lilly è sceso di un significativo 4,37% dopo che un falso account Twitter che impersonava la società farmaceutica, che è robustamente nel business dell’insulina per diabetici, ha diramato la notizia che il prodotto sarebbe stato distribuito gratuitamente dallo Stato; Starbucks invece è finita nella bufera – vittima di shit-storm online -dopo che alcuni account fake hanno fatto girare sui Social la notizia che l’azienda avrebbe distribuito frappuccini gratis a migranti irregolari e senza documenti.

A volte, quindi, le fake news “fanno comodo” a qualcuno: ovvero, sono costruite ad arte, e possono anche prendere l’aspetto di vere e proprie campagne di diffamazione organizzate.

Cos’è una campagna di “propaganda nera” 

Il meccanismo sopra descritto il più delle volte è alimentato inconsapevolmente. Tuttavia ci sono dei casi, più rari, in cui qualcuno potrebbe trarre dei vantaggi dalla diffusione di notizie false.

Luca Poma, apprezzato autore della nostra redazione e Professore di Reputation Management presso l’Università LUMSA di Roma e presso l’Università della Repubblica di San Marino, che in un recente passato ha seguito professionalmente da vicino il caso di studio del quale vi stiamo per parlare, in una sua analisi descriveva così una campagna di “black PR”, o propaganda nera:

  • una fonte occulta diffonde nell’opinione pubblica notizie denigratorie e bugie su una certa organizzazione;
  • tali notizie possono essere totalmente inventate, ma molto più spesso risulteranno in esagerazioni di notizie vere, o in conclusioni artate e distorte che pur prendendo spunto da alcune – poche – notizie vere, le esagerano in modo fazioso, al fine di dipingere scenari nel loro complesso inesistenti;
  • la campagna pone in situazione di forte stress l’organizzazione, che non solo non comprende dove/quale sia la fonte dell’attacco, ma non ne comprende le ragioni. Una campagna di questo genere finisce per minare la business continuity, e per ridurre la capacità dell’organizzazione di fare fatturato e creare valore;
  • prendendo spesso spunto da fatti in minima parte veri, la campagna fa “ritrarre” l’organizzazione, vittima – in buona fede – dei propri stessi sensi di colpa (“Sappiamo di aver sbagliato qualcosa, ma possibile che gli errori siamo stati così gravi?”). L’organizzazione stessa riduce quindi – da sola, incredibilmente – la propria licenza di operare, il proprio raggio d’azione, la propria incisività sul mercato (…)

In poche parole, decontestualizzando la realtà, o prendendo dei fatti reali ma ingigantendoli, qualunque persona o azienda potrebbe essere vittima di attacchi del genere: fisiologici errori nella gestione dei clienti possono diventare “truffe”; l’insoddisfazione di un ex collaboratore, magari passato alla concorrenza, diventa “sfruttamento delle persone”; un ex dipendente allontanato per valide ragioni diventa “vittima di un sistema tossico”, e via discorrendo.

Un caso tipico di “campagna di black PR”, sulla quale è stata anche scritta e discussa una tesi di Laurea universitaria, è quella relativa all’azienda Genio Net, che commercializza il corso di formazione per studenti Genio in 21 Giorni. Vediamo in breve quanto è accaduto.

Il caso “Genio in 21 Giorni”

Genio Net è un’azienda italiana presente in 6 nazioni (Italia, Spagna, Svizzera, Inghilterra, USA e Ghana) che eroga corsi di formazione per velocizzare l’apprendimento, sia a studenti che a professionisti, il più noto tra i quali si chiama “Genio in 21 Giorni”, nome scelto per ragioni di marketing in quanto titolo di un best-seller scritto da due tra i fondatori dell’azienda stessa, e pubblicato nel 2012 da Sperling&Kupfer (gruppo Mondadori).

L’azienda è partner di TuttoScuola, la prima rivista del settore in Italia, e attraverso di essa eroga gratuitamente formazione agli insegnanti e ai dirigenti scolastici per il superamento dei concorsi pubblici, ed è anche partner di quella rivista, per i progetti contro l’abbandono scolastico.

Genio Net collabora da anni con un team di ricercatori del CNR – Consiglio Nazionale delle Ricerche, che si occupano di formare i docenti dell’azienda stessa (qui un servizio del TG scientifico RAI “Leonardo” che spiega il senso della collaborazione) ed eroga corsi anche al Sindacato della Polizia di Stato e della Guardia di Finanza, con i quali è convenzionata.

Il coordinatore scientifico di Genio Net è Emilia Costa, già titolare della 1^ Cattedra di Psichiatria dell’Università di Roma “La Sapienza” (qui il suo curriculum) e autore di numerose pubblicazioni scientifiche; l’azienda stessa ha realizzato diverse ricerche sull’efficacia del proprio “metodo di studio personalizzato”, presentate in vari congressi dell’AIRIPA – l’Associazione Italiana per la Ricerca e l’Intervento nella Psicopatologia dell’Apprendimento.

Genio Net nel 2019 si è anche dotata di un Comitato etico esterno e indipendente, composto da esperti e specialisti e coordinato da un Notaio, che ha potere ispettivo sul customer care aziendale e che verifica che ogni lamentela della clientela riguardante potenziali non conformità venga trattata e risolta dall’azienda stessa in tempi e modalità adeguate; il Comitato etico pubblica online un proprio rapporto ogni 6 mesi.

Ebbene, cosa può avere a che fare un’azienda del genere, che ha goduto anche di una favorevole copertura stampa nazionale, con una “pericolosa psicosetta”?

In teoria nulla, ma invece quest’azienda è stata oggetto di un attacco a tutti gli effetti piuttosto curioso: qualcuno – scopriremo chi nel prosieguo di questa nostra inchiesta – l’ha accusata, niente meno, di essere una setta: guru, adepti plagiati, lavaggi del cervello, allontanamento dalle famiglie e culti abusanti, tutte “etichette” non solo diffamatorie e offensive per chiunque, ma in grado di minare seriamente, com’è ovvio, la business continuity di qualunque organizzazione economica.

Ma andiamo con ordine, e comprendiamo come delle accuse – per quanto fantasiose – possano trasformarsi in un pregiudizio devastante per un’intera organizzazione aziendale. L’abbiamo chiesto a Germano Milite, fondatore della più importante e visibile community “anti-fuffa” d’Italia.

Il punto di vista degli “anti-fuffa-guru” e degli esperti in reputazione digitale

Germano Milite è un giornalista, uno dei più influenti esperti italiani che si battono contro Scam e “fuffaguru”, termine reso di uso corrente anche dalla community che lui stesso ha creato, Fufflix. L’ecosistema coordinato da Milite – che svolge una vitale opera di utilità sociale – si basa fondamentalmente sulla partecipazione alla vita comunitaria (digitale) di circa 60.000 persone tra YouTube, Twitch e Facebook, che all’occorrenza segnalano eventuali pubblicità ingannevoli, pratiche commerciali scorrette, “schemi Ponzi” o vere e proprie truffe, in un’ottica di difesa degli interessi dei cittadini. Il sistema di segnalazioni viene filtrato dalla redazione, che decide quali post approvare, rilanciandoli e permettendo così il dibattito e i commenti sulle varie pagine Social. Da quei post nascono poi editoriali, inchieste, interviste e testimonianze, con funzione anche di deterrenza: finire attenzionati da Fufflix significa nella maggioranza dei casi “non aver agito correttamente”, secondo le parole del fondatore. Fufflix è anche un sistema di tutela attiva: lo strumento ha ottenuto centinaia di migliaia di euro di rimborsi da sedicenti “guru”, in via stragiudiziale, anche grazie alla collaborazione con legali qualificati.

Milite spiega così il funzionamento di questi strumenti:

Fuffapedia.com e Fufflix dispongono di un ‘self search’, un motore di ricerca dove si possono inserire nome e cognome del formatore o venditore di servizi che si vogliono controllare e riceverne in cambio risultati provenienti da fonti verificate, non da Google, dove la presenza di pubbliredazionali a pagamento da un lato, o di accuse non suffragate da prove dall’altro, possono purtroppo inquinare la percezione dello scenario relativo a qualunque interlocutore”

Fufflix però è anche un’utile cartina di tornasole per ragionare sullo scenario opposto, cioè su chi impulsivamente targa come “truffa” e Scam pressoché qualunque offerta di formazione.

“È insito nella natura umana – ha dichiarato Milite – essere impulsivi nelle parole e nelle reazioni. Quindi, anche per ignoranza, magari si utilizzano i termine ‘truffa’ o ‘truffatore’ o altri simili appellativi in maniera impropria e leggera, senza sapere che in teoria, e anche in pratica, non si dovrebbero usare termini del genere se una persona non è stata condannata con una sentenza passata in giudicato. Dovresti essere preciso e dire: ‘Germano è stato condannato per quel reato dieci anni fa’. Questo ha una logica che, secondo me, è assolutamente corretta, anche perché se Germano ha avuto una condanna dieci anni fa, ma ha scontato il suo debito con la giustizia, si è pentito e riabilitato, e non ha più commesso quel tipo di reato, non è giusto che venga etichettato ‘a vita’ in modo negativo. Siamo esseri emotivi, e spesso parliamo facendo parlare la pancia, non la testa.

Milite interviene anche sul tema delle piattaforme Social che esasperano questo fenomeno dell’etichetta facile che a volte può diffamare degli operatori commerciali per qualunque ragione oggetto di attenzione da parte della sua community:

“Se devo muovere un’accusa all’indirizzo di qualcuno, ma dal vivo, è più difficile farlo, giustamente dire in faccia certe cose pesa, e magari riflettiamo ci più. Online, invece, in trenta secondi posso scrivere le peggio cose sotto qualunque annuncio pubblicitario, sottovalutando il peso che quel commento – che può essere letto da migliaia di persone – può avere. Sentiamo l’esigenza di ‘dire la nostra’ a volte travalicando i limiti della continenza, questo è un meccanismo tipico dei Social: e non ci rendiamo conto dei danni che possiamo causare”.

