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La forza generativa della fiducia

La forza generativa della fiducia

Nella sua autobiografia, David Packard, il fondatore della Hewlett-Packard, a un certo punto scrive: «Sul finire degli anni ‘30, quando lavoravo alla General electric, i capi erano particolarmente attenti alla sicurezza degli impianti (…). La Ge era specialmente zelante nel sorvegliare gli attrezzi e i componenti meccanici per evitare che gli operai potessero portarseli via. Come risposta a questa ovvia manifestazione di sfiducia molti operai si sentivano giustificati e rubavano ogni qual volta ne avevano la possibilità (…). Quando fondammo la Hp, questi ricordi erano ancora vivi e per questo decidemmo che i nostri magazzini dei componenti e degli attrezzi sarebbero sempre rimasti aperti. Questo ci avvantaggiò in due modi: innanzitutto risparmiammo sulla sorveglianza ma soprattutto creammo un clima di fiducia che divenne il centro intorno al quale la HP fa ruotare il suo modo di fare affari» (“Hp way: How bill Hewlett and I built our company”, Collins, 1995).

L’importanza della fiducia

La diffidenza crea opportunismo, la fiducia, invece, concorre ad alimentare l’affidabilità. Questa è un dato tanto fondamentale quanto trascurato.
La nostra psicologia del senso comune, infatti, concettualizza un atto di fiducia come basato su una valutazione circa l’affidabilità della persona di cui si decide di fidarsi.
«Mi fido di te perché credo tu sia affidabile».
Quindi il nesso causale va dalla affidabilità alla fiducia.

È il fatto di ritenerti affidabile che causa la mia decisione di fidarmi. Ma come abbiamo visto questa è solo una parte della storia, la più banale. L’altra parte della storia ci dice che la mia fiducia suscita, almeno in parte, la tua affidabilità. Qui il nesso causale è invertito. La fiducia, appunto, genera affidabilità. Comprendere questa lezione è fondamentale. Se ci basassimo solo sulla prima parte della storia ci comporteremmo, infatti, come i dirigenti della General Electric; solo considerando anche la seconda parte saremmo in grado di attuare politiche più sagge come quelle adottate dalla Hewlett-Packard.

Fidarsi vuol dire rischiare

Lo stesso messaggio si può, naturalmente, applicare a molti altri ambiti della vita sociale, politica, economica, alla scuola, alla famiglia. Quando qualcuno si fida di me, questo fatto, già di per sé, costituisce una ragione addizionale perché io mi dimostri affidabile. Alla base di questo meccanismo di “induzione” della fiducia sta il principio che ho chiamato altrove di “rispondenza fiduciaria”. Fidarsi di qualcuno significa innanzitutto instaurare una relazione interpersonale e, nell’ambito di questa relazione, operare insieme per il raggiungimento di uno stato di cose migliore rispetto allo status quo, rispetto a quello, cioè, che si sarebbe determinato qualora si fosse deciso di non fidarsi. Ma alla possibilità di un potenziale vantaggio fa da naturale contraltare il rischio connesso al tradimento della fiducia, alla tentazione dell’opportunismo. I due elementi sono così strettamente legati che David Hume li riteneva concettualmente inseparabili: «È impossibile separare la prospettiva di un bene dal rischio di un male», scriveva.
Fidarsi, dunque, vuol dire rischiare! Ma non come si rischia quando si gioca in borsa o d’azzardo. Non si fronteggia l’imprevedibilità degli eventi naturali o l’imperscrutabilità del caso. Si rischia perché ci rendiamo volontariamente vulnerabili agli altri, all’impossibilità di controllo del loro comportamento, del loro libero arbitrio.

