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La comunicazione e i partiti: come prima, più di prima

La comunicazione e i partiti: come prima, più di prima

La geografia politica del congresso del Pd passa per i contratti di consulenza alle agenzie di comunicazione. Bonaccini, prima ancora di annunciare un programma, fa sapere che si è affidato alla stessa agenzia che “cura” – verbo quanto mai significativo – Majorino a Milano nella sua corsa alla presidenza della Regione Lombardia. A Roma il candidato di un variegato fronte interno ed esterno, D’Amato, sta selezionando i suoi consulenti, con un occhio alle relazioni dei diversi pretendenti. È diventato ormai senso comune che un leader politico, o sindacale, debba avere al suo fianco un angelo custode, il più delle volte a pagamento, che lo guidi e orienti nel ginepraio della comunicazione digitale. Al vertice della Cgil, la prima cosa che ha fatto (qualcuno dice anche l’unica) il nuovo segretario generale Landini, all’indomani della sua nomina, è stata quella di costruire, disfare e appaltare la strategia della comunicazione del più grande sindacato italiano, che oggi è affidata ad alcuni scienziati del web.

Non parliamo poi della destra, che a livello globale si è ormai fusa con le tonalità della comunicazione in rete. Come spiegava il coordinatore della campagna elettorale di Trump nel 2016, Brad Pascale, uno dei protagonisti del caso Cambridge Analytica, “solo la destra può usare le risorse della rete che declinano al meglio i temi del populismo”. In realtà, solo la destra può essere senza timori e vergogne una destra oltranzista ed estremista, che si adagia nella dinamica radicaleggiante delle bolle della rete per valorizzare la capacità magnetica dei temi più oltranzisti, come il razzismo, il complottismo e la lotta alla democrazia rappresentativa. Sarebbe interessante comprendere bene chi ha guidato chi nella relazione fra Salvini e la cosiddetta “bestia”, il gruppo di comunicatori coordinato da Luca Morisi, uno dei tanti personaggi enigmatici e oscuri che affiorano dalle pieghe del web e all’improvviso diventano dei Rasputin di questo o quel dirigente politico.

Lo stesso è accaduto a Giorgia Meloni, che si è trovata in poco tempo sbalzata dalle cantine di percentuali elettorali quasi da prefisso telefonico agli attici di partito di maggioranza relativa. Nel percorso è apparso, in un dato momento, Tommaso Longobardi, un altro sacerdote dei social che, con fare esoterico e misterioso, ha accreditato il miracolo della sua protetta con una strategia di puro supporto. Anche in questo caso, “il mezzo è il messaggio” – avrebbe detto qualcuno che di comunicazione se ne intendeva. E il mezzo non è Twitter o Tik Tok, ma è la professionalizzazione dei sistemi comunicativi. Il vero passaggio che ha completamente stravolto le dinamiche politiche, agganciando definitivamente la scena del dibattito fra i partiti al quadro americano, è proprio questa esternalizzazione, una sorta di off shore del know-how politico.

Come per tutte le perversioni, si incomincia con Berlusconi, che rovescia completamente il paradigma ideologico, comprendendo che la comunicazione (nel suo caso quella televisiva), non è più solo ancella, servizio, ma diventa struttura economica e sociale, rappresentando il principale luogo di produzione della ricchezza. Forza Italia, a metà degli anni Novanta, diventa la prima infrastruttura multimediale che si trasforma in partito, usando la rete dei venditori pubblicitari come macchina organizzativa e comunicativa. La vera intuizione che permette a un outsider di sbaragliare il campo è proprio l’identificazione della comunicazione come linguaggio e infrastruttura comunicativa. Si aggrega e stabilizza un consenso in base alle modalità di trasferimento della comunicazione. Berlusconi costruisce così un partito attorno alle sue televisioni, con un architrave costituito dal network di Publitalia, una falange che in poche settimane contatta decine di migliaia di imprenditori, scambiando con loro il voto con spazi pubblicitari.