Sulla generalizzazione e sul qualunquismo, che spesso sono la cifra di certi dibattiti online, Milite non ha dubbi:

“I massimalismi non portano mai nulla di buono, perché se vogliamo fare battaglie sensate e mirate contro fenomeni specifici dobbiamo essere precisi e circostanziati. Online c’è molta spazzatura e la tentazione di definire tutto come Scam o truffa capisco bene è forte, ma bisogna imparare a distinguere la pubblicità, magari aggressiva, ma di un servizio che ha un contenuto, da quella realmente ingannevole o che promoziona il nulla a caro prezzo”.

A Milite, fa eco Matteo Flora, notissimo professionista e influencer di spicco del mondo digitale italiano, recentemente video-intervistato dalla nostra testata:

“Il problema è che è morto il gatekeeper, ovvero il custode del cancello”, sostiene Flora. “I gatekeeper per tradizione sono quelle entità preposte a inframmezzarsi tra l’utente che utilizza una notizia e la notizia stessa: in genere, in passato, erano i giornalisti. Ciò consentiva di evitare che qualsiasi cosa finisse sui giornali, e che venisse data voce a qualunque cosa: veniva dato spazio a ciò che era preselezionato anche su criteri di qualità della notizia. Con i Social, questo non avviene più. Non è detto sia necessariamente un male, ma una conseguenza negativa di questo sono gli smear-attack, le black PR, la gogna mediatica. Nella realtà, oggi, chiunque è in grado con pochissimo sforzo di pubblicare contenuti, come anche – in modo anonimo o fake – dire: ‘Io sono il più famoso psicoterapeuta del mondo e racconto che…’, e in più è diventato semplice acquistare esposizione su migliaia di blog diversi, che sia ‘Cucinacongliamici punto com’ o ‘Finanzaecavalli’ e ricavarne visibilità. Il problema è che man mano che i gatekeaper ‘morivano’ o perdevano importanza, gli utenti si sono disabituati a cercare fonti di qualità. Il risultato è che “Il corriere del corsaro” o “Ieri oggi e domani sui conigli”, e Il Corriere della Sera, nella testa delle persone hanno la stessa valenza, e quindi diventa molto più facile spingere la circolazione di una notizia. Magari falsa”.

Questo può incidere sulla reputazione di un’azienda, danneggiandola? Flora non ha dubbi:

“Si, perché la realtà è un soggetto ‘socialmente negoziabile’. Non esiste un concetto univoco di realtà, ma esiste quella che un numero ampio di persone descrivono come ‘la realtà’. E se riesci a convincere un numero sufficientemente alto di persone all’interno di una sacca specifica, di un certo stakeholder, che le cose stanno in certo modo, tu stai creando di fatto una realtà parallela, che diventerà ‘la realtà’ magari per molti”.

Dello stesso parere è Kenan Malik, che recentemente ha ricordato sull’autorevole Guardian come “in passato solo i governi e i potenti potevano manipolare l’opinione pubblica presentando bugie come verità, oggi lo può fare chiunque abbia accesso a Internet, perchè la nozione stessa di verità si è frammentata”. Malik ricorda anche il primo caso noto di intervento istituzionale contro le notizie false: nel XVII secolo il panico coinvolse la casa reale Inglese perchè le caffetterie erano diventate covi di dissenso politico che fabbricavano – tra le altre cose – notizie scandalistiche e non genuine sulla Corona; Carlo II emanò quindi un proclama per contenere la diffusione di notizie false, ed è il primo intervento del quale si abbia memoria contro le fake-news.

Colletti su Il Sole 24 Ore riprende anche il Financial Times, che recentemente ha lanciato la campagna Fake Hits, il cui simbolo sono i loghi dei più noti Social Network in pezzi, sotto il titolo “Le aziende lottano per contrastare le fake news”. Dal canto suo, ricorda Colletti, l’International Communication Consultancy Organisation (ICCO), network che aggrega 3.000 società di relazioni pubbliche distribuite in 70 nazioni, ha avviato iniziative incisive contro le fake news anche ai danni dei brand: “Negli ultimi anni, la disinformazione è diventata una minaccia anche per le aziende e per le persone, perchè in America il 77% degli utenti tra i 18 e i 25 anni si informa attraverso i Social”, ha dichiarato Massimo Moriconi, Presidente di ICCO Europe.

Fin qui, abbiamo evidenziato, attraverso la voce di tre protagonisti del dibattito nazionale e internazionale su questi temi, i rischi di “deriva” del pur lecito dibattito contro truffe e raggiri, e di come la realtà può essere ingigantita e manipolata per fare “hype” o anche solo a mo’ di sfogo personale online.

Ma c’è dell’altro, perché alcune campagne di diffamazione possono – ed è inquietante – anche essere studiate a tavolino, come scopriremo tra poco. Ma prima, dobbiamo chiarire un concetto chiave in questo scenario: cos’è una “setta“?

Cosa dice l’esperta di sette?

Il fenomeno delle cosiddette “sette”, o più in generale della manipolazione a scopo di profitto o di costruzione di leadership assolute, è un argomento molto serio, del quale la dott. sa Raffaella Di Marzio, presidente del Centro Studi LIREC, è una delle più accreditate esperte riconosciute in Italia su queste tematiche, in ambito accademico e non solo. Abbiamo chiesto alla dottoressa quali sono i pericoli che corre chi viene cooptato in un vero gruppo settario.

“Dare una definizione univoca di ‘gruppo settario’ è impossibile, perché le tipologie di gruppi, chiamiamoli settari, nel senso che hanno delle caratteristiche di chiusura al mondo esterno e una leadership molto autoritaria, sono diversissime l’uno dall’altro. Sono gruppi che riescono a manipolare in diversi modi le persone che ne fanno parte: alcuni di questi gruppi si ispirano a una qualche forma di religione, mentre altri sono laici, dove Dio non c’entra. In questi ultimi, l’autorità che è a capo del gruppo probabilmente non crede nemmeno che Dio esista. Una caratteristica però comune a tutti questi gruppi è la convinzione che chi è all’interno è nel giusto, nella perfezione della verità, mentre chi è all’esterno è nella menzogna ed è il male. Quindi, in questi gruppi settari e chiusi, chi è dentro è nel bene, chi è fuori è nel male. Si crea così una contrapposizione ‘dentro-fuori’, che può essere pericolosa”.

Ma la dottoressa ci mette in allarme anche contro un fenomeno molto simile ma di segno opposto: il massimalismo di chi – in alcuni casi per interesse, in altri per una visione distorta della realtà – sostiene di combattere i movimenti settari, magari senza alcuna specifica competenza in materia certificata a livello accademico, e finisce però per adottarne i medesimi linguaggi e metodi manipolatori.

“Mi occupo di queste materie da ormai quasi 30 anni, e confermo che, in modo crescente negli ultimi anni, sedicenti esperti di fenomeni settari hanno intensificato le proprie attività per denunciare ‘sette ovunque’: è una forma di allarmismo che genera un panico morale nella società, cioè si crea una paura di un fenomeno gravissimo che in realtà non esiste. Non perché non esistano problemi legati a gruppi settari, ci mancherebbe, ma perché non esiste nella misura che viene propagandata da individui presi davvero dalla “foga” di denunciare l’esistenza di manipolazioni, anche dove non ci sono. Spesso queste persone sbagliano bersaglio. In una pubblicazione abbastanza recente, un paio di giornalisti hanno scritto che ci sono cinque milioni di italiani ‘nella rete delle sette’. Se consideriamo che, secondo dati certi, in Italia ci sono circa due milioni e mezzo di persone che non sono cattolici, ma appartengono al mondo musulmano, protestante, buddista e a vari gruppi new age, distribuiti in circa 860 gruppi in totale, dire che ci sono cinque milioni di italiani che appartengono alle sette è una stupidaggine statistica assoluta, senza alcun senso. È un’invenzione totale che però viene riportata continuamente dalla stampa”.

Prosegue la Dott.sa Di Marzio:

“Purtroppo, questa invenzione viene propagandata anche all’interno delle pubbliche istituzioni, dove si dà credito a questi presunti esperti stimolando interrogazioni parlamentari e richieste di inchieste. Chi, tra i parlamentari, quasi sempre in totale buona fede, prende in mano questi dati e chiede, ad esempio, l’istituzione di una commissione d’inchiesta sul fenomeno, spesso non si pone il problema di verificare ‘la fonte’ di questi dati. Così, chi legge online la richiesta di una commissione d’inchiesta crede che esista davvero il problema. Non si fanno verifiche serie ed adeguate, perché se si cercasse la vera fonte, si troverebbero gruppi e persone che finalizzano le loro attività alla ‘guerra contro le sette’ a tutti i costi”.

E se qualcuno dovesse chiedere a questi soggetti una conferma di una fonte, o una certezza accademica a supporto delle loro affermazioni?

“In questi casi – prosegue Di Marzio – vengono avviate azioni sistematiche per minare la credibilità della persona che ha espresso un’opinione diversa o che ha sollevato il dubbio, il che è contrario al pluralismo e allo spirito scientifico”.

Potremmo definire queste personaggi come parte di una “sette anti-sette”?

“Si, perché al loro interno si manifestano le stesse dinamiche psicologiche che loro attribuiscono alle sette: manipolano le informazioni e le persone al fine di tentare di dimostrare la validità della loro impostazione, fanno disinformazione sul web, accusano con violenza chiunque la pensi diversamente da loro. Di fatto, paradossalmente utilizzano metodi settari, senza rendersi conto dei danni che creano alle persone e volte anche alle organizzazioni economiche.

