Le dure polemiche contro il nostro paese da parte dei vertici del Cremlino arrivano, non a caso, in un momento delicatissimo della campagna elettorale. In particolare quando si registrano movimenti più che sospetti nella rete che preludono ad una vera tempesta digitale, non meno violenta di quella annunciata dal portavoce di Putin Peskov. Qualcuno da vari mesi sta rastrellando decine di migliaia di dati sensibili degli italiani. Da giugno ad agosto la compravendita di informazioni personali ( telefoni, mail, indirizzi social, frequentazioni on line) riguardanti cittadini o imprese italiane è aumentato del 357 % secondo quanto emerge dalla ricerca condotta dalla società specializzata Swascan ( swascan.com/it/dark-web-analysis-italia/ ) diretta da Pierguido Iezzi, uno dei più accreditati esperti italiani di Cybersecurity. Lo scambio di materiali che riguardano gli elettori italiani viene intermediato prevalentemente da due centri del Darkweb Breached.to e XSS. Sono due piazze dove prospera lo smercio e il brokeraggio di dati illegali, che vengono acquisti e combinati secondo la nota lezione di Cambridge Analytica. Nei mesi estivi , spiegano i ricercatori di Swascan , si è constatato un’impennata di attenzione al mercato italiano. Le transazioni sono alquanto irregolari, , caratterizzate da dati a volte sporadici, legati a singole realtà territoriali o singoli gruppo sociali, a volte più consistenti come è accaduto il 25 agosto in cui 36 mila documenti e files della P.A. italiana sarebbero stati venduti. Offerti anche botnet e sistemi di ripresa, mediante telecamere piazzate all’insaputa degli interessati, per registrare immagini compromettenti. Siamo nel pieno di una strategia che mira a mettere nel mirino il nostro paese. Rendendo vulnerabile, in questa fase, più che il circuito dei server e data base aziendali, direttamente i singoli profili di elettori che , dopo essere stati elaborati e identificati, diventano destinatari di flussi di informazioni personalizzate che interferiscono direttamente sul loro comportamento. Si riproduce così il manuale della cosidetta guerra ibrida, teorizzata dal generale russo Valery Gerasimov, e raccontato in un suo libro –Il Mercato del Consenso- da Christopher Wylie, il giovane e talentuoso programmatore che sviluppò l’algoritmo che guidò le strategie di disinformazione attuate nel corso della campagna presidenziale del 2016, che vide la sorprendente vittoria di Donald Trump.
Wylie spiega infatti che il punto nevralgico di una strategia che voglia interferire realmente nei processi di formazione dell’opinione pubblica di ua paese riguarda proprio la combinazione e integrazione dei dati individuali di un ristretto numero di elettori, scelti perchè risultano decisivi nei collegi più contendibili. La fase della raccolta dei dati primitivi, aggiunge il giovane programmatore, avviene per vie traverse, secondo itinerari più diversi. Nel caso di Cambridge Analytica fu decisivo un gioco a quiz inventato e diffuso appunto a Cambridge, da cui il nome della società, da Aleksandr Kogan, un brillate informatico di origine russa . Grazie a quel sistema, spiega Wylie, ottenemmo “ una vasta gamma di dati sviluppando programmi di raccolta automatica, usando algoritmi di imputazione per ricondurre ad un unico profilo le informazioni provenienti da fonti diverse , e usando poi le reti neurali di depp learning per ottenere previsioni sui comportamenti di nostro interesse “. Poi sappiamo come andò a finire negli Usa. Ora la storia sembra ripetersi in salsa italiana.
Invece di trovare pretesti, oggi si estraggono direttamente dalle piattaforme social i dati sensibili degli utenti. E si vendono all’ingrosso. Come raccolta Iezzi “ sono stati rilevati costantemente annunci in riferimento all’Italia, con inserzioni relative alla richiesta di acquisto ma anche di vendita di credenziali di accesso ai dati”. Un traffico che procede imperturbabile, durante la campagna elettorale, senza che nessun organismo di vigilanza e controllo, come Copasir o l’Agcom, trovino motivo di intervenire. Mentre a livello pubblico assistiamo ad un fuoco di fila contro il nostro paese da parte di diversi personaggi dell’entourage di Putin, dal vice presidente del comitato strategico Medvedev, alla portavoce del ministro degli esteri Lavorv, Zakharova, che vaticinano sconquassi per l’Italia se dovesse insistere nella sua posizione filo Ucraina, contemporaneamente vediamo che nel web si comprano e vendono impunemente dati degli elettori italiani rendendo plausibile una strategia di pressione nei loro confronti. Gia nei giorni scorsi le autorità svizzere avevano lanciato un allarme , documentando come i server che fanno capo a società russe dislocati sul territorio elvetico stiano lavorando sull’Italia. Ora la ricerca di Swascan rende indifferibile un intervento per fare luce sull’intera minaccia che tocca da vicino le elezioni italiane. Si attende un pronunciamento esplicito da parte del Copasir sui dati diffusi dalla società di Iezzi, che ha collaborato con lo stesso comitato di controllo parlamentare sui servizi proprio con vari report sul tema, e soprattutto l’Agcom deve , sulla scorta della consorella svizzera, almeno rendere esplicito lo stato di allarme che dalla rete sta risalendo per l’intero sistema della comunicazione nazionale.
