Consigli dagli algoritmi? No, grazie: la campagna di “resistenza” della FNAC
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Negli ultimi decenni il dibattito riguardante l’intelligenza artificiale è incrementato, e quello che preoccupa di più dal punto di vista etico si può riassumere in tre punti fondamentali:
Privacy, raccolta e utilizzo dati;
Sostituzione lavorativa per via dell’automazione;
Rischio di bubble room.
In questo consenso di preoccupazione circa il potere degli algoritmi sulle nostre vite si è inserita l’iniziativa della FNAC, colosso della cultura e l’intrattenimento dal 1954, che in collaborazione con l’agenzia pubblicitaria Publicis Conseil, ha lanciato una campagna di nome “Un-recomended by an algorithm”, finora considerata la prima campagna di “resistenza” all’algoritmo.
Ad ogni tipo di società, evidentemente, si può far corrispondere un tipo di macchina: le macchine semplici o dinamiche per le società di sovranità, le macchine energetiche per quelle disciplinari, le cibernetiche e i computer per le società di controllo. Ma le macchine non spiegano nulla, si devono invece analizzare i concatenamenti collettivi di cui le macchine non sono che un aspetto.
Gilles Deleuze, Controllo e divenire
Macchine, algoritmi e incertezze
Il tipo di macchina che sembra corrispondere maggiormente alla nostra società odierna è quella in grado di imparare da noi.
I nodi privacy
Per quanto riguarda le preoccupazioni legate alla privacy, cedere i dati per il perfezionamento di algoritmi che a sua volta suggeriscono e filtrano dei contenuti è stato un argomento protagonista nelle discussioni riguardanti l’etica e l’informatica giuridica. Infatti, attualmente nel nuovo GDPR pubblicato nel 2018 si regolamenta l’utilizzo dei dati proprio partendo dalla raccolta. Questo perché soprattutto i più sofisticati algoritmi di personalizzazione nonché di profilazione e targettizzazione si basano proprio sui dati che non sempre sono chiaramente visibili. Ovvero, non sempre è possibile ricavare l’informazione sul come e da dove sono stati colti.
AI e disoccupazione
Dall’altra parte, una paura costante e ripetutamente discussa è proprio guidata dal rapporto intelligenza artificiale e disoccupazione tecnologica. Quest’ultimo termine fa riferimento alla percentuale di disoccupazione dovuta ad una sostituzione della forza lavoro per le macchine, sia in modo diretto come, ad esempio, la sostituzione o mancata assunzione di cassieri per via delle macchinette di cassa automatiche, sia indiretto, come la progressiva scomparsa massiva di determinate mansioni. In effetti, considerando uno studio realizzato da Semrush, il 38% di lavoratori vedrà il proprio lavoro automatizzato entro il 2023, mentre il 13% riguarderebbe intere mansioni eliminate per via dell’intelligenza artificiale. Tuttavia, l’IA potrebbe creare almeno il 9% di nuovi lavori entro il 2025.
Guardando la situazione da un punto di vista ottimistico, si prevede che la forza lavoro che si trova a dover cambiare occupazione possa reinventarsi e trovare la vera vocazione non dovendo più fare lavori operativi e ripetitivi. Dall’altra parte, questa riqualificazione non è affatto semplice né fattibile in tempi brevi. Il che significa che per almeno un periodo di tempo ci si troverà con una capacità produttiva più alta rispetto all’effettivo potere d’acquisto della popolazione.
Fino a qui questi punti sembrano riguardare soltanto i numeri, i dati, il tasso di disoccupazione, produzione, offerta, domanda, ecc.
Il rischio di restare impantanati dentro una bubble room
Il terzo aspetto riguarda invece il rischio per gli utenti di cadere dentro una bubble room, una stanza che gira all’infinito in un loop creato dalle proprie scelte, dove l’utente si troverà a guardare sempre e solo contenuti che sono “suggeriti per lui” perché compatibili con i suoi interessi, senza avere la minima tentazione di uscirne.
Inoltre, un dubbio emerge proprio dalla base. Possono i dati rispecchiare correttamente la realtà? La risposta è no, i dati non sono altro che una descrizione semplificata e a tratti riduttiva della realtà. Parlando ad esempio delle scelte degli utenti, il fatto che siano compatibili con quello che l’algoritmo ritiene che può essere gradito dal consumatore non significa che effettivamente esso non sia propenso a gradire altro tipo di contenuti o magari provare altre categorie che non sono state prese in considerazione in base ai dati.
Fnac e la campagna contro gli algoritmi
FNAC e Publicis Conseil hanno descritto la loro campagna come “la prima campagna anti-personalizzazione che scoppia la bolla di raccomandazioni”. L’obiettivo principale di questa campagna è affermare la posizione di FNAC come un brand che ci tiene a diffondere la pluralità culturale e fare una denuncia aperta al confinamento che, secondo l’azienda, gli algoritmi provocano nei loro clienti.
La strategia utilizzata è stata disegnata in base a tre canali:
Tecnico: sulla base dei dati dei loro consumatori, FNAC ha applicato una strategia opposta alle logiche di profilazione, creando un algoritmo che suggerisce al consumatore contenuti che hanno soltanto un 2% di compatibilità con l’utente, generando una tendenza all’acquisto opposta basata sempre sui dati;
Online: La compagnia ha adottato anche un meccanismo di pubblicazione dei contenuti su Twitter che va “contro-tendenza”. Ovvero, un bot condivide tweets che hanno un contenuto culturale opposto a quelli che sono gli hashtag del momento e anche contrari a ciò che potrebbe creare più public engagement;
Pubblicità tradizionale: La campagna è stata anche diffusa tramite canali off-line, con manifesti distribuiti per tutto il paese che denunciano apertamente i bias degli algoritmi e esaltano l’importanza dei propri lavoratori al di sopra delle raccomandazioni dell’algoritmo, ricordando agli utenti che un algoritmo può misurare le compatibilità ma non necessariamente l’utente.
I risultati della campagna sono stati notevoli: circa 1 milione di impressioni, +35% di tasso di engagement in confronto con le classiche campagne targettizzate, e un click through rate 3 volte più alto delle precedenti campagne. La campagna è ancora in corso e sembra che la denuncia aperta del brand francese abbia avuto un certo riscontro, ma soprattutto si spera abbia provocato l’aumento della consapevolezza da parte degli utenti riguardo alle proprie scelte di consumo, almeno per quanto riguarda i prodotti culturali.
La riflessione
Quando ogni suggerimento di un algoritmo sostituisce il consiglio di un commesso dotato di qualifiche e conoscenze, non solo si crea un effetto economico dovuto alla potenziale perdita del posto di lavoro del commesso stesso, ma si rischia soprattutto di indurre il consumatore a non uscire mai dalla sua bubble room.
Tornando alle parole di Delouze citate all’inizio di questo articolo, bisogna analizzare gli effetti concatenati che le macchine provocano all’interno della nostra società: ciò significa non analizzarle soltanto come strumenti nettamente tecnici, bensì come parte della dinamica sociale. Tuttavia, nonostante i rischi siano diversi, anche le potenzialità dell’intelligenza artificiale possono essere in tante. L’IA è uno strumento, l’utilizzo e le finalità con cui viene utilizzata ne determinano il risultato.
Come viene influenzata la costruzione della nostra identità in rapporto al mondo virtuale?