L’inevitabile oscillazione

Gran parte del nostro stare insieme, allora, del nostro vivere in società può essere descritto come un continuo oscillare tra la necessità di fidarsi degli altri e il tentativo di ridurre il rischio legato a tale apertura. Sembra quasi che la fiducia getti le sue radici nel “tragico”, nell’impossibilità, cioè, di non fidarsi e nella contemporanea assenza di certezze circa la risposta altrui. Eppure, studi recenti che portano sostegno empirico all’idea di rispondenza fiduciaria sembrano mostrare che questi momenti non siano separati, così come la visione “tragica” suggerisce, ma che siano, al contrario, strettamente connessi, quasi conseguenza l’uno dell’altro. Perché fidarsi significa già ridurre i rischi della fiducia. È questo fatto che rende i fenomeni fiduciari intrinsecamente paradossali. Ma in fondo ogni relazione interpersonale è nel suo intimo paradossale. Andare alla ricerca delle radici di ciò che vuol dire “fidarsi”, ci sfida a gettare uno spiraglio di luce nell’ombra di questa intimità.




Non sottovalutate Musk. Con l’acquisto di Twitter si apre una strada verso il potere

Non sottovalutate Musk. Con l'acquisto di Twitter si apre una strada verso il potere

Così Elon Musk risponde alle mille illazioni sul suo vertiginoso take over di 44 miliardi di dollari, per conquistare la piattaforma dell’uccellino.

In sostanza dice “ragazzi ora ci divertiremo”, ora accadrà di tutto.

Il prezzo per questo spettacolo lo ha pagato molto caro: circa tre volte la quotazione dei più ottimistici esperti. Siamo in piena recessione tecnologica, con una caduta di tutte le piattaforme principali, da facebook che sta precipitando , perdendo circa il 70 % del valore dall’inizio dell’Anno, a Google che è sotto del 25 % Ad Amazon che ha ceduto il 13 %. In questa congiuntura il miliardario sudafricano raccoglie una fortuna di 44 miliardi di cui la metà di tasca propria, e si prende twitter ad un prezzo fuori mercato. Perché?

Trump è convinto che la cosa gli aprirà la strada per una rivincita a Washington, a Mosca pensano che proprio perché costretto a prosciugare le sue finanze Musk sarà meno generoso con l’appoggio alla resistenza ucraina. Persino Salvini si congratula mettendo in conto uno spostamento del senso comune della piattaforma. In realtà il padrone di Tesla sembra avere altre idee in testa.

 La chiave è proprio la guerra in Ucraina. Musk con i suoi satelliti di Starlink ha privatizzato il conflitto, diventando il primo decisivo alleato di Zelensky, con la sua capacità di georeferenziare qualsiasi oggetto si muova sul terreno. Ora mira a comporre direttamente lo scontro armato. La sua proposta di pace che sembrava l’ennesima battuta, diciamo l’avanspettacolo della commedia che annuncia su Twitter. Invece la talpa sta scavando: il Cremlino è attento e per nulla dispiaciuto da quell’ipotesi che garantirebbe alla Russia Crimea e la contesa in Donbass. E lo stesso dipartimento di stato non ha certo snobbato la cosa, limitandosi ad un silenzio interessato.

Lo stesso sta accadendo in Cina, dove il gruppo Tesla ha grandi investimenti.

Da tutto questo si intuisce che la spesa per avere Twitter ha due veri obbiettivi. Il primo di carattere tecnologico: integrare una massa preziosa e sofisticata di dati, largamente legati al mondo del giornalismo, ai nuovi processi di automatizzazione della scrittura e del pensiero che Musk sta finanziando copiosamente. Come ha spiegato lui stesso, si tratta di arrivare rapidamente a un’intelligenza artificiale in grado di interpretare direttamente i nostri desideri e di comunicarli all’esterno. E il modo più sicuro per interpretare i desideri, ci spiega Shoshanna Zuboff nel suo saggio Il capitalismo della Sorveglianza (Luiss editore) è quello di suggerirli e condizionarli.

L’altro aspetto dell’operazione Twitter , whatever it takes, costi quel che costi, avrebbe detto il nostro ex presidente del consiglio Draghi, è aprire la strada ad un ruolo di reale potere istituzionale. Diciamo che Elon Musk non spende 44 miliardi per far giocare nuovamente Trump a fare il presidente, ma molto probabilmente intenderà direttamente scendere in campo e diventare un protagonista diretta della commedia, per rimanere alla sua metafora.

