1

Rose, ti presento Margot: in ufficio arrivano le impiegate avatar

Rose, ti presento Margot: in ufficio arrivano le impiegate avatar

Mentre il mondo si sta stupendo per la qualità delle conversazioni in chat che si possono avere con un’intelligenza artificiale, nei laboratori di un’azienda hi-tech italiana si lavora alla prossima innovazione: l’umano digitale. Anzi, due: Rose e Margot.

Reply, multinazionale italiana di consulenza e system integration quotata in Borsa e attiva in tutto il mondo, ha sviluppato infatti i suoi digital human per creare la soluzione perfetta per le aziende: delle entità digitali di tipo “conversazionale”, cioè che parlano in maniera naturale e intelligente con le persone, in grado di essere utilizzate dai marchi in modo coerente in diversi contesti e canali media. Dei gemelli digitali dell’essere umano creati artificialmente e animati in 3D in tempo reale per potersi muovere coerentemente su uno schermo ma anche nel metaverso.

Che cos’è un digital human

Un umano digitale è una rappresentazione virtuale di un essere umano, che può essere utilizzata in molti modi diversi, come ad esempio nei videogiochi, nelle simulazioni di realtà virtuale, nei social media e in altre applicazioni digitali. Un umano digitale può avere l’aspetto e le caratteristiche di una persona reale o può essere un personaggio completamente inventato. In ogni caso, l’umano digitale è una creazione digitale che può interagire con gli utenti in modo simile a come lo farebbe una persona reale.

Nel caso di Reply il digital human è completamente virtuale e composto da due parti: la “mente”, cioè l’intelligenza artificiale che lo rende in grado di “ragionare”, e il “corpo” (virtuale), cioè l’avatar vero e proprio che è capace non solo di muoversi ma anche di collegare la propria gestualità a quello che sta dicendo e al tono con il quale lo sta dicendo.

La storia del digital human di Reply

È il momento in cui nell’informatica entrano parole come prossemica ed empatia, cioè in cui si vede cosa si può veramente fare creando un’entità virtuale intelligente. Il problema, che Reply cerca di risolvere, è come fondere l’aspetto “intellettuale” dell’intelligenza artificiale (Margot, la digital human capace di avere un’interazione effettiva con una forma di linguaggio generativo) con quello più evoluto dal punto di vista “fisico”: Rose, la digital human creata con la tecnologia Unreal Engine 5 che riproduce umani digitali, con tratti e movimenti così realistici da risultare molto aderenti alla realtà.

Stiamo sviluppando dei modelli – dice Giorgia Fortuna, partner di machine learning di Reply – che imitano quel che viene detto normalmente sulla base di una serie di parole. Studiamo questi modelli per usarli nell’ambito dei nostri prodotti ma anche specializzarli a posteriori su tematiche su cui non sono stati addestrati“.

Parlare con il computer

Infatti, di solito le intelligenze artificiali vengono addestrate su ampi settori di conoscenza (tutta Wikipedia o tutti i documenti dell’Unione europea), cosa che però rende impossibile specializzarle in un secondo momento su un particolare gruppo di informazioni. Per esempio per una assicurazione che vuole un chatbot capace di rispondere a tutte le domande dei clienti sulle proprie polizze. Invece, Margot è nata per essere addestrata in maniera conversazionale più semplice e poter poi essere specializzata a seconda delle esigenze del cliente.

Tuttavia, questa è solo la mente. Bisogna metterci anche la faccia (e la voce) per avere una buona conversazione.

Il ruolo dell’empatia

A differenza dei chatbot tradizionali, l’ambizione di Reply è realizzare un servizio digitale per le aziende che abbia una serie di caratteristiche. Intanto, che sia un prodotto che poi diviene effettivamente proprietà dell’azienda, sia nella parte di “intelligenza” che nell’aspetto esteriore. Magari per essere sviluppato visivamente in maniera coerente con il marchio e poi essere utilizzato per spot e campagne di immagine, oltre che come chatbot virtuale.