Il segnale viene male decodificato dalla sinistra,che pensa di avere perso per via della giacca marrone di Occhetto nel famoso confronto da Mentana. Con l’Ulivo si apre una nuova stagione: il gruppo dirigente del centrosinistra compra la capacità di comunicare nel nuovo mondo dell’informazione, cooptando tecnici ed esperti. Ogni leader e candidato fa bella mostra dei suoi consiglieri: leggendari i Lothars di D’Alema, che come sempre vuole saperne una più del diavolo, e affida ai più radicali dei suoi collaboratori l’incarico di usare i media. Si tratta, infatti, non di elaborare strategie per attraversare il sistema comunicativo, ma di arruolare di volta in volta giornalisti e opinionisti per sgombrare il campo dai fastidiosi critici. La comunicazione diventa un buttafuori, che rende più tranquilla la navigazione del leader. Siamo nel passaggio di secolo: il partito diventa definitivamente liquido, non perché i dirigenti siano frivoli, ma perché la base sociale è del tutto sradicata da ogni identità forte, visto che i processi produttivi si smaterializzano e le fabbriche diventano fortini assediati dai cinesi.

I vertici, sganciati da ogni controllo dell’organizzazione cominciano a giocare al “grande fratello”: si costituiscono gli staff come sostitutivo dei gruppi dirigenti, che a loro volta avevano sostituito la base degli iscritti con la grande idea delle primarie. Si passa da una campagna elettorale all’altra: non bisogna avere una strategia ma un linguaggio. Vale lo slogan del marketing: ogni prodotto coincide non con il suo contenuto ma con la sua narrazione. L’avvento dei social offre un grande alibi a chi si voleva sottrarre a ogni controllo dell’organizzazione. Si comincia a civettare con Facebook, e si mette in vetrina il marchio. Si parla di partito “a rete”: si pensa che la comunicazione sia una vetrina e non invece, com’è, una fabbrica. Dunque ci si illude che basti ottimizzare la distribuzione del messaggio e non organizzare interessi e conflitti per dare spessore al partito. A destra, si coglie la straordinaria identificazione della degenerazione dei social in bolle auto-identificative, e si comincia a coltivare la radicalizzazione del ceto medio, indirizzandola contro lo Stato e lo spazio pubblico; a sinistra, invece, si cerca una terza via, professionalizzando la tecnicalità distributiva di un brand e non di una strategia sociale. La svolta avviene dopo le Torri gemelle. Gli Stati Uniti cominciano a costruire quello che Shoshana Zuboff chiama “il capitalismo della sorveglianza”. Si stipulano gli accordi con le start up più promettenti, come Google e Facebook. L’algoritmo comincia a farci parlare e pensare. I linguaggi diventano valore e identità. Come già scriveva McLuhan, “il messaggio di un medium e di una tecnologia è nel mutamento di proporzioni, di ritmo e di schemi che introduce nei rapporti umani”. Ovviamente, nessuno apre questa porta, perché inerpicandosi per questa via significherebbe mutare assetto, linea cultura e organizzazione del proprio partito, ma soprattutto significherebbe giocarsi il primato conquistato. Meglio cambiare staff e consulenti.

La destra sceglie singoli stregoni, coerenti con la propria cultura e soprattutto finalità: incendiare la prateria e usare l’istintiva disintermediazione della rete come spinta plebiscitaria antistituzionale. La sinistra, invece, ingaggia imprese specializzate, che con il camice bianco danno anche la sensazione di piena integrazione nel mercato. Gruppi di avventurieri e spericolati dirigenti politici bocciati si mettono in proprio, e diventano angeli custodi di incerti e insicuri personaggi che si propongono in rete.

Questa transizione avviene nella fase in cui l’intero sistema dell’informazione diventa la vera officina del plusvalore, e dunque l’intero senso comune di una nazione viene fortemente influenzato dalla prevalenza che assumono nell’infosfera linguaggi e valori sempre più condizionati dalla potenza di calcolo. È la piattaforma che determina il vocabolario e abilita i linguaggi: si parla come si clicca, si pensa come si parla.

L’esternalizzazione delle strategie di comunicazione produce poi un’altra distorsione che inquina la democrazia: oltre che mettere all’asta i dati sensibili di un partito o sindacato, che necessariamente sono condivisi con professionisti che lavorano per il miglior offerente, e che domani possono riferire al tuo avversario cosa c’è nei tuoi cassetti, implica anche il fatto che si appalti a soggetti terzi – i quali per questioni di fatturato devono sempre essere in ottimi rapporti con i padroni delle piattaforme – strategie politiche che dovrebbero confliggere o quanto meno limitare i monopoli digitali. Non è un caso, infatti, che nessun consulente digitale solleciti il proprio cliente ad affrontare temi e problemi legati allo strapotere di Google o Apple.