Circa un mese e mezzo fa – prosegue Di Marzio – ho ricevuto una telefonata di una persona che mi ha voluto raccontare la sua esperienza. Questa persona era stata in un gruppo religioso che, a suo dire, presentava caratteristiche settarie. A un certo punto, non condividendo più certe dottrine, se n’era andata e aveva trovato un gruppo anti-sette dove aveva cercato sostegno e aiuto. Dopo sei mesi circa all’interno di questo gruppo anti-sette, durante i quali aveva rilasciato varie interviste raccontando la sua precedente esperienza negativa, ha avuto delle critiche da fare sul comportamento delle persone del gruppo: ebbene, a quel punto ha subito lo stesso tipo di azioni e pressioni all’interno del gruppo anti-sette! Mi ha contattato per dirmi: ‘ho trovato nel gruppo anti-sette le stesse dinamiche che c’erano nella setta che avevo lasciato, quindi me ne sono andata anche da lì’.

Da notare – conclude la specialista – che la preparazione scientifica che mediamente si può rilevare nei personaggi che combattono questa singolare e pericolosa attività “anti-settaria” raramente è adeguata. Alcune di queste persone hanno una formazione psicologica e sono psicologi o psicoterapeuti, si occupano – spesso a pagamento – del trattamento delle persone che escono da questi gruppi e che possono trovarsi in difficoltà psicologiche. Tuttavia, a livello di produzione scientifica, studi sul campo e dibattito accademico, siamo a livello zero. Si basano solo su casi di persone che si sono trovate male o che hanno subito abusi (veri o presunti), e costruiscono la loro teoria anti-sette solo su queste esperienze, prigionieri di un enorme bias auto-confermativo. In questo modo, però, non si fa scienza, ma propaganda. E questi atteggiamenti anti-scientifici possono avere conseguenze gravi in un Paese democratico”.

Abbiamo infine chiesto alla dottoressa quali possono essere – se ve ne sono – le conseguenze per chi viene etichettato impropriamente come “membro di un gruppo settario”:

“Chi viene accusato di far parte di un gruppo del genere, perde automaticamente il diritto di essere considerato una persona credibile, si presume che sia plagiato e, di conseguenza, tutto quello che dice perde completamente valore. Anche la sua stessa esperienza, magari per nulla settaria, non può essere riferita, perché ‘tanto lui è manipolato’, quindi la tesi della ‘setta’ non è confutabile, perché qualunque elemento differente, a smentita dell’accusa, non viene mai preso in considerazione. Questi personaggi dall’accusa facile si nutrono, quindi delle loro convinzioni e deduzioni, che non sono mai e poi mai disponibili a mettere in discussione, e chiunque dica qualcosa di diverso da loro viene etichettato come una persona che ‘è dalla parte delle sette’: il che è palesemente l’atteggiamento massimalista che hanno le sette verso l’esterno!

Non parliamo poi, oltre al danno emotivo patito dalle singole persone, di quello finanziario e di reputazione quando ad essere impropriamente accusata è un’organizzazione economica come un’azienda. Quando una persona cerca informazioni su qualche gruppo e trova etichette come ‘setta’ oppure termini completamente inesistenti dal punto di vista scientifico come ‘psicosette’, ovviamente si spaventa e prende le distanze. Inoltre, chi all’inizio conosce poco l’organizzazione e vede queste etichette può decidere di allontanarsi per evitare problemi. I dirigenti, che magari lavorano nel settore da anni e hanno ottenuto risultati positivi, vedono la loro reputazione e il loro lavoro distrutti, e anche se fanno auto-analisi e migliorano la propria organizzazione non ottengono riscontri da chi li critica, perché l’obiettivo di questi gruppi non è aiutare o migliorare lo scenario, ma al contrario amplificare i problemi per ottenere risonanza mediatica”.

Se quanto afferma la dottoressa è vero – e, vista la sua preparazione, e la reputazione della quale gode in ambito scientifico e accademico in questo settore, non abbiamo motivi per dubitarne – eccovi servito, niente meno, che il ‘delitto reputazionale perfetto’.

La reazione “controintuitiva” di Genio Net agli attacchi: farsi guardare dentro

La prima reazione, documentata in letteratura e in pratica professionale, da parte di individui e organizzazioni oggetto di campagne di black PR, è quasi sempre quella di “ritrarsi”, chiudendosi a riccio in postura difensiva, e ingaggiando, spesso, un poco produttivo “muro contro muro”.

Genio Net quando è stata bizzarramente ma distruttivamente accusata, online, di essere un “gruppo manipolativo” e una “psicosetta”, ha invece optato per una scelta diversa, forse condizionata da una “cultura dell’errore” della quale daremo atto più avanti in questa inchiesta: in risposta alle accuse, l’azienda ha contattato uno dei più noti esperti europei di movimenti settari e gruppi abusanti (di stampo religioso e non), il Dott. Pepe Rodriguez, direttore scientifico del centro studi EMAAPS, a Barcellona, e si è spontaneamente sottoposta ad un rigoroso esame, durato diversi mesi, allo scopo di far valutare in modo oggettivo e indipendente la natura, le finalità e le modalità operative dell’organizzazione e delle Sedi attraverso le quale agisce. Il risultato dell’audit, riportato in un dettagliato elaborato scritto, esaminabile online da chiunque, afferma che qualsiasi associazione tra l’attività della rete Genio Net e quella dei movimenti settari e manipolatori “rappresenta un’accusa assolutamente priva di qualsiasi fondamento e totalmente falsa”. La posizione di Rodriguez è riassumibile in una sua frase, più volte ripetuta nel articolato rapporto finale dell’Audit, frase che pare non lasciare spazio ad equivoci:

Si può affermare categoricamente che l’azienda del Corso Genio in 21 giorni (Genio Net, ndr) non si adatta in assoluto, né per la minima vicinanza o parallelismo, a nessuno dei punti che definiscono i parametri di ‘setta’.”

dott. Pepe Rodriguez

Rodriguez ha anche suggerito all’azienda Genio Net di procedere penalmente verso chiunque utilizzi impropriamente quell’etichetta diffamante ai danni dell’azienda.

Cosa che la Rete Genio Net ha fatto: ma con qualche sorpresa.

La “fonte” dietro le accuse a Genio in 21 Giorni

Chi è che – inizialmente – ha promosso l’accusa a Genio Net, e ha “dato il là” al vento del pettegolezzo che ha umiliato e mortificato i collaboratori dell’azienda e le loro famiglie, rischiando di travolgere e distruggere un’intera organizzazione imprenditoriale?

Le parole dell’Avvocato Massimo Bajma Picit, che si è occupato di questa vicenda e che ha inviato alla nostra redazione una testimonianza scritta, sono illuminanti per tentare di rispondere a questa domanda:

“L’azienda Genio Net e i suoi rappresentanti e collaboratori sono stati sottoposti ad attacchi, attraverso più canali mediatici, tanto tradizionali (stampa, televisione) quanto tramite i cosiddetti nuovi media (internet, email, Social network), che con la loro incontrollabile diffusività nel propagare i messaggi denigratori, potenzialmente capace di pregiudicare il valore dell’azienda, hanno reso assolutamente indispensabile una energica reazione e l’approntamento di un piano per reprimere, contrastare e prevenire queste illecite aggressioni, paragonabili a una vera e propria ‘macchina del fango’. È interessante evidenziare come le indagini della Polizia Postale abbiano evidenziato come diversi nickname che sulla rete, tramite post sui Social media, commenti su forum vari, mailbombing etc., attaccavano e criticavano l’azienda, fossero riferibili ad identità fake riconducibili al medesimo provider Svizzero, che mette a disposizione la possibilità di creare identità fittizie proteggendo l’anonimato dell’utente”.

Qui prodest, verrebbe da chiedersi, ovvero perché questo accanimento, e quali sono i vantaggi che questi individui o gruppi traggono dal denunciare come “settari” molti gruppi che in realtà non lo sono? Sul punto ci risponde ancora la dott. sa Di Marzio:

“Molte volte si creano degli allarmi quando ci sono interessi personali o di gruppo: se qualcuno ha creato un’organizzazione per combattere le sette, le sette devono esistere, perché se non esistono più, quell’organizzazione non ha più motivo di esistere, non può più chiedere fondi, non può più portare avanti le sue attività. Quindi, ci sono interessi organizzativi ed economici in gioco. Questo ampio giro di esperti e consulenti vive dell’indotto economico creato negli anni attorno alla loro attività, e che soprattutto ne trae un ritorno di immagine personale. Queste persone vengono percepite da alcuni come dei santi, come coloro che ‘salvano le persone dalle sette’, o come perseguitati dalle sette, cosa di cui non c’è mai stata però alcuna prova”.

In realtà, tutte queste accuse – thread ostili online contro Genio Net e i suoi dipendenti e collaboratori, articoli di blog, etc. – paiono aver mosso i primi passi, sorprendentemente, partendo dalle dichiarazioni – poi amplificate ad arte – di una psicologa, sedicente “esperta di movimenti settari”: auto-proclamatasi tale, dal momento che – diversamente dai formatori in strategie di apprendimento di Genio Net – non ha mai pubblicato un solo studio scientifico sulla materia della quale si presenta come “esperta” (indice d’impatto del suo nominativo sulle principali banche dati: semplicemente zero). Dell’inconsistenza del curriculum della presunta esperta si è già scritto online, in uno spassoso lavoro che ha generato così tanta irritazione nella stessa da spingerla a lamentarsene per vie giudiziarie (ma le sue doglianze sono state archiviate, con tanto di pronuncia da parte di un Giudice che non ha ritenuto sussistere nulla di diffamatorio in quelle pagine). Al netto delle sue esternazioni sul proprio Blog, l’unico lavoro – divulgativo – mai pubblicato a firma di questa presunta esperta è un libro, dal titolo “Sette e manipolazione mentale”, stroncato duramente dal Prof. Luigi Berzano, membro del CESNUR, uno dei più noti Centri studi italiani sul tema dei nuovi movimenti religiosi: “l’impianto strutturale del libro risulta privo di qualsivoglia fondamento logico (…) ed è viziato dall’assenza totale di riferimenti adeguati alle fonti (…) mentre le ricostruzioni (riportate nel libro, ndr) sono costellate da numerose e gravi incongruenze, verità parziali e omissioni”

È bene evidenziare, ai fini del nostro approfondimento, come la suddetta “esperta” non risulta sia membra della Società Italiana di Psicologia delle Religioni (SIPR), che è l’associazione nazionale di categoria degli psicologi e specialisti che si occupano di fenomeni settari, né ha mai presentato una sola ricerca nel corso dei numerosi convegni organizzati dall’associazione, né ancora ha mai firmato un solo lavoro su pubblicazioni scientifiche, riviste peer reviewed, etc. La stessa sostiene di essere depositaria di “numerosissime segnalazioni di non conformità” a carico di Genio Net da parte di ex clienti dell’azienda (salvo non averne mai resa nota nessuna in modo circostanziato…); per contro, la stessa “esperta” è stata non solo denunciata dall’azienda alla Procura della Repubblica, come conferma questo parere pro-veritate, ma anche – in esito alle indagini dei Magistrati – rinviata a giudizio, a seguito di ulteriori denunce depositate da altri soggetti per vicende strettamente correlate a questa sua campagna diffamatoria (il processo penale è in corso alla data di pubblicazione di questa inchiesta).