E poi per essere altamente realistico e flessibile. Empatico. Come spiega Roberto Del Ponte, senior manager di Infinity Reply: “Le tecnologie 3D sono sempre più diffuse e questo sarà a tendere il canale più usato per interagire. Abbiamo costruito il digital human realistico e completamente sintetico, non è la faccia digitale di nessuno in particolare. Può essere l’ambasciatore di un’azienda e l’interfaccia di servizio uomo-macchina per l’azienda con l’empatia che serve ad accorciare la distanza relazionale“.

La complessità dell’animazione di Margot e Rose è che si tratta di digital human che devono essere sia dal punto di vista della postura che da quello dell’espressione in sintonia con la conversazione che sta portando avanti. L’empatia passa dalla capacità di renderla attiva, attenta, tranquilla, vivace, corrucciata, ferma. E a questo si aggiunge la voce, che deve essere capace di adattarsi e guidare le emozioni di quel che sta dicendo, e farlo sia nella propria lingua, sia in quelle straniere.

Margot la Digital Human di Reply

Le origini di Rose

Rose è una digital human figlia dei videogiochi: creata con la tecnologia Unreal Engine 5 che riproduce umani digitali, con tratti e movimenti così realistici da risultare molto aderenti alla realtà. Dimostra come sia possibile sfruttare questi umanoidi in contesti ibridi.

Rose è anche figlia di un’esigenza commerciale di Reply. Gli assistenti digitali di Reply sono pensati per far diventare il normale chatbot con un’interfaccia conversazionale più avanzata e humanlike per sviluppare maggior empatia nell’umano che si ha di fronte. Pertanto, il programma di Reply si focalizza non solo sull’aspetto della naturalezza e autonomia conversazionale, ma anche della qualità grafica, dell’animazione, della voce.

L’empatia infatti si manifesta con l’espressività e la prossemica che, a loro volta, sono realizzate non con delle animazioni preimpostate da “caricare al volo” durante l’interazione, ma con una serie di parametri espressivi che vengono modulati in tempo reale dall’intelligenza artificiale. C’è sempre qualcosa di leggermente meccanico, ma il risultato è molto più sofisticato rispetto a quanto si è visto sinora.

I figli di Margot e Rose

Il grande vantaggio di Margot e Rose, o meglio di quelli che saranno i figli digitali di questa coppia (vale a dire le prossime generazioni di umani digitali) avranno una serie di vantaggi rispetto a quello che vediamo oggi in rete con ChatGPT e le intelligenze artificiali “tradizionali” (se possiamo pensare che ci sia qualcosa di tradizionale nelle intelligenze artificiali che stanno mettendo sottosopra la rete in queste settimane).

La prima è che i digital human di Reply sono già pensati per andare nel metaverso in maniera nativa, e supportare delle interazioni di tipo conversazionale ed empatico. E poi che sono prodotti software, basati sulla piattaforma cloud e le tecnologie di AI di Google, che vengono sviluppati da zero per essere messi a disposizione di un’azienda cliente, senza le limitazioni di utilizzo anche dal punto di vista legale e dei diritti che si hanno quando il cliente vuole, ad esempio, utilizzare l’immagine del suo chatbot anche come “personaggio” in una campagna pubblicitaria di promozione del suo marchio. Con i digital human di Reply, dice Del Ponte, questo è possibile.




Che cos’è la certificazione di parità di genere?

Che cos’è la certificazione di parità di genere?

La certificazione di parità di genere è un processo di certificazione per le aziende virtuose che decidono di investire sulla propria cultura organizzativa uniformandola ai valori della parità, diversità inclusione, attraverso un piano strategico studiato per eliminare i bias di genere. Intraprendere questo percorso vuol dire sottoscrivere un impegno concreto, comunicandolo sia all’interno che all’esterno, e usufruire di incentivi fiscali, premialità nella partecipazione ai bandi pubblici e sgravi contributivi.

Recentissima novità, i datori di lavoro del settore privato che conseguano la certificazione della parità di genere, potranno usufruire dello sgravio contributivo dell’1%, per un massimo di 50.000 euro annui. La domanda di riconoscimento dello sgravio si presenta all’Inps e se i fondi non sono sufficienti, lo sgravio è proporzionalmente ridotto a tutti i beneficiari. A dirlo è un comunicato del 28 novembre del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali che ha reso noto il decreto 20 ottobre 2022 di attuazione della legge 5 novembre 2021, n. 162 (art.5).

