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Perché ci ricordiamo tutti dove eravamo e cosa stavamo facendo l’11 settembre 2001

Perché ci ricordiamo tutti dove eravamo e cosa stavamo facendo l'11 settembre 2001

Ci sono date e immagini che segnano più di altre la storia. Senza dubbio una di queste è l’11 settembre 2001, giorno dell’attentato alle Torri Gemelle. Negli Stati Uniti erano le 8.45 (in Italia le 14.45) quando il primo aereo si schiantò contro una delle torri del  World Trade Center a New York. Venti minuti più tardi un secondo aereo fece lo stesso. Sono passati esattamente 21 anni; ma pensateci bene, vi ricordate tutti con precisione – pochissimi esclusi – cosa stavate facendo e dove eravate in quel momento. E c’è un perché.

Perché ci ricordiamo tutti dove eravamo e cosa stavamo facendo l’11 settembre

A spiegarci questo curioso fenomeno sono le neuroscienze, che svelano cosa accade nel nostro cervello una volta che siamo sottoposti a eventi di altissimo impatto emotivo. Ed è innegabile che – sebbene avvenuto dall’altra parte del mondo – l’attacco alle Twin Towers lo sia stato.

Responsabile di questo meccanismo è un ormone chiamato cortisolo e prodotto dal surrene su “richiesta” del cervello. In pratica, nei momenti di maggiore stress emotivo determina l’aumento di glicemia e grassi nel sangue, mettendo a disposizione del nostro corpo tutta l’energia di cui ha bisogno per sostenere lo sforzo emotivo.

Ci sono date e immagini che segnano più di altre la storia. Senza dubbio una di queste è l’11 settembre 2001, giorno dell’attentato alle Torri Gemelle. Negli Stati Uniti erano le 8.45 (in Italia le 14.45) quando il primo aereo si schiantò contro una delle torri del  World Trade Center a New York. Venti minuti più tardi un secondo aereo fece lo stesso. Sono passati esattamente 21 anni; ma pensateci bene, vi ricordate tutti con precisione – pochissimi esclusi – cosa stavate facendo e dove eravate in quel momento. E c’è un perché.

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Perché ci ricordiamo tutti dove eravamo e cosa stavamo facendo l’11 settembre

A spiegarci questo curioso fenomeno sono le neuroscienze, che svelano cosa accade nel nostro cervello una volta che siamo sottoposti a eventi di altissimo impatto emotivo. Ed è innegabile che – sebbene avvenuto dall’altra parte del mondo – l’attacco alle Twin Towers lo sia stato.

Responsabile di questo meccanismo è un ormone chiamato cortisolo e prodotto dal surrene su “richiesta” del cervello. In pratica, nei momenti di maggiore stress emotivo determina l’aumento di glicemia e grassi nel sangue, mettendo a disposizione del nostro corpo tutta l’energia di cui ha bisogno per sostenere lo sforzo emotivo.

Nel libro del giornalista Luca Poma “Il sex appeal dei corpi digitali” compare un intervento illuminante sul tema – dello svedese Lars Olov Bygren, specialista di medicina preventiva al Karolinska Institute – in cui si ricorre proprio all’esempio della memoria legata all’11 settembre.

“Se viviamo un un momento altamente emozionante, e quindi stressante per il cervello, l’ormone cortisolo fa da mediatore in un processo che porta alla fortissima impressione di quell’evento nella memoria. E’ per questo che tutti ci ricordiamo cosa stavamo facendo e dove fossimo l’11 settembre 2001.”

Occhio ai ricordi distorti, però…

Occhio, però, perché può darsi che se chiediamo a qualcuno dove era e cosa stava facendo potrebbe anche dirci una bugia inconsapevole. Uno studio   pubblicato sul Journal of Experimental Psychology, bimensile dell’Associazione Psicologica Americana, ha dimostrato che alcuni vantano ricordi dei quali sono convinti – in relazione a dove fossero e cosa stessero facendo l’11 settembre 2001 – ma non è affatto detto si tratti della verità.