Recentemente, anche il Parlamento italiano si è occupato del tema settario: è stata depositata niente meno che un’interrogazione Parlamentare nella quale una deputata ha domandato al Governo se non bisognasse fare di più contro quel fenomeno, inserendo sorprendentemente Genio Net tra le possibili “psicosette” (!); incidentalmente, la Parlamentare in questione è risultata essere in diretto e forse non casuale contatto con la sedicente esperta di movimenti settari di cui sopra. Di quest’ultima si è occupata – in modo a tratti non lusinghiero – anche la già citata community Fufflix, che le ha dedicato una apposita “Live” nonchè un’articolata inchiesta, commentando negativamente il suo approccio massimalista al tema delle sette e la sua attitudine ad accusare di comportamenti manipolativi gruppi che non rispondono minimamente a quei requisiti, Live e inchiesta delle quali consigliamo la consultazione a chiunque abbia desiderio di farsi un’idea propria e “pesare” il profilo dei pubblici accusatori di Genio Net.

Peraltro, lo stesso Presidente della Società Italiana di Psicologia della Religione si pronunciò su questo sedicente movimento di esperti “anti-sette”, definendoli come “…gruppi che – proclamandosi ‘antisette’ – si presentano come paladini della religione istituzionale e difensori di persone plagiate e dei loro familiari”, ma in realtà sono “…assolutamente sconosciuti nel dibattito scientifico internazionale, e spesso ruotano attorno alla smania di protagonismo di sedicenti ricercatori, facilitatori e consulenti”.

Attacchi inconsistenti, quindi, promossi da personaggi senza alcuna dimostrabile preparazione accademica nello specifico settore della tutela dai gruppi settari: attacchi che però – paradossalmente – hanno stimolato anche dei cambiamenti: vediamo quali.

La crisi, da pericolo ad opportunità: cosa è cambiato dentro Genio Net?

Come insegna ogni buon manuale di Crisis management, una crisi può anche rivelarsi un’opportunità. Lo conferma Mirko Romano, che – tra gli incarichi che ricopre in quell’azienda – è responsabile del Customer care, ovvero l’ufficio che si occupa della gestione dei rapporti con la clientela e del grado di soddisfazione della stessa.

“Premesso che la nostra azienda non ha mai ricevuto esposti o denunce di alcun genere, inizialmente, quando abbiamo letto delle affermazioni diffamatorie e delle accuse online, ci siamo chiesti: ‘ma davvero stiamo sbagliando così tanto?’. Certo, ogni azienda ha una percentuale di ex clienti o ex collaboratori scontenti per i più vari motivi, ma addirittura dipingerci come una ‘pericolosa psicosetta’ ci pareva assurdo. La verità è che queste critiche feroci e questi attacchi ci hanno molto stimolato, quasi obbligato a ‘guardarci dentro’, e questo processo di auto-analisi è stato molto fecondo: ci ha portato ad esempio a rivedere e arricchire tantissimo il contenuto didattico dei nostri corsi, ancorandolo ancora di più ad evidenze scientifiche, ma non solo. Abbiamo avviato un progetto che si chiama ‘Genio in Cantiere’, ovvero invece di predisporre come management aziendale un codice etico al quale tutto il team avrebbe dovuto attenersi, abbiamo fatto un grande lavoro di gruppo, chiedendo a tutti – indipendentemente dal loro posizionamento sull’organigramma – di dare il proprio contributo per arrivare alla redazione di una carta di valori realmente condivisa, e auspicabilmente a quel punto applicata con maggiore efficacia, perché non ‘calata dall’alto’. Poi abbiamo attivato un ufficio customer-care, che prende in carico eventuali segnalazioni di non conformità che dovessero pervenire dall’esterno, e un team HR (risorse umane) che analizza quelle che dovessero pervenire dall’interno, dai collaboratori dell’azienda. È stato creato un Comitato etico indipendente, che osserva come l’azienda reagisce a ogni segnalazione, e ogni 6 mesi produce un documento, un report, che noi pubblichiamo sul nostro sito web in totale trasparenza. Insomma, la pressione esterna negativa ha in realtà stimolato un grande salto di qualità anche nel modo in cui ci relazioniamo con tutti i nostri pubblici”, afferma Romano.

Alla ricerca di conferme nell’ambito degli argomenti trattati da questa nostra inchiesta, abbiamo contattato la ‘decana’ del Comitato etico di Genio Net, il Notaio Alessandra Coscia, intervistandola.

Dottoressa, sono diversi anni che Lei collabora nel Comitato etico di Genio Net, come professionista indipendente, insieme ad altri qualificati colleghi che si sono alternati in questo impegno veramente centrale nella vita dell’azienda. Voi vi occupate, in sintesi, di monitorare lo standard del customer-care aziendale, ovvero come l’azienda risponde ad eventuali lamentele o segnalazioni di non conformità da parte di clienti ed ex clienti, in quali tempi, e con quale grado di soddisfazione per chi invia segnalazioni. La prima domanda che le pongo e la seguente: presumo che per evitare conflitti di interesse il vostro lavoro sia pro-bono, quindi cosa la motiva nel farlo, posto che non è il denaro?

“Confermo l’assoluta indipendenza e gratuità della mia prestazione, ritengo che essa faccia parte di quelle attività pro-bono in cui è possibile, come professionista, mettere con piacere al servizio dei corsisti di un’azienda (soggetti anche per definizione normativa sono considerati contrattualmente ‘più deboli’) la mia competenza, e un equilibrio e terzietà che tra l’altro è tipica della mia professione di Notaio”.

Ogni semestre voi redigete un rapporto, che poi l’azienda deve pubblicare in modo trasparente, accessibile a tutti, sul proprio sito web. Indicativamente, quante segnalazioni registrate vengono inviate alla vostra attenzione ogni 6 mesi, rispetto ai circa 2.800 corsisti che Genio forma ogni semestre?

“Le segnalazioni sono generalmente, per ogni semestre, tra le 10 e le 15. Di queste circa il 60% riguardano richieste di risoluzione del contratto per persone che cambiano idea e non vogliono più terminare il percorso formativo, per i più vari motivi, le altre per questioni minori”.

Le aziende non sono perfette, ma perfettibili. In questi anni che idea si è fatta della disponibilità di questa azienda a prendere in carico segnalazioni di non conformità, e darsi da fare per risolverle?

“La disponibilità di questa azienda a risolvere conflitti sia embrionali che già sussistenti è normalmente massima. E – proprio considerando l’attenzione aziendale – come Comitato etico sollecitiamo clienti e/o potenziali clienti e/o ex clienti a manifestare senza indugio eventuali segnalazioni e lamentele per non conformità che dovessero aver percepito, raccomandando loro di circostanziare chiaramente e direttamente l’accaduto, in quanto ovviamente il Comitato Etico non puó prendere in carico segnalazioni anonime o per conto di terze persone. Comunque la nostra esperienza conferma che ogni volta che vi è una segnalazione, vi è anche una risposta concreta dell’azienda per risolverla”.

Un’ultima domanda: non sono molte in effetti le PMI che si sono dotate di strumenti come questo, un Comitato etico indipendente con funzioni anche di controllo. Le chiedo se il motivo potrebbe essere anche la reticenza a “farsi guardare dentro” da parte di molte imprese, esponendo magari il fianco a critiche da parte dell’opinione pubblica (o altri motivi che lei ritiene di evidenziare) e se per contro potremo considerare questa prassi di trasparenza una “buona pratica” da adottare più diffusamente anche per aumentare la competitività delle imprese italiane, grazie al rafforzamento della relazione di fiducia tra le aziende stesse e i propri pubblici…

“Qualsiasi strumento volto a garantire trasparenza nel rapporto tra un’azienda e i propri clienti, che denota attenzione e disponibilità a far fronte in modo costruttivo alle critiche o segnalazioni da parte dei propri utenti, è da incentivare. L’istituzione di un Comitato Etico è di indubbia rilevanza per una PMI, soprattutto quando il prodotto offerto dall’azienda non è ‘misurabile’ in termini strettamente ‘quantitativi’ e attiene ad ambiti quali, in questo caso, la metodologia di studio, le tecniche di memorizzazione o l’implemento di abilità trasversali e soft skills.  Proposte che, proprio in quanto rivolte ad un pubblico di adolescenti e giovani, necessitano di attenzione costante affinché l’eventuale difformità dai Codici etici aziendali e la prassi siano sanati sollecitamente, anche a discapito di logiche e interessi meramente economici, considerando che la buona reputazione è un asset aziendale insostituibile”.

Mirko Romano, del Customer care, ci tiene comunque a precisare: “Come qualunque azienda, non abbiamo presunzione di perfezione, siamo un gruppo di esseri umani ed errori ne facciamo anche noi”.

Avete esposto il fianco a critiche, in passato?