Il provvedimento prevede inoltre che, in attuazione dell’articolo 1, comma 138, della legge 30 dicembre 2021, n. 234, ulteriori interventi finalizzati alla promozione della parità salariale di genere e della partecipazione delle donne al mercato del lavoro siano realizzati dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, in collaborazione con l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (INAPP) e in accordo con il Dipartimento per le Pari Opportunità che ne assicurerà la coerenza rispetto al Piano strategico nazionale per la parità di genere.Un ulteriore input dall’alto per spingere le imprese a investire nella certificazione di parità per ridurre il gender gap, a incentivare attraverso azioni concrete la presenza femminile nel mercato del lavoro, a garantire parità nel trattamento salariale a parità di mansioni, tutelare la genitorialità, offrire opportunità di crescita alle donne e una maggiore presenza negli incarichi esecutivi, con potere di rappresentanza e di spesa.

Certificazione di parità di genere: come nasce?

Istituita con il nuovo art. 46-bis, a partire dal 1° gennaio 2022, la certificazione di parità di genere è 1 delle 3 importanti novità previste dalla Legge 5 novembre 2021, n. 162, entrata in vigore il 3 dicembre 2021 modificando il Codice Pari Opportunità (Dlgs 198/2006), insieme al concetto più esteso di discriminazione e un rapporto più dettagliato sulla situazione del personale (obbligatorio per tutte le aziende, pubbliche e private, con più di 50 dipendenti, che dovrà riportare anche le retribuzioni e i premi riconosciuti ai lavoratori dei due sessi).

In coerenza con la Missione 5 Inclusione e Coesione del Piano Nazionale Ripresa e Resilienza (PNRR), con l’introduzione del Sistema di Certificazione di Parità si è puntato il focus sulla necessità di modificare la cultura organizzativa delle imprese, su base volontaria, superando il concetto di obbligatorietà e incentivando le aziende, di qualsiasi dimensione (quotate, medie, piccole), a intraprendere questo nuovo percorso virtuoso, attraverso vari meccanismi premiali. Con il PNRR sono stati stanziati 10 milioni per la certificazione di parità di genere di cui 5,5 destinati a coprire i costi di certificazione delle imprese (12.500 al massimo per ciascuna) e 2.500 per i servizi di assistenza tecnica.

Quali sono i parametri di riferimento?

Il 16 marzo 2022 è stata pubblicata la Prassi di riferimento UNI/PdR 125:2022, contenente le “Linee guida sul sistema di gestione per la parità di genere che prevede l’adozione di specifici KPI (Key Performance Indicator – Indicatori chiave di prestazione) inerenti alle politiche di parità di genere nelle organizzazioni” e che individua 6 Aree da monitorare: Cultura e Strategia, Governance, processi HR, Opportunità di crescita e inclusione delle donne in azienda, Equità remunerativa per genere, Tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro.

Per ognuna è assegnato uno specifico peso percentuale, per un totale di 100. Con riferimento a ciascuna area vengono identificati degli specifici KPI qualitativi e quantitativi, per un totale di 33, applicabili secondo criteri proporzionali in base alle dimensioni dell’azienda. Per poter ottenere la certificazione bisogna raggiungere un punteggio minimo del 60%. La certificazione può essere rilasciata solo dagli organismi accreditati ai sensi del Regolamento (CE) n. 765/2008. Questi organismi sono accreditati in Italia da Accredia. Il certificato ha una validità di 3 anni ma sono previsti degli step intermedi annuali di verifica.

Parità di genere: quanto siamo lontane?

Il processo di certificazione di parità di genere è diventato pienamente operativo con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri n. 152/2022 che definisce i parametri per il conseguimento della certificazione della parità di genere confermando in sostanza quanto indicato dalla UNI/PdR 125:2022, gettando le fondamenta per la costruzione di una reale dimensione sistemica in cui centrale è il ruolo delle donne nella ripresa economica post-Covid (She-covery).

