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Cosa possiamo imparare dal caso Balenciaga

OLTRE LE CONGETTURECosa possiamo imparare dal caso Balenciaga

Questa è una storia nella quale ci sono più congetture che fatti. Questa è una storia nella quale le responsabilità si rimpallano come in una partita Brasile-Argentina. Questa è una storia che ha molto da insegnare, e poco di cui essere soddisfatti. Questa è la storia dell’ultimo “caso” che ha travolto Balenciaga, con tanto di teorie cospirazioniste di fronte alle quali le scie chimiche appaiono idee tutto sommato plausibili.

I fatti

La scorsa settimana Balenciaga pubblica sul proprio sito le immagini della sua “campagna holiday”, con accessori e borse da comprare in occasione delle prossime feste natalizie. Al suo interno dei bambini sono fotografati in un ambiente casalingo, tra divani dai cuscini brandizzati, abbracciati ai loro peluche. 

L’ispirazione originale arriva dalla serie Toy Stories, un progetto che il fotografo della campagna, Gabriele Galimberti, ha all’attivo da dieci anni, e nel quale scatta, appunto, dei bambini circondati dai loro giochi, per immortalare «la gioia pura e spontanea che unisce i bambini di origini differenti, quando si parla di giochi, che si tratti di macchine in miniatura o una scimmia di peluche: l’orgoglio che mostrano è commovente, divertente, e in certi sensi, porta a riflettere». Così ha scritto Galimberti in un post Instagram del 30 agosto, a corredo di una delle foto del suo progetto. Quelle della campagna Holiday di Balenciaga dovevano originariamente seguire le stesse coordinate: qualcosa però è andato orribilmente storto. 

Le dichiarazioni

Il pubblico ha iniziato a sollevarsi quando ha notato gli orsetti ai quali si stringevano i bambini, e che erano abbigliati con chiari riferimenti al bondage (top a rete, tanga, chocker con lucchetto). Una scelta di indubbio cattivo gusto che ha causato una valanga che si è ingrossata, via via che scendeva a valle. Alle foto di questa campagna, l’ira social ha aggiunto quelle di un’altra, sempre di Balenciaga, sempre presente nell’homepage del sito, e relativa però alla collaborazione tra il brand e Adidas, nella quale le borse con le tre strisce apparivano appoggiate su una scrivania, contorniate da documenti: facendo zoom, si scopre che uno di questi è la copia di un verdetto della Corte Suprema americana, in materia di pedo-pornografia, la US vs Williams, caso del 2008. 

Nel mentre il brand, percependo la possibilità di un caso, ha cancellato entrambe le immagini delle campagne dal proprio sito, lo scorso martedì, con una story di scuse postata su Instagram. «Ci scusiamo sinceramente per qualunque offesa che la nostra campagna holiday ha potuto causare. I nostri orsacchiotti plush bear (che in realtà sono degli zainetti, ndr) non avrebbero dovuto essere fotografati con i bambini in questa campagna, che abbiamo immediatamente rimosso da tutte le nostre piattaforme». Gabriele Galimberti, responsabile solo della prima campagna con i bambini, e non della seconda con i documenti, è stato ugualmente travolto dalle ire di Twitter e di Instagram, tanto da vedersi costretto mercoledì a pubblicare una dichiarazione su Ig.

«A seguito delle centinaia di mail e messaggi di odio che ho ricevuto per le foto della campagna di Balenciaga, mi sento obbligato a rilasciare una dichiarazione. Non sono nella posizione di commentare le scelte di Balenciaga, ma devo sottolineare che non ho avuto nessuna autorizzazione o coinvolgimento nella scelta dei prodotti o dei bambini da fotografare. In quanto fotografo (Galimberti è raramente utilizzato dalle maison, essendo un professionista che collabora maggiormente con riviste come National Geographic, ndr) mi è stato richiesto soltanto di scattare una scena già pronta, secondo il mio stile. Come succede spesso negli shooting commerciali, la direzione della campagna e la scelta degli oggetti da mostrare non erano nelle mie mani. Sospetto che qualunque individuo prono alla pedofilia faccia ricerca sul web e abbia sfortunatamente accesso a immagini completamente diverse dalla mia, esplicite nel loro tremendo contenuto. Accuse del genere sono dirette contro il bersaglio sbagliato, e distraggono dal reale problema. Inoltre, non ho nessuna connessione con la foto nella quale appare un documento della corte Suprema. Quella specifica foto è stata scattata in un altro set, da altre persone, ed è stata falsamente associata ai miei lavori».