Non a caso Musk ha già costituito un partito trasversale che sta usando proprio per raccogliere le risorse per comprare Twitter. Nella nuova compagine azionaria che per altro ha deciso di ritirare il titolo dal mercato del Nasdaq , per non soffrire di regole e obblighi di trasparenza, ci sono forze geo politiche come il principe saudita Al Waleed , numero se banche d’affari europee, conglomerate giapponesi, e persino per l’Italia il gruppo Unipol che dovrebbe farci capire perché si è infilato in una combinazione così eccentrica.

Ora il nodo sarà capire come contenere e civilizzare questa forza che irrompe sulla scena. Il commissario al mercato interno europeo Breton ha subito dichiarato che l’uccellino di Twitter se vorrà volare dovrà farlo rispettando le norme europee. Ma , come al solito, nei processi digitali, cambiano le circostanze e la materia delle nome. Non si tratta di fronteggiare un monopolio, o un uso distorto della privacy, ma di contenere la capacità di riproduzione delle nostre volontà sulla base di una molteplicità di saperi e tecnologie, tutte dipendenti da un unico proprietario.

Una tale potenza non è circoscrivibile con norme che dovrebbero essere adeguate ogni sei mesi, ma tagliando all’origine la base del suo potere, ossia la privatizzazione di dati e algoritmi che sono entrambe risorse pubbliche . Su questo bisogna che la politica si adegui al nuovo conflitto di interessi galattico, pena organizzare qualche convegno fra qualche anno per capire perché siamo tutti sudditi di un’unica piattaforme.




Spesi miliardi per accaparrarsi terreni nel metaverso. Soldi buttati o grande investimento?

Spesi miliardi per accaparrarsi terreni nel metaverso. Soldi buttati o grande investimento?

Quasi 2 miliardi di dollari. E’ questa la cifra spesa nel metaverso per l’acquisto di terreni virtuali nell’ultimo anno. E’ quanto emerge da una ricerca dedicata, che mostra come la corsa alla nuova dimensione della Rete sia in pieno svolgimento.

E così, scrive il sito della BBC, non sono pochi coloro che negli ultimi 12 mesi hanno deciso di investire per acquistare un lotto virtuale in qualcuna delle piattaforme virtuali che stanno animando i diversi metaversi disponibili.

C’è chi ha speso fino a 1500 sterline per un loto virtuale, acquistato per vantarsene con i conoscenti e potenziali clienti, come ad esempio artisti che hanno messo in piedi delle vere e proprie gallerie d’arte virtuali per mettere in mostra le loro opere online, messe in vendita in criptovaluta ad esempio sulla piattaforma Voxels.  

Dozzine di mondi virtuali diversi

Voxels è uno delle dozzine di mondi virtuali che si descrivono come metaversi. È fonte di confusione, perché le persone spesso parlano del “metaverso” come se ce ne fosse uno solo. Ma finché una piattaforma non inizia a dominare, o questi mondi disparati si uniscono, le aziende vendono terreni ed esperienze nelle loro versioni.

Dozzine di grandi marchi hanno acquistato appezzamenti di terreno nella mappa Sandbox negli ultimi sei mesi

Secondo al società di analisi  DappRadar nell’ultimo anno sono stati spesi 1,93 miliardi di dollari di criptovaluta per l’acquisto di terreni virtuali, di cui 22 milioni di dollari spesi per circa 3.000 appezzamenti di terreno su Voxels.

DappRadar può monitorarlo perché Voxels è costruito sul sistema di criptovaluta Ethereum, in cui, come tutte le valute virtuali, ogni transazione viene registrata e pubblicata su una blockchain pubblica.

Uno dei mondi più popolari è il cartone animato Decentraland. Lanciati nel 2020, i lotti di terreno vengono venduti per migliaia, a volte milioni di dollari. Samsung, UPS e Sotheby’s sono tra coloro che hanno acquistato terreni e costruito negozi e centri visitatori lì.

Il marchio di moda di lusso Philipp Plein possiede anche un lotto delle dimensioni di quattro campi da calcio, che spera conterrà alla fine un negozio e una galleria del metaverso.

Tuttavia, il proprietario, il signor Plein, dice che sua madre non è convinta del suo acquisto da 1,5 milioni di dollari.

“Mia madre mi ha chiamato e mi ha detto: ‘Cosa hai fatto? Perché? Sei matto, perché spendi così tanti soldi, cos’è questo?’”, dice.