In tale contesto vincono e sono maggiormente competitive le organizzazioni in grado di comunicare il proprio impegno in parità, il Sistema di certificazione di parità riconosce grande importanza alla corretta e inclusiva comunicazione di Parità, sia interna (verso i dipendenti) che esterna (verso gli stakeholder e l’opinione pubblica).

Se è vero che 162 e 125, verranno ricordati come i numeri della svolta (entro giugno 2026 si stimano 800 piccole e medie imprese certificate e 1.000 aziende che riceveranno le agevolazioni) è anche vero che abbiamo ancora tanto lavoro da fare per accelerare il cambiamento.

132 anni è il tempo stimato su scala globale per colmare il gap di genere, in base al Global Gender Report 2022 del World Economic Forum. Dei 146 Paesi messi a confronto nessuno ha ancora raggiunto la piena parità. L’Italia risulta 63°, mantenendo la stessa posizione della classifica 2021, dopo Uganda (61°) e Zambia (62°), con un tempo stimato per il superamento effettivo dei gap di 150 anni.

Ruth Bader Ginsburg, per 13 anni giudice della Corte d’Appello e per 27 anni giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, diceva che il cambiamento duraturo è quello che si ottiene a piccoli passi, step by step, ma è anche vero che è oggi il momento di accelerare quel cambiamento che le donne hanno atteso per molto tempo e per cui hanno a lungo lavorato. Non possiamo tirarci indietro.




Discriminazioni sul lavoro, quelle che le donne non dicono

Discriminazioni sul lavoro, quelle che le donne non dicono

Fragili, umorali, sensibili al limite del patologico. È lo stereotipo che accompagna ogni donna, quello che sul posto di lavoro diventa il pretesto per svilire il ruolo delle lavoratrici, metterle in una condizione di subalternità psicologica e farne il capro espiatorio di ridimensionamenti aziendali o meschine rivalse.

Partiamo dai rilevamenti scientifici, quelli diffusi dall’Istituto Superiore di Sanità. Quasi una donna su quattro (24%) rischia di soffrire di un disagio psichico nel corso della vita, e le donne hanno una probabilità quasi tre volte maggiore rispetto agli uomini di sviluppare un disturbo mentale, in particolare depressione e ansia. Inoltre, esistono disturbi psichici esclusivamente femminili o quasi, come quelli della sfera alimentare, dove il rapporto donna-uomo arriva a essere di 9 a 1.

Le ragioni sono da ricercarsi in fattori sociali e ambientali, oltre che biologici; le donne devono conciliare troppe cose, spesso troppe di più rispetto ai maschi. È il carico di cura di cui si parla sempre quando si affronta la questione femminile, soprattutto in Italia: cura dei figli e dei genitori in assenza di servizi per l’infanzia e per gli anziani, cura della casa. E, quando hanno la fortuna di averlo, cura del lavoro. È vero, la biologia ci dice che sono più sensibili a depressione, ansia e insonnia, ma il fattore ambientale ha un ruolo centrale. L’essere più svantaggiate sul lavoro, con stipendi più bassi, meno possibilità di carriera e più probabilità di essere discriminate e licenziate le sottopone a una pressione costante, in una condizione di stress perpetuo.

Discriminazione e mobbing, sono le donne le vittime perfette?

A dare man forte a questa visione “di genere” dello stress da lavoro concorre una recente ricerca, svolta nel Regno Unito da studiosi italiani e inglesi, che ha dimostrato il nesso causale tra qualità del lavoro e salute mentale dei lavoratori, soprattutto per le donne.

Lo studio, pubblicato sulla rivista Labour Economics e condotto dai docenti di Economia politica Michele Belloni dell’Università di Torino, Elena Meschi della Bicocca di Milano e da Ludovico Carrino, ricercatore dell’Ateneo di Trieste e del King’s College di Londra, ha mostrato come il rischio di sviluppare stress o ansia sia collegato alle condizioni lavorative. In particolare a richieste elevate, ridotta autonomia decisionale, scarsa valutazione delle competenze, assenza di supporto sociale, squilibrio tra impegno e retribuzione, ingiustizia percepita relativamente all’imparzialità e rispetto con cui i dipendenti sono trattati dai superiori.