Lo studio dice che di fronte a eventi particolarmente traumatici il cervello umano sia in grado di distorcere i fatti confondendoli con percezioni emotive. E va così che nel nostro subconscio costruiamo un nuovo ricordo che si mischia con quanto realmente accaduto. Il tutto in assoluta buona fede.

 Cosa accadde l’11 settembre 2001

L’11 settembre 2001 quattro attacchi aerei suicidi, realizzati mediante dirottamento aereo, causarono la morte di oltre 2.996 persone, ferendone oltre 6.000. A capo della strage un gruppo di terroristi aderenti ad al-Qāʿida. Tre su quattro raggiunsero il bersaglio designato: le Torri Nord e Sud del World Trade Center di New York – che si sgretolarono in poche ore imprimendo un quadro apocalittico nella memoria collettiva – e il Pentagono. Si riuscì a evitare soltanto l’impatto contro l’ultimo possibile obiettivo a Washington ovvero la Casa Bianca o il Campidoglio. Anche il quel caso, però, per i passeggeri del volo dirottato non ci fu scampo: andarono incontro a uno schianto mortale in un campo della Pennsylvania.




Il romanzo di una scrittrice cinese è stato censurato mentre era ancora in bozza sul suo computer

Il romanzo di una scrittrice cinese è stato censurato mentre era ancora in bozza sul suo computer

Una scrittrice cinese che si firma con lo pseudonimo di Mitu si è vista negare l’accesso al romanzo a cui stava lavorando mentre era ancora in bozze sul suo computer. Cercando di aprirlo compariva un avviso che diceva che il file era stato bloccato per “contenuti sensibili”.

Il testo, da circa un milione di parole, era salvato sul programma WPS, un’alternativa cinese a un word processor in stile Google Docs e Office che funziona con il cloud. La scrittrice ha raccontato l’accaduto su forum di letteratura cinese, Lkong, e il suo post è stato poi rilanciato da alcuni influencer di Weibo, il Twitter locale, come ricostruisce la Mit Technology Review, la rivista del celebre istituto americano. La denuncia ha aperto una discussione su che controllo possono operare per conto del governo le compagnie tecnologiche.

La risposta è semplice: non ci sono limiti. Pechino ha più volte bacchettato le sue aziende digitali per la gestione dei dati degli utenti, ma il concetto di privacy non esiste quando è applicato alla censura governativa, che è sempre più preventiva. A giugno 2022, l’agente regolatore del web ha reso pubblica la bozza di un aggiornamento della direttiva vigente che obbligherebbe le piattaforma social e le aziende ad applicare una censura preventiva sui contenuti e i commenti degli utenti ancor prima che vengano pubblicati. Il che significa verificarli mentre vengono scritti o tenerli in attesa prima che vadano online per vagliarli. La notizia era stata data in Occidente da Insider.

Durante il durissimo lockdown di Shangai la censura era così soffocante che gli artisti, per aggirarla, hanno dovuto usare gli Nft, quella forma di arte digitale certificata che grazie alla blockchain può essere tanto ufficiale quanto anonima.

Dei manifesti in NFT di PopagandaShangai su OpenSea.

Alla fine, la scrittrice cinese, Mitu, è riuscita ad accedere di nuovo al suo romanzo, secondo il South China Morning Post. La software house WPS ha negato di aver escluso l’autrice dal file, ma ha anche ribadito di essere obbligata dalla legge cinese a controllare ogni documento. Il che, nel caso di Mitu, è sorprendente se si considera che si trattava di un testo da più di un milione di parole. Su Weibo, intanto, altri scrittori hanno raccontato di esperienze simili. In un caso le loro testimonianze sono state persino riprese da media statali come l’Economic Observer, che ha riportato la storia di Liu Hui, sempre uno pseudonimo, tagliata fuori da un documento di 10 mila parole a luglio. L’incidente di Mitu risale invece a giugno (il romanzo era comunque accessibile con altri programmi).