In effetti, Galimberti ha ragione nell’affermare che nella maggior parte dei casi, nessuna immagine viene pubblicata, e persino prodotta, senza l’approvazione interna del brand, che ha in questo caso peccato di sicumera nel pensare di poter condividere delle foto del genere, senza timore di scatenare delle discussioni accese.

Visto che però lo statement ufficiale del brand non è sembrato calmare le acque, la maison ha fatto posto sul suo Instagram ad un unico post pubblicato il 28 novembre. Nel comunicato Balenciaga ammette sostanzialmente la propria responsabilità e negligenza nel vigilare durante il servizio nel quale sono ritratti gli zaini a forma di orsetto. Per quanto invece riguarda la campagna che vede sulla scrivania la sentenza della Corte Suprema, il brand afferma che «tutti gli oggetti inclusi nello shooting sono stati forniti da parti terze, che hanno confermato per iscritto che questi props (come si definiscono nel linguaggio modaiolo gli oggetti usati sui set, per creare un’ambientazione, ndr) fossero finti documenti legali. Si sono poi dimostrati essere in realtà documenti reali, che probabilmente erano stati presi dal set di una serie tv drammatica»

La pubblicazione di questi documenti, prosegue la nota di Balenciaga, «è quindi il risultato di una negligenza sconsiderata, per la quale Balenciaga ha sporto denuncia. Ci prendiamo la piena responsabilità per la nostra mancanza di controllo e vigilanza rispetto a questi documenti sullo sfondo. Avremmo potuto agire diversamente. Impariamo dai nostri errori e cerchiamo di identificare le modalità nelle quali possiamo dare un contributo. Balenciaga rinnova le sue più sincere scuse per l’offesa che ha causato ed estende le scuse a tutti i talent e partner».

L’ultima ad essersi espressa sul caso è stata la musa di Demna Gvasalia, Kim Kardashian. Nella giornata del 26 novembre, in una dichiarazione passata in una storia su Instagram, l’imprenditrice digitale ha affermato: «Sono rimasta in silenzio negli scorsi giorni, non perché non fossi disgustata e oltraggiata dalle immagini della campagna di Balenciaga, ma perché volevo un’opportunità di parlare con il mio team interno per capire come sia stato possibile che tutto ciò sia successo. Come madre di quattro bambini, sono stata scossa da queste immagini disturbanti. La sicurezza dei minori deve essere garantita e qualunque tentativo di normalizzare l’abuso su di loro non dovrebbe trovare posto nella nostra società, punto. Apprezzo la rimozione della campagna e le loro scuse. Parlando con il team, credo che abbiano capito la serietà della questione e prenderanno le misure necessarie affinché non possa più capitare. Per quanto riguarda il mio futuro con Balenciaga, sto valutando il prosieguo della nostra partnership, sulla base della loro volontà nell’accettare la loro responsabilità in qualcosa che non sarebbe mai dovuto accadere, e sulle future azioni che mi aspetto che intraprendano, per difendere i bambini». 

Kim Kardashian (AP Photo/LaPresse)

La causa legale

A seguito del caso, nella settimana del divorzio tra Gucci e Alessandro Michele, Balenciaga ha preso provvedimenti. Il 25 novembre la maison ha intentato causa alla casa di produzione North Six e al set designer Nicholas Des Jardins, responsabili della campagna con i documenti della Corte Suprema (la causa non cita gli orsetti bondage). Nella causa, l’azienda afferma di aver subito danni d’immagine quantificabili in venticinque milioni di dollari, e che la condotta dei due imputati ha portato «membri del pubblico, compresi i media, ad associare falsamente e orribilmente Balenciaga con il ripugnante e profondamente inquietante oggetto della decisione del tribunale».

Di conseguenza, gli imputati sono responsabili nei confronti di Balenciaga per «tutti i danni derivanti da questa falsa associazione». Non è ancora chiaro quale sia la richiesta di risarcimento del brand, come riporta The fashion law, sito esperto in questioni legali applicate alla moda.