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CAROLINA: La prima questione che mi viene in mente è che gli adolescenti dell’ultima generazione sono nati con uno smartphone in mano. La società è cambiata da questo punto di vista, quindi sono cambiate le interazioni tra le persone. Per esempio, magari precedentemente ci si basava solamente sull’incontro, ci si faceva un’idea della persona conosciuta e la si reputava esaustiva. Ora c’è un’amplificazione dell’identità, di pensieri e di sfaccettature che prendi in considerazione osservando l’io virtuale degli altri. Anzi, probabilmente ci si sofferma solo su quello, in modo superficiale. Consideriamo le persone come se fossero il loro profilo. Lo stesso accade per un colloquio di lavoro: ci si conosce tramite i profili, quindi tramite l’immagine che comunichiamo. Forse siamo talmente abituati ad osservare immaginari e profili che sappiamo prontamente categorizzare e riconoscere ciò a cui dare valore. Mi chiedo quanto questo, però, possa essere una capacità e quanto, invece, possa essere un’azione superficiale. Penso che le persone siano diventate quasi delle vetrine: in continua esposizione.
MATTIA: Forse la nostra comunicazione ormai è ragionata sapendo che c’è un pubblico costante. Una volta, magari, quando un adolescente iniziava a strutturare la propria identità, prendeva spunto da un artista, un cantante, una modella, un film, un atleta o ciò che preferiva, assemblava il tutto e mano a mano costruiva la sua identità. Lo stesso forse accade anche oggi, però, penso che ci sia una differenza nel processo interiore: precedentemente ci si manifestava a distanza di tempo, dopo aver metabolizzato le proprie scelte, averle vissute. Ora, probabilmente, c’è una comunicazione istantanea del cambiamento, tramite il proprio profilo. Di conseguenza, si ricevono subito dei feedback, quando magari non si è ancora pronti. Le persone tendono a recepire e notare subito i cambiamenti. Se il feedback è negativo, si rischia di essere prontamente sfiduciati, bloccati o incerti, magari pensando che non sia la strada giusta. Questo meccanismo dell’esposizione e del giudizio istantaneo può generare insicurezza in una fase della vita umana che è già prepotentemente fragile. Mi viene da domandare se i dispositivi aiutino effettivamente l’adolescente a comunicarsi meglio rispetto al passato, o se al contrario lo frenino creando pressione emotiva.
CAROLINA: Questo pensiero mi ha sempre fatto riflettere su chi fossi realmente, su chi io stia diventando. Questa velocità di cambiamento, di continuo feedback, di passi avanti e indietro non mi fa rendere conto di chi sono. Il mio profilo cambia costantemente, lo si nota visivamente all’istante. Percepisco instabilità, incertezza nel comunicare, poca libertà di linguaggio per paura di uscire da quelli che sono i canoni riconosciuti come giusti nel mondo virtuale. Potrebbe essere che il meccanismo del feedback e dell’omologazione di profili crei negli adolescenti una forte ansia e pressione, quasi come fosse un lavoro costante? Si nota come tanti ragazzi a fine giornata cerchino il modo per staccare, disconnettersi e sentirsi senza filtri, più liberi. Una ricerca terapeutica del tempo libero. Allo stesso modo sento che il disconnettersi sia un modo di vivere la propria dimensione del privato, un tema che nel contemporaneo è molto difficile da discutere. Per esempio, possiamo affermare che esista il privato nel momento in cui siamo costantemente connessi in pubblico?
MATTIA: Il privato è sicuramente un tema molto delicato. Siamo sempre in dialogo con il nostro pubblico, pensiamo in funzione di esso, ci sentiamo osservati in ogni nostro gesto, persino camminando in strada. Forse la nostra identità ha assunto il ruolo di un lavoro. Studiamo costantemente profili e comunicazione di altri individui, aziende o brand. Siamo diventati abili nel riconoscere gli schemi, ma forse deboli nel metabolizzare i feedback indesiderati, di conseguenza forse tendiamo ad omologare noi stessi rientrando in categorie che troviamo funzionanti con il pubblico. Tuttavia, questa presenza costante di audience, ci toglie il privato, quei momenti con noi stessi, di vuoto, di noia, di spunti, di scoperte e approfondimenti. Se non ce lo toglie, forse ce lo condiziona pesantemente. Quanto siamo realmente condizionati nel nostro agire da ciò che vediamo nei profili degli altri?Potrebbe essere che un io virtuale, nel comunicare la sua identità, stia allo stesso tempo comunicando ciò che pensa di essere, ciò che vorrebbe essere, ciò che gli altri pensano che sia e ciò che vorrebbe che gli altri pensassero che sia?
CAROLINA: Io penso che siamo fortemente influenzati da ciò che vediamo: vedere il video di un concerto su TikTok che ci sembra bellissimo e provare quasi invidia nel pensare che noi non lo stiamo vivendo, che non siamo all’altezza. Un meccanismo di continua rincorsa e competizione. Ma se fosse solo un’impressione? Se fosse solo bravura nel creare contenuti e far apparire tutto troppo bello? Come nella sfera affettiva. Molto spesso ci si affeziona all’immagine di un profilo, per poi scoprire che è solo una minima parte dell’identità di quella persona. O come quando scambiamo la credibilità con il numero di follower. Se ci stessimo stancando di questi meccanismi? Se stessimo cercando nuovamente più umanità e più privato per la nostra sfera intima e sensoriale?
MATTIA: Anche io penso che siamo influenzati da ciò che vediamo, soprattutto pensando ad un algoritmo che ci fa diventare quasi narcisisti. Non a caso un nuovo concetto nelle scienze sociali è quello di narcisismo digitale: tramite le nostre azioni virtuali forniamo dati; tramite questi, l’algoritmo restituisce solo tutto ciò che ci piace, all’ennesima potenza; rafforza il nostro pensiero, la nostra convinzione, estremizzandola. Allo stesso tempo, questa piena luce su di noi, oscura tutto il resto, ci chiude e non ci fa notare che esiste dell’altro. Da questo punto di vista, siamo veramente all’interno di un società pornografica? Tuttavia, penso che la via della consapevolezza sia l’ideale per conoscere un fenomeno, studiarlo e poter agire liberamente all’interno di un meccanismo sociale.
CAROLINA: Un ultimo aspetto che mi piacerebbe affrontare, tornando all’adolescente e alla costruzione della sua identità, è quello della conoscenza del proprio corpo e della sessualità. Se da un lato questa perenne connessione ci crea dei disagi importanti e dei disturbi d’ansia, dall’altro ci permette di condividere delle tematiche che un tempo sarebbe stato molto difficile affrontare. La scoperta del proprio corpo e della propria sessualità è sempre un passaggio critico per un adolescente, soprattutto in una cultura fortemente cristiana in cui ci si sente costantemente colpevoli.
MATTIA: La condivisione di tematiche ha permesso alle persone di sentirsi meno sole e meno sbagliate nel compiere azioni che per un essere umano possono essere considerate “normali”? Penso alla sessualità, al proprio corpo, ai diritti nel mondo del lavoro e tutta una serie di valori che la nuova generazione ha incentivato ad osservare, creando comunità di valori condivisi. Quindi, come è influenzata la costruzione dell’identità nel mondo virtuale? Quali sono i pro e i contro rispetto all’epoca pre-social network? Qual è il futuro dell’io virtuale e del profilo individuale?
Realtà aumentata e realtà virtuale per insegnare le materie letterarie e il latino, “ecco come faccio”. INTERVISTA al professor Del Carlo
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La didattica digitale ormai è una realtà a scuola, in questi anni, anche a causa dell’emergenza pandemica, abbiamo visto un forte incremento di strumenti e piattaforme digitali. Nuovi scenari in questo ambito possono essere rappresentati dall’utilizzo di strumenti innovativi quali la realtà aumentata e virtuale, ne abbiamo parlato con il Professor David Del Carlo, docente di latino e materie letterarie presso il Liceo Statale “C. Lorenzini” di Pescia, formatore ed esperto di didattica multimediale.