Una delle ragioni per cui i documenti cloud non sono sicuri è l’assenza della crittografia end-to-end tra utente e aziende, il che permette a quest’ultima, volendo, di spiare il contenuto del cliente.

La tecnologia garantisce a un regime avanzato e autoritario come quello cinese di imporre forme di controllo che non hanno nulla da invidiare al Grande Fratello di Orwell e che sono anzi ben più subdole e precise. Per aggirare la censura preventiva digitale gli autori finiranno per tornare alla classica macchina per scrivere.




Elisabetta Canalis nella polemica per lo spot San Benedetto: “Un invito a saltare la colazione”, “Fatti un favore, non fare più pubblicità”

Elisabetta Canalis nella polemica per lo spot San Benedetto: “Un invito a saltare la colazione”, “Fatti un favore, non fare più pubblicità”

Elisabetta Canalis beve solo acqua a colazione. Sullo spot della San Benedetto scoppiano feroci polemiche. “È diet culture”. “Un messaggio che si può interpretare come invito a saltare il pasto più importante della giornata”. Ecco la story della pubblicità incriminata. La showgirl si è appena alzata tutta contenta e positiva. Si stiracchia felice quando scopre, ahinoi, che la fetta di pane messa a tostare per la colazione si è bruciata. Allora che fa? Prende la sua bottiglietta d’acqua, sorride ed esce. Non per andare al bar ma in ufficio, dove la vediamo felice di aver scoperto la sua acqua ricca di minerali per colazione. Sulla scrivania c’è la rivista Vanity Fair. In copertina c’è proprio lei: Elisabetta, la star.

Qual è il segreto del suo benessere? Questo le chiede il suo clona dalla pagina patinata. L’acqua ovviamente. Le critiche sul web scoppiano violente. Non solo saltare per la protagonista dello spot la colazione sarebbe salutare ma addirittura un esempio per raggiungere la bellezza. Quella da giornale di moda su cui svettano top model e attrici. Fra i contestatori in prima linea c’è Aestetica Sovietica, la rivista di analisi del linguaggio della politica sociale e stereotipi di genere, che su Instagram pubblica un post dal titolo “Il problematico spot con Elisabetta Canalis”. E scrive: “Magari è devianza? O magari Agcom (l’autorità per la garanzia nelle comunicazioni) dovrebbe intervenire?”. Tanti gli stereotipi nello spot. Richiamano uno standard di bellezza femminile assunto a modello per tutte. Ma nel caso specifico l’impegno per il suo raggiungimento sarebbe assurdamente incoerente: “Hai fame? Bevi”.

La showgirl è testimonial di tutta la linea San Benedetto, dall’acqua minerale ai succhi di frutta alle bevande zero. E questo non è l’unico spot a gettarla al centro di critiche pesanti. In quasi tutti però risponde alla domanda: “Qual è il tuo segreto?” con la bottiglietta del prodotto da bere. “Un’acqua leggera con tanti nutrienti preziosi!” E lo fa da bellissima, dall’alto dei suoi tacchi e del suo fisico statuario. È automatico pensare che il prodotto pubblicizzato possa essere interpretato come un sostituto della colazione. E’ questo il messaggio che fa capolino anche negli altri spot di prodotti San Benedetto che la vedono testimonial. Ecco un esempio: “Quanto conta per te la colazione?”. E lei: “Da uno a dieci? Zero. Succoso zero!”. La Canalis risponde con un gioco di parole che fa il verso al nome del succo di frutta, no zuccheri, sponsorizzato.

Secondo Aestetica sovietica, che invoca anche l’intervento di Iap (l’istituto di autodisciplina pubblicitaria) sarebbe l’ennesimo messaggio negativo inneggiante alla ‘diet culture’. La cultura della privazione del cibo che infuoca ancora di più il dibattito sui disturbi alimentari, di cui l’anoressia è argomento di studio e sensibilizzazione da decenni.