“Si, è il motivo è molto semplice – sostiene Romano – nonché evidente a chiunque sia in buona fede: i ragazzi che si sono appassionati al progetto Genio Net e al tema dell’apprendimento, del far reinnamorare le persone dello studio, e hanno costituito il primo nucleo dell’azienda, erano talentuosi ma giovanissimi, i più ‘maturi’ non avevano neanche 30 anni, e nessuno di loro all’epoca aveva alcuna esperienza in una grande azienda strutturata. Inoltre, il progetto ha preso piede rapidamente, e peraltro in più nazioni, prima in Italia, e poi in Spagna, Svizzera, USA, Grande Bretagna, ed oggi anche in Africa, in Ghana per la precisione. All’epoca, queste persone hanno compensato obbiettive mancanze strutturali e manageriali – molte delle quali semplicemente ereditate da chi gli aveva insegnato il mestiere in aziende precedenti, poco dopo la fine della loro formazione – con l’entusiasmo, ed è evidente che l’entusiasmo a volte possa non bastare. Poi si è arrivati ad una vera e propria maturazione professionale, si sono avviati programmi di formazione intensivi e molto sfidanti, si sono fatte convenzioni con enti scientifici di primo piano, insomma, si sono colmati i vari gap, e si è posta l’attenzione su tante tematiche che oggi rendono l’azienda a mio avviso eccellente sotto molti aspetti. Preciso che è stata di grande impatto anche la scelta di farci affiancare da professionisti di fama e con curriculum di livello nazionale e oltre, che potessero guidare l’azienda in questo lungo e faticoso processo di change management. Il che ha incluso chiedersi: in cosa possiamo migliorare? E chi potrebbe aiutarci a migliorare in questa specifica cosa?”

Può fare degli esempi pratici?

“Agli inizi l’azienda aveva un organigramma sbilanciato e claudicante, con i migliori collaboratori che principalmente svolgevano 2 ruoli: l’istruttore, quindi il responsabile della didattica della sede, oppure il responsabile del servizio clienti. Peraltro il primo, essendo responsabile di tutta la docenza era la figura nettamente più in vista, colui o colei che ‘stava sul palco’. Non deve stupire se un ventenne entusiasta si chiedesse come poter fare esattamente quel mestiere, domandasse di essere formato per fare quello e nient’altro che quello. Ovvio che questo ha creato un forte sbilanciamento a livello organizzativo, che ci sono voluti anni a correggere. Inoltre, qualche mala lingua ha sostenuto che l’azienda in qualche modo promuovesse una sorta di “idolatria dell’istruttore”. In realtà, nonostante per gli uffici passassero migliaia di ragazzi, si e no veniva nominato un istruttore ogni 2 anni, ed erano in formazione per diventarlo una decina di persone ogni anno. Quindi la narrazione malevola dell’istruttore sul podio come un semi-dio, è smentita dai fatti e dai numeri. Ma si sa: chi vuole pensare male e parlar male, i numeri raramente li guarda.

Un errore clamoroso – e poi per fortuna risolto – è stato anche quello di non misurare i risultati degli allievi a distanza di un anno o due dal corso di apprendimento: per le aziende strutturate queste cose sono il pane quotidiano, ma per noi inizialmente non lo era. Oggi, misuriamo la permanenza dei risultati e il fatto che i corsisti continuino – se lo desiderano – ad applicare il metodo di studio sul lavoro e nella vita, dopo 3 mesi, 6 mesi, 1 anno, etc. E bene che facemmo ad avviare questo progetto, perché al primo round di misurazione ci accorgemmo dell’esistenza di una grande soddisfazione nei mesi post-corso, ma di una soddisfazione calante nell’arco dei successivi di due anni. Questa criticità ci ha portato a strutturare meglio il servizio di tutoring e la formazione dei tutor, che oggi è curata da docenti interni e autorevoli figure professionali esterne all’azienda e passa proprio attraverso la nostra “Scuola Tutor”, ovvero un programma di formazione per diventare – e restare – tutor, con tanto di lezioni, materiale didattico ed esame finale. Questa scelta ha portato ad un miglioramento netto di questa statistica, come è documentato anche da una ricerca che abbiamo pubblicato.

Un altro errore notevole – prosegue Romano – è stato sicuramente il comunicare poco on-line: partivamo dal presupposto che dal momento che nell’assoluta maggioranza dei casi il corso di apprendimento aveva risultati notevoli, tanto ci doveva bastare. Svista clamorosa, perché sappiamo bene quanto conti il ‘percepito’. Per troppo tempo gli spazi online non sono stati presidiati dall’azienda: questo ha creato un ‘vuoto comunicativo’, che chiunque ha colmato come meglio voleva, e non sempre in modo positivo, lasciando spazio anche a fantasie piuttosto ‘creative’ sulla reale attività dell’azienda. Si sa: ciò che non è spiegato bene potrebbe apparire come ‘misterioso’, e ciò che è ‘misterioso’ potenzialmente ispira diffidenza. Un enorme involontario equivoco che abbiamo colmato ritengo bene negli ultimi anni, con testimonianze rese dai nostri corsisti ed anche dai loro genitori, interviste al nostro team di istruttori, ai collaboratori esterni, e anche con la produzione di alcuni documentari che spiegano cosa accade nei nostri corsi, sia quelli strettamente legati all’apprendimento che quello più motivazionale, l’Eagle.

Altro aspetto che ha generato tante incomprensioni – e che proprio non era nel nostro radar all’inizio – riguarda una questione apparentemente fin divertente, per com’è stata equivocata: quella del linguaggio. Nelle nostre Sedi si sentiva parlare di ‘PAV’, di ‘loci’, di ‘mappe’, di ‘potenziali’ e ‘cartellini’… Il tema della semiotica è enorme, e tocca anche l’aspetto dell’interlocuzione quotidiana: quelli che ho citato sono termini assolutamente routinari per chiunque abbia frequentato un corso di questo tipo o ne capisca un minimo di apprendimento strategico, ma ostici per molte altre persone. Ogni gruppo che si frequenti assiduamente adotta un suo linguaggio o degli slang, vale per i gruppi di ragazzi che escono insieme, per chi fa CrossFit, per i boy-scout e probabilmente per ogni azienda al mondo, basta richiamare alla memoria un dialogo tra esperti informatici e nerd per farsi venire il mal di testa, è un linguaggio del tutto incomprensibile. Ma qualche osservatore malevolo ha subito parlato nelle sue fantasiose accuse online di ‘linguaggio per iniziati’: essendo noi una pericolosa setta impegnata a fare sacrifici animali dinnanzi alle Sedi ovviamente dovevamo avere un linguaggio criptico… Battute a parte, a dirla così fa ridere, ma ognuna di queste ingenuità ha costituito un tassello che ha alimentato una narrazione tossica francamente del tutto immeritata.”

C’è qualcosa altro per il quale lei ritiene abbiate da rammaricarvi?

“Si, una cosa mi sta particolarmente a cuore e la voglio dire, se me lo permette. Immaginate un giovane docente venticinquenne o poco più, neo-laureato, che scherza al termine di un corso con allievi diciannovenni o ventenni. Si può facilmente immaginare quante ‘frasi fraintendibili’ possano essere state pronunciate nei primi anni di attività in azienda, frasi che sicuramente possono aver urtato – comprensibilmente – la sensibilità di qualcuno, e di questo penso che l’azienda debba scusarsi in modo incondizionato nei confronti di queste persone, e in effetti l’ha fatto convintamente con chiunque abbia avuto la forza e la schiettezza di segnalare questa potenziale non conformità. Quello che voglio dire è che quella che per qualche nostro giovanissimo collaboratore era una battuta innocua, ha invece urtato qualche cliente in passato, e membri del nostro staff, volenterosi di aiutare altri ragazzi in difficoltà nello studio, di poco più giovani di loro, hanno intrattenuto anche conversazioni al limite della sfera privata, oppure eccessivamente informali, rischiando di trasformare un rapporto professionale in un rapporto ‘di amicizia’, cosa che però si può prestare ad equivoci e che comunque non è né corretta né funzionale ad erogare efficacemente un servizio di formazione dove il rapporto tra docente e discente dev’essere lontano da ogni sospetto di eccessiva ‘familiarizzazione’. Nel tempo, questo aspetto è stato corretto con adeguata formazione: non sto dicendo che un docente non possa post-corso andare a bere una birra con dei corsisti, ma il perimetro di queste relazioni professionali dev’essere ben chiaro e delimitato, proprio per evitare di cadere in qualche equivoco. Comunque il management aziendale e tutto il team è cresciuto, maturato, e ha preso consapevolezza di queste tematiche, ma non solo: la criticità è stata anche uno spunto di miglioramento.

Ad esempio ricordo bene quando un nostro collaboratore ha comunicato di aver sentito pronunciare da parte di un’altra persona dello staff frasi a tratti triviali, accompagnate da atteggiamenti che potevano denotare dei pregiudizi – quello era il percepito del nostro collega – nei confronti della comunità LGBTQ+. Ne abbiamo preso coscienza, e abbiamo chiesto al team di ragionarci, e nel nostro Codice etico aziendale è stato inserito anche – cosa ovvia, ma prima di quei fatti non ‘codificata’ – la necessità di rispettare convintamente quelle scelte identitarie e quelle sensibilità. Successivamente, l’azienda ha organizzato e finanziato per tutti i collaboratori un corso sulla DEI – Diversity, Equity and Inclusion – per sensibilizzare ancor più in profondità tutto il team su questo tema. A me è piaciuta molto questa cosa: è la conferma che non siamo perfetti ma perfettibili, e che l’azienda è un’entità in continuo – e auspico positivo – cambiamento”.

Secondo lei esistono ancora degli spazi di miglioramento?