Le teorie

I toni dello scontro sono poi saliti esponenzialmente, fino a delirare, citando fantomatici collegamenti che riporterebbero addirittura al Pizza Gate, la teoria cara all’alt-right americana, utilizzata nel 2016 e poi di recente rispolverata, secondo la quale degli individui di alto profilo americano (inizialmente la teoria buttava nel mischione Hillary Clinton, per minarne la corsa alla presidenza della Repubblica, poi si è allargata a diversi esponenti del Partito Democratico) usavano riunirsi al Comet Ping Pong, pizzeria di Washington DC, per perpetrare abusi su minori. Con tanto di riti satanici a corredo e traffico minorile.

Una escalation corroborata, secondo chi la teorizza, da altri elementi presenti nella campagna scattata di recente, relativa alla prossima spring/summer 2023 con testimonial come Bella Hadid e Nicole Kidman, tra gli altri. Nella foto che vede come protagonista l’attrice Isabelle Huppert alla scrivania di un ufficio tra i grattacieli, probabilmente newyorchesi, tra i tomi impilati sul mobile, zoomando, se ne riesce a intravedere uno di Michaël Borremans, pittore belga. 

Per chi non fosse a suo agio con la pittura contemporanea, Borremans è un artista che nel 2018 – durante la mostra Fire from the Sun a Hong Kong – ha esposto dei quadri nei quali si scorgono bambini che giocano con il fuoco, in un’atmosfera priva di controllo. Sono nudi e coperti nel sangue – non loro ma di qualcun altro, visto che in alcune delle opere sono disegnati anche arti umani. Immagini sinistre, dove i bambini non appaiono però traumatizzati. A spiegarlo meglio è il sito di David Zwirner, la galleria di Hong Kong che lo ha ospitato nel 2018. 

«Dalle fattezze di cherubini nei quadri rinascimentali, i bambini sembrano allegorie della condizione umana, la loro innocenza archetipa che si scontra con le loro devianze umane. Altri dipinti nella mostra disegnano macchine misteriose, la cui presenza enigmatica suggerisce un elemento di sperimentazione scientifica». Una riflessione inquietante sullo stato della società contemporanea, ma nulla che chi ha letto Il signore delle mosche, libro seminale di William Golding, ad oggi considerato universalmente un capolavoro, non abbia già conosciuto. 

Analizzando ancora le immagini, nella stessa foto con la Huppert si intravede un altro libro: “The cremaster cycle” di Matthew Barney, definito dal New York Times come uno degli artisti americani più influenti della sua generazione (e anche, ex marito di Bjork). Si tratta di uno dei suoi lavori più imponenti, costituito da cinque lungometraggi che raccontano la crescita dell’individuo, concepito come “materia grezza”, e che si forma in una società nella quale lo sviluppo dell’identità è in continuo (e ambiguo) mutamento. 

Un discorso estremamente complesso e articolato che non si ha la presunzione di riassumere in poche righe: ai teorici di QAnon della moda è bastato però molto meno. “The cremaster cycle” è riferimento al muscolo cremastere, quello che ricopre i testicoli. Barney faceva riferimento ai primi cambiamenti fisici del corpo: nulla che avesse anche solo lontanamente a che fare con dei set designer che simpatizzano per la pedopornografia. Nella strampalata conspiracy fashion, però, questo elemento liminale è diventato ulteriore prova del tentativo di Balenciaga di normalizzare l’abuso minorile. 

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Un post condiviso da Diet Prada ™ (@diet_prada)

Non ci dilunghiamo qui su altri inquietanti “Easter eggs” scovati da infervorati utenti di Twitter e Instagram, e quindi prova provata della assoluta veridicità del teorema. E così l’account Instagram Diet Prada, che ha cresciuto per anni i suoi follower a latte e sospetti – a volte confermati, altre modellati ad hoc per favorire un maggiore engagement sui social – redarguisce il suo pubblico, che in ansia chiede a gran voce che ci si esprima. In più, l’account nel quale ci sono Tony Liu e Lindsey Schuyler – un po’ gran visir della morale modaiola – ha pubblicato alcune stories dove invitava il proprio seguito a consultare Google nell’attesa: per vagliare e analizzare ogni teoria erano necessari tempo e attenzione, pensando forse di essere il team Spotlight del Boston Globe, i giornalisti che, nella realtà, smascherarono un sistema di abuso minorile endemico, perpetrato per anni nell’area di Boston, ad opera di preti cattolici (l’inchiesta valse loro il premio Pulitzer nel 2003).