Insiste: “Impossibile non mettere in correlazione il fatto che abbia saltato la colazione con le indicazioni specifiche sulle sostanze nutrienti che l’acqua contiene”. Mica la si vede andare al bar a prendere cappuccino e brioche. Da casa sua va direttamente in ufficio, nello spot, con la sua bottiglietta d’acqua. E parla con l’immagine della rivista. “La fame causata dalla mancata colazione la porta a uno stato di delirio nel quale parla con la prima pagina di una rivista” chiosa un follower su Instagram. Attacca un altro: “Probabilmente sente le voci. Allucinazioni da stenti”. Infine: “Si è persa in un bicchier d’acqua”, ironizza un commentatore. “Elisabetta, fai un favore a te stessa: non fare più pubblicità o scegli un agente che ti consigli meglio!” si legge in un altro intervento.

E già. Non è la prima volta che gli spot interpretati da Elisabetta Canalis scatenano polemiche. Il recente “La mia Liguria” con cui lei sponsorizza le bellezze del territorio per Regione Liguria è stato molto chiacchierato. La showgirl apre così. Dopo aver pronunciato lo slogan “La Liguria è di tutti”, presenta la sua personale scelta: piazzetta di Portofino, calice di bollicine in barca, vista dalle vetrate di un grattacielo dello skyline come fosse a New York. Sono intervenuti pure i Pirati dei Caruggi con un contro-spot. Ovviamente comico. Si parla di rumenta, di spiagge affollate, di traffico per raggiungere i lidi promessi.




Criptovalute di Stato, tra presente e scenari futuri

Criptovalute di Stato, tra presente e scenari futuri

Le criptovalute di Stato potrebbero prendere corpo nell’America Centrale, nel Sudamerica e in Asia, senza, però, passare dall’Europa. In quest’ultimo caso, la Banca centrale europea intende rafforzare i controlli ed invita alla prudenza rispetto alla diffusione delle criptovalute. 

Il punto di partenza della nostra disamina riguarda i dati concernenti l’adozione delle valute digitali, che, sin dall’anno scorso, ha registrato una sempre maggiore diffusione a livello internazionale, tale da indurre ad un affinamento della regolamentazione dei mercati. La società ChainAlysis ha rilevato che dal 2019 al 2021 l’utilizzo delle criptovalute è aumentato del 2500% con le piccole economie emergenti a guidare la speciale classifica delle economie nazionali. In testa troviamo il Vietnam, seguito da India, Pakistan, Ucraina e Kenya. Gli Stati Uniti, tra le economie avanzate, si piazzano all’ottavo posto, mentre la Cina al tredicesimo. Prima dello scoppio della guerra, l’Ucraina si è dotata di una serie di norme volte a regolamentare i mercati delle criptovalute. 

Da cosa dipende l’accentuata diffusione delle valute digitali nei Paesi in via di sviluppo? La risposta risiede nella scarsa diffusione di infrastrutture bancarie e finanziarie. Le criptovalute sono un surrogato dei conti di deposito e con le stablecoin sono, nei Paesi in via di sviluppo, lo strumento più idoneo per trasferite valuta da e per l’estero con costi abbordabili, senza i paletti delle limitazioni previsti dalle autorità monetarie. In Sudamerica, come in Venezuela e Argentina, le criptovalute mirano a proteggere, non senza rischi e falle, il risparmio dai tassi di inflazione molto alti e dalla svalutazione della divisa domestica.

Il caso El Salvador

Qualche settimana fa Galoy, la piattaforma bancaria di El Salvador, attiva già dal novembre del 2020 con il lancio del Bitcoin Beach Wallet, si è detta pronta a far conoscere una nuova stablecoin legata al dollaro. Una modalità che ha come primo obiettivo la riduzione della volatilità rispetto alle criptovalute non ancorate come i Bitcoin. Le stablecoin sono nate per fronteggiare i rischi delle cripto-attività non garantite. Il loro valore è legato ad un’attività o ad un portafoglio a basso rischio. Tale contesto, però, richiede adeguata regolamentazione onde evitare che le stablecoin siano tali solo sulla carta e solo di nome. Le nuove monete, gli Stablesats, non hanno bisogno di token per funzionare e avrebbero il pregio di essere facilmente spendibili. 