Vestiti virtuali a caro prezzo

Il signor Plein vende beni in 24 diverse criptovalute online da più di un anno. All’inizio del 2022, ha aperto un nuovo negozio in Old Bond Street a Londra vendendo vestiti e alcuni token non fungibili (NFT) in cambio di criptovalute come Bitcoin ed Ethereum, oltre a sterline.

Dice che l’apertura del negozio lo ha aiutato a saperne di più sul metaverso e aggiunge:

Tuttavia, con il crollo generale del valore delle criptovalute, Dapp Radar afferma che i valori immobiliari del metaverso sono vicini al minimo di un anno

Gucci Town su Roblox

Su Sandbox, un altro dei metaversi crittografici, Adidas, Atari, Ubisoft, Binance, Warner Music e Gucci sono solo alcune delle multinazionali che acquistano terreni e costruiscono esperienze per vendere e promuovere i loro prodotti e servizi.

Gucci ha anche costruito Roblox, che insieme ad altre grandi piattaforme di gioco come Minecraft e Fortnite, è visto come il più mainstream dei metaversi.

A Gucci Town su Roblox, i giocatori possono acquistare vestiti per i loro avatar utilizzando la valuta di gioco Robux

Queste società di gioco non vendono terreni e sono gestite senza l’uso di alcuna tecnologia blockchain. Tuttavia, hanno già alcuni degli ingredienti chiave di cui gli scrittori di fantascienza dicono che abbiamo bisogno per un vero metaverso:

• la capacità di uscire e giocare

• le proprie valute mondiali

• l’opportunità di fare soldi sulla piattaforma

• enormi comunità fiorenti

Amber Jae Slooten prevede che ci sarà un “mercato di massa” per i vestiti digitali

“Quando abbiamo iniziato, tutti ci chiamavano pazzi, perché dicevano, ‘perché avresti bisogno di questo?’. Ma credevamo fermamente nell’idea che in futuro le persone avrebbero indossato gli articoli digitali”, afferma il co-fondatore e capo designer Amber Jae Slooten.

La vendita del record di The Fabricant finora è un vestito digitale che ha fruttato 19.000 dollari, sebbene sia stato venduto come NFT – un’opera d’arte digitale – e non sia stato indossato dall’avatar del proprietario.

Davvero vivremo nel metaverso?

La società ha appena raccolto 14 milioni di dollari di finanziamenti da investitori che scommettevano sull’idea che molti di noi vivranno presto parte della nostra vita nel metaverso.

Ma non è certo se e quando ciò accadrà. I metaversi crittografici sono generalmente scarsamente popolati e utilizzati realmente solo quando si tengono eventi, e anche in questo caso partecipano solo migliaia, e non milioni, di persone.

Meta di Mark Zuckerberg ha perso centinaia di miliardi di valore sul mercato azionario dalla sua spinta nel metaverso Anche nel mondo virtuale in cui Meta, proprietaria di Facebook e Instagram, sta investendo miliardi di dollari, i promemoria trapelati mostrano che le persone non rimarranno a lungo. Ma la signora Slooten è convinta che man mano che questi mondi si svilupperanno, le persone arriveranno. “Ci sarà sicuramente un mercato di massa in questo perché se si pensa alle nuove generazioni, già giocano. Per loro non c’è distinzione tra virtuale e reale. Ma deve ancora essere costruito”.




Nick Couldry, il colonialismo emergente dei dati

Nick Couldry, il colonialismo emergente dei dati

Parla l’autore, insieme a Ulises Mejias, de «Il prezzo della connessione». Giovedì 10, il sociologo sarà ospite della John Cabot a Roma. E venerdì interverrà al Politecnico di Torino. Il sistema è a caccia di nuovi territori o frontiere dai quali estrarre valore. La regolazione non basta, bisogna fornire soluzioni tecniche, sociali, politiche, scientifiche ed educative

La discussione critica sul potere dei dati e sulla loro capacità di fornire una rappresentazione adeguata, anche rispetto a preferenze, abitudini e comportamenti delle persone è ormai decollata. Uno dei testi più interessanti di questo ampio dibattito è il volume di Nick Couldry e Ulises Mejias: Il prezzo della connessione (Il Mulino, pp. 384, euro 39, traduzione di Paola Palminiello; edizione originale The costs of connection, Stanford University Press, 2019). Il volume sostiene che la colonizzazione della vita attraverso i dati è «il piano B» del colonialismo per continuare il processo di appropriazione di «territori» a disposizione.