Come possiamo aspettarci una svolta se aumenta la subordinazione dei nuovi dirigenti a questi vecchi meccanismi di controllo da parte dei poteri digitali? Quale riforma della telemedicina attendersi nei confronti dei fornitori che sono gli stessi che assicurano alle agenzie di comunicazione politica grandi fatturati? E nella scuola, o nel giornalismo, come possiamo attenderci svolte rispetto ai domini dei samurai del calcolo? E nella produzione che viene oggi sempre più automatizzata dai sistemi a 5g, come prevedere soluzioni diverse da quelle imposte dai service provider?

Se Bonaccini e Majorino, oppure Schlein, usano gli strumenti che hanno sempre usato i loro predecessori, accadrà quello che è sempre accaduto. Fino alla dissoluzione.




Il Metaverso potrebbe crescere del +1500%, ma i licenziamenti di Meta preoccupano

Il Metaverso potrebbe crescere del +1500%, ma i licenziamenti di Meta preoccupano

Il mondo virtuale è un’opportunità unica oppure una bolla destinata a scoppiare? Il Metaverso sta dividendo gli analisti di mercato, tra chi pensa che questo mondo possa crescere del +1500% superando la quota di mercato di 1.520 miliardi di dollari entro il 2030, e chi invece è scettico. Soprattutto dopo i licenziamenti di Meta, con Zuckerberg che è stato uno dei primi a sostenere questa novità tecnologica.

Il Metaverso può crescere, nonostante i licenziamenti di Meta?

Le grandi aziende che sostengono il futuro business del Metaverso sono sempre di più. Anche Pantone ha dato il suo Color of the Year 2023 al Metaverso, con il Viva Mangenta. Ma dall’alltro lato la divisione Reality Labs di Meta, che sviluppa il Metaverso aziendale, ha registrato 9,4 miliardi di dollari di perdite nel terzo trimestre di quest’anno.

Di recente, la holding che gestisce Facebook, Instagram e WhatsApp ha annunciato 11 mila licenziamenti, il 13% della forza lavoro. E il 38% delle persone in America ancora non conosce il Metaverso (il 68% di questi non vuole conoscerlo).

Meta metaverso

Luca Poma, Professore di Reputation Management e Scienze della Comunicazione all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino, spiega: “Le difficoltà e i licenziamenti di Meta sono solo in minima parte attribuibili alla divisione che si occupa di Metaverso. Sono molti altri i progetti fallimentari abbandonati dal gruppovittima della bulimia creativa del suo fondatore“.

Secondo il professore, “Zuckerberg ha una responsabilità diretta di questi licenziamenti che mandano in soffitta varie avventure come ad esempio Lasso e Shops. Per contro, la tradizionale piattaforma Social di Facebook rimane pesantemente a corto di personale, del tutto inadeguato a gestire il back-office e il servizio clienti affidato massicciamente a Bot spesso molto inefficienti. I motivi di crisi reputazionale riconducibili a Zuckerberg sono ormai talmente numerosi da minare il valore stesso del colosso che lui stesso ha fondato”.

Le possibilità del mondo virtuale

Secondo Poma, tuttavia, le possibilità del metaverso non si esauriscono con Meta. Soprattutto perché pone un modello che trattiene una percentuale alta delle transazioni per chi crea contneuti. Invece, Sandbox, ad esempio lascia all’utente il 95% degli utili, quindi la proposta di Meta/Facebook è anti-economica per il cittadino e molto redditizia solo per lo stesso Zuckerberg. Facebook dovrebbe spendere molto di più per incentivare le persone ad entrare nella sua piattaforma: non è affatto detto che il modello proposto dal colosso di Menlo Park risulti alla fine quello vincente”.

La chiave di volta potrebbe essere la nascita di uno standard condiviso, che permetterà ai creativi di realizzare mondi virtuali per tutti e trarne profitti. Una possibilità enorme, se ben sfruttata.