Galoy per sostenere questo nuovo progetto ha effettuato un aumento di capitale di 4 milioni di dollari. Il progetto intende essere autosufficiente al massimo. Per questo motivo il Centro-America si prefigge l’ambizioso traguardo di diventare un vero e proprio laboratorio per le cripto-attività. La piattaforma è stata aperta, oltre che in Costa Rica, a Panama con uno sguardo sempre più interessato ad altri Paesi del Sudamerica. Perno di Galoy la rete Lightning Network, con la quale ci si sgancia da soggetti terzi per svolgere controlli, con la possibilità per i Paesi con forte inflazione e grande esposizione in dollari americani di dotarsi di uno strumento gestibile solo da essi e la possibilità di avere un dollaro sintetico in grado di mantenere il proprio valore al di là del tasso di cambio di riferimento.

In merito all’interesse che si registra attorno alle criptovalute, nello scorso mese di maggio i rappresentanti delle banche centrali di 44 Paesi emergenti si sono riuniti a El Salvador nel corso del meeting dello “Sme Finance working group”. L’incontro a El Salvador non è stato casuale, dato che qui, neanche un anno fa, per la prima volta è stato adottato il Bitcoin come moneta a corso legale e conseguente equiparazione al dollaro statunitense

Guardano con interesse alla svolta salvadoregna Paraguay, Argentina, Brasile, Nicaragua, Panama e Messico anche se in questi Paesi provvedimenti a livello centrale non se ne registrano ancora. Di sicuro una parte politica strizza l’occhio alle criptovalute di Stato. 

bitcoin adozione
L’adozione del Bitcoin nel mondo

Criptovalute al sole dei Caraibi

Restando nell’America Centrale, le Bahamas hanno aperto ai pagamenti con le monete digitali per il pagamento delle tasse. Si tratta di un inizio. La Banca centrale delle Bahamas ha emesso il Sand Dollar ed il governo ne ha autorizzato l’utilizzo. L’esempio delle Bahamas è stato definito un «disegno di criptovaluta progressista e lungimirante». Al sole dei Caraibi, dunque, potrebbe essere realizzato un vero e proprio hub crittografico, così come auspicato dalle autorità bancarie e finanziarie bahamiane. 

L’approccio normativo internazionale

Se è vero che alcuni Stati stanno dimostrando interesse nei confronti delle criptovalute, è altrettanto vero che l’approccio normativo cambia da Paese a Paese. Divieto all’uso delle criptovalute da parte di Egitto, Marocco, Algeria, Bolivia, Bangladesh, Nepal. Alla Cina ci dedicheremo più avanti.  Una sorta di sistema “misto” riguarda invece Nigeria, Namibia, Colombia, Ecuador, Arabia Saudita, Giordania, Turchia, Iran, Indonesia, Vietnam e Russia. In questi Paesi è limitata la possibilità per le banche di operare con cripto-attività o è vietato l’uso per effettuare pagamenti. 

«Questa situazione – commenta Fabio Panetta del board della BCE – è insoddisfacente, poiché le cripto-attività rappresentano un fenomeno globale e le tecnologie sottostanti possono svolgere un ruolo importante, anche al di fuori del settore finanziario. L’azione regolamentare va coordinata a livello internazionale, al fine di far fronte a problemi quali l’uso delle cripto-attività per operazioni illecite transfrontaliere o il loro impatto ambientale. In tale ambito, la regolamentazione deve ricercare un delicato equilibrio tra rischi e benefici, evitando di soffocare innovazioni che possono innalzare l’efficienza sia nei pagamenti sia in altri comparti».

L’opera regolamentatrice sulle cripto-attività in Europa è in piena attività. Si pensi all’entrata in vigore del regolamento UE, denominato MiCA (Markets in crypto-assets). 

Lo scenario mondiale 

I cambiamenti in corso stanno inducendo le Banche Centrali a correre ai ripari considerato che dietro l’angolo non mancano dei rischi. Vediamo quali. 