Il processo di enclosures nel Seicento rese possibile la privatizzazione dei pascoli inglesi e l’acquisizione delle terre e del surplus economico, dando inizio all’accumulazione per spossessamento all’origine del capitale della prima rivoluzione industriale. Il land grabbing non si fermò al Regno Unito, ma cercò nelle colonie nuovi spazi di espansione.

L’espropriazione delle terre comuni – considerate prive di titoli validi di proprietà – da allora non si è mai interrotta. Al presente siamo in una fase critica del capitale. È alla ricerca disperata di nuovi spazi di estrazione e astrazione.

Abbiamo posto alcune domande a Nick Couldry, in questi giorni a Roma, che ci risponde anche a nome del suo coautore Ulises Mejias.

Ci può spiegare la differenza tra colonialismo storico e colonialismo dei dati?

Il colonialismo dei dati è un ordine sociale emergente basato su un nuovo tentativo di impadronirsi delle risorse del mondo a beneficio delle élite. Come il colonialismo storico, è basato sull’estrazione e l’appropriazione di risorse di valore. Il vecchio colonialismo si appropriava della terra, delle risorse e del lavoro umano. Il nuovo si appropria di noi, dello scorrere quotidiano della nostra vita, nella forma astratta dei dati digitali. Questo nuovo colonialismo non sostituisce il vecchio, ma aggiunge una nuova cassetta degli attrezzi, che implica raccogliere, processare e applicare i dati. Non c’è corrispondenza diretta tra vecchio e nuovo colonialismo.

La brutalità non è la stessa, ma c’è ancora molta violenza in queste nuove forme di sfruttamento e l’intero nuovo ordine emergente dal colonialismo dei dati è basato sulla forza piuttosto che sulla scelta, e usa le stesse disuguaglianze storicamente costituite. Non siamo contro i dati di per sé. Stiamo specificamente criticando la forma dell’estrattività dei dati che ha un solo obiettivo: la generazione di valore in modo iniquo e asimmetrico, che impatta in negativo sulle tradizionali vittime del colonialismo, non importa se le definiamo in termini di razza, classe o genere, o nell’intersezione di tutte queste categorie.

Crede che questo progetto neocoloniale che interviene sulla vita umana produrrà una forma di mercificazione in cui non ci sarà più nulla che possa essere protetto dalla produzione capitalistica di valore?

Se pensiamo in termini marxisti, sfruttamento ed espropriazione avvengono rispetto ai lavoratori nei luoghi di lavoro. Nel capitalismo dei dati, lo sfruttamento avviene ovunque e sempre. Possiamo anche rilassarci e interagire con amici e con la famiglia, e l’estrazione e il tracciamento avvengono comunque. La ragione per cui sempre meno aree della vita sono protette dallo sfruttamento è che la mentalità coloniale presuppone che i dati, come la natura e il lavoro prima di loro, siano una risorsa economica. I dati sono abbondanti, disponibili e privi di padrone.

Il nostro ruolo è solo produrli e arrenderci alle corporazioni commerciali, le uniche capaci di trasformarli in qualcosa di produttivo e utile. Questa premessa è fallace perché si basa su un modello estrattivista e produce un ordine diseguale in cui solo pochi guadagnano e molti sono esclusi.

L’estrazione dei dati è un modo per accedere alle informazioni intime delle persone? Oppure pensa che l’informazione creata dai processi di datificazione possa piuttosto orientare il comportamento delle persone senza comprenderle? Non crede che questo processo di estrazione alla fine non produca abbastanza valore, soprattutto se i consumatori sono espropriati della loro volontà e magari anche delle loro risorse?