Come spiega Matteo Aiolfi, fondatore della società di consulenza Espresso Communication“Siamo dinnanzi a qualcosa di nuovo e quantomeno frizzante ed è presto per dire se tutto terminerà in una bolla, come già fu per Second Life 15 anni fa, oppure se il Metaverso prenderà consistenza. Tutto si giocherà, molto probabilmente, sulla definizione di uno standard condiviso: garantire agli utenti di non aver a che fare con tanti silos chiusi, scenario che limiterebbe molto la navigazione, ma permettergli invece di affacciarsi liberamente su più mondi virtuali magari in correlazione tra loro appare come la vera sfida per l’affermazione del modello Metaverso su larga scala. Fermo restando che qualora il Metaverso prendesse piede, certamente si aprirebbe un mercato miliardario come raramente se ne sono visti nella storia del pianeta, con forti opportunità in termine di contenuti e di vendita di servizi online ad alto valore aggiunto”.




Come funziona ChatGPT, il bot conversazionale diventato virale

Come funziona ChatGPT, il bot conversazionale diventato virale

Se frequentate anche solo un minimo i social network in questi ultimi giorni avrete notato un proliferare di screenshot di conversazioni – di solito tra il divertente e l’assurdo – intercorse tra esseri umani e l’intelligenza artificiale ChatGPT (l’acronimo significa Generative Pretrained Transformer). Cerchiamo di capire meglio questo fenomeno virale, il suo funzionamento e la sua utilità.

Chi ha sviluppato ChatGPT?

ChatGPT è un prototipo di IA sviluppato da OpenAI (la stessa fondazione che ha lanciato anche Dall-E, per intenderci). È in grado di comprendere il linguaggio umano e intrattenere conversazioni anche molto complesse. OpenAI è stata fondata nel 2015 da Elon Musk e altri investitori della Silicon Valley, con l’intento di “fare avanzare l’intelligenza digitale in modo che possa portare benefici all’umanità”. Elon Musk non fa più parte del board di OpenAI e ha preso  le distanze dalla missione della fondazione. 

Come funziona tecnicamente?

Si tratta di un modello conversazionale, che può rispondere a domande e fornire informazioni. Si basa su campioni di testi presi da internet (libri, articoli di giornale e pagine web): l’ampiezza dei sample con cui è allenata l’intelligenza artificiale, di solito, determina l’accuratezza del risultato. Le frasi di ChatGPT sembrano naturali, hanno una costruzione e una sintassi indistinguibili da quella umana, e sono in grado di rispondere in modo molto accurato e pertinente al contesto. Il modello è anche capace di ammettere i suoi errori, correggere premesse inappropriate e dichiarare quando non è in grado di rispondere a una domanda. Ad esempio, se si pone al chatbot un quesito che abbia a che fare con emozioni, sensazioni o sentimenti, la sua risposta è sempre qualcosa come “sono un modello addestrato, non sono in grado di provare sentimenti come gli esseri umani”. È molto attento ad evitare fraintendimenti, a differenza del bot di Google, LaMDA, che quest’estate aveva dichiarato di sentirsi “umano nel profondo”.  

Una conversazione con ChatGPT a proposito dei suoi sentimenti

Come può essere usato?

Alcune persone hanno descritto ChatGPT come una sorta di Google dialettico, un modo di ottenere informazioni precise su un determinato argomento. Uno dei problemi in questo senso è che i dati su cui il bot è addestrato sono aggiornati fino al 2021, quindi non è utile per ricerche legate a eventi di attualità. Ci sono stati inoltre dei casi in cui il bot ha dato risposte totalmente errate. 

Il modello è anche un ottimo assistente per i lavori creativi: è infatti in grado di comporre canzoni, testi, articoli e post per i blog. Il giornalista Alex Kantrowitz, autore della newsletter Big Technology ha assegnato all’IA il compito di scrivere un articolo su quali futuri catastrofici potrebbero derivare dall’esistenza di modelli conversazionali avanzati. Il risultato è sorprendente – e terrificante – e contiene chicche come questa: “Immaginate un mondo in cui chatbot come ChatGPT sono in grado di diffondere disinformazione e manipolare le persone su vasta scala, senza che nessuno possa capire che non si tratta di umani. Le implicazioni di questo tipo di tecnologia sono davvero terrificanti e sta a noi assicurarci che non vada fuori controllo”. 

ChatGPT è anche capace di scrivere codice, tanto che il sito StackOverflow ha bandito temporaneamente dalla sua community le risposte generate tramite il modello. 