Inoltre la ricerca ha messo in evidenza che sono le donne a pagare il prezzo più alto, in quanto la loro salute mentale è più sensibile a variazioni nella qualità del lavoro, ma anche – sarebbe da aggiungere – in quanto più soggette a questo tipo di fenomeni.

Svalutazione, isolamento, umiliazioni, disparità di trattamento sono infatti tutti elementi che suoneranno familiari a chi, per qualunque motivo, si sia imbattuto in storie di discriminazione e mobbing. Proprio come quella che stiamo per raccontare.

“Hai fatto un’elvirata”: quando il mobbing chiama per nome

Milano, settembre 2014. Elvira è assunta in una rivista con contratto a tempo determinato. Da subito le assegnano la responsabilità di intere sezioni del giornale, i colleghi e il direttore mostrano di apprezzare molto il suo lavoro, e man mano che i contratti vengono rinnovati aumentano le responsabilità e l’impegno richiesti: nessun orario, zero vita privata e una crescente ansia da prestazione, perché è l’ultima arrivata, ha il contratto periodicamente in scadenza e un direttore che stravolge il giornale in continuazione, per cui lei cerca di essere sempre pronta a adeguarsi alle richieste.

Poi, però, dopo circa un anno il clima cambia. Senza capirne la ragione, nel giro di qualche settimana il lavoro di Elvira diventa insoddisfacente, prima per il direttore, poi a ruota anche per i colleghi: “In questo pezzo non si capisce un cazzo, è scritto in un italiano approssimativo”, “sei lenta, lenta”. E poi urla, insulti, minacce.

Il copione, da qui in poi, è da manuale: Elvira è progressivamente demansionata, ogni volta che scrive un articolo viene passato a un collega che lo riscrive di sana pianta, resta ore a fissare lo schermo del computer senza nulla da fare. “Una volta fui convocata nell’ufficio dei grafici. Avevo lasciato da impaginare alcune foto per una rubrica e il grafico ancora non le aveva messe in pagina. Davanti a tutti, il direttore iniziò a urlarmi contro frasi aggressivesprezzantiirripetibili. La violenza di quella sfuriata, il suo viso paonazzo vicino al mio, gli occhi folli di rabbia mi portarono sull’orlo delle lacrime. Io, una donna di più di quarantadue anni, stavo per scoppiare a piangere davanti all’intero ufficio. Non dimenticherò mai l’umiliazione, la vergogna, la rabbia di quel lungo momento. Decisi che con me avevano chiuso. Non sapevo ancora come e quando, ma sapevo che dovevo andare via di lì”.

E poi c’è l’isolamento, perché la solidarietà tra colleghi non esiste più, diventi un paria, e perché anche chi ti vuole bene fatica a entrare nei tuoi panni. “Noi puoi piangere per questo, è solo lavoro”, dicevano suo padre e suo marito. Già, come spiegarlo a chi non c’è mai passato? Come spiegare l’angoscia quando ogni errore commesso da chiunque diventa una “elvirata”, il proprio nome trasformato in sinonimo di incompetenza?

Così, anche Elvira entra nella spirale psicologica della depressione. La prima cosa a sparire è il sonno; le poche ore di riposo sono popolate da sogni orrendi, e ogni mattina alzarsi dal letto diventa più difficile. E poi le crisi d’ansia, la bulimia, le emicranie devastanti, la tachicardia, con quella sensazione di morte che il cuore voglia balzare fuori dal petto. Poi, però, Elvira rimane incinta, e per se stessa e il suo bambino capisce che è il momento di andare via. Il bambino non si salverà, troppo stress, dirà il medico. Ma lei, bene o male, sì.

“Ancora oggi, che sono passati sei anni, a volte sogno quell’ambiente e quelle situazioni”, dice. “E mi sveglio col cuore a mille, senza respiro”. Nonostante il tempo trascorso, la riconquista della fiducia nelle sue capacità e il riconoscimento di colleghi e superiori coi quali lavora oggi, quel senso di vergogna e di inferiorità, quella ritrosia ad avanzare proposte per il timore di dire banalità, non la abbandonano ancora del tutto.