Professor Del Carlo, come riesce a conciliare l’utilizzo di tecnologie digitali, penso in particolare alla AR e alla VR, con le materie letterarie e addirittura con il latino?
Devo dire che l’uso di strumenti di tecnologie digitali in fondo prescinde dalle discipline insegnate, nel senso che si tratta di grandi contenitori che gli studenti possono riempire con i contenuti, con gli approfondimenti, con le ricerche svolte su qualsiasi argomento. Quindi spetta semmai al docente scegliere, di volta in volta, quali parti del curricolo si prestino meglio ad una reinterpretazione in chiave multimediale. Ad esempio lo scorso anno i miei studenti del terzo anno del liceo scientifico hanno realizzato un e-book a fumetti con i personaggi Lego sull’Anfitrione di Plauto, inserendo nel lavoro anche dei brevi video in stop motion. Quindi è chiaro che dietro ad un artefatto digitale di questo tipo, ci sia intanto una lettura molto approfondita del testo, un lavoro di analisi, un lavoro di sintesi e poi, soprattutto, un approccio transmediale che riesce ad attualizzare un testo di oltre 2000 anni fa. Per quanto riguarda nello specifico la realtà aumentata e virtuale, dallo scorso anno ho introdotto, nella classe in cui insegno italiano, le “recensioni al cubo” che uniscono al lavoro di comprensione del testo, che è quello che facciamo comunemente, uno strumento sorprendente quale la realtà aumentata, con un approccio alla letteratura che è insieme rigoroso ma anche ludico.
A maggior chiarimento per i nostri lettori, ci spiega la differenza tra realtà aumentata e realtà virtuale?
Effettivamente sono due paradigmi diversi che spesso anche dal punto di vista giornalistico vengono confusi. Abbiamo la realtà aumentata nel momento in cui noi utilizziamo uno device mobile, vale a dire uno smartphone o un tablet, inquadriamo un elemento reale, quale può essere ad esempio un’immagine, e a quel punto ne scaturisce, ad esempio, un video, un audio oppure un’altra immagine. Quindi, in questo caso, non perdiamo il contatto con la realtà che ci circonda, ma semplicemente abbiamo una visione della realtà, appunto, aumentata da questi contenuti. Invece la realtà virtuale è un altro paradigma, significa immergersi completamente in uno scenario virtuale a 360°, quindi in un ambiente tridimensionale, ed essere lì all’interno di questo spazio. Per fare questo è necessario l’utilizzo di visori per la realtà virtuale.
Spesso l’approccio al digitale rappresenta un ostacolo per molti docenti. Quale formazione è necessaria per un insegnante per riuscire a gestire gli strumenti digitali al meglio, compresi quelli di realtà aumentata e virtuale?
Innanzitutto direi che è necessario liberarsi di alcuni pregiudizi e forse anche di alcuni timori. Gli strumenti digitali sono, appunto, soltanto degli strumenti che ci consentono di motivare e coinvolgere gli studenti. Non è nemmeno necessario diventare esperti di App o Web tool, perché basta conoscerne le funzioni di base, in modo da poterle illustrare agli studenti e poi loro faranno il resto. I ragazzi che ci troviamo di fronte hanno una spiccata predisposizione ad apprendere, anche per prove ed errori, il funzionamento di questi strumenti. Non nascondo che il più delle volte i miei studenti, in pochissimo tempo, diventano molto più bravi di me e riescono a sorprendermi con le loro soluzioni. Per questo mi sento di rassicurare i colleghi e dirgli che dobbiamo considerare la tecnologia come nient’altro che un’altra freccia al nostro arco per poter svolgere la nostra professione con un approccio più accattivante, che nulla toglie al rigore e al dovuto approfondimento delle nostre discipline. Per quanto riguarda in particolare la formazione, ci sono moltissime iniziative e risorse in rete, ad esempio basta dare un’occhiata al portale “scuola futura” del ministero dell’Istruzione e del Merito e lì scegliere fra numerosi percorsi che sono del tutto gratuiti e tenuti da formatori di altissimo livello.
Con l’AR e la VR gli studenti non sono solo soggetti passivi, ma possono essere attori attivi nella progettazione e realizzazione di progetti didattici. Ci spiega come?
Mi preme dire che la centralità dello studente è sicuramente alla base di qualsiasi approccio che si voglia definire innovativo. Io cerco di realizzarla a vari livelli. Intanto nella fase di progettazione dell’attività ci si può giovare del contributo delle idee degli studenti in quello che potrebbe essere definito come una specie di brain storming collettivo. Nella fase di realizzazione, invece, nella quale il ruolo del docente è quello di un tutor, di un mentore, di un regista, accolgo sempre volentieri i suggerimenti dei ragazzi per migliorare l’idea di partenza. Da questo punto di vista bisogna essere molto flessibili. Va poi evidenziato che durante la realizzazione del compito autentico, all’interno del gruppo di lavoro, emergono l’individualità e le risorse personali mediante le quali ogni studente contribuisce al successo del proprio gruppo di lavoro. Questa, dal mio punto di vista, potrebbe tranquillamente essere identificata come quella che l’Unione Europea definisce competenza imprenditoriale, intendendo l’espressione della propria creatività e del pensiero divergente. Infine nell’ultima parte dell’attività, rappresentata dalla restituzione finale del lavoro o del debriefing, ogni studente è protagonista perché spetta a lui illustrare al docente e ai propri compagni il lavoro svolto.
Lei alterna varie metodologie didattiche, come l’apprendimento cooperativo o la classe capovolta, con l’uso di strumenti innovativi quali i visori digitali che permettono una didattica immersiva, in pratica quella che vien chiamata la blended education. Ci aiuta a capire come realizzare queste attività?
A mio avviso l’importante è la cornice di ordine pedagogico e metodologico in cui noi vogliamo inscrivere l’attività. In altre parole non si può pensare che siano sufficienti gli strumenti per innovare la didattica. Fra l’altro, in questo periodo, le scuole di tutta Italia sono chiamate a elaborare la progettazione di aule e di laboratori innovativi per il piano scuola 4.0. Alla base di questa progettazione ci deve essere un’idea ben definita del nostro fare scuola che vada ad identificare gli approcci metodologici che si vogliono adottare, il tipo di didattica che si vuole introdurre e il contributo che ogni disciplina può offrire per realizzare il cambiamento. Soltanto dopo aver chiarito questi aspetti si potranno progettare degli spazi e immaginare gli strumenti più idonei. Ad esempio se vogliamo adottare il cooperative learning o il jigsaw dovremo avere a disposizione dei banchi modulari, invece per la didattica immersiva avremo bisogno di visori per la realtà virtuale, per la registrazione di podcast e di video, poi, saranno necessari una videocamera e dei microfoni professionali, e magari un telo verde per sfruttare la tecnica del chroma key, e così via. Non dimenticherei di includere in questo pacchetto anche l’abbonamento a delle web app che sono molto utili per la didattica ma che hanno un costo di cui, a mio avviso, devono farsi carico le scuole e non i singoli docenti, perché sono, al pari di dizionari e cartine geografiche, gli strumenti di lavoro del nuovo millennio.
Un’ultima domanda, il mondo del digitale è un mondo in continua evoluzione che offre continui spunti per realizzare nuovi approcci metodologici, ci dice quali sono i suoi prossimi obiettivi?