I precedenti

Eppure, c’è stata un’era pre-social nella quale certe cose sono già successe, anche se non esistevano luoghi deputati sul web nei quali riunirsi in conclave per parlarne. Nel 2010 Carine Roitfeld, ai tempi direttrice di Vogue Paris, lasciò il giornale dove aveva militato per dieci anni. Se allora si parlò ufficialmente di separazione consensuale, i rumors del settore suggerivano un “disallineamento” tra lei e l’editore Condé Nast: una differenza di visioni a cui però l’editoriale dedicato ai regali di Natale – dal titolo “Cadeaux”, del numero di dicembre 2010 – mise la ciliegina sulla torta. 

Se l’intero numero vide la curatela di Tom Ford – insieme al quale Roitfeld mise a punto lo stile porno-chic per il quale Ford divenne amato nei suoi anni da Gucci e poi con il suo brand – lo specifico servizio ritraeva tre modelle bambine, che giocavano a vestirsi “da grandi”. Le modelle indossavano vestiti perfetti per le feste natalizie, e firmati dalle maggiori maison, ed erano fornite del make up per l’occasione. Un gioco stilistico sulla linea del politically correct, una zona nella quale la Roitfeld si è sempre sentita a suo agio e che però causò molte critiche relative alla sessualizzazione di minorenni. Critiche che, in un’era priva della penetrazione sociale odierna di Twitter e Instagram (per quanto non prive di una loro validità), finirono poi nel dimenticatoio, consentendo a Roitfeld di iniziare una seconda carriera come consulente dei brand di moda, e di rimanere nell’empireo delle più iconiche direttrici della rivista.

Cosa possiamo imparare dallo scandalo Balenciaga

L’unica lezione che si può trarre da questa faccenda, che ha assunto contorni spropositati e grotteschi, è che si possono suonare le campane a morto per il tentativo culturale messo in atto dalla moda di far coesistere l’alto e il basso, lo streetwear e le maison, il giudizio popolare con quello della critica. La complessità non può essere ridotta a un’immagine semplicistica, a un tweet di 240 battute, a una story che dura ventiquattro ore e poi scompare. 

Essere capaci di riflettere, interrogarsi e informarsi richiede più tempo di quello che serve per esprimere un giudizio sommario, e digitarlo prima di tutti gli altri. Con questo non intendiamo che il brand non sia incappato in un gigantesco errore di valutazione – sottostimando l’attenzione untuosa che circonda questi temi – nei tempi disgraziati nei quali si dà valore alle teorie del Pizza Gate. Quando, però, si gioca costantemente sul terreno di argomenti divisivi per emergere nei tempi dei social – che triturano e digeriscono qualunque riflessione nei tempi olimpici nei quali Usain Bolt correva i cento metri -, anche l’orsetto con il choker diventa pietra dello scandalo. 

Laddove, invece, si trattava di incauto cattivo gusto e di una generalizzata inerzia che trovano faticoso porsi un dubbio. Laddove, invece, in questo mercato drogato dalla necessità di rilevanza e povero (nella maggior parte dei casi) di una reale sostanza, sarebbe necessario evitare i «perché no?» (che avevano già un senso infausto quando a pronunciarli fu Bobby Kennedy nel 1968, poco prima del suo assassinio) e chiedersi semplicemente «perché?» una volta in più. 




Le scuse di Bob Dylan per gli autografi falsi sulle copie del suo ultimo libro vendute a 600 dollari

Le scuse di Bob Dylan per gli autografi falsi sulle copie del suo ultimo libro vendute a 600 dollari

Il cantautore americano Bob Dylan ha diffuso un messaggio di scuse per aver firmato con un’autopenna, o macchina da riproduzione firma, le circa 900 copie di un’edizione limitata del suo nuovo libro, The Philosophy of Modern Song, che erano state messe in vendita a 600 dollari proprio in quanto autografate. Alcuni dei fan di Dylan che le avevano acquistate si erano resi conto che le firme non erano davvero autografe ma riprodotte a macchina. Hanno trovato conferme facendo confronti con altri fan sui social network, e se ne erano lamentati con l’editore del libro, Simon & Schuster.