Fenomenologia e sintomi dello stress da lavoro nelle donne

A introdurre implicitamente il concetto di “mobbing di genere” è lo stesso legislatore. Il d. lgs. 81/2008, il Testo Unico per la sicurezza sul lavoro, prevede infatti l’obbligo di valutare tutti i pericoli per la sicurezza e la salute dei lavoratori “ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, fra cui quelli collegati allo stress lavoro correlato… alle differenze di genere”.

“Nel confronti del genere femminile il mobbing assume manifestazioni specifiche”, spiega la dottoressa Giovanna Castellini, psicologa presso la Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico Milano. “Quando si parla di mobbing di genere, le molestie sessuali sono la prima cosa alla quale si pensa, ma non sono certo l’unica o la più ricorrente. Le forme di mobbing più frequenti nei confronti delle donne riguardano la maternità e la gestione dei figli e si esplicano, per esempio, nell’ostacolare la conciliazione lavoro-famiglia o nell’emarginare e demansionare la lavoratrice che torna dopo la maternità, fino a spingerla al licenziamento. Oltre al fatto, noto, che le lavoratrici sono in genere pagate meno degli uomini e che di rado raggiungono posti di comando”.

Ma il mobbing interessa particolarmente le donne soprattutto in termini di virulenza e durata delle violenze, perché di questo si tratta, né più né meno. “Nella mia esperienza posso dire che, quando si parla di mobbing, la prevalenza delle donne non è significativa tanto da un punto di vista numerico, quanto per quel che riguarda l’intensità e la durata delle vessazioni, e quindi le loro conseguenze psicofisiche”, dice ancora Giovanna Castellini.

“Le lavoratrici tendono a resistere più a lungo alle angherie, perché devono sempre dimostrare più dei colleghi maschi e anche perché sanno che per loro è più difficile riciclarsi se perdono il posto. Il mobbing tende sempre a distruggere il senso di sé del lavoratore, a maggior ragione se indirizzato contro una donna, perché in questo caso colpisce non solo il profilo professionale, ma anche personale: allusioni al vestiario, alle abitudini sessuali, alla fisicità, alle condizioni personali, sono tipiche del mobbing di genere.”

E allora immaginiamola questa lavoratrice, demansionata, svilita professionalmente e denigrata come donna, costretta a tenere insieme famiglia e lavoro, che stringe i denti oggi, domani, il giorno dopo, per settimane, mesi, anni. Alla fine esplode, perché è umana, non perché è debole.

“Comincia con piccoli segnali con i quali il corpo somatizza il malessere psicologico: disturbi del sonno, emicranie, gastriti”, spiega la dottoressa Castellani. “Poi alterazioni dell’alimentazione e dell’umore. Tutto questo cresce, si somma, fino a che esplode in ansiadepressioneesaurimento nervoso, a volte pensieri suicidari. La salute mentale viene compromessa alla radice, e spesso la ripresa richiede anni di analisi e terapia farmacologica”.

Talvolta, purtroppo, va a finire anche peggio: la malattia che sta mandando in frantumi l’equilibrio psichico fa tabula rasa delle difese immunitarie, rendendo fragile il corpo.

L’ipotesi di correlazione tra stress psicologico e cancro

Sulla relazione tra stress, depressione, disagio psicologico in generale e insorgenza di tumori la comunità scientifica tende a escludere un nesso di causalità diretta. Tuttavia, secondo uno studio pubblicato sul British Medical Journal e guidato da David Batty del Dipartimento di epidemiologia e salute pubblica dell’University College di Londra, lo stress psicologico può essere predittivo di mortalità per alcuni tipi di cancro.

Secondo il ricercatore inglese, l’esposizione ricorrente a stress emotivi potrebbe diminuire la funzione delle cellule natural killer, e quindi ridurre il controllo di quelle tumorali e favorire l’insorgere di neoplasie. “I risultati della ricerca mostrano che le persone che vivono uno stato di disagio psicologico sono anche quelle che hanno registrato più alti tassi di mortalità per cancro all’intestino, alla prostata, al pancreas, all’esofago e per leucemia”, dice Batty. “Abbiamo dunque la conferma che una cattiva salute mentale può avere una certa capacità predittiva per alcune malattie fisiche. Siamo molto lontani dal sapere come si manifesti questa relazione, ma non possiamo negarla”.