La prossima sfida è il metaverso, in modo particolare immaginarlo come un eduverso, ovvero uno spazio educativo virtuale che possa ospitare non soltanto le realizzazioni degli studenti, come ad esempio mostre ed eventi di vario tipo, ma che arrivi a configurarsi come un luogo d’incontro fra studenti di qualsiasi parte del mondo, ma direi anche tra docenti. È vero che siamo soltanto agli inizi, però quello che si sta prospettando a me sembra molto promettente.
Un’ultima battuta, si parla molto di ambienti di apprendimento, ma oggi l’ambiente di apprendimento è anche quello virtuale. È giusto?
Certamente, infatti il metaverso lo intenderei proprio in questi termini. Non è un luogo dove chiunque possa entrare, è un eduverso, cioè un luogo in cui gli studenti possono entrare e realizzare dei prodotti da mostrare, successivamente, a studenti di tutto il mondo. È un’idea che va oltre il metaverso attuale, anche se in realtà il metaverso è soltanto agli inizi. Questa visione è qualcosa di veramente nuovo ma credo che la prospettiva sia davvero molto allettante.
Tragedia pronosticabile. Tutti i campanelli d’allarme che abbiamo (scientemente) ignorato sulla crisi climatica
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Entro il 2050 assisteremo a “conseguenze ambientali drammatiche”. A formulare questa sorta di profezia è Science, tra le più autorevoli riviste scientifiche esistenti che, citando lo studio di un gruppo di giornalisti investigativi del 2015, squarcia il velo sulla crisi climatica e ci mette con le spalle al muro: è ormai scientificamente provato che i disastri ambientali siano attribuibili all’uomo e i segnali, come emerge dalla ricerca sopracitata, c’erano tutti, ma abbiamo scelto di ignorarli per decenni. Come d’altronde ha fatto Exxon, la più importante compagnia petrolifera al mondo, citata nello studio per gli impatti che l’estrazione di combustibili fossili hanno sul riscaldamento globale.
Stando all’inchiesta redatta dal gruppo di ricerca dell’Università di Harvard e dell’Istituto Potsdam per la ricerca sull’impatto climatico, team guidato da Geoffrey Supran che ha stilato il lavoro, Exxon non solo saprebbe fin dagli anni Settanta quanto siano dannosi i combustibili fossili per l’ambiente, ma avrebbe addirittura cercato di ridimensionare il dibattito sull’argomento, così come tante altre società aderenti all’associazione di categoria americana di gas e carburanti.
La correlazione tra erosione ambientale e gas ha smosso persino la famiglia Rockfellers, a cui appartiene Exxon Mobil, che ha tentato per anni di sensibilizzare la società sulla questione climatica, ottenendo come risultato che la compagnia finanziasse, secondo Greenpeace, progetti di ricerca per un valore di trenta milioni di dollari a cura di think thank e ricercatori che formulassero tesi scientificamente opposte. A oggi ancora senza risultati, ma intanto la Terra si avvia verso un punto di non ritorno, avvicinandosi sempre più alla temperatura media globale di +1,5% C° e abbandonando una “condizione climatica sicura”.
Ma davvero la crisi climatica non era pronosticabile? È realmente comparsa dal nulla nelle agende dei governi mondiali, cogliendoli totalmente impreparati? Stando a Science no, dal momento che Exxon era in possesso di resoconti dettagliati da decenni e anche i capi di Stato avrebbero potuto cogliere la gravità della situazione ambientale almeno trent’anni fa. Riavvolgere il nastro sui momenti salienti del dibattito climatico può allora aiutare a capire che le sorti del pianeta sono state lastricate per anni di tante buone intenzioni, ma senza best practices.
Dalle ipotesi alle prime teorie anni Settanta: da quando si può parlare di crisi climatica?
La Svezia fu pioniera sull’ecologia secoli prima di Greta Thunberg. Svante Arrhenius, premio Nobel per la fisica nel 1903, fu infatti il primo scienziato a citare nel 1896 il riscaldamento globale, proponendo una relazione fra la concentrazione di anidride carbonica e la temperatura atmosferica. Ci volle però quasi un secolo per dare autorevolezza alla sua teoria, visto che i livelli di CO2 furono confutati più volte negli anni dagli scettici del riscaldamento globale.
Solo dal 1970 gli scienziati capirono che non solo le previsioni sul clima di quasi un secolo prima fossero azzeccate, ma che erano talmente scontate da averle avute sempre sotto il naso: andavano solo dimostrate, come suggerì persino Alan Buis del Jet propulsion laboratory della Nasa, citando il vecchio proverbio statunitense “the proof is in the pudding”, per spiegare che si può davvero misurare la qualità di qualcosa solo una volta che è stato messo alla prova.
Non è un caso che Exxon si sia interessata agli effetti dei combustibili fossili dagli anni Settanta, perché è da allora che cambiò anche la percezione delle persone sulla crisi climatica, un’epoca preceduta dalla cultura new age che, attraverso le proteste di attivisti che oggi ci sembrano tanto démodé, voleva dare una nuova centralità all’ambientalismo nel dibattito pubblico. Una scossa in quegli anni arrivò dal libro “The Doomsday Book: Can the World Survive?” del giornalista Gordon Rattray Taylor (in Italia è conosciuto come “La società suicida: requiem per un pianeta infetto”), che affrontò in chiave sociopolitica come le scelte industriali degli Stati Uniti stessero influenzando anche l’ecosistema degli altri continenti.
Nel terzo capitolo in particolare, “Età glaciale o morte da calore?”, l’autore citò il livello di assottigliamento raggiunto dai ghiacciai in Alaska, il fenomeno del disboscamento della tundra in Canada e in Russia e persino le migrazioni di molte specie di animali europei verso la Scandinavia. “Nel 1953 l’ufficio meteorologico statunitense ha rilevato che quaranta dei quarantotto Stati nel periodo tra il 1931 e 1952 avevano temperature annuali oltre il limite consentito”, si legge, collegando il fenomeno anche all’innalzamento del clima in Norvegia.
Sono solo alcune delle avvisaglie che gli scienziati che lavorarono per Exxo Mobil presero in considerazione durante i progetti di ricerca ambientale per cui erano stati ingaggiati dalla compagnia petrolifera, permettendo al marchio di realizzare già dal 1977 delle previsioni sui rischi catastrofici a cui stavamo andando incontro. Previsioni catastrofiche, certo, ma non irrecuperabili perché all’epoca la temperatura terrestre non aveva ancora iniziato l’ultimo gradino della cosiddetta mazza da hockey, che anche se formulata nel 1850 dallo scienziato Michael E. Mann, solo negli anni Settanta-Ottanta divenne il simbolo della brusca inversione delle temperature globali del XX secolo.
Non passò molto tempo prima che il mondo accademico contribuisse al dibattito. Nel 1970 Carroll Louis Wilson, un professore di management del Massachusetts Institute of Technology, organizzò infatti una conferenza nel campus del Williams College che incluse centinaia di esperti di meteorologia, chimica atmosferica, oceonografia, biologia, ecologia, fisica, ingegneria, economia, diritto e scienze sociali. Lo scopo era studiare con un approccio multidisciplinare gli effetti climatici, realizzare un modello di monitoraggio e analizzare le conseguenze del cambiamento climatico, suggerendo l’adozione di principi internazionali come “azioni correttive” rispetto a quelle passate. Il risultato fu lo “Study of Critical Environmental Problems” (SCEP) del 1970 che, insieme allo “Study of Man’s Impact on the Climate” (Smic) del 1971, fu il testo preparatorio alla Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano tenutasi nel 1972. A Stoccolma ovviamente.