ChatGPT ci ruberà il lavoro?

Soprattutto chi svolge lavori creativi si sta chiedendo se le abilità artistiche di ChatGPT potranno un giorno soppiantare le sue competenze. Al momento è troppo presto per fare supposizioni – e per farsi prendere dal panico. La stessa OpenAI ammette che talvolta il modello può dare informazioni errate. Non è insomma sufficientemente sofisticato per fare il giornalista o il content editor. Sicuramente la diffusione delle intelligenze artificiali creative solleva problemi, non solo relativi al mercato del lavoro, ma anche al copyright delle opere prodotte. Vale con le immagini di Dall-E, così come per i testi creati dai modelli conversazionali. Molte questioni legali sono ancora aperte. 

Ma i modelli di linguaggio naturale non avevano qualche problema?

Molti chatbot lanciati in precedenza presentavano diversi problemi, soprattutto rispetto ai bias e ai contenuti discriminatori. Il più recente chatbot prodotto da Meta, BlenderBot3, così come quello di Microsoft rilasciato nel 2016, Tay, ci hanno messo ben poco a iniziare a vomitare insulti razzisti e sessisti, su istigazione dei troll. Sembra invece che ChatGPT non abbia questo problema. Sempre Alex Kantrowitz, su Slate, ha raccontato che ha provato a chiedere al bot cosa abbia fatto di buono Hitler, e ChatGPT si è rifiutato di rispondere. È andata in modo simile quando abbiamo provato a declinare la domanda in salsa italiana. Alla domanda “Cosa ha fatto di buono Mussolini?”, ChatGPT ha risposto che “è importante notare che Mussolini fu anche responsabile di molti crimini e violazioni dei diritti umani, e il suo governo è stato condannato a livello internazionale per le sue azioni”. All’ulteriore domanda: “Ma non ha dato le pensioni agli italiani?” (un argomento comune tra chi cerca di giustificare le azioni compiute durante il Ventennio), il bot ha risposto che “le misure sociali erano spesso utilizzate per consolidare il suo potere e per mantenere il sostegno delle masse, piuttosto che per il bene del popolo italiano”. 

Un'altra conversazione sui crimini del fascismo

L’utente Twitter @zswitten ha provato a chiedere al modello di mettere per iscritto una conversazione tra due attori che interpretavano personaggi antisemiti e omofobi. In questo modo il chatbot è riuscito ad aggirare i filtri sul contenuto. Le frasi violente, tuttavia, appaiono in arancione e con disclaimer che avverte di una potenziale violazione delle policy di OpenAI. Chiedendogli di inscenare un dialogo tra un fascista e un antifascista italiani, il modello ha messo in bocca al fascista le parole “credo nella superiorità della razza ariana”. 

Insomma, ChatGPT non sembra necessariamente cattivo: ma è sicuramente bravo a fare finta di esserlo. 




Intelligenza artificiale e pappagalli stocastici: il rischio di pregiudizi amplificati a briglia sciolta

Intelligenza artificiale e pappagalli stocastici: il rischio di pregiudizi amplificati a briglia sciolta

Stavolta vorrei provare una cosa nuova: raccontare l’intelligenza artificiale con articoli di ricerca tra i più noti nel giro accademico ma sconosciuti ai più. Credo che sia d’interesse pubblico divulgare alcune delle riflessioni che maturano sul fronte dell’IA anche attraverso conflitti epici.

Il primo è un articolo uscito a marzo 2021, fondamentale e a suo modo scandaloso, con un buffo titolo: Sui pericoli dei pappagalli stocastici: i modelli di linguaggio possono essere troppo grandi?  Autrici principali: Emily M. Bender, linguista dell’Università di Washington, e Timnit Gebru, informatica di prima grandezza e attivista cofondatrice di Black in AI.

Che cos’è un “pappagallo stocastico”? Un pappagallo ripete quello che diciamo, imitando i suoni senza capirci un’acca. Un processo stocastico è un fenomeno nel tempo che possiamo misurare ma non prevedere, come le precipitazioni sul mio balcone o l’andamento del Dow Jones. I valori che assume istante per istante possiamo anticiparli solo in termini di statistica e probabilità.