“Penso che quando cesseranno gli spazi di miglioramento l’azienda sarà morta! Esisteranno sempre, molto semplicemente. Una volta stabilite delle linee guida, infatti, bisogna assicurarsi che tutti le conoscano, che le rispettino, e che quando questo per qualunque ragione non avviene ci si attivi sollecitamente e ci si prodighi per formare ed educare le persone, e ottimizzare sistemi e procedure. Ma questi processi penso riguardino ogni gruppo umano, e resto convinto che questa disponibilità a guardarci dentro, a farci guardare dentro, ad ammettere le nostre lacune, e ad attivarci concretamente per risolverle, sia una dimostrazione, mi permetto di dirlo, di buona fede: anche per questo ho trovato certe accuse che abbiamo ricevuto online umilianti, non genuine e francamente ingenerose. Ma guardiamo avanti con ottimismo: abbiamo oltre 50 sedi attive in 6 Paesi, e questo progetto penso sia solo all’inizio”.

La “testa” di Genio Net: il punto di vista dei vertici dell’azienda e la cultura dell’errore

Massimo De Donno, Presidente di Genio Net, è anche uno dei più noti esperti in strategie di apprendimento in Europa, autore di successo del gruppo Mondadori. E non ha mezze parole per descrivere quanto è accaduto: “I gruppi e i personaggi anti-sette sembrano voler ‘salvare il mondo’ con la loro crociata contro i movimenti settari, ma in realtà hanno un atteggiamento meramente distruttivo, e la loro propaganda, specie quella online, si ‘salda’ con la voglia di pettegolezzo e le accuse un tanto al chilo, senza effettuare alcuna verifica, tipiche dei Social, che sono ecosistemi digitali dal ‘linciaggio facile’.”


De Donno vira però verso un atteggiamento positivo, sottolineando come quanto accaduto sia stato comunque utile per cementare quella che definisce la “cultura dell’errore” in azienda:

“Ogni imprenditore sa che la cosa più importante nella sua azienda è il capitale umano: le aziende possono realmente diventare produttive quando le persone che ci lavorano sono entusiaste e convinte di venire a spendere parte del loro tempo per scambiare valore con i clienti. Creare un ambiente dove le persone si sentano di poter sviluppare al massimo il proprio talento e la propria creatività, dove abbiano voglia di venire a vincere qualche cosa per cui vale la pena davvero di impegnarsi tanto, è tutt’altro che facile, però è importantissimo. Ed è una cosa che spesso mi viene riconosciuta da altri imprenditori che – quando conoscono un collaboratore di Genio, un istruttore, un preparatore personale – trovano esseri umani eccezionali che hanno ben chiara qual è la nostra missione aziendale, ovvero – come scriviamo e diciamo ovunque – far reinnamorare le persone dello studio. Si dice poi che ‘sbagliando s’impara’, e l’errore fa parte del naturale processo di apprendimento, in qualunque ambito. Quindi l’errore di per sé non è un problema: sbagliare è assolutamente normale, chi non sbaglia mai, semplicemente é perché non fa nulla.

Per noi – prosegue De Donno – è stato fondamentale trasmettere a tutto il team questa ‘cultura dell’errore’ dimostrando a chi sbaglia che non c’è mai un giudizio o una critica nei confronti dell’errore in se, semmai se c’è un giudizio o una critica é su come si reagisce a quell’errore, nei peggiori dei casi nascondendolo, non prendendosene responsabilità, o facendo finta di niente. Se invece di fronte all’errore la persona comprende e accetta di averlo fatto, ne prende consapevolezza, si responsabilizza, e comincia a chiedersi come e cosa può imparare da quell’errore perché non si ripeta più, ecco, questo è fantastico: quella è una persona che è uscita dal film di dover dimostrare di essere perfetta.

Anche per questo in anni recenti – 2022, 2023 e 2024 – abbiamo avviato e condotto diverse ‘survey’, alcune con il supporto di enti di verifica esterni, per controllare la qualità del clima interno tra i collaboratori, il grado di soddisfazione dei clienti in relazione in generale all’attività di Genio Net, e anche più specificatamente il pensiero dei corsisti che hanno nel tempo partecipato al nostro corso motivazionale ‘Eagle’, che è piuttosto impegnativo e sfidante: i risultati sono stati pubblicati online, in modo accessibile a chiunque, e gli spunti si sono rivelati utilissimi per migliorare ulteriormente la nostra offerta formativa.

Secondo me alla base del successo delle proposte di Genio Net – precisa De Donno – c’è anche questo atteggiamento aperto alle critiche, che sono un potente motore di cambiamento. Il che si traduce in un clima che si sente, si percepisce entrando in qualunque nostra Sede: le persone sono felici di essere lì e sono delle persone che non hanno paura di mettersi in gioco, hanno entusiasmo per quello che fanno, e sono membri di un team che, ancorché insegnino, amano anche imparare, e chiaramente hanno fatto pace con il fatto di non essere perfetti e di non dover dimostrare in questo senso niente a nessuno. Quando sbagliamo, abbiamo la capacità di chiedere scusa, perché sentiamo realmente che ci dispiace magari di non aver soddisfatto tutte le aspettative di qualcuno, ma questo è sempre uno stimolo per chiederci di fare meglio, di migliorarci di più. Questo è quello che è accaduto anche all’intera organizzazione aziendale: la Genio Net di oggi, non ha nulla a che fare con la stessa azienda di 10 anni fa, o anche solo di 5 anni fa. Il processo di cambiamento è stato continuo, e peraltro è ancora in corso, perché un’azienda è come una persona, è un organismo vivo, che è in cambiamento sempre”.

Un’ultima cosa – conclude De Donno – vorrei aggiungere: proprio perché siamo stati vittime di campagne di disinformazione che hanno fatto leva sull’atteggiamento superficiale e sospettoso e sull’incapacità di ‘distinguere’ di una parte della popolazione, tutti indicatori tipici di analfabetismo funzionale, dopo queste vicende sento la nostra mission aziendale, paradossalmente, come rafforzata: il nostro obiettivo è ‘riaccendere l’intelligenza delle persone’ attraverso progetti che possano far riscoprire il piacere straordinario dell’apprendimento, ci impegnamo da anni per rendere gli studenti più capaci, produttivi e dotati di un metodo di studio personalizzato, ma oggi siamo ancora più motivati a contrastare gli effetti devastanti delle campagne di fake-news che si basano su meccanismi mirati a rendere i lettori ignoranti, spaventati e privi di reale capacità di giudizio critico

In conclusione: la scienza cosa dice su Genio Net?

Nessuna inchiesta degna di questo nome avrebbe senso senza concludersi dando la parola alla scienza, perché è di questo che parliamo quando entriamo nell’affascinante mondo dell’apprendimento, degli stili cognitivi, e delle performance cerebrali.

La bibliografia scientifica che i formatori di Genio Net hanno a riferimento è imponente, ed altrettanto interessanti sono le ricerche pubblicate e poi presentate con l’AIRIPA, l’Associazione Italiana per la Ricerca e l’Intervento nella Psicopatologia dell’Apprendimento, ma la cosa forse più interessante da evidenziare è che da anni Genio Net collabora con un team di ricerca coordinato dal 1^ Ricercatore del CNR di Torino, il Dott. Ing. Massimo Arattano. Il Consiglio Nazionale delle Ricerche è la più autorevole istituzione scientifica in Italia, e – secondo la rivista scientifica Nature – si è classificato nel 2018 al decimo posto tra gli enti pubblici di ricerca più innovativi al mondo per numero di articoli scientifici pubblicati.

Gli insegnanti di Genio Net approfondiscono le ricerche e seguono i corsi dei ricercatori del CNR per poter apprendere in prima persona e far proprio l’uso dei “fondamentali dell’apprendimento”, come li definisce Arattano, ovvero quei gesti cognitivi che – ripetuti da ognuno di noi – possono decretare il successo nel campo dello studio, e per poter conseguentemente offrire ai partecipanti ai loro corsi il massimo del supporto possibile in questa direzione.

“I cambiamenti ottenuti sono straordinari”, ha scritto Arattano in una recente intervista. In una videointervista realizzata con Vittorio Bartolini, istruttore responsabile della Sede di Genio Net di Brescia, abbiamo documentato un esempio del profondo cambiamento che i Fondamentali dell’apprendimento possono comportare per una persona. Un cambiamento che può mutare completamente l’atteggiamento nei confronti dello studio e consentire di conquistare straordinarie capacità di comprensione e apprendimento. Se una ragazza con le gravi difficoltà iniziali che vengono descritte nell’intervista, grazie all’uso dei fondamentali dell’apprendimento è riuscita a superarle completamente in pochi mesi di studio, possono riuscirci davvero tutti. A lei, questo approccio ha consentito di passare l’esame di ammissione ai corsi di laurea triennale in infermieristica, classificandosi tra i primi 200 candidati su un totale di 3000 partecipanti, per poi conseguire la media del 28 nel suo primo anno di studi”.


Impossibile, infine, terminare l’analisi di un case-study di estremo interesse come quello di Genio Net e della campagna di black-PR che ha dovuto gestire, senza leggere alcune testimonianze tra le tantissime disponibili online di corsisti e certificate da un’Associazione di consumatori, verificando documento di identità e libretto universitario di chi le ha rilasciate, come anche peraltro di insegnanti o di membri delle istituzioni; ma in particolare la nostra attenzione si è soffermata sul punto dei vista dei genitori, che hanno accettato di prendere la parola, con un approccio maturo tipico della loro età ed esperienza, relativamente all’azienda stessa e ai contenuti dei corsi ai quali hanno partecipato i loro figli, a conferma che l’organizzazione è ben lontana dall’essere una “macchina da profitto che fa denaro manipolando ingenui ragazzini”:

Roberta Balduzzi: “Avendo imparato questo modo di approcciare lo studio, sicuramente [mia figlia] ha guadagnato tempo per le sue relazioni e per le sue attività. Di conseguenza ha avuto una svolta anche da altri punti di vista, oltre quello scolastico. Io l’ho vista con più tempo per lei e anche per la famiglia stessa, per cui se c’è qualcosa da fare è presente, meno stressata, meno tesa”.