Dalla ricerca accademica alle Conferenze sul clima
Trascorse quasi un secolo dalle teorie di Svante Arrhenius, e nel 1988 anche l’astrofisico e climatologo James Hansen, a capo del Goddard Institute for Space Studies della NASA, avvertì la Commissione del Senato degli Stati Uniti che la mole di dati emersi dalle ricerche e dalle indagini degli esperti, forse, meritava più attenzione: le simulazioni Nasa ribadivano che non solo il cambiamento climatico stava avvenendo, ma che aveva proporzioni talmente considerevoli da poter causare eventi meteorologici estremi con una certezza del novantanove per cento. Hansen, come i suoi predecessori, ammise che il surriscaldamento globale era causato da azioni umane, una dichiarazione che portò nel 1988 all’istituzione dell’Intergovernmental panel on climate, gruppo intergovernativo delle Nazioni unite creato per raccogliere quante più informazioni possibili sul cambiamento climatico.
Ormai era innegabile che il pianeta avesse un problema e, visto che oltre alle temperature anche il dibattito si accendeva sempre più, negli anni Novanta i capi di Stato ammisero finalmente l’esistenza di una crisi climatica, da affrontare con politiche globali e approcci condivisi. Un’ammissione che portò nel 1992 al primo Summit della Terra di Rio, a cui aderirono 172 Paesi, con una risonanza mediatica gigantesca.
L’establishment mondiale, dopo cent’anni di dubbi e negazionismi, aderendo al Summit della Terra ammetteva pubblicamente che il pianeta non aveva risorse inesauribili e che bisognava discutere quanto prima sul futuro della nostra “casa”. E nei fatti lo fece: gli Stati riconobbero in quell’occasione persino il legame tra sostenibilità ambientale e disuguaglianze sociali, che si impegnarono a contrastare con tre accordi non vincolanti a livello internazionale (l’Agenda 21, la Dichiarazione di Rio, la Dichiarazione dei principi per la gestione sostenibile delle foreste) e due Convenzioni giuridicamente vincolanti (la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici, che si può considerare l’antesignana dell’accordo di Parigi, e la Convenzione sulla diversità biologica), gettando così le basi per uno sviluppo che preservasse l’equilibrio terrestre.
Come ci ha insegnato Greta Thunberg, però, non sono i «bla bla bla» o l’inerzia a fare la differenza, e prima di lei lo aveva capito un’altra giovane che non rimase solo a guardare. L’euforia degli accordi sul clima fu spazzata dalle parole di Severn Cullis-Suzuki, la cosiddetta “bambina che zittì il mondo per sei minuti”, che prese parola al Summit come portavoce di un gruppo di teenager impegnati nella sensibilizzazione delle classi dirigenti rispetto alla crisi ambientale tramite “ECO” (The Environmental Children’s Organization). Cullis-Suzuki già all’età di nove anni aveva fondato infatti un gruppo di bambini interessato a sensibilizzare i propri coetanei verso le problematiche ambientali. Nel suo lungo discorso, Suzuki sostenne che: «I genitori dovrebbero essere in grado di consolare i propri figli dicendo ‘andrà tutto bene, non è mica la fine del mondo e faremo tutto ciò che possiamo. Penso che non possiate più dircelo. Siamo ancora tra le vostre priorità?».
Il mondo cambia volto con la crisi climatica, così come le economie mondiali
A dimostrazione che i governi mondiali presero poco seriamente l’appello di quella bambina, ci vollero solo due anni a ratificare la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici, che venne approvata nel 1994. Un testo che presentava però un ulteriore sgravio di responsabilità: la parte saliente del Trattato di Rio stabiliva che, ammesso ci fosse la volontà di tutti i Paesi di contrastare la crisi climatica, solo le grandi potenze mondiali avrebbero avuto in realtà l’obbligo politico di ridurre le emissioni inquinanti, in quanto la produzione di gas a effetto serra dipendeva principalmente dalle trentotto potenze mondiali dell’epoca. Agli altri Paesi in via di sviluppo fu lasciata invece libera scelta su quali azioni mettere in campo per contrastare la crisi climatica: tra questi c’erano Cina e India, allora ignare di poter diventare un giorno superpotenze mondiali.
Il testo conteneva poi un altro principio interessante, quello della “giustizia climatica”: i Paesi che, nel generare emissioni, avevano beneficiato fino ad allora dello sviluppo economico, si sarebbero dovuti impegnare a condividere i propri benefici con i Paesi in via di sviluppo.
Un’ulteriore conferma della libertà entro cui si aggiravano i Paesi nell’applicazione dei trattati ci fu ancora nel 1997, quando gli Usa si opposero alla non sottoscrizione del protocollo di Kyoto. Il provvedimento stabiliva infatti che gli obblighi etici depositati a Rio nel 1992 diventassero legali, con veri e propri obiettivi che tutti i Paesi aderenti avrebbero dovuto raggiungere con policy sostenibili. Una condanna per gli Stati Uniti, che allora producevano il venticinque per cento delle emissioni globali, mentre il protocollo imponeva alle superpotenze una riduzione dei gas effetto serra del cinque per cento rispetto agli standard del 1990
I ritardi nell’applicazione dei trattati ebbero effetti rovinosi per l’ambiente, non solo perché ratificati mentre le condizioni climatiche continuavano a mutare, dimostrandosi inadeguati, ma soprattutto per le conseguenze inaspettate che si crearono nello scacchiere geopolitico: i Paesi che fino al 1992 erano in via di sviluppo, nel 2005 cambiarono volto e cominciarono ad aspirare al ruolo di potenze economiche.
Il peso del mondo sulle spalle degli Usa
È chiaro che la crisi climatica non dipenda solo dalle politiche di estrazione del greggio statunitensi, ma è anche vero che gli Stati Uniti sono il maggior produttore di petrolio al mondo (estraggono il diciassette per cento della risorsa estratta sul Pianeta). L’American petroleum institute, la principale organizzazione professionale statunitense nel campo dell’ingegneria petrolchimica e chimica, è stata una delle prime associazioni commerciali a orchestrare campagne di disinformazione e negazionismo sul clima, arrivando a spendere dal 1998 a oggi oltre novantotto milioni di dollari in attività di lobbying per sponsorizzare il negazionismo climatico.
Ci fu un’occasione in cui gli Usa, però, cambiarono strategia e tentarono di allinearsi agli accordi sul clima delle Nazioni unite: nel 2011 affermarono di voler ridurre le emissioni di carbonio e ci riuscirono, seppur in minima parte. Il momento fu particolare, perché il 2011 secondo il nuovo World energy outlook 2011 dell’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) sulle emissioni globali di anidride carbonica (CO2) da combustibili fossili, fu l’anno in cui fu raggiunto il record storico di estrazioni di 31.6 miliardi di tonnellate. Una parentesi breve, perché nel 2015, durante la Cop21 di Parigi, gli Usa tornarono a voltare le spalle al Pianeta su cui reggono i loro business. Da sottolineare che il summit si svolse a dicembre 2015, e un anno dopo fu ratificato il celebre Accordo di Parigi, da cui gli Usa uscirono (sotto la presidenza di Trump) per poi rientrare nel febbraio 2021.
La Cop21, di nuovo, mostrò una debolezza sistemica: sebbene furono coinvolti tutti i governi mondiali, nel testo emergeva come fosse di nuovo lasciata libertà ai governi di fissare i propri “goal” rispetto al grado di sviluppo economico e progresso tecnologico che intendevano raggiungere, rispettando un principio di flessibilità. Inoltre, anche in questo caso non si parlava di obblighi legalmente vincolanti per i Paesi aderenti, anche se erano annessi nell’Accordo di Parigi degli obblighi legali per monitorare l’andamento delle riduzioni delle emissioni e condurre rapporti periodici di cui condividere pubblicamente gli esiti.