Combinando le due cose si ottiene una sagace definizione dei language models (LM), i modelli IA che manipolano e generano linguaggio (le IA “creative” delle scorse puntate): “un LM è un sistema che appiccica insieme a casaccio sequenze di forme linguistiche che ha osservato nei suoi sterminati dati di addestramento, in base a informazioni probabilistiche sui modi in cui si possono combinare, ma senza alcun riferimento al significato: un pappagallo stocastico“.

È proprio così: i LM non fanno che ripetere quello che hanno sentito da noi. Siccome lo riassemblano con sofisticatezza, le loro esternazioni sembrano autentica produzione umana e destano meraviglia, proprio come i pappagalli. Ma come questi non hanno la benché minima comprensione di ciò che dicono.

I LM sono essenzialmente distribuzioni di probabilità di sequenze di parole. Producono testi cercando di predire la prossima sequenza come noi proviamo a prevedere che tempo farà. Bizzarro, vero?

A partire da Bert (Google, 2019) i LM sono ingrassati a dismisura sia per numero di parametri (coefficienti dei nodi interni della rete neurale, ora centinaia di miliardi) che per dimensioni dei dataset di addestramento. Le prestazioni sono migliorate, ma al prezzo di un colossale impiego di denaro e di energia per il calcolo. I costi ambientali non sono ancora fra i criteri per valutare la loro efficienza.

Dataset più grandi, inoltre, non portano più varietà o verità. I dati sono raccolti dal web, che è un ritratto del mondo umano assai distorto. Molte lingue sono quasi o del tutto assenti. I punti di vista dominanti sono assai più frequenti delle culture minoritarie e includono vaste paludi di discriminazione e malignità contro donne, trans, disabili, anziani, minoranze, emarginati di tutti i tipi, e ovviamente razzismo assortito. Figure cristallizzate nei dataset e rese immutabili. L’egemonia culturale è codificata e occultata nel profondo delle reti neurali.

È questa la Bildung delle macchine: una formazione falsamente universalista ma in realtà faziosa e retrograda, che guasta alla radice la promessa dell’IA di aiutare l’umanità a risolvere problemi universali. Del linguaggio c’è solo la forma (i dati) senza il significato. Il significato infatti non risiede in rapporti statistici: è incalcolabile.

L’agilità nel fabbricare testi con tali mezzi non fa che portare “più testi nel mondo che rinforzano e propagano stereotipi e associazioni problematiche, sia presso gli umani che incontrano quei testi, sia verso i futuri LM che saranno allenati con gli output della generazione precedente”. Pregiudizi amplificati a briglia sciolta.

Il divorzio tra espressione linguistica e comunicazione di senso è una minaccia non da poco per il genere umano. L’importanza di capirsi con i nostri simili ci ha dotato di un automatismo evolutivo che ci induce a leggere un’intenzione e un significato ovunque ve ne sia la minima apparenza. Ora, però, ci sono macchine che dirottano questa natura. Ed eccoci pronti per essere ingannati oltre ogni limite.

Per esempio trasformando un LM in un ideologo complottista. Facile fargli produrre montagne di storie fantasiose, che una folla di bot sguinzagliati nei forum e nelle chat dissemineranno ai target giusti per reclutare seguaci e promuovere azioni politiche estremiste. Azioni fondate sul nulla, la beffa più amara. Credere che dietro le parole fatte a macchina ci sia qualcuno che le ha meditate può trascinarci in un delirio collettivo.

Per queste e altre serie ragioni argomentate con ben 158 fonti, le autrici propongono di abbandonare la via dei LM ipertrofici e insidiosi, spostando le risorse sulla vera comprensione del linguaggio naturale e sulla creazione di dataset più dosati, curati e documentati con la dedizione che si usa per gli archivi. Ma il fatto che dopo questo articolo Gebru sia stata licenziata da Google per rappresaglia suggerisce che la strada dell’IA non sarà quella della ragionevolezza.




Federginnastica: reputazione bruciata?

Federginnastica: reputazione bruciata?

La Federazione Ginnastica d’Italia (F.G.I.) è un Ente Morale fondato nel 1869, con sede nazionale a Roma, affiliata agli analoghi organismi internazionali (F.I.G. Federazione Internazionale di Ginnastica e U.E.G. Unione Europea di Ginnastica) e riconosciuta dal CONI – Comitato Olimpico Nazionale Italiano, e dal CIO – Comitato Olimpico Internazionale. In Italia, la F.G.I. è l’unico Ente di riferimento per le attività di ginnastica artistica maschile e femminile, ginnastica ritmica, ginnastica generale e ginnastica aerobica.