Inizialmente la casa editrice aveva negato che le firme fossero riprodotte con una macchina, ma poi si era scusata e aveva promesso rimborsi. Venerdì si è scusato lo stesso Dylan, che ha raccontato di aver cominciato a usare un’autopenna per riuscire a fare un gran numero di autografi durante la pandemia da coronavirus e dopo un episodio di vertigini.

Ai miei fan e a chi mi segue,
mi è stato detto che c’è una controversia a proposito delle firme su alcune delle stampe di miei lavori artistici recenti e su un’edizione limitata di Philosophy Of Modern Song. Ho firmato a mano ogni singola stampa negli anni e non ci sono mai stati problemi.

Tuttavia nel 2019 ho avuto un brutto episodio di vertigini che è andato avanti negli anni della pandemia. Serve un gruppo di cinque persone a stretto contatto con me per aiutarmi nelle sessioni di firma e non siamo stati in grado di trovare un modo sicuro e produttivo per farle quando il virus girava. Quindi durante la pandemia mi era impossibile fare autografi e le vertigini non aiutavano. Dato che le scadenze dei contratti erano imminenti, mi è stato suggerito di usare un’autopenna, con l’assicurazione che questo genere di strumento è usato “sempre” nel mondo dell’arte e della letteratura.

Usare una macchina è stato un errore di giudizio e voglio rimediare immediatamente. Sto lavorando con Simon & Schuster e le gallerie per farlo.

Con le mie più profonde scuse,
Bob Dylan

Uno dei messaggi su Twitter in cui si mostrava che le firme non erano veri autografi, ma erano state fatte riproducendo alcune firme di Dylan leggermente diverse tra loro.




Metti etica e gentilezza nel curriculum e il lavoro del futuro è tuo

Metti etica e gentilezza nel curriculum e il lavoro del futuro è tuo

Forse continuiamo a chiamarle soft perché sono difficili da misurare: morbide e quindi sfuggevoli, interstiziali. Ma di fatto l’aggettivo “soft” fa anche pensare a qualcosa di meno importante e più fragile, non adatto alla durezza della realtà, della competizione, della corsa per il successo. Così, le inafferrabili competenze soft – che caratterizzano l’essere umano e che fanno illividire di rabbia in nostri colleghi robot che, nonostante i miliardi di investimenti in ricerca e tecnologia, non sono in grado di avere intuito, fantasia, visione, empatia – restano sempre un po’ in secondo piano: se ne parla molto ma alla fine non ci si crede fino in fondo.

Sono astratte, hanno output incerti, è difficile misurarne l’impatto sulla bottom line, sono influenzate da troppi fattori perché ci sia la convinzione di poterle efficacemente formare – il santo Graal del ROI della formazione – e quindi si tenta di instradarle in modo tecnologico: realtà aumentata, realtà virtuale, gaming… nella speranza che qualcosa resti, ma senza mai averne la certezza. Se non nei risultati. Perché quando una persona “ha” competenze soft si vede, e si vede bene. Si tratta di capacità che riguardano il saper stare con gli altri, saperli motivare, sapersi spiegare, saper risolvere situazioni complesse, prendere decisioni in assenza di informazioni complete, essere creativi, usare il pensiero laterale, avere autoconsapevolezza e via così.

Secondo una recente ricerca fatta da IBM, sono le competenze che tutti i CEO cercano disperatamente nelle persone. Le competenze tecniche, infatti, sono più facili da apprendere! E’ vero, alcuni sono più talentuosi di altri: ma proprio per gestire i grandi talenti tecnici servono grandi competenze umane. E le competenze umane, o soft skill, servono anche per gestire i non talenti: servono per avere relazioni con tutti e avere relazioni con una quotidianità sempre più imprevedibile e cangiante. Infatti, a essere cresciute drammaticamente negli ultimi anni – altro che sostituite dalla tecnologia, anzi: aumentate di numero e di definizioni per rispondere a quanto la tecnologia produce in scala crescente – sono le cosiddette “professioni senza routine”. Secondo una ricerca del National Bureau of Economic Research di Cambridge, tra il 1976 e il 2014 questa tipologia di professioni ha avuto un tasso di crescita 25 volte più alto rispetto a quello delle professioni routinarie.

