Fragili, umorali, sensibili al limite del patologico. È lo stereotipo che accompagna ogni donna, quello che sul posto di lavoro diventa il pretesto per svilire il ruolo delle lavoratrici, metterle in una condizione di subalternità psicologica e farne il capro espiatorio di ridimensionamenti aziendali o meschine rivalse.
Partiamo dai rilevamenti scientifici, quelli diffusi dall’Istituto Superiore di Sanità. Quasi una donna su quattro (24%) rischia di soffrire di un disagio psichico nel corso della vita, e le donne hanno una probabilità quasi tre volte maggiore rispetto agli uomini di sviluppare un disturbo mentale, in particolare depressione e ansia. Inoltre, esistono disturbi psichici esclusivamente femminili o quasi, come quelli della sfera alimentare, dove il rapporto donna-uomo arriva a essere di 9 a 1.
Le ragioni sono da ricercarsi in fattori sociali e ambientali, oltre che biologici; le donne devono conciliare troppe cose, spesso troppe di più rispetto ai maschi. È il carico di cura di cui si parla sempre quando si affronta la questione femminile, soprattutto in Italia: cura dei figli e dei genitori in assenza di servizi per l’infanzia e per gli anziani, cura della casa. E, quando hanno la fortuna di averlo, cura del lavoro. È vero, la biologia ci dice che sono più sensibili a depressione, ansia e insonnia, ma il fattore ambientale ha un ruolo centrale. L’essere più svantaggiate sul lavoro, con stipendi più bassi, meno possibilità di carriera e più probabilità di essere discriminate e licenziate le sottopone a una pressione costante, in una condizione di stress perpetuo.
Discriminazione e mobbing, sono le donne le vittime perfette?
A dare man forte a questa visione “di genere” dello stress da lavoro concorre una recente ricerca, svolta nel Regno Unito da studiosi italiani e inglesi, che ha dimostrato il nesso causale tra qualità del lavoro e salute mentale dei lavoratori, soprattutto per le donne.
Lo studio, pubblicato sulla rivista Labour Economics e condotto dai docenti di Economia politica Michele Belloni dell’Università di Torino, Elena Meschi della Bicocca di Milano e da Ludovico Carrino, ricercatore dell’Ateneo di Trieste e del King’s College di Londra, ha mostrato come il rischio di sviluppare stress o ansia sia collegato alle condizioni lavorative. In particolare a richieste elevate, ridotta autonomia decisionale, scarsa valutazione delle competenze, assenza di supporto sociale, squilibrio tra impegno e retribuzione, ingiustizia percepita relativamente all’imparzialità e rispetto con cui i dipendenti sono trattati dai superiori.
Inoltre la ricerca ha messo in evidenza che sono le donne a pagare il prezzo più alto, in quanto la loro salute mentale è più sensibile a variazioni nella qualità del lavoro, ma anche – sarebbe da aggiungere – in quanto più soggette a questo tipo di fenomeni.
Svalutazione, isolamento, umiliazioni, disparità di trattamento sono infatti tutti elementi che suoneranno familiari a chi, per qualunque motivo, si sia imbattuto in storie di discriminazione e mobbing. Proprio come quella che stiamo per raccontare.
“Hai fatto un’elvirata”: quando il mobbing chiama per nome
Milano, settembre 2014. Elvira è assunta in una rivista con contratto a tempo determinato. Da subito le assegnano la responsabilità di intere sezioni del giornale, i colleghi e il direttore mostrano di apprezzare molto il suo lavoro, e man mano che i contratti vengono rinnovati aumentano le responsabilità e l’impegno richiesti: nessun orario, zero vita privata e una crescente ansia da prestazione, perché è l’ultima arrivata, ha il contratto periodicamente in scadenza e un direttore che stravolge il giornale in continuazione, per cui lei cerca di essere sempre pronta a adeguarsi alle richieste.
Poi, però, dopo circa un anno il clima cambia. Senza capirne la ragione, nel giro di qualche settimana il lavoro di Elvira diventa insoddisfacente, prima per il direttore, poi a ruota anche per i colleghi: “In questo pezzo non si capisce un cazzo, è scritto in un italiano approssimativo”, “sei lenta, lenta”. E poi urla, insulti, minacce.
Il copione, da qui in poi, è da manuale: Elvira è progressivamente demansionata, ogni volta che scrive un articolo viene passato a un collega che lo riscrive di sana pianta, resta ore a fissare lo schermo del computer senza nulla da fare. “Una volta fui convocata nell’ufficio dei grafici. Avevo lasciato da impaginare alcune foto per una rubrica e il grafico ancora non le aveva messe in pagina. Davanti a tutti, il direttore iniziò a urlarmi contro frasi aggressive, sprezzanti, irripetibili. La violenza di quella sfuriata, il suo viso paonazzo vicino al mio, gli occhi folli di rabbia mi portarono sull’orlo delle lacrime. Io, una donna di più di quarantadue anni, stavo per scoppiare a piangere davanti all’intero ufficio. Non dimenticherò mai l’umiliazione, la vergogna, la rabbia di quel lungo momento. Decisi che con me avevano chiuso. Non sapevo ancora come e quando, ma sapevo che dovevo andare via di lì”.