Il colonialismo dei dati è un sistema per rendere le persone più facili da usare per le macchine. I dati catturati dalle piattaforme non possono restituire la complessità di un singolo essere umano. La pubblicità ipertargettizzata potrebbe non funzionare bene. Ma le corporazioni monetizzano i dati usandoli per influenzare decisioni commerciali e politiche, rivendendo a noi la nostra vita (organizzano la vita e perfino predicono problemi di salute ed emotivi). Anche quando i dati non possono essere direttamente monetizzati, accumulati o anticipati generano valore in termini di investimenti speculativi che costruiscono valore per il mercato azionario.

Questo sistema non fissa limiti. Né il colonialismo, né il capitalismo ne hanno. Il sistema è sempre a caccia di nuovi «territori» o «frontiere» dai quali estrarre valore. È il motivo per cui Lenin diceva che l’esito dell’imperialismo è la forma più avanzata di capitalismo: dopo aver esaurito le persone da sfruttare a casa, devi colonizzare nuove zone di estrazione che diventano anche nuovi mercati per quello che vendi. Questa è la strategia dietro il colonialismo dei dati, visto come l’ultima appropriazione di terre in una lunga serie di appropriazione di risorse.

Ci può dire di più sulla strategia per decolonizzare i dati? Come possiamo coltivare il principio di discontinuità rispetto alla connessione dei dati?

La regolazione è una strategia, ma è improbabile che sia sufficiente, perché non pensa in termini di forme di vita, come invece fa il pensiero decoloniale. Secondo le idee più avanzate di alcuni studiosi di diritto, i dati non dovrebbero essere connessi, l’estrazione dei dati deve essere disgregata, impedendo che piattaforme educative o sociali possano ridistribuirli a reclutatori o assicuratori. Ma questa idea di discontinuità nella connessione non è stata accolta dai regolatori. La nuova legislazione sui dati in EU va in direzione opposta: assicurare un flusso di dati, il più possibile libero tra le corporazioni.

La regolazione non basta e la visione decoloniale dei dati deve fornire molte soluzioni, non solo tecniche, ma sociali, politiche, culturali, scientifiche e educative. Deve collegarsi a lotte che non hanno a che fare coi dati, ma sono lotte per la giustizia e la dignità. Per questo molte risposte creative al colonialismo dei dati arrivano dai gruppi femministi, antirazzisti, e indigeni. Dobbiamo imparare da loro. Con la femminista messicana Paula Ricaurte abbiamo creato un network, Tierra Comun che si propone questo scopo.

Nel libro che ha scritto insieme a Ulises Mejias si dimostra una continuità tra colonialismo e razionalità «occidentale». Come possiamo preservare la ragione, e insieme proteggere il pluralismo, le differenze e l’autonomia umana?

Il primo passo è riconoscere che ragione, pluralismo, autonomia non sono concetti solo dell’Occidente. La razionalità occidentale ha preso in prestito (per essere gentili) molte di queste idee dalle tradizioni non occidentali. Non si tratta di fare a meno della razionalità, ma dell’affermazione occidentale dell’esclusività su di essa. Decolonizzare i dati è in primo luogo un esercizio di creatività e immaginazione. Possiamo imparare molto dai modelli non occidentali di come resistere alla razionalità coloniale. Qualche volta la resistenza deve cominciare con la mente, se resistere con il corpo non è possibile. Ma quando comincia, è inarrestabile. Vediamo comunità prendere il controllo sui loro dati, chiedersi: è possibile decolonizzare l’intelligenza artificiale, o c’è qualcosa di intrinsecamente coloniale in lei? Stiamo cercando di capire come fare, ma i dibattiti sono ormai in corso.

Non crede che epistemologia e politica siano strettamente connesse, tanto che per il successo delle pratiche decoloniali ci sia bisogno di un nuovo modo di pensare e conoscere?

La politica, per quanto rude, si basa sempre su una certa forma del mondo. Qualsiasi lotta politica o trasformazione positiva si basa sulla possibilità di sfidare quelle forme, attraverso epistemologie alternative. Se la politica da cambiare vuole proseguire a beneficiare delle profonde disuguaglianze dell’ordine coloniale, contestarla significa non solo mandare in crisi una particolare narrazione, per esempio sull’origine di una nazione, o della povertà.