Quindi, come osserva l’esperto di risorse umane John Bersin in un recente articolo sulle competenze, se nel 2007 i ricercatori di Oxford e del World Economic Forum lanciavano l’allarme, dicendo che l’automazione avrebbe eliminato il 45% delle professioni, oggi sappiamo che i posti di lavoro non sono spariti ma sono stati sostituiti da professioni nuove: professioni a intensa capacità umana. La maggior parte di noi, oggi, è impiegato proprio in professioni senza routine: le job description cambiano spesso e, ancora più di frequente, cambia il perimetro delle attività. Dobbiamo saperci adattare e continuare a saper collaborare con gli altri in condizioni di estrema incertezza, velocità, complessità. Non si tratta tanto di processare informazioni, quanto di saper selezionare che cosa è importante e di saper leggere tra le righe, quello che non c’è.

John Bersin rinomina le competenze soft: le chiama “power skill”. Per lui, e come non essere d’accordo, sono queste le vere competenze “hard” del presente e del futuro. Nella sua lista di venti power skill vi sono termini che potrebbero sembrare fuori luogo. Ma la resistenza culturale verso aree soft, a bassa possibilità di controllo, si rivela nelle organizzazioni proprio quando ci diciamo “questa cosa sul lavoro non la porterei”. Ci sono la gioia (capacità tutta da esplorare: magari in italiano la tradurremmo diversamente), la generosità, la gentilezza, la pazienza, la tenacia… più che competenze sembrano virtù. Ma ci sono anche l’etica, la capacità di sorprendersi e di perdonare, l’umiltà, l’integrità, l’ottimismo: attitudini e valori che evidentemente si trasformano in saper fare. E infine, per tornare in un’area vagamente più familiare, vi sono sia il “drive” che la capacità di seguire gli altri, la gestione del tempo, la capacità di apprendere, la flessibilità e il teamwork. Un bel pout pourri, di difficile misurazione. Un po’ come dire che vale tutto e niente: è il saper essere umani tra gli umani, inteso all’ennesima potenza.

Eppure questa capacità a scuola non hanno materie, e anche le università spingono sempre di più su altro. Forse non abbiamo dedicato abbastanza attenzione e risorse alla possibilità che queste competenze possano essere acquisite e migliorate in modi diversi rispetto alla formazione tradizionale. Che non si tratti di ap-prenderle (prenderle da qualche parte, da qualcuno), in un processo top down di trasferimento di contenuto a un contenitore: che quindi i canali di insegnamento e formazione che abbiamo creato per trasferire nozioni non siano adatti a trasferire anche le competenze soft.

E così non siamo mai certi di star davvero formando queste competenze. Vanno verificate nella quotidianità, ma non c’è un misuratore che ci dica se, quanto e quando sono apprese. Sono esperienziali (perché, come abbiamo scoperto con l’intelligenza emotiva, regina tra tutte le competenze soft, la loro acquisizione “cabla” il nostro cervello, cambiando in modo radicale i nostri comportamenti e per farlo ha bisogno di pratica continua), beneficiano di esempi e di role model, sono spesso “nascoste” nella diversità. Ma, soprattutto, le power skill le abbiamo già, sono nella nostra natura. Riguardano la psicologia, quindi, più che la conoscenza; riguardano il far fiorire ciò che siamo, più che aggiustarlo secondo necessità.

E’ legittimo pensare che sia difficile inquadrarle, formarle, misurarle, ma questo non giustifica la scelta di metterle in secondo piano. Se gli strumenti che abbiamo oggi non sembrano adeguati a migliorarle e a dar loro il giusto valore, allora cambiamoli, o sarà lo strumento a determinare ciò che vale invece che essere utile a svilupparlo. Le professioni emergenti, non routinarie e ad alta intensità umana, hanno bisogno di persone dotate di competenze soft (umane, potenti, trasversali, di vita… sul nome dobbiamo metterci d’accordo) – e la buona notizia è che le competenze soft sono accessibili a tutti, perché sono parte del corredo di capacità naturali degli esseri umani. Superiamo l’incertezza e crediamoci: è ora di investire davvero, a tutti i livelli, su nuovi modi di misurarle e di migliorarle.