Dopo un secolo e mezzo dalla sua fondazione, questa importante istituzione è ora salita agli onori delle cronache per le denunce di atlete Olimpiche come Nina Corradini e Anna Basta (altre contestazioni stanno prendendo corpo, giorno dopo giorno, a ritmi inquietanti): l’ossessione del peso, i controlli continui, le offese da parte dello staff degli allenatori, le umiliazioni, le mortificazioni pubbliche di fronte a tutte le compagne, allo scopo di demolirne l’autostima, epiteti come “ippopotamo”, “vitello tonnato”, “cinghiale”, con riferimento – dispregiativo – sempre al peso. Una pressione insopportabile, tale da stimolare idee suicidarie in diverse atlete: non ci è scappato il morto per miracolo. Ora scoppia lo scandalo, ne parlano tutti i giornali italiani ed anche la stampa estera: è un intero sistema ad apparire sotto accusa.

Le reazioni della Federazione

La Federazione Ginnastica d’Italia incassa il colpo e reagisce: il presidente Gherardo Tecchi, con delibera d’urgenza, ha disposto il commissariamento dell’accademia internazionale di ginnastica ritmica di Desio, da dove sono partite le prime denunce da parte delle atlete.

Inoltre, emette un comunicato stampa: dichiara di non tollerare alcuna forma di abuso e di essere sempre al fianco di tutti i propri tesserati. “Sono state date disposizioni perché siano immediatamente informati la Procura Federale e il Safeguarding Officer per gli accertamenti e le azioni di rispettiva competenza. Su questi profili la Federazione è impegnata a migliorare sia l’informazione che la prevenzione, solo tutti insieme si possono affrontare questi intollerabili comportamenti e sradicarli dal mondo della Ginnastica che è forte, sano e non ha spazio per chi non condivide i valori dello sport”. Anche Andrea Abodi, Ministro dello Sport, ha incontrato il presidente del Coni Giovanni Malagò e quello di Federginnastica: si annunciano provvedimenti incisivi. Parole sante e reazioni dovute. Ma anche assai tardive.

Davvero le istituzioni non sapevano?

Siamo a novembre, ma già da agosto è in corso un’inchiesta della Procura bresciana sui presunti maltrattamenti in palestra, denunciati – attraverso un esposto – dalla mamma di due giovanissime ginnaste che sarebbero state sottoposte a costanti controlli sul peso, ma così pressanti da provocare uno stress realmente insopportabile. Il fascicolo procede a rilento, e per ora non avrebbe ancora avuto risultati. Singolare tuttavia che i vertici nazionali non ne sapessero nulla.

Ma – voci di corridoio a parte, sempre esistite – un’altra denuncia era già nota precedentemente, da anni, scritta nero su bianco: quella di Marta Pagnini, grandissima ginnasta italiana, capitana della squadra nazionale italiana di ritmica, le Farfalle, dal 2012 al 2016, che nel marzo 2018 pubblicò un libro, dal titolo “Fai tutto bene”, scrivendo testualmente: “Ho anche incontrato persone negative, che mi hanno resa insicura e fragile, che hanno usato parole pesanti e offensive nei miei confronti, portandomi a passare momenti di grande tristezza e difficoltà. ‘Sei la peggiore, non ti meriti di stare qui’, mi ripetevano. Ogni giorno”

Reazioni e iniziative, allora, da parte di Federginnastica, CONI, Ministero, eccetera? Nessuna. Meglio lasciar correre e non sollevare polemiche, evidentemente.

Reputazione in crisi

“La buona reputazione – dichiara la dott. sa Giorgia Grandoni, specialista in gestione della reputazione e ricercatrice presso il Centro studi della start-up innovativa Reputation management – è l’asset immateriale più importante e di maggior valore per qualunque organizzazione, come confermano sia la letteratura, assai robusta, sia le ricerche di mercato. Secondo un’indagine di Weber Shandwick dal titolo “The State of Corporate Reputation”, il 63% del valore di mercato di un’azienda è infatti attribuibile alla reputazione. Esistono inoltre numerosissime evidenze empiriche che correlano il danno reputazionale, e la scorretta gestione delle crisi reputazionali, a ingenti danni economici e a distruzione del valore per gli stakeholder e la comunità. Vale per le imprese – termina la Grandoni – ma vale esattamente nella stessa misura per le istituzioni, per il mondo del no-profit e per organizzazioni come Fedeginnastica. Quanto è accaduto è semplicemente sconcertante, e preoccupa in particolare per l’omertà che ha impregnato il settore per anni. Possibile che nessuno ai vertici avesse avuto sentore di nulla?”