Una banconota costituisce un credito nei confronti di una Banca Centrale ed è, quindi, la forma di denaro più sicura. Bisogna però ricordare che solo le banche commerciali possono accedere alle riserve della banca centrale. Ecco, quindi, il primo rischio: una moneta digitale della Banca Centrale permetterebbe l’accesso a tutti. La conseguenza sarebbe che il pubblico potrebbe detenere conti presso la Banca Centrale. Altra conseguenza riguarderebbe la possibilità di tenere il denaro della Banca Centrale in portafogli emessi privatamente. 

Di qui, dunque, un atteggiamento neutrale – di forza indifferenza potremmo dire – da parte delle Banche Centrali rispetto alla questione. Un approccio, in buona sostanza, volto a non caldeggiare l’uso della “moneta elettronica” per non destabilizzare la supremazia delle Banche Centrali sui mercati mondiali. A ciò si aggiungono altre preoccupazioni legate alla sicurezza, alla privacy delle transazioni e, per portare il ragionamento alle estreme conseguenze, all’esistenza e al ruolo delle stesse banche centrali.

Nel 2021 la Federal reserve statunitense ha svolto uno studio approfondito per delineare gli scenari futuri e individuare gli strumenti per intervenire in vari contesti. Anche la Banca Centrale Europea si è data da fare con l’approvazione dell’avvio «della fase di ricerca di un progetto di euro digitale»Bruxelles si è data una prospettiva temporale di breve termine per la realizzazione dell’euro digitalefacendola coincidere con l’anno 2026.

La Cina sembra essersi attrezzata meglio di tutti. La versione elettronica dello yuan è stata testata in alcune regioni e sono state messe in campo diverse iniziative per avvicinare i cittadini alla moneta digitale. Si pensi ai premi della lotteria e la creazione di un portafoglio digitale (e-CNY). 

Gli Stati Uniti non hanno fatto mistero della loro preoccupazione provocata dalla creazione, già qualche anno fa, della moneta digitale cinese – lo e-yuan -, che mira ad internazionalizzare lo yuan e al tempo stesso a difendere la propria sovranità monetaria. L’esigenza è proteggersi dalle aziende tecnologiche statunitensi che a loro volta faranno leva sul dollaro. Ma non mancano iniziative volte ad arginare la diffusione delle cripto-valute stesso in Cina. La People’s Bank of China nel 2021 ha dichiarato illegali le transazioni di criptovalute, il mining e la pubblicità legata alla moneta elettronica. Considerata la corrispondenza di amorosi sensi con la Cina, anche Russia e India stanno assumendo un atteggiamento cauto. 

E in Europa? In Spagna, alla fine della scorsa primavera, l’Agenzia delle Entrate ha espresso un parere vincolante secondo il quale gli NFT avranno una tassazione del 21% in relazione alle attività di creazione e compravendita degli stessi da parte di società o artisti. Il futuro sarà sicuramente caratterizzato dalla diffusione e dall’utilizzo della moneta digitale. Ciò però non fa dormire sonni tranquilli alle autorità finanziarie centrali, che si stanno attrezzando per creare una valuta digitale sostenuta da una Banca centrale (Central bank digital currency – CBDC) con il primario obiettivo di contrastare la volatilità cui sono sottoposte le criptovalute decentralizzate quali Bitcoin, Ethereum o le stablecoin. La BCE continua a rassicurare e ad affermare che la moneta digitale non manderà in pensione il contante. In gioco, dicono alcuni esperti, c’è anche la sovranità nazionale.

Nei prossimi cinque-sei anni sicuramente molte persone avranno portafogli digitali diversificati con denaro in conti bancari tradizionali e stablecoin gestiti da società private. Fare previsioni a lungo termine potrebbe comunque essere azzardato, considerato quanto accade in questi giorni. Il pensiero va subito ad alcuni programmi arenatisi. Meta (ex Facebook) intendeva lanciare la propria stablecoin; ha dovuto fare i conti con le autorità di regolamentazione statunitensi, che ne hanno bloccato il progetto. A preoccupare sono gli obiettivi di Meta e la possibilità che la stablecoin possa essere utilizzata per finanziare transazioni illecite all’interno e fuori dai confini nazionali.