Orsetti fetish e documenti inquietanti: perché Balenciaga ha ritirato le sue due ultime campagne (chiedendo scusa)?

Orsetti fetish e documenti inquietanti: perché Balenciaga ha ritirato le sue due ultime campagne (chiedendo scusa)?

Doveva essere una campagna di Natale dedicata agli oggetti del cuore di Demna, il direttore creativo della maison Balenciaga. Eppure, è finita per essere tutt’altro: uno scandalo con tanto di scuse pubbliche e presa di posizione contro la pedofilia. L’errore (leggasi anche: orrore) di valutazione in effetti c’è, e solleva non poche critiche rispetto ai passaggi degli addetti ai lavori dietro le quinte: com’è possibile che nessuno si sia accorto di nulla?

Tutto è iniziato con i peluche a forma di orsetto vestiti in stile bondage, parola che il dizionario Treccani definisce esattamente così: «Pratica sessuale consistente nel legare o immobilizzare il partner, consenziente». Tutto è peggiorato con l’associazione di questi stessi peluche al mondo dell’infanzia: cosa ci facevano due bambine, con gli orsetti fetish tra le mani, nella campagna Balenciaga Objects?

Scattata da Gabriele Galimberti, presentato dal marchio come un fotografo spesso coinvolto in progetti che lo vedono all’opera con le eccentricità della vita quotidiana, la campagna porta in scena decine e decine di oggetti concepiti come regali di Natale, andando a completare la serie fotografica Toy Stories dell’artista stesso: «Un’esplorazione di ciò che le persone collezionano e ricevono come regali», recita la nota stampa ufficiale. Che si venda pure l’idea come si vuole, fatto sta che il popolo di Twitter – la piattaforma social proprio recentemente abbandonata da Balenciaga (pare per colpa di Elon Musk) – non è stato indulgente: «Credevo la gente stesse scherzando, ma no. Forse è per questo che Balenciaga ha lasciato Twitter. Non vogliono essere accusati. Sì, queste bambine stringono tra le mani orsetti vestiti con look in stile bondage», ha twittato un’utente.

La polemica non termina qui. Circa due settimane prima del lancio di Balenciaga Objectsla casa di moda diretta da Dmena aveva divulgato anche la campagna della collezione Balenciaga / adidas per la stagione Primavera-Estate 2023, a cui anche la modella Bella Hadid e l’attrice Isabelle Huppert hanno prestato il volto. Scattate negli uffici della Borsa di New York dal fotografo Chris Maggio, le immagini sono state ulteriore oggetto di controversia. 

Isabelle Huppert per Balenciaga

Zoom alla mano, l’autorevole profilo social Diet Prada ha portato in evidenza ulteriori riferimenti al mondo della pedofilia. Tra documenti sparsi ovunque nel disordine apocalittico dell’ufficio, proprio sotto un’iconica borsa Hourglass di Balenciaga, compare lo stralcio di una sentenza del 2008 che, come riporta la fonte, ribadisce «la promozione o la pubblicità della pornografia infantile come crimine federale non protetto dalla libertà di parola». Ancora, nel setting in cui posa Isabelle Huppert è stato incluso un libro d’arte di Michael Borremeans. «Il suo lavoro – scrive Diet Prada – è caratterizzato da bambini e adulti nudi coinvolti in atti di violenza, incluso il cannibalismo».

Alla luce di tutto ciò, segue un’infinità di domande: dov’erano gli addetti ai lavori? Chi ha approvato quei documenti? Chi li ha scelti? E dov’era Demna, designer che si è sempre schierato dalla parte dei diritti umani? Le scuse non sono tardate ad arrivare. «Ci scusiamo sinceramente per qualsiasi offesa abbia potuto arrecare la nostra campagna di Natale – ha scritto Demna su Instagram. – I nostri peluche a forma di orsetto non avrebbero dovuto essere presentati accanto a dei bambini in questa campagna. Abbiamo immediatamente rimosso la campagna da tutte le nostre piattaforme». 