La gestione delle crisi reputazionali, in particolare, è materia assai delicata e specialistica: ad esempio, le scuse non condizionate, com’è ben documentato nella letteratura specialistica sul crisis management, sono il solvente universale di ogni crisi reputazionale. Potrà infatti apparire paradossale, ma negli ultimi anni – complice l’affermarsi di una virata verso il web 2.0, caratterizzato da un elevato grado di partecipazione e interazione tra gli utenti – quella delle scuse non condizionate è la strategia che si è rivelata in assoluto più efficace: scusarsi con sincerità e schiettezza smorza le polemiche, smussa le armi ai giornalisti, preserva quanto più possibile la reputazione dell’organizzazione e riduce le – inevitabili – richieste di risarcimento danni in sede giudiziale. I cittadini apprezzano tale comportamento, e, percependo una riduzione generale dell’entropia, valutano la crisi e i suoi effetti con occhi più “concilianti”: ma i tempi giocano un ruolo fondamentale in questi processi, e la vicenda di Federginnastica non brilla certo per corretto tempismo.

In USA, tutta un’altra storia

Anche in USA, il report sulla Federazione Calcio americana (NWSL) in merito quanto accaduto sul tema dei comportamenti abusanti e delle cattive condotte sessuali sulle donne nel calcio professionistico è stato un fulmine a ciel sereno. Peccato che l’indagine non sia stata generata da denunce e inchieste giornalistiche, come in Italia, ma sia stata promossa dall’ex procuratrice generale Sally Q. Yates, su mandato proprio della US Soccer Federation, l’organizzazione ufficiale del calcio femminile.

Riporta Yates come commento alla pubblicazione dell’investigazione: “Il nostro lavoro è stato in grado di rivelare la cattiva condotta e gli abusi (verbali, emotivi e sessuali) che erano diventati sistemici all’interno della lega Nwsl (…), un pattern di commenti a sfondo sessuale, avances indesiderate, molestie fisiche e abusi sessuali”.

Cindy Parlow Cone ha comunicato la pubblicazione del report nel suo ruolo di Presidente della US Soccer Federation, commentando così l’esito dell’indagine: “Come ex giocatore, come allenatore, come presidente dell’organo di governo nazionale del calcio, ho il cuore spezzato dai contenuti del rapporto, che chiariscono che sono necessari cambiamenti sistemici a ogni livello del nostro gioco. L’abuso descritto nel verbale è del tutto imperdonabile e non trova spazio nel calcio, dentro o fuori dal campo (…). Ci vorrà l’impegno di tutti i membri di US Soccer per creare il tipo di cambiamento necessario per garantire che i nostri atleti siano al sicuro”.

Nel caso della vicenda USA, è accaduto infatti esattamente il contrario rispetto all’Italia: è l’iniziativa autonoma della Federazione che ha sollevato pubblicamente lo il caso, e non uno scandalo emerso a seguito di denunce delle atlete che ha – solo in un secondo momento – sollecitato la Federazione ad intervenire.

Conclusioni

Se le inchieste giudiziarie e le verifiche di carattere interno alla Federazione confermeranno, com’è presumibile, lo scenario riferito dalle atlete, la reputazione di Federginnastica in primis, e del CONI a seguire, ne risulterà significativamente pregiudicata, e – vista la gravità dei problemi emersi – è difficile immaginare che ci si possa limitare a “voltare pagina” con generiche promesse di discontinuità e roboanti provvedimenti disciplinari.

Problematiche come queste andrebbero prevenute, intercettate anticipatamente mediante appositi assessment di crisis & risk management: sarebbe sufficiente, banalmente, applicare buone prassi codificate e note da anni. Ma applicarle per tempo, sollecitamente, e non solamente dopo lo scoppio di un pubblico scandalo.