Se, dunque, ancora non si può provare una correlazione biochimica tra disturbo mentale e malattie organiche, è riconosciuto che la depressione, l’ansia, la fragilità psichica derivanti da discriminazione e mobbing creino un ambiente favorevole all’insorgenza di patologie anche gravissime. E questo non solo perché determinano un indebolimento delle difese immunitarie e dell’intero organismo, ma anche perché portano a trascurare la propria salute, adottando stili di vita pericolosi e saltando visite ed esami che permetterebbero l’individuazione precoce di eventuali anomalie.

Una ricerca che risuona in maniera inquietante con la realtà, in una delle testimonianze che abbiamo raccolto: quella di Sara.

La storia di Sara, dal mobbing al tumore al seno

Anche Sara è stata mobbizzata, e anche lei si è salvata solo lasciando il lavoro, dopo un anno e mezzo di “resistenza” in un ambiente che, dal suo racconto, assomiglia a un girone dantesco, tra colleghi ignavi e superiori iracondi.

Dopo circa quindici anni di anzianità in un’agenzia editoriale romana, Sara viene trasferita in un’altra sezione dell’azienda. Le mansioni sono quelle in cui ha maturato tutta la sua esperienza professionale: redigere testi, tenere i rapporti con gli autori, coordinarsi con l’ufficio grafico. Inizialmente il suo lavoro è apprezzato, ma ben presto l’asticella delle richieste si alza sempre di più, in termini di disponibilità a orari che si dilatano progressivamente, di gestione autonoma di una mole di lavoro che cresce in modo esponenziale e di flessibilità rispetto a richieste che cambiano di continuo.

Sara è una perfezionista, e più le si chiede, più lei cerca di dare. Solo che con il tempo il suo dare risulta sempre più inadeguato, insufficiente, e così viene demansionata, ridotta a fare una semplice revisione formale del lavoro altrui, a dover rispondere del proprio operato non solo al suo diretto superiore, ma anche a colleghi che hanno meno anzianità aziendale di lei. Non viene neppure più convocata alle riunioni di pianificazione del lavoro, alle quali partecipano invece tutti coloro che lavorano nel suo ufficio. Fino al punto che le sue giornate si riducono letteralmente a controllare le sue e-mail e aspettare, spesso inutilmente e per tutto il giorno, che qualcuno le dia qualcosa da fare.

Tuttavia, questo forzato far niente non le risparmia gli attacchi personali, la denigrazione, l’isolamento. “Ricordo che la collega che aveva la scrivania davanti alla mia aveva preso l’abitudine di rivolgere verso di me il deodorante da tavolo che aveva sulla sua postazione. Un modo silenzioso ma eloquente per dirmi che puzzavo. Ovviamente non puzzavo, ma iniziai a essere ossessionata da quell’idea e a lavarmi in continuazione. Un altro esempio del trattamento che mi veniva riservato? Una volta una collega, l’unica con la quale avessi legato lì dentro, mi disse che era stata caldamente sollecitata a non farsi vedere in mia compagnia. Un avvertimento anche per lei”.

Ed è così che, anche per Sara, inizia un malessere psicologico profondo: attacchi di panico, depressione, disturbi del sonno e dell’alimentazione. Arriva a pesare meno di quaranta chili, fino a rinunciare al lavoro, pur di porre fine al calvario. Ma non basta, perché quando ormai è fuori dall’ambiente che l’aveva fatta ammalare, ma ancora dentro alle conseguenti difficoltà psicologiche, a Sara viene diagnosticato un tumore al seno. La perizia dello psichiatra e medico legale che l’aiuterà nella sua causa contro l’azienda certificherà poi una relazione temporale tra la neoplasia e il quadro psicopatologico.

Ora Sara è guarita, da tutti i punti di vista. Ed è una donna nuova.

In questo quadro diventa più che mai urgente garantire condizioni di lavoro eque per le donne, che favoriscano la conciliazione di vita e di lavoro senza discriminazioni e colpevolizzazioni.