Bisogna invece mettere in discussione l’approccio generale alla conoscenza (su cui si basa molta della scienza che ereditiamo) che si appoggia su una visione estrattivista del mondo. Per farlo abbiamo bisogno di pensare la ricerca diversamente e progettare nuovi modi di conoscere e vivere insieme.

SCHEDA. Biennale Tecnologia, «apre» Nicholas Taleb

Nick Couldry è anche ospite alla Biennale Tecnologia che torna a Torino dal 10 al 13 novembre, organizzata dal Politecnico di Torino (si esplora il rapporto tra tecnologia e società). Con Biennale Off e Politecnico Aperto, la manifestazione si estenderà poi in altre sedi diffuse su tutto il territorio regionale. Dopo la «lectio magistralis» del saggista, matematico e filosofo libanese naturalizzato statunitense Nassim Nicholas Taleb, nel corso di quattro giornate ci saranno circa 280 relatori da tutto il mondo. Fra i tanti ospiti internazionali, Naomi Oreskes, Miguel Benasayag, Evgenij Morozov, Suzanne Heywood, Helga Nowotny, Éric Sadin, Heinz Stoewer, Peter Wadhams, Aaron Benanav, Joselle Dagnes, Derrick de Kerckhove; David Goodhart, Jürgen Renn, Jeffrey Schnapp, Bruce Sterling.




Una ricerca di Team Lewis analizza la user experience e il digital marketing dei brand

Una ricerca di Team Lewis analizza la user experience e il digital marketing dei brand

TEAM LEWIS, agenzia globale di marketing, lancia il report annuale Global Marketing Engagement Index™, con l’obiettivo di analizzare l’efficacia dei brand nella relazione con il proprio pubblico.

La ricerca analizza le 300 aziende top della lista Forbes Global 2000 attraverso il Marketing Engagement Tracker (MET). I cambiamenti registrati mostrano alcune tendenze che appaiono paradossali:

  1. Corporate Social Responsibility (CSR) / Environmental, Social and Governance (ESG)
    La sezione ESG del MET verifica se le aziende presentano o menzionano sul proprio sito web l’utilizzo di risorse energetiche rinnovabili o programmi di Diversity & Inclusion. Nonostante l’attualità di questi temi, il punteggio è sceso dal 65% nel 2021 al 56% quest’anno.
  2. Media
    Questa sezione del MET esamina il volume dei contenuti media sul sito web. Può trattarsi di case study, notizie su prodotti o servizi, interviste o citazioni di figure di spicco del management di un’azienda. Il punteggio complessivo è diminuito rispetto allo scorso anno, passando dal 56% del 2021 al 36% del 2022. Questa riduzione si deve al numero maggiore di aziende che ha dovuto affrontare una comunicazione di crisi, interferendo con il normale flusso di comunicazione.
  3. Digital Marketing
    Questa area di indagine del MET analizza i fattori che determinano il successo di un’azienda con il proprio pubblico online. La frequenza di rimbalzo del sito, la Domain Authority, il numero delle top keyword e la keyword difficulty, fino ai posizionamenti SEO (Search Engine Optimization) e SEM (Search Engine Marketing). Il punteggio complessivo è sceso dal 56% del 2021 al 47% del 2022. Questo indica che le aziende stanno investendo meno nelle attività SEO e SEM.

D’altro canto, la ricerca rivela anche dei trend positivi, come quello della presenza sui social, che è aumentata dal 55% del 2021 al 62%.

La User Experience ha avuto un incremento, passando dal 35% del 2021 al 61% del 2022, così come i website reporting score sono saliti dal 26% al 48%.
La sicurezza dei siti web è rimasta all’80%, un punteggio certamente alto, ma che ci fa anche capire che ancora non tutti i siti web sono protetti.

“Queste tendenze rivelano dei paradossi. Assistiamo a un incremento degli investimenti per quanto riguarda l’esperienza utente, ma contestualmente a un calo nella SEO e SEM. Non ha molto senso avere una fantastica UX, se poi gli utenti non riescono a trovare facilmente il sito web. Gli investimenti per la visibilità e l’awareness online dovrebbero aumentare, non diminuire”, spiega Matt Robbins, VP Insight and Research.