Anche il pacchetto 2021 “Fit for 55” proposto dalla Commissione europea, ci impegna entro il 2050 a raggiungere zero emissioni nette: ciò vuol dire che la quantità di emissioni gas effetto serra prodotte deve diventare uguale alla quantità di gas serra eliminati dall’atmosfera con mezzi naturali come alberi, oceani o da tecnologie alternative introdotte dall’uomo. Tanti buoni propositi che però si scontrano con una situazione in costante peggioramento.
I 18 più clamorosi casi di greenwashing del 2022
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I 18 clamorosi casi di greenwashing del 2022 hanno portato a un fenomeno noto come silenzio verde, in quanto alcune aziende minimizzano le proprie credenziali ecologiche per paura di essere prese di mira. Con l’intensificarsi dei controlli, anche i gruppi ambientalisti sono stati chiamati in causa per il greenwashing.
Proponiamo ai lettori di GreenPlanner l’articolo 18 brands called out for greenwashing in 2022, realizzato da Robin Hicks per la testata Eco-Business, in cui si elencano alcuni clamorosi casi di falsa informazione ambientale, che coinvolgono anche organizzazioni animaliste. In Italia, è scoppiato per esempio il caso Fileni – azienda, certificata BCorp, che opera nel settore della produzione di carne bianca biologica – a cui Report contesta invece le pratiche produttive.
Secondo la onlus Lav che ha inviato alla trasmissione di Rai3 delle immagini, non si sarebbero visti, per diversi giorni consecutivi, animali fuori dai capannoni: cosa che mette in discussione la definizione di aninmali allevati a terra promossa dal brand.
Sotto accusa anche il trattamento degli animali e gli aspetti relativi all’impatto ambientale degli allevamenti intensivi; ora la parola passa a Fileni per le sue spiegazioni… staremo a vedere cosa accadrà.
18 clamorosi casi di greenwashing del 2022
Il 2022 è stato un anno in cui, per la prima volta, i decisori politici hanno preso in seria considerazione alcuni, clamorosi, casi di disinformazione ambientale.
Per la prima volta, le aziende si sono trovate in guai seri dal punto di vista legale per aver esagerato o falsificato le proprie credenziali di sostenibilità, il che potrebbe spiegare perché quest’anno alcuni marchi hanno deciso di ritirarsi nel proprio guscio, piuttosto che parlare dei propri progressi in materia di sostenibilità – un fenomeno noto come silenzio verde.
Ciononostante, quest’anno i governi, i consumatori e i gruppi della società civile hanno esaminato più da vicino che mai le dichiarazioni ecologiche. Nel 2020, Eco-Business ha registrato otto casi di marchi chiamati in causa per greenwashing. Nel 2021 sono stati 11.
Quest’anno ne abbiamo individuati 18 e, senza dubbio, ci sono molti altri esempi di iperbole verde che sono passati inosservati.
Questo è stato anche l’anno in cui sono emerse diverse forme di greenwashing, dall’etichettatura dei prodotti di plastica come verdi durante la Giornata della Terra allo sportswashing delle aziende di combustibili fossili durante i tornei di tennis.
Le affermazioni di greenwashing sono emerse anche da fonti inaspettate: i gruppi ambientalisti sono stati criticati per aver fatto affermazioni sospette, in particolare nel settore della pulizia e del riciclaggio della plastica.
Eco-Business fa luce sulle volte in cui marchi, governi e organizzazioni non profit sono stati accusati di fare affermazioni ecologiche che sembravano non corrispondere alla realtà.
Hsbc: Coltiviamo alberi (ma anche centrali a carbone)
La più grande banca al mondo per i consumatori ha subito il ritiro di una campagna pubblicitaria nel Regno Unito, dopo che l’autorità di controllo della pubblicità del Paese ha stabilito che Hsbc pubblicizzava un programma di piantumazione di alberi e il suo piano net-zero senza riconoscere che allo stesso tempo finanziava progetti di combustibili fossili.
La banca si è impegnata a ridurre la sua esposizione al finanziamento del carbone termico di almeno il 25% entro il 2025, ma è ancora uno dei maggiori finanziatori al mondo di progetti di combustibili fossili.
L’Advertising Standards Authority ha stabilito che gli annunci di Hsbc “hanno omesso informazioni rilevanti e sono stati quindi fuorvianti“. L’umiliazione della banca ha spinto gli osservatori a chiedersi se porterà a un maggiore controllo della pubblicità del settore.
Le banche parlano di sostenibilità più di qualsiasi altro settore, soprattutto in Asia.
Michelin: finanza verde per la deforestazione
Michelin, l’azienda francese di pneumatici nota anche per la sua guida ai ristoranti di lusso, nel 2015 si è impegnata, come ampiamente pubblicizzato, a piantare alberi della gomma per rinverdire 90.000 ettari di terreno distrutti dal disboscamento illegale in Indonesia.
Il progetto è stato salutato come il fiore all’occhiello dell’impegno di sostenibilità dell’azienda. Ma un’indagine dell’organizzazione no-profit Mighty Earth e della pubblicazione parigina Voxeurop, pubblicata a novembre, ha scoperto che il progetto, finanziato con 95 milioni di dollari di obbligazioni verdi, era in realtà una piantagione di gomma naturale a monocoltura che ha sostituito migliaia di ettari di habitat di oranghi, tigri ed elefanti che erano stati rasi al suolo da Royal Lestari Utama, partner locale di Michelin.
Santos: il tennis lavato dallo sport
In un caso di alto profilo di sportswashing – cioè di aziende che usano lo sport per mascherare una reputazione discutibile – Tennis Australia, l’ente sportivo del tennis australiano, ha abbandonato la compagnia petrolifera e del gas Santos come sponsor a gennaio, in seguito a una campagna degli attivisti ambientali.
La Santos utilizzava gli eventi di Tennis Australia per promuovere i posti di lavoro offerti dall’industria del gas. “C’è stato un grande sforzo per rendere inaccettabile la sponsorizzazione di eventi da parte di aziende produttrici di sigarette… ora è il momento di fare lo stesso con le aziende produttrici di combustibili fossili“, ha dichiarato Lucy Manne, amministratore delegato di 350 Australia, l’organizzazione no-profit che ha condotto la campagna contro Santos.
Il tennis è uno sport particolarmente colpito dai cambiamenti climatici. Agli Australian Open del 2014, le partite sono state sospese e 1.000 spettatori sono stati curati per esaurimento da calore quando le temperature hanno superato i 40 gradi Celsius.
Big Oil: le dichiarazioni ecologiche superano gli investimenti ecologici
Le aziende del settore petrolifero e del gas sono spesso accusate di essere prolifiche lavatrici di verde e uno studio di InfluenceMap, un’organizzazione no-profit che monitora il lobbismo aziendale, ha cercato di dimostrarlo.
Lo studio ha rilevato che nel 2021, a fronte di sei comunicazioni pubbliche su 10 di ExxonMobil, Shell, Chevron, Bp e TotalEnergies – presentate come una forza positiva nell’affrontare il cambiamento climatico – soltanto il 17% degli investimenti di queste aziende nello stesso periodo è stato destinato alle energie rinnovabili.
Lo studio ha anche rilevato che queste aziende hanno eliminato i combustibili fossili dalle loro comunicazioni. L’unica volta che la Bp menziona il petrolio nella sezione Chi siamo del suo sito web è quando parla della sua storia, ha dichiarato Faye Holder, responsabile del programma InfluenceMap.
H&M: finzione veloce
A luglio H&M è stata citata in giudizio da un tribunale federale di New York per aver cercato di ingannare i consumatori attenti all’ambiente e disposti a pagare di più per prodotti ecologici con una linea di abbigliamento che presentava “schede di valutazione ambientale” nell’etichettatura, nella confezione e nel marketing.