E poi c’è l’isolamento, perché la solidarietà tra colleghi non esiste più, diventi un paria, e perché anche chi ti vuole bene fatica a entrare nei tuoi panni. “Noi puoi piangere per questo, è solo lavoro”, dicevano suo padre e suo marito. Già, come spiegarlo a chi non c’è mai passato? Come spiegare l’angoscia quando ogni errore commesso da chiunque diventa una “elvirata”, il proprio nome trasformato in sinonimo di incompetenza?
Così, anche Elvira entra nella spirale psicologica della depressione. La prima cosa a sparire è il sonno; le poche ore di riposo sono popolate da sogni orrendi, e ogni mattina alzarsi dal letto diventa più difficile. E poi le crisi d’ansia, la bulimia, le emicranie devastanti, la tachicardia, con quella sensazione di morte che il cuore voglia balzare fuori dal petto. Poi, però, Elvira rimane incinta, e per se stessa e il suo bambino capisce che è il momento di andare via. Il bambino non si salverà, troppo stress, dirà il medico. Ma lei, bene o male, sì.
“Ancora oggi, che sono passati sei anni, a volte sogno quell’ambiente e quelle situazioni”, dice. “E mi sveglio col cuore a mille, senza respiro”. Nonostante il tempo trascorso, la riconquista della fiducia nelle sue capacità e il riconoscimento di colleghi e superiori coi quali lavora oggi, quel senso di vergogna e di inferiorità, quella ritrosia ad avanzare proposte per il timore di dire banalità, non la abbandonano ancora del tutto.
Fenomenologia e sintomi dello stress da lavoro nelle donne
A introdurre implicitamente il concetto di “mobbing di genere” è lo stesso legislatore. Il d. lgs. 81/2008, il Testo Unico per la sicurezza sul lavoro, prevede infatti l’obbligo di valutare tutti i pericoli per la sicurezza e la salute dei lavoratori “ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, fra cui quelli collegati allo stress lavoro correlato… alle differenze di genere”.
“Nel confronti del genere femminile il mobbing assume manifestazioni specifiche”, spiega la dottoressa Giovanna Castellini, psicologa presso la Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico Milano. “Quando si parla di mobbing di genere, le molestie sessuali sono la prima cosa alla quale si pensa, ma non sono certo l’unica o la più ricorrente. Le forme di mobbing più frequenti nei confronti delle donne riguardano la maternità e la gestione dei figli e si esplicano, per esempio, nell’ostacolare la conciliazione lavoro-famiglia o nell’emarginare e demansionare la lavoratrice che torna dopo la maternità, fino a spingerla al licenziamento. Oltre al fatto, noto, che le lavoratrici sono in genere pagate meno degli uomini e che di rado raggiungono posti di comando”.
Ma il mobbing interessa particolarmente le donne soprattutto in termini di virulenza e durata delle violenze, perché di questo si tratta, né più né meno. “Nella mia esperienza posso dire che, quando si parla di mobbing, la prevalenza delle donne non è significativa tanto da un punto di vista numerico, quanto per quel che riguarda l’intensità e la durata delle vessazioni, e quindi le loro conseguenze psicofisiche”, dice ancora Giovanna Castellini.
“Le lavoratrici tendono a resistere più a lungo alle angherie, perché devono sempre dimostrare più dei colleghi maschi e anche perché sanno che per loro è più difficile riciclarsi se perdono il posto. Il mobbing tende sempre a distruggere il senso di sé del lavoratore, a maggior ragione se indirizzato contro una donna, perché in questo caso colpisce non solo il profilo professionale, ma anche personale: allusioni al vestiario, alle abitudini sessuali, alla fisicità, alle condizioni personali, sono tipiche del mobbing di genere.”
E allora immaginiamola questa lavoratrice, demansionata, svilita professionalmente e denigrata come donna, costretta a tenere insieme famiglia e lavoro, che stringe i denti oggi, domani, il giorno dopo, per settimane, mesi, anni. Alla fine esplode, perché è umana, non perché è debole.
“Comincia con piccoli segnali con i quali il corpo somatizza il malessere psicologico: disturbi del sonno, emicranie, gastriti”, spiega la dottoressa Castellani. “Poi alterazioni dell’alimentazione e dell’umore. Tutto questo cresce, si somma, fino a che esplode in ansia, depressione, esaurimento nervoso, a volte pensieri suicidari. La salute mentale viene compromessa alla radice, e spesso la ripresa richiede anni di analisi e terapia farmacologica”.
Talvolta, purtroppo, va a finire anche peggio: la malattia che sta mandando in frantumi l’equilibrio psichico fa tabula rasa delle difese immunitarie, rendendo fragile il corpo.
L’ipotesi di correlazione tra stress psicologico e cancro
Sulla relazione tra stress, depressione, disagio psicologico in generale e insorgenza di tumori la comunità scientifica tende a escludere un nesso di causalità diretta. Tuttavia, secondo uno studio pubblicato sul British Medical Journal e guidato da David Batty del Dipartimento di epidemiologia e salute pubblica dell’University College di Londra, lo stress psicologico può essere predittivo di mortalità per alcuni tipi di cancro.