Lilly Giglia: “I risultati che abbiamo visto io e mio marito vedendo soltanto la partecipazione alle aule studio e ai webinar sono stati incredibili. Siamo rimasti molto molto colpiti, principalmente per un cambiamento di approccio allo studio, specialmente per una delle due [nostre figlie] che aveva un approccio un po’ negativo rispetto alla quantità e alla difficoltà dei compiti. Questo si traduceva anche in uno stress familiare ovviamente, perché si sa che i genitori che tengono all’andamento scolastico dei figli sono impattati dallo stato d’animo con cui i figli affrontano lo studio. C’erano momenti di tensione […]. Con nostra grandissima sorpresa attraverso queste aule studio e questi webinar abbiamo visto dei risultati veramente ottimi e questo ci ha fatto scegliere di investire i soldi per far frequentare poi il corso […]. Per quanto mi riguarda io penso che la cosa migliore che possiamo fare come genitori sia investire sul loro futuro.”

Patrizia, mamma di 2 figli che hanno partecipato al corso Genio: “[le mie figlie] Hanno avuto sicuramente molti meno problemi non solo nello studio ma anche in seduta d’esame. Ovvero nell’approccio con gli stessi professori. Una delle due ragazze si è poi appassionata all’ambiente e ha voluto continuare anche con la Soft Skills Academy e ho notato dei cambiamenti suoi personali in positivo. Molto importanti anche! Sicuramente per lei andare in seduta d’esame è stato molto più semplice e a livello familiare è molto più aperta” .

Massimiliana, mamma di un’allieva Genio: “Mia figlia era una ragazza, una ragazzina, molto chiusa, molto introversa. Non parlava mai con nessuno, era di atteggiamento proprio chiuso. Da quando frequenta Genio e la SSA invece è sbocciata. Nelle relazioni è diventata meravigliosa. Grandi soddisfazioni per lei e anche per noi della famiglia. Ovviamente noi siamo molto sereni adesso perché la vediamo così e soprattutto siamo sereni per l’ambiente in cui sta crescendo.”

Perché in fondo – al netto delle clamorose e sconcertanti manipolazioni della realtà che abbiamo documentato in questa nostra inchiesta – è questa la voce che più conta, il parere degli allievi del corso Genio, che in quelle aule hanno messo piede, e soprattutto dei loro genitori: ben poco altro potrebbe avere più peso di questo nel determinare con onestà intellettuale il profilo etico di un’organizzazione.




INDIGO FILM PRODURRA’ UNA DOCUSERIE SULL’INCREDIBILE CASO BIO-ON

INDIGO FILM PRODURRA' UNA DOCUSERIE SULL'INCREDIBILE CASO BIO-ON,

Tredici anni di riprese esclusive e centinaia di ore di girato inedite raccolte da Vanni Gandolfo per raccontare l’incredibile storia di Bio-On: la startup che era destinata a diventare la nuova Apple delle bio-plastiche grazie al brevetto di una plastica interamente biodegradabile e di origine biologica aprendo la concreta possibilità di un mondo pulito, ma che è improvvisamente crollata dopo un attacco speculativo e un’inchiesta giudiziaria.

Indigo Film produrrà una docuserie sul caso BIO-ON creata e diretta da Vanni Gandolfo, scritta da Vanni Gandolfo e Vittorio Moroni.

Marco Astorri, emiliano doc, sogna di produrre una bio-plastica che si autodistrugge: sarebbe la salvezza per il nostro Pianeta. È un grafico pubblicitario audace e trascina nell’impresa il suo amico italo-francese Guy Cicognani. I due volano all’Università delle Hawaii di Honolulu dove trovano il materiale perfetto e portano la rivoluzione nelle campagne bolognesi, fondando Bio-On.Un regista, Vanni Gandolfo, accende la telecamera e per oltre tredici anni riprende l’incredibile storia di una start-up Made in Italy diventata improvvisamente un Unicorno in Borsa. Fino a quando scoppia lo scandalo: l’accusa è di aver creato un castello di carta e Marco Astorri viene fermato. Da lì inizia il caso giudiziario, tuttora in corso. In questi cinque anni è successo di tutto, compresa la rinascita di Bio-On. La verità però non è ancora emersa.
Partendo dal materiale inedito raccolto nei tredici anni in cui ha seguito tutta la vicenda, Vanni Gandolfo incontrerà i protagonisti di questa incredibile storia, a partire da Marco Astorri con cui Indigo Film ha un accordo di esclusiva.

Sono partito convinto di raccontare la nascita della start-up che avrebbe cambiato il pianeta, finché non sono stato costretto a fare una doccia fredda, perché qualcuno mi diceva che la realtà era diversa. Non ho fermato la telecamera e ho continuato a girare. Raccontare la realtà è un’impresa molto difficile, ma avere il privilegio di seguire una storia per un tempo così lungo è il sogno di ogni documentarista.

Vanni Gandolfo, autore e regista

Quello che mi ha affascinato immediatamente nella storia di Bio-On è che sembra fatta apposta per essere raccontata dal cinema. Quella di un uomo che prova a realizzare un grande sogno che di colpo va in frantumi. Sarà un processo a stabilire se il protagonista è un mostro o la vittima di una macchinazione? E’ un grande giallo che verrà raccontato con il linguaggio del documentario, dando voce a tutti i protagonisti e scandagliando tutti gli avvenimenti.

Nicola Giuliano, produttore Indigo Film

LA VICENDA DI BIO-ON IN POCHE RIGHE

2007- Viene fondata Bio-On. Tutto parte da un brevetto acquistato da Marco Astorri e Guy Cicognani volando all’università di Honolulu, nelle Hawaii. I due, che hanno da poco fondato una società, hanno un sogno: produrre plastica sostenibile perché interamente biodegradabile in breve tempo. Quel brevetto è l’inizio di Bio-On. Ora si tratta di trasformare il brevetto in un prodotto industriale.
2001- Vengono fatti i primi esperimenti con la plastica sostenibile progettata da Bio-On, replicando Miss Sissy, lampada iconica di Floss.
2014- Bio-On si quota nel listino AIM di Borsa Italiana e comincia la sua incredibile ascesa. Da 5 euro ad azione a 71 euro in soli 4 anni.
2018- Viene presentato il primo stabilimento al mondo in grado di produrre la bioplastica rivoluzionaria di Bio-On. Bio-On capitalizza 1.3 miliardi di euro.
Luglio 2019- Comincia il rapidissimo crollo, con la pubblicazione del report di Quintessential, un fondo attivista, che effettua indagini sulle società che mette nel mirino e le rende pubbliche, assumendo posizioni short (si va in short quando si prevede che il prezzo di mercato scenderà, quindi si prende in prestito l’asset sottostante per venderlo, poi lo si riacquista a un prezzo inferiore per restituirlo al datore del prestito). Il video di Grego viene pubblicato su youtube e in pochissimo tempo genera un’ondata di panic selling e la caduta rovinosa del titolo.
Ottobre 2019- Marco Astorri viene fermato, due mesi dopo l’azienda viene fatta fallire dall’amministratore giudiziario.
2020- Gli asset di Bio-On, “scatola vuota” secondo Quitessential, vengono valutati 96 milioni di euro.
Settembre 2022- Bio-On viene acquisita dal Gruppo MAIP, storico produttore di polimeri torinese, che la fa risorgere convinto della validità del progetto e dei brevetti. Maip annuncia che si avvarrà fin da subito della collaborazione e delle competenze del fondatore di Bio-On Marco Astorri, ancora sotto processo per la vicenda legata al crack dell’azienda.
Oggi- Il percorso giudiziario volto a scoprire la verità sulle accuse mosse da Quintessential è ancora in corso.




Intervista a Fabrizio Vignati

Fabrizio Vignati presenta il suo ultimo libro

Recentemente uscito Public relations. Teoria, metodologia e strumenti di una professione della comunicazione, l’ultimo volume di Fabrizio Vignati* per Guerini Edizioni, lo abbiamo intervistato sul tema di questa appassionante professione.

Nel 1928 con il suo “Propaganda” Edward Bernays aveva già scritto (quasi) tutto, circa il governo dell’opinione pubblica. Quasi un secolo dopo, cosa è cambiato?

Cento anni fa Bernays ha avuto l’indubbio merito di introdurre il termine “public relations” per designare la professione, di razionalizzare una delle modalità ancora oggi più diffuse di praticare le relazioni pubbliche (la sua teoria della “persuasione scientifica”, da lui successivamente ribattezzata “costruzione ingegneristica del consenso”) e di introdurre il concetto di “influencer”, con buona pace di chi crede che sia un’invenzione dell’età dei social network. Un paradigma che, negli ultimi quattro decenni – proprio quest’anno ricorre il 40° anniversario della pubblicazione di Managing Public Relations di James Grunig – si è arricchito di tre elementi fondamentali: le relazioni pubbliche intese soprattutto come funzione manageriale strategica, la comunicazione simmetrica a due vie, che implica l’ascolto attivo degli stakeholder, e, soprattutto, la “excellence theory”, che stabilisce che il valore della comunicazione d’impresa risiede nel condurre l’organizzazione a soddisfare – contemporaneamente – gli obiettivi dei pubblici/stakeholder e gli obiettivi dell’organizzazione.

Sulla base di questa evoluzione storico-teorica, cosa si intende oggi per relazioni pubbliche?

Oggi le relazioni pubbliche non sono più una semplice attività tecnico-operativa della comunicazione, basata prevalentemente su modelli di persuasione unidirezionale: sono, invece, sempre più una disciplina manageriale strategica e socialmente responsabile, costituita dall’insieme delle attività – continuative e pianificate – di comunicazione realizzate da un’organizzazione (sia essa un’impresa privata, un ente pubblico o un’associazione) per creare o consolidare relazioni (tendenzialmente simmetriche) con quei pubblici e quegli influenti che possono agevolare o ostacolare il raggiungimento dei suoi obiettivi e – in generale – per migliorare e/o difendere, in caso di crisi, la propria reputazione.