Scuse a firma Demna anche per la campagna Balenciaga / adidas: «Ci scusiamo per aver messo in mostra documenti inquietanti nella nostra campagna. Abbiamo a cuore questo tema e ci muoveremo legalmente contro le parti responsabili della creazione del set includendo oggetti non approvati nella nostra campagna Primavera-Estate 2023. Condanniamo fortemente l’abuso sui bambini in ogni forma. Ci schieriamo a sostegno del benessere e la sicurezza dei bambini».

Chi dovrà rispondere ai provvedimenti legali è ancora da scoprire. Intanto, Gabriele Galimberti, che ha scattato Balenciaga Objects, ha rilasciato la seguente dichiarazione a Newsweek: «Non sono nella posizione di commentare le scelte di Balenciaga, ma devo evidenziare che non sono stato assolutamente coinvolto nella scelta dei prodotti, dei modelli (le bambine, ndr) né della loro stessa associazione». 




Nasce il “Treno Infinito” a emissioni zero: si ricarica da solo con la gravità

Nasce il “Treno Infinito” a emissioni zero: si ricarica da solo con la gravità

La compagnia mineraria australiana Forterescue ha annunciato la progettazione del primo “Ininity Train”, il Treno Infinito, che si ricaricherà autonomamente sfruttando la sola forza di gravità. Questo treno, il primo di una serie, permetterà di trasportare enormi quantità di ferro dalle miniere alle industrie senza consumare diesel e dunque senza alcuna emissione di CO2 e altre sostanze inquinanti nell’ambiente. La sua realizzazione è considerata un passo fondamentale per Fortescue, che sAnnui è impegnata a raggiungere le emissioni zero nette entro il 2030. Un esempio virtuoso per tutti, che porterà anche molti nuovi posti di lavoro.

Ma com’è possibile ricaricare un treno con la sola forza di gravità? Il “segreto” è nelle batterie all’avanguardia, che si ricaricheranno da sole mentre il treno percorre i tratti in discesa della ferrovia (dalle miniere alle fabbriche) e durante le frenate. In parole semplici, le batterie sfrutteranno la forza di gravità per ricaricarsi, permettendo al treno di percorrere il tratto in salita di ritorno (dalle fabbriche alle miniere) senza consumare un solo goccio di diesel. Grazie alle batterie ricaricabili ad alte prestazioni si eviterà anche la necessità di installare infrastrutture per energie rinnovabili lungo il tragitto.

Fortescue, che ha sede a Perth, nella sterminata Australia Occidentale, ha una flotta di 54 locomotive diesel che trasportano enormi convogli. Ciascun treno minerario è lungo ben 2,8 chilometri ed composto da 244 vagoni, in grado di trasportare oltre 34mila tonnellate di minerale di ferro. Sono “mostri” che nel solo 2021, come indicato dalla compagnia mineraria, hanno consumato 82 milioni di litri di diesel. Non è solo una spesa enorme, ma anche una quantità spropositata di CO2 emessa in atmosfera, il gas a effetto serra in grado di catalizzare il riscaldamento globale, alla base dei cambiamenti climatici.

Per dire basta a spreco e inquinamento l’azienda australiana ha deciso di acquisire Williams Advanced Engineering (WAE), una società con sede nel Regno Unito specializzata in batterie per veicoli elettrici. È un ramo commerciale della Williams, storica scuderia di Formula 1. Con la chiusura dell’accordo entrambe le aziende hanno rilasciato un comunicato in cui hanno annunciato il primo progetto congiunto: lo spettacolare Treno Infinito. “L’Infinity Train ha la capacità di essere la locomotiva elettrica a batteria più efficiente al mondo”, ha dichiarato con orgoglio Elizabeth Gaines, amministratore delegato di Fortescue. “L’Infinity Train non solo accelererà la corsa di Fortescue per raggiungere le emissioni nette zero entro il 2030, ma ridurrà anche i nostri costi operativi, creerà efficienze nella manutenzione e opportunità di produttività”, le ha fatto eco il dottor Andrew Forrest, fondatore dell’azienda mineraria. Non resta che vedere il primo Treno Infinito in marcia nella terra dei canguri.