Secondo il ricercatore inglese, l’esposizione ricorrente a stress emotivi potrebbe diminuire la funzione delle cellule natural killer, e quindi ridurre il controllo di quelle tumorali e favorire l’insorgere di neoplasie. “I risultati della ricerca mostrano che le persone che vivono uno stato di disagio psicologico sono anche quelle che hanno registrato più alti tassi di mortalità per cancro all’intestino, alla prostata, al pancreas, all’esofago e per leucemia”, dice Batty. “Abbiamo dunque la conferma che una cattiva salute mentale può avere una certa capacità predittiva per alcune malattie fisiche. Siamo molto lontani dal sapere come si manifesti questa relazione, ma non possiamo negarla”.
Se, dunque, ancora non si può provare una correlazione biochimica tra disturbo mentale e malattie organiche, è riconosciuto che la depressione, l’ansia, la fragilità psichica derivanti da discriminazione e mobbing creino un ambiente favorevole all’insorgenza di patologie anche gravissime. E questo non solo perché determinano un indebolimento delle difese immunitarie e dell’intero organismo, ma anche perché portano a trascurare la propria salute, adottando stili di vita pericolosi e saltando visite ed esami che permetterebbero l’individuazione precoce di eventuali anomalie.
Una ricerca che risuona in maniera inquietante con la realtà, in una delle testimonianze che abbiamo raccolto: quella di Sara.
La storia di Sara, dal mobbing al tumore al seno
Anche Sara è stata mobbizzata, e anche lei si è salvata solo lasciando il lavoro, dopo un anno e mezzo di “resistenza” in un ambiente che, dal suo racconto, assomiglia a un girone dantesco, tra colleghi ignavi e superiori iracondi.
Dopo circa quindici anni di anzianità in un’agenzia editoriale romana, Sara viene trasferita in un’altra sezione dell’azienda. Le mansioni sono quelle in cui ha maturato tutta la sua esperienza professionale: redigere testi, tenere i rapporti con gli autori, coordinarsi con l’ufficio grafico. Inizialmente il suo lavoro è apprezzato, ma ben presto l’asticella delle richieste si alza sempre di più, in termini di disponibilità a orari che si dilatano progressivamente, di gestione autonoma di una mole di lavoro che cresce in modo esponenziale e di flessibilità rispetto a richieste che cambiano di continuo.
Sara è una perfezionista, e più le si chiede, più lei cerca di dare. Solo che con il tempo il suo dare risulta sempre più inadeguato, insufficiente, e così viene demansionata, ridotta a fare una semplice revisione formale del lavoro altrui, a dover rispondere del proprio operato non solo al suo diretto superiore, ma anche a colleghi che hanno meno anzianità aziendale di lei. Non viene neppure più convocata alle riunioni di pianificazione del lavoro, alle quali partecipano invece tutti coloro che lavorano nel suo ufficio. Fino al punto che le sue giornate si riducono letteralmente a controllare le sue e-mail e aspettare, spesso inutilmente e per tutto il giorno, che qualcuno le dia qualcosa da fare.
Tuttavia, questo forzato far niente non le risparmia gli attacchi personali, la denigrazione, l’isolamento. “Ricordo che la collega che aveva la scrivania davanti alla mia aveva preso l’abitudine di rivolgere verso di me il deodorante da tavolo che aveva sulla sua postazione. Un modo silenzioso ma eloquente per dirmi che puzzavo. Ovviamente non puzzavo, ma iniziai a essere ossessionata da quell’idea e a lavarmi in continuazione. Un altro esempio del trattamento che mi veniva riservato? Una volta una collega, l’unica con la quale avessi legato lì dentro, mi disse che era stata caldamente sollecitata a non farsi vedere in mia compagnia. Un avvertimento anche per lei”.
Ed è così che, anche per Sara, inizia un malessere psicologico profondo: attacchi di panico, depressione, disturbi del sonno e dell’alimentazione. Arriva a pesare meno di quaranta chili, fino a rinunciare al lavoro, pur di porre fine al calvario. Ma non basta, perché quando ormai è fuori dall’ambiente che l’aveva fatta ammalare, ma ancora dentro alle conseguenti difficoltà psicologiche, a Sara viene diagnosticato un tumore al seno. La perizia dello psichiatra e medico legale che l’aiuterà nella sua causa contro l’azienda certificherà poi una relazione temporale tra la neoplasia e il quadro psicopatologico.
Ora Sara è guarita, da tutti i punti di vista. Ed è una donna nuova.
In questo quadro diventa più che mai urgente garantire condizioni di lavoro eque per le donne, che favoriscano la conciliazione di vita e di lavoro senza discriminazioni e colpevolizzazioni.
Perché da un ambiente di lavoro “a misura di donna”, più flessibile, gentile, accogliente e rispettoso, trarrebbero beneficio anche i colleghi maschi. Di questo si può stare sicuri.