Perché da un ambiente di lavoro “a misura di donna”, più flessibile, gentile, accogliente e rispettoso, trarrebbero beneficio anche i colleghi maschi. Di questo si può stare sicuri.




Vietato “nuocere al prestigio o all’immagine” della Pa sui social network: il nuovo Codice di comportamento per i dipendenti pubblici

Vietato “nuocere al prestigio o all’immagine” della Pa sui social network: il nuovo Codice di comportamento per i dipendenti pubblici

Vietato mettere in imbarazzo il datore di lavoro, cioè lo Stato, sui social network. Nella seduta di giovedì il Consiglio dei ministri ha approvato il nuovo Codice di comportamento per i dipendenti pubblici, la cui adozione era prevista dal decreto legge “Pnrr 2” dello scorso aprile. E uno degli aggiornamenti riguarda proprio le regole di condotta dettate per l’uso delle piattaforme social, sulle quali “il dipendente” – si legge – “è tenuto ad astenersi da qualsiasi intervento o commento che possa nuocere al prestigio, al decoro o all’immagine dell’amministrazione di appartenenza o della Pa in generale”. Avrà rilievo disciplinare, dunque, ogni presa di posizione fuori dalle righe o giudicata inopportuna per il buon nome dell’ufficio pubblico.

Servirà fare attenzione anche a ciò che altri utenti postano sui propri profili: “Il dipendente utilizza gli account dei social media di cui è titolare in modo che le opinioni ivi espresse e i contenuti ivi pubblicati, propri o di terzi, non siano in alcun modo attribuibili all’amministrazione di appartenenza o possano, in alcun modo, lederne il prestigio”. Meglio, inoltre, non mettere online alcun riferimento al proprio posto di lavoro nella Pa: se dagli account social sono “ricavabili o espressamente indicate le qualifiche professionali o di appartenenza dei dipendenti”, questo “costituisce elemento valutabile ai fini di un’eventuale sanzione disciplinare”.

“Con l’approvazione in Cdm della revisione del Codice di comportamento dei dipendenti pubblici proseguiamo nella strada tracciata per una riforma della Pa che basa la sua efficienza sul suo capitale umano“, commenta il ministro per la Pubblica amministrazione Paolo Zangrillo. “Tutta insieme la Pa, centrale e territoriale, quale infrastruttura strategica per lo sviluppo del Paese, impegnata nella messa a terra dei progetti del Pnrr, non può prescindere dalla giusta valorizzazione delle persone che lavorano per l’interesse collettivo e dalla loro responsabilizzazione, quali leve indispensabili per la crescita degli stessi lavoratori e delle organizzazioni”.




La festa-flop della Commissione Europea sul metaverso: ci vanno in 6

La festa-flop della Commissione Europea sul metaverso: ci vanno in 6

C’è una festa più triste di quella, dalla fama ormai planetaria, della piccola Avery Strong, 3 anni, rimasta sola a spegnere le candeline perché nessuno dei suoi amichetti si è presentato?

Sì, c’è.

Ed è il «Gateway Gala», un concerto indetto martedì sera dalla Commissione europea per «attirare l’interesse dei giovani tra i 18 e i 35 anni» sul Global Gateway, un piano di investimenti esteri da 300 miliardi che per molti osservatori è una risposta europea alla «Via della Seta».

Si sono presentati in 6, di cui due giornalisti, su migliaia di possibili invitati, tra cui già appena 44 avevano perlomeno guardato il video di invito (pochissimo europeo: mostrava una festa danzante in una spiaggia tropicale).

Visualizza questo post su Instagram

Un post condiviso da Corriere della Sera (@corriere)

Tristezza doppia perché questa «festa» si è tenuta sul metaverso: la Commissione europea ha stanziato recentemente 378 mila euro per stabilire una presenza ufficiale su questa «realtà parallela», e così farsi conoscere dai giovani che «normalmente non sono esposti alle nostre comunicazioni».

L’idea è venuta a Journee, un’agenzia di «costruzione di spazi digitali» a sua volta reclutata da un’agenzia che ha vinto l’appalto della Commissione.

Tra gli intervenuti, il giornalista Vince Chadwick, che si fa beffe sul sito Politico del party più triste d’Europa.