L’idea delle schede di valutazione era quella di informare il consumatore sulla sostenibilità di un articolo. Ma alla fine l’azienda ha dovuto abbandonare l’idea dopo che un’autorità di regolamentazione olandese ha stabilito che aveva utilizzato “informazioni falsificate che non corrispondevano ai dati sottostanti“.
A novembre il marchio è stato nuovamente citato in giudizio per affermazioni altrettanto ingannevoli sulla sua collezione Conscious Choice. I critici hanno affermato che il modello commerciale economico e veloce di H&M non può essere definito sostenibile, indipendentemente dalla quantità di cotone organico e riciclato.
L’insabbiamento dell’oceano?
L’Ocean Cleanup sta cercando di eliminare la Great Pacific Garbage Patch dal 2013, quando l’olandese Boyan Slat, ex studente di ingegneria aerospaziale, annunciò che avrebbe affrontato l’inquinamento marino da plastica raccogliendola dal mare con una barca.
A febbraio, però, Slat è stato accusato di aver inscenato un video che mostrava la spazzatura di plastica trascinata fuori dall’oceano.
I dubbi, tra cui pescatori e biologi marini, hanno detto che i rifiuti recuperati sembravano sospettosamente puliti per un materiale che si supponeva galleggiasse in mare da anni.
Dov’era il biofoul? Slat ha detto che la plastica era quasi immacolata perché quella parte dell’Oceano Pacifico è povera di nutrienti e di luce ultravioletta, il che avrebbe impedito agli organismi di crescere su di essa.
Dbs: più ritardataria dell’azione per il clima, meno eco-guerriera
L’amministratore delegato della più grande banca del Sud-Est asiatico, Piyush Gupta, è stato chiamato in causa per aver difeso la decisione della Dbs di aspettare fino al 2039 per smettere di finanziare l’energia a carbone che distrugge il clima, in un discorso pubblicato su LinkedIn in agosto.
Gupta ha affermato che è stata una decisione morale difficile ritirarsi dal carbone in Paesi in via di sviluppo come l’Indonesia, dove molte persone non hanno elettricità. Il post si concludeva con un’iterazione dello slogan pubblicitario della banca: “Più come un eco-guerriero, meno come una banca“.
Su LinkedIn si è scatenata l’indignazione degli investitori d’impatto e degli esperti di clima, che hanno accusato la banca di voler usare la povertà energetica per giustificare i ritardi nell’azione per il clima.
Sebbene la Dbs sia probabilmente la banca leader nel Sud-Est asiatico per quanto riguarda l’azione a favore del clima, con la definizione di obiettivi intermedi di zero emissioni a settembre, non è stato un anno positivo per il suo marketing.
L’azienda è stata anche accusata di stereotipi di genere con lo slogan pubblicitario “Più come la cucina di tua madre, meno come una banca“.
In precedenza Gupta aveva parlato degli sforzi “migliori della categoria” compiuti da Dbs per colmare il divario di genere, figurando nel Bloomberg Gender-Equality Index.
Unilever: promesse di plastica false
Un’indagine condotta da Reuters a giugno ha scoperto che la pin-up della sostenibilità Unilever ha esercitato pressioni contro i potenziali divieti delle bustine di plastica monouso che utilizza per vendere i suoi prodotti nei Paesi in via di sviluppo, nonostante abbia pubblicamente promesso di eliminare gradualmente gli imballaggi pericolosi per l’ambiente.
In un discorso agli investitori del 2019, Hanneke Faber, presidente di Unilever per il settore alimentare e delle bevande, ha affermato che il design multistrato delle confezioni è “malvagio perché non si può riciclare“.
L’Unilever è stata pioniera nell’introduzione delle bustine di plastica per consentire alle famiglie povere del Sud del mondo di permettersi i suoi prodotti in piccole quantità.
Le bustine usa e getta hanno devastato i corsi d’acqua e gli ecosistemi marini. Unilever ha creato un impianto di riciclaggio per le bustine in Indonesia, ma l’impianto ha incontrato difficoltà tecniche e un’indagine condotta da un’organizzazione no-profit ha rivelato che l’impianto è stato abbandonato. Unilever ha smentito la chiusura dell’impianto.
Coldplay: il tour della deforestazione
La band softrock Coldplay si sentiva in colpa per aver volato in giro per il mondo in tour “carbon-tastic”, così a maggio ha annunciato una serie di misure per ridurre la propria impronta ecologica.
Una di queste era una pista da ballo cinetica che produce elettricità dal movimento dei fan eccitati. Ma quella che ha irritato di più gli ambientalisti è stata una partnership con la compagnia petrolifera finlandese Neste, che sostiene di essere il più grande produttore al mondo di biocarburanti sostenibili, per ridurre l’impronta dei viaggi aerei della band.
Secondo uno studio di Friends of the Earth, i fornitori di olio di palma dell’azienda hanno abbattuto 10.000 ettari di foresta tra il 2019 e il 2020.
“Neste sta cinicamente usando i Coldplay per lavare la propria reputazione. Questa è un’azienda legata al tipo di deforestazione che farebbe inorridire [il cantante dei Coldplay] Chris Martin e i suoi fan. Non è troppo tardi, dovrebbero abbandonare subito la loro partnership con Neste e concentrarsi invece su soluzioni veramente pulite“, ha dichiarato al Guardian Carlos Calvo Ambel, direttore senior del gruppo di campagna Transport and Environment. Non l’hanno fatto.
Lazada: eco-friendly per la Giornata della Terra
Lazada, il gigante del commercio elettronico del sud-est asiatico di proprietà di Alibaba, ha lanciato una campagna di un solo giorno per promuovere sul suo sito prodotti “eco-compatibili” che utilizzano meno o “meglio” la plastica in occasione della Giornata della Terra del 22 aprile.
I critici hanno detto che molti dei prodotti pubblicizzati come “amici del Pianeta” erano prodotti usa e getta di uso quotidiano, come magliette in poliestere e rasoi da donna.
La promozione e lo sconto di tali articoli non contribuisce in alcun modo ad alleviare il problema dell’inquinamento da plastica nel Sud-Est asiatico, hanno sottolineato.
Deutsche Bank: un caso emblematico contro gli investimenti verdi?
Un raid della polizia negli uffici della Dws, la divisione di investimento della Deutsche Bank in Germania, potrebbe passare alla storia come la prima volta in cui una grande multinazionale è stata accusata dai legislatori di aver fatto investimenti verdi.
Dws è stata accusata di aver falsamente dichiarato che più della metà dei suoi 900 miliardi di dollari di asset erano stati investiti utilizzando criteri ambientali, sociali e di governance (Esg) in un rapporto annuale del 2020.
Il capo di Dws, Asoka Woehrmann, si è dimesso all’indomani dell’incursione di giugno e ha dichiarato che le critiche rivolte all’asset manager hanno trascurato il fatto che ci sarebbe voluto del tempo per raggiungere i propri obiettivi e che il raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità non è un percorso lineare. Il caso è in corso.
Giappone: ridurre le emissioni di carbone con l’ammoniaca
Un piano presentato dal governo giapponese che prevede di spendere 27,9 miliardi di yen (242 milioni di dollari) per sovvenzionare due progetti pilota che mirano a bruciare almeno il 50% di ammoniaca derivata dall’idrogeno insieme al carbone nelle centrali elettriche entro il 2029 è stato messo in discussione dagli esperti di idrogeno che hanno contestato il piano di riduzione effettiva delle emissioni.