Ecco perché la valuta digitale sostenuta direttamente dalle Banche Centrali (Central bank digital currency – CBDC) rappresenta, contemporaneamente, per i governi un baluardo e un trampolino per difendere e recuperare la sovranità perduta. Con l’aggiunta di bloccare la minaccia al monopolio statale presentata dalle criptovalute o quella legata ad operazioni come quelle messe in piedi da Facebook. Insomma, lo scenario è in divenire e i fatti del presente saranno preziosi per ogni iniziativa e strategia futura.




Guerra ed elezioni nel “dark web”: una lezione dalla Svizzera

Guerra ed elezioni nel “dark web”: una lezione dalla Svizzera

Le polemiche che stanno coinvolgendo il comitato parlamentare di sorveglianza dei servizi segreti (Copasir), presieduto da Adolfo Urso di Fratelli d’Italia, circa le interferenze e manomissioni che operano in rete sulla campagna elettorale, ci confermano che ormai gran parte della comunicazione politica passa per canali non visibili, in quello spazio insondabile che chiamiamo dark web, che altera radicalmente il processo di formazione dell’opinione pubblica, basato proprio sulla condivisione trasparente dei contenuti. Singolare è il sostanziale silenzio dei partiti, come il Pd. Che pure è colpito da queste strategie che sono, secondo dati riconosciuti internazionalmente, promossi prevalentemente da centrali che operano direttamente alle dipendenze dei servizi russi.

Il report del servizio informazioni della Confederazione elvetica, rilanciato da “Repubblica” qualche giorno fa, denuncia, con un corredo di documenti, l’uso di server russi dislocati nel territorio svizzero per interferire nei diversi Paesi europei. In particolare, gli apparati di sicurezza di Zurigo guardano all’Italia come anello debole dell’Unione europea, proprio nel corso dell’attuale campagna elettorale. Si denuncia un’attività di inquinamento dei flussi informativi, diretti individualmente a migliaia di singoli elettori. Il tutto nell’inattività completa delle autorità competenti del nostro Paese, a partire dall’Agcom.

Appare interessante, proprio ai fini del contrasto di queste strategie di infiltrazione, l’attività e la struttura dell’ente che ha elaborato il report citato da “Repubblica”: la Centrale di annuncio e di analisi per la sicurezza dell’informazione. Si tratta di un organismo istituito in Svizzera nel lontano 2004, a tre anni dall’11 settembre, quando i più avvertiti esponenti dei sistemi di sicurezza avevano già percepito le turbolenze che si sarebbero ripercosse lungo le reti digitali.

Il primo ottobre del 2004, infatti, viene costituita l’agenzia con il compito di monitorare lo scenario complessivo dell’informazione del Paese. L’elemento più originale e rilevante riguarda proprio la connessione fra sistemi informatici e quadro della comunicazione. L’agenzia svizzera, a differenza delle diverse agenzie italiane, ha il mandato di analizzare costantemente proprio le anomalie che collegano il mondo della rete ai fenomeni dell’informazione, con l’obbligo di formulare un rapporto semestrale su quanto affiora nell’infosfera.