Nel suo bel volume lei cerca di “mettere ordine” in una materia assai articolata e complessa: cosa potrà trovare il lettore, in più, rispetto alla già copiosa bibliografia in materia?

Il volume cerca di illustrare – a studenti e professionisti della disciplina – che cosa sono le relazioni pubbliche, attraverso un percorso articolato in tre sezioni. La prima è dedicata ai fondamenti teorici, dove – grazie anche ad una disamina storico-concettuale – la professione è inquadrata all’interno del più generale fenomeno “comunicazione” e alla disciplina della corporate communication. La seconda, metodologica, è incentrata sulla pianificazione strategica, proponendo un nuovo modello che – grazie ad alcune recenti acquisizioni americane – cerca di andare oltre il classico Gorel di Toni Muzi Falconi. La terza, infine, è caratterizzata da un’analisi puntuale delle attività tecnico-operative: media relations, event management, sponsorship, digital PR, public affairs, crisis communication, marketing PR, internal PR, financial PR, global PR, sustainability PR, etc.

Le relazioni pubbliche si insegnano ma si praticano anche: il suo più intrigante successo sul campo, e il suo più formativo fallimento…

Per chi si occupa di reputation management, soprattutto in campo finanziario, i successi più grandi sono rappresentati dalle notizie negative riguardanti i nostri clienti che siamo riusciti a non fare uscire, ma che – proprio per questo motivo – purtroppo non si possono raccontare. Un caso di crisis communication di cui vado fiero, invece, è stata la gestione della comunicazione del termovalorizzatore di Torino che – nel 2013 – era stato acceso senza informare la cittadinanza e i media: grazie a una comunicazione trasparente e a un’intensa attività di media relations, nel giro di sei mesi la pressione mediatica si è fortemente ridotta e, in meno di un anno, il grosso dell’opinione pubblica ha iniziato a disinteressarsi alla issue, consentendoci di isolare il fenomeno “nimby”. Oggi – per merito dei colleghi che negli anni hanno continuato a gestire proattivamente la comunicazione con tutti gli stakeholder – nell’auditorium dell’impianto si fanno addirittura spettacoli teatrali, come in quello di Vienna. Il mio fallimento più grande? Tutte le volte che cedo alle insistenze dei clienti e – per evitare dinamiche conflittuali – rinuncio ad attuare fino in fondo i piani strategici così come li ho concepiti. È un grave errore, perché deprime la qualità della prestazione consulenziale e – indirettamente – danneggia anche il cliente.

Il tema della reputazione è quanto mai attuale, ma nel nostro Paese forse solo “a chiacchere”, come dimostrano le recenti crisi di Ferragni, Armani, Dior, etc.: a suo avviso, perché così poche organizzazioni, anche di grandi dimensioni, effettuano un assessment sul rischio reputazionale ed elaborano strategie per mitigarlo?

Quello della scarsa cultura dell’analisi e della mitigazione dei rischi è un tema endemico del nostro Paese (caratterizzato da reti familiari diffuse e da una tradizione di welfare pubblico dai tratti, spesso, assistenziali) e trasversale a vari settori, con esclusione, forse, dell’energy e della chimica – dove alcuni disastri ambientali hanno fatto nascere la cultura del crisis management – e dell’insurance e del banking – dove il risk management ha un radicamento strutturale. Ciò detto, vanno studiate ed estese le best practice di risk analysis dei grandi gruppi e fatta tanta formazione sulla prevenzione delle crisi, a tutti i livelli.

I fenomeni di fake reputation sono sempre più diffusi: “basta che paghino”, pare essere il mantra, per citare un romanzo di Alessandro Golinelli, e le agenzie aprono le proprie porte anche a chi vuole non solo migliorare la propria reputazione ma anche a chi vuole distruggere a tavolino quella degli altri. Che lettura da di questo fenomeno, e quali poterebbero essere gli anticorpi?

Purtroppo esiste un rapporto tra reputazione e comunicazione che rischia di diventare perverso. La reputazione è l’insieme delle percezioni che i pubblici hanno di un’organizzazione nel tempo: cosa faccio, cosa dico e cosa gli altri pensano di me. La comunicazione, quindi, non “crea” la reputazione: al limite la governa, la migliora e – in caso di crisi – la difende. Quella che la comunicazione può creare, invece, è la visibilità (si pensi, ad esempio, al lancio di un nuovo prodotto o alla campagna elettorale di un candidato), che però è una variabile di breve periodo e di superficie. Se si confondono i due piani, per ignoranza o malafede, e si millanta di “creare” – senza sforzi concreti da parte dell’organizzazione – la reputazione, si illudono solo i clienti. Diverso è il caso delle black PR, dove addirittura si arriva a diffondere informazioni negative sui competitor per nuocere alla loro reputazione. In entrambi i casi, tuttavia, le associazioni professionali – come ad esempio FERPI – possono avere un ruolo di primo piano: in termini di formazione al reputation management e, soprattutto, all’etica e alla deontologia, scoraggiando – e sanzionando – le pratiche scorrette.

Un suo consiglio chiave a un giovane professionista, che a 25 anni si affacci adesso, per la prima volta, in questo mondo.

Davanti alle pressanti sfide che abbiamo di fronte – globalizzazione, trasformazione digitale e sostenibilità – le relazioni pubbliche del futuro devono aprirsi sempre di più a tre dimensioni strategiche: la convergenza di comunicazione e relazione nel rapporto tra organizzazioni e stakeholder/pubblici, la dimensione phygital che deve caratterizzare, nello specifico, tutte le azioni di comunicazione/relazione e, infine, l’orientamento alla reputazione, sempre più declinata in ottica ESG. In questo contesto teorico, passione e umiltà sono gli atteggiamenti che, soprattutto per i giovani, possono fare la differenza e spalancare loro le porte del successo.


* Fabrizio Vignati (www.fabriziovignati.it) si occupa da oltre 25 anni di relazioni pubbliche e istituzionali. Fondatore di RepCom, è socio del CIPR di Londra, consigliere nazionale FERPI e membro del comitato scientifico del FERPILab. Professore di Public relations e Financial communication presso diverse università e business school italiane e straniere, è autore dei volumi scientifici “Financial P.R. La comunicazione finanziaria delle società quotate” (Giuffrè, 2014) e “Public relations. Teoria, metodologia e strumenti di una professione della comunicazione” (Guerini, 2024). Giornalista, coltiva da sempre la passione per la scrittura e ha pubblicato un romanzo (“LiebeRatione”, 2009) e un saggio (“Desiderio e dono”, 2011).




Cara e Anthony: una riflessione sull’autenticità degli influencer

Cara e Anthony: una riflessione sull’autenticità degli influencer

Nel frenetico mondo dei social media, dove ogni like e follower può tradursi in visibilità e profitto, la linea tra realtà e finzione si fa sempre più sottile. È il caso dell’influencer Cara, nota per il suo stile unico e i suoi celebri motti “subbito” e “zeetta”, che nel giugno 2024 si è trovata al centro di una vicenda che ha fatto molto discutere. Cara ha scoperto che il suo fidanzato Anthony ha una figlia di 10 anni, anch’essa influencer affermata su TikTok. Tuttavia, la scoperta non è stata solo personale, ma ha sollevato una serie di interrogativi sulla veridicità dei contenuti condivisi online.

La figlia di Anthony, benché giovane, aveva già accumulato un notevole seguito su TikTok grazie ai suoi racconti di vita quotidiana e alle esperienze apparentemente autentiche che condivideva con il pubblico. Tuttavia, alcuni creator hanno iniziato a mettere in dubbio la veridicità delle sue storie, sostenendo che molte di esse sembrassero troppo elaborate o addirittura inventate. Questi dubbi hanno scatenato un dibattito su quanto sia comune per gli influencer, specialmente quelli più giovani o in crescita, costruire una narrazione che possa attirare l’attenzione, anche a costo di esagerare o inventare.

Nel mondo dei social media, dove la competizione è feroce e la visibilità può portare a opportunità economiche significative, la tentazione di “abbellire” la realtà è forte. Spesso, le storie più drammatiche, emozionanti o scandalose attirano il maggior numero di visualizzazioni e commenti, e questo ha portato molti influencer a spingere sempre di più sui confini tra verità e finzione. La vicenda di Cara e Anthony ha messo in luce come questa dinamica possa diventare particolarmente problematica quando coinvolge bambini. La presenza o l’assenza di questi nei video e nelle storie online non solo solleva questioni etiche, ma mette in discussione la responsabilità degli adulti nel proteggere i più piccoli dalle pressioni e dalle aspettative di una vita sotto i riflettori.

Questa vicenda rappresenta un campanello d’allarme su come l’autenticità, un valore tanto proclamato quanto difficile da trovare sui social, possa essere compromessa. Se da un lato gli utenti dei social cercano contenuti che siano reali e relazionabili, dall’altro il sistema premia spesso chi riesce a catturare l’attenzione a ogni costo. La questione sollevata dal caso di Cara e Anthony è dunque più profonda e riguarda non solo il mondo degli influencer, ma anche il modo in cui tutti noi, come pubblico, consumiamo e reagiamo a ciò che vediamo online.

È necessario riflettere su quanto sia comune questa pratica di manipolare o inventare storie, specialmente quando coinvolgono bambini. C’è bisogno di una maggiore consapevolezza da parte del pubblico, che dovrebbe essere più critico e meno disposto a credere ciecamente a tutto ciò che viene presentato come reale. Allo stesso tempo, è essenziale che gli influencer comprendano la responsabilità che deriva dal loro ruolo pubblico e siano più trasparenti nelle loro narrazioni.

In conclusione, il caso di Cara e Anthony ci ricorda l’importanza di mantenere un sano scetticismo nei confronti delle storie che ci vengono presentate sui social media e di promuovere un uso più etico e responsabile di queste potenti piattaforme.