La combustione dell’ammoniaca non produce anidride carbonica, ma emette protossido di azoto, un potente agente climatico.
“I giapponesi sono chiaramente in grave difficoltà in un futuro decarbonizzato e si stanno disperatamente arrampicando sugli specchi per risolvere i loro problemi di importazione di energia – ma l’ammoniaca? Avrà un costo per joule almeno cinque volte superiore a quello dell’energia che i loro concorrenti economici utilizzano per alimentare le loro economie“, ha scritto Paul Martin, cofondatore della Hydrogen Science Coalition, in un post su LinkedIn.
“L’uso dell’ammoniaca come combustibile è possibile, ma per applicazioni stazionarie come le centrali elettriche, da usare più che occasionalmente come combustibile di riserva di emergenza, è molto discutibile. Alimentarla come co-alimentazione di impianti a carbone inefficienti? È una follia“, ha detto.
Gran Premio di Singapore: “Sulla buona strada” per la decarbonizzazione senza dati sul carbonio
Le dichiarazioni ecologiche del Gran Premio di Formula Uno di Singapore sono state messe in discussione per aver trascurato il costo mostruoso delle emissioni di carbonio della gara.
Nei post pubblicati sui social media, l’organizzatore dell’evento ha affermato che il Gran Premio di Singapore è “sulla buona strada per ridurre al minimo la nostra impronta di carbonio” grazie alla digitalizzazione dei biglietti, alla sperimentazione di luci di pista a Led e all’utilizzo di energia a zero emissioni per alimentare la sede dell’evento.
La Sgp ha anche dichiarato di “incoraggiare il trasporto ecologico” informando gli spettatori sulle stazioni della metropolitana più vicine alla sede dell’evento. Ma Sgp non ha fornito informazioni sull’effettiva impronta di carbonio dell’evento, che deve ancora essere misurata.
Ho Xiang Tian, cofondatore del gruppo ambientalista LepakInSg, ha affermato che le credenziali ecologiche dell’evento sono state promosse senza riconoscere il più ampio impatto climatico della gara, il che, a suo avviso, rappresenta un’operazione di greenwashing.
Australia: conservare la barriera corallina sostenendo i combustibili fossili che danneggiano i coralli
Una campagna di Greenpeace ha dichiarato che un piano da 1 miliardo di dollari australiani (668 milioni di dollari) annunciato dal precedente governo australiano guidato da Scott Morrison per la conservazione della Grande Barriera Corallina ha messo in ombra i massicci investimenti del Paese nel settore dei combustibili fossili.
Il gruppo ha dichiarato che il finanziamento “omette deliberatamente” un solo dollaro per risolvere la più grande minaccia per la barriera corallina, il cambiamento climatico.
“È difficile pensare che questo non sia altro che l’ultimo stratagemma per ingannare i nostri occhi. Certo, l’annuncio può sembrare positivo, ma non significa nulla se il suo governo continua a portare avanti la sua dilagante agenda a favore dei combustibili fossili“, ha dichiarato Greenpeace in un mailer che invita i suoi sostenitori a firmare una petizione di protesta.
“Potrebbe essere il cerotto più costoso del mondo“. Negli ultimi anni, il governo australiano ha esercitato pressioni affinché la Grande Barriera Corallina fosse omessa da un rapporto sui siti del patrimonio mondiale dell’Unesco minacciati dal cambiamento climatico, ha dichiarato Greenpeace.
La polizia dell’ipocrisia della Giornata internazionale della donna
Nel 2017, il governo britannico ha reso obbligatorio per le aziende con 250 o più dipendenti di comunicare la differenza di retribuzione tra il personale maschile e quello femminile.
Questi dati sono stati utilizzati dal Gender Pay Gap Bot, un bot di guerriglia su Twitter, per citare i post delle aziende che hanno proclamato a gran voce la Giornata internazionale della donna con i dati reali sul divario retributivo di genere.
Il bot ha rivelato l’enorme disparità di retribuzione che continua a esistere anche tra i campioni della parità di genere. Alcune aziende hanno cancellato i loro post per evitare critiche, ma un utente di Twitter ha raccolto tutti i post rimossi, che sono stati ritwittati migliaia di volte.
Boohoo: sostenibilità al servizio delle Kardashian
Il rivenditore online di fast-fashion Boohoo, con sede nel Regno Unito, ha assunto la celebrità televisiva Kourtney Kardashian come ambasciatrice della sostenibilità del marchio per la settimana della moda di New York e ha lanciato una collezione verde.
“Un altro giorno, un altro episodio di greenwashing da parte di uno dei più grandi marchi di fast fashion al mondo, Boohoo“, ha scritto su LinkedIn Susannah Jaffer, fondatrice e Ceo di Zerrin, un portale di moda sostenibile con sede a Singapore.
“Qualsiasi campagna di sostenibilità o collaborazione da parte di un marchio di moda che sia sordo alla realtà e all’impatto della propria catena di approvvigionamento è greenwashing. Punto“.
Zerrin ha sottolineato che il poliestere riciclato e il cotone riciclato promossi da Boohoo come sostenibili sono ancora difficili da riciclare e scomporre.
“Per non parlare del fatto che la produzione di questa collezione non compensa in alcun modo la produzione di Boohoo di migliaia di articoli al mese, sempre realizzati con materiali economici, sintetici e derivati dal petrolio“, ha dichiarato.
“La cosa più sostenibile ed ecologica che Kourtney avrebbe potuto fare sarebbe stata dire no. Ma i soldi parlano“, ha aggiunto.
Klm: vola responsabilmente con noi
Lo studio legale attivista ClientEarth ha citato in giudizio a maggio la compagnia aerea olandese Klm per una campagna pubblicitaria che, a suo dire, dà una falsa impressione della sostenibilità dei suoi voli e dei suoi piani per ridurre l’impatto sul clima.
La campagna fly responsibly di Klm affermava che la compagnia aerea è in procinto di raggiungere emissioni nette zero entro il 2050 e che prevede di utilizzare carburante sostenibile e aerei elettrici a partire dal 2035.
Ma ClientEarth afferma che Klm sta violando la legge europea sui consumatori ingannandoli, poiché l’industria dell’aviazione non può decarbonizzarsi senza ridurre la frequenza dei viaggi aerei.
“Il marketing di Klm induce i consumatori a credere che i suoi voli non peggioreranno l’emergenza climatica. Ma questo è un mito“, ha dichiarato Hiske Arts, attivista di Fossielvrij Nl, un’organizzazione no-profit olandese.
Wwf: bruciare la plastica è pulito
In un’e-mail inviata ai suoi sostenitori a settembre, il gruppo di conservazione Wwf-Singapore ha affermato che i rifiuti di plastica raccolti durante le pulizie delle spiagge sarebbero stati inviati a un’università locale e convertiti in “energia pulita” dopo essere stati sottoposti a un processo noto come pirolisi: i rifiuti vengono riscaldati e trasformati in olio pirolitico.
Il mailer promuoveva anche l’edizione limitata della Red Panda Collection del Wwf, composta da borse, contenitori per bevande riutilizzabili e magliette.
Yobel Novian Putra, responsabile della campagna per il clima e l’energia pulita dell’organizzazione no-profit Global Alliance for Incinerator Alternatives, ha sostenuto che non esiste un’energia pulita generata dalla combustione di un materiale inquinante e tossico come la plastica.
“Dire che l’energia prodotta dalla pirolisi dei rifiuti plastici è pulita è la stessa cosa che dire che l’energia prodotta dai termovalorizzatori di Singapore è pulita. In entrambi i casi, stiamo utilizzando materiali di origine fossile per generare energia“, ha dichiarato a Eco-Business.