Nel 2008, quattro anni dopo la sua costituzione, l’agenzia scrive nel suo settimo rapporto (gennaio-giugno 2008): “Questa evoluzione esige un ripensamento: d’ora in poi ci si dovrà focalizzare sulla protezione dell’informazione e prescindere dalla protezione esclusiva dei computer e delle reti sui quali sono archiviate le informazioni, il che comporta una gestione rafforzata delle informazioni e dei dati, una classificazione delle informazioni e simili. Ciò presuppone, d’altronde, un’attenta ponderazione dei rischi che deve condurre a un adeguamento dei canali di distribuzione, dei diritti di accesso e dei luoghi di archiviazione al valore effettivo delle informazioni. Non ogni canale di distribuzione o luogo di archiviazione dell’informazione presenta la medesima sicurezza e non tutti i documenti di un’azienda sono ugualmente sensibili. In tal modo la sicurezza dell’informazione è integrata nel processo di management commerciale e strategico dei rischi”. Indubbiamente una straordinaria capacità predittiva che permette ai dirigenti dell’agenzia di anticipare le minacce che da lì a qualche anno diventeranno reali in tutto il mondo. Solo cinque anni dopo, viene elaborata dai vertici militari del Cremlino la teoria della “guerra ibrida”, che porterà poi alle clamorose azioni di intromissione nella campagna presidenziale americana del 2016 con Cambridge Analytica.

Importante ci pare proprio l’identificazione della produzione personalizzata delle informazioni, più che delle infrastrutture di raccolta ed elaborazione, come vero epicentro delle azioni di manomissione e interferenza. Il mondo del giornalismo come motore della distribuzione digitale delle notizie viene così integrato nelle strategie di cybersecurity (vedi il nostro precedente articolo).

Straordinariamente sensibili appaiono gli analisti svizzeri quando intuiscono – siamo ancora distanti dalle strategie che verranno praticate dagli Stati Uniti in Ucraina, nel 2014, e da Mosca in Occidente – che la deformazione e la personalizzazione dei contenuti in rete possa costituire un’arma di pressione politica sulle istituzioni di un Paese: “L’hacktivism può basarsi su motivazioni nazionalistiche oppure incarnare una sorta di protesta pubblica, una forma di resistenza civile. Internet costituisce una tribuna pubblica e consente di attirare l’attenzione a livello mondiale con mezzi relativamente semplici. Inoltre Internet e le tecnologie dell’informazione svolgono un ruolo sempre più importante negli Stati moderni, circostanza che accresce il numero delle zone di attacco. Gli attori di un conflitto politico o di una controversia di qualsiasi genere possono sfruttare Internet e le tecnologie sia come strumento, sia come bersaglio. A tale scopo gli hacker motivati politicamente si avvalgono di numerosi mezzi illegali o perlomeno dubbi. Sovente si fa uso del defacement di pagine Web, ossia della deturpazione di pagine Web, come pure di attacchi DoS, ovvero di attacchi ai server nell’intento di pregiudicare uno o più dei suoi servizi. Ulteriori mezzi sono i redirect, il furto di informazioni, le parodie di pagine Web, il blocco virtuale delle sedi, il sabotaggio e il software appositamente sviluppato (…). Si può quindi presumere che in futuro i conflitti politici e le controversie saranno vieppiù scortati da hacking a sfondo politico. In merito va osservato che simili azioni possono accompagnare i conflitti e le guerre, ma non sono adatti al sostegno diretto alle operazioni di guerra. Pertanto l’amalgama che si opera volentieri tra hacktivism e ‘guerra informatica’ non corrisponde alla realtà”.

La guerra entrava così nell’orizzonte dell’hacktivism già da vari anni, diventando utente e promotore del nuovo giornalismo digitale. Si comprende, in questo passaggio, come un’attenzione geopolitica alle dinamiche di rete permetta di cogliere la natura e gli effetti che questo mondo ormai produce nella realtà, trasformando persino la guerra in un caso di intelligence diffusa. Una lezione per i nostri controllori e tutori della sicurezza digitale che, a metà campagna elettorale, ancora si interrogano sulle forme e i poteri per intervenire bonificando uno scacchiere ormai largamente presidiato da forze estere. Ma anche un monito alla sinistra, che continua a stupirsi di come ceti sociali, territori e categorie produttive, mutino i propri orientamenti, e non reagiscano a sollecitazioni che sembrano clamorose.

Come diceva Cioran, alla fine degli anni Ottanta: “Non si abita un Paese, si abita una lingua”, intendendo che le forme di comunicazione determinano identità e cittadinanza ancora più che le tradizioni culturali o il senso di appartenenza territoriale. E oggi la lingua è la rete.