PER ESSERE DAVVERO SMART, LE NOSTRE CITTÀ NON DEVONO SOLO ESSERE DIGITALI MA ACCESSIBILI E INCLUSIVE
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È sorprendente quanto sia terribilmente facile considerare la propria esperienza come universale, dando per scontato che i luoghi che abitiamo o attraversiamo vadano bene così come sono o che, al massimo, il loro unico sviluppo possibile sia un progresso tecnologico. Eppure il modo in cui le città sono progettate e costruite, e le politiche che le governano, hanno conseguenze sulla qualità della vita di miliardi di persone. A viverci, oggi è oltre il 55% della popolazione mondiale, ma i centri urbani continueranno a essere ancor più densamente abitati, tanto che nel 2050 la percentuale dovrebbe arrivare al 68%. Nei prossimi trent’anni, alle città si aggiungeranno circa 2 miliardi e mezzo di persone e 1 miliardo di veicoli, ma la maggior parte delle infrastrutture necessarie devono ancora essere costruite. Ci troviamo in un possibile momento di svolta: le decisioni che prendiamo determineranno se continueremo a crescere in modo frammentato e insostenibile, non sicuro e inquinante, o se invece saremo capaci di creare un futuro sostenibile e più inclusivo. Sono sempre di più, infatti, i comuni impegnati in progetti per gestire le risorse in modo intelligente, diventare economicamente sostenibili ed energeticamente autosufficienti, e attenti alla qualità della vita e ai bisogni dei propri cittadini. Si tratta di trasformare le nostre città in smart cities, cioè un luogo “in cui le reti e i servizi tradizionali sono resi più efficienti con l’uso di tecnologie digitali e di telecomunicazione a beneficio dei suoi abitanti e del business”, secondo la definizione della Commissione europea. Tecnologiche, veloci e sostenibili, le smart cities dovrebbero essere anche aperte, universali, agibili. Non possiamo più permetterci trasformazioni che non siano inclusive: le città del futuro sono accessibili e appartengono a tutte e tutti.
Oggi non è ancora così. Per le persone con disabilità, infatti, la mobilità si rivela uno dei problemi più difficili da superare a causa delle barriere architettoniche, gli impedimenti materiali e concreti che limitano la mobilità delle persone, e percettive, quelle, per esempio, che rendono scarsamente conoscibile l’ubicazione degli edifici di uso pubblico, e che risultano ostili a persone cieche o sorde. Ostacoli che non permettono di partecipare alla vita civile in maniera autonoma e che impediscono di spostarsi liberamente, anche solo per raggiungere strutture sanitarie, scuole, luoghi di lavoro o di socialità. Secondo un rapporto dell’Istat del 2019, in Italia le persone con disabilità sono 3,1 milioni, pari al 5,2% della popolazione: l’Istituto rileva coloro che riferiscono di avere limitazioni, a causa di problemi di salute, nello svolgimento di attività ordinarie ma ammette che, pur essendo un primo passo, è una modalità che non consente davvero di avere una fotografia adeguata. Nell’Unione europea, il numero di persone disabili supera gli 80 milioni: cittadini e cittadine che non sempre riescono ad avere un eguale accesso ai servizi delle città e a beneficiare della loro crescita economica. Inoltre, la presenza di barriere architettoniche investe in maniera più o meno diretta anche la vita di altre persone, come anziani con difficoltà di deambulazione e genitori con passeggini. Luoghi più accessibili sono infatti posti migliori per tutti.
In Italia, i due principali testi che disciplinano la materia sono la legge n.13 del 1989 e il D.P.R. 503 del 1996, che definiscono i concetti basilari di accessibilità, visitabilità e adattabilità. L’accessibilità è concepita come “la possibilità di accedere ad ogni spazio interno ed esterno dell’edificio in modo autonomo e senza pericolo”; la visitabilità riguarda la facoltà di accedere in autonomia ad almeno un servizio igienico e agli spazi degli edifici adibiti allo svolgimento della sua funzione principale; l’adattabilità è invece la capacità di modificare nel tempo lo spazio costruito a costi limitati e senza stravolgerne l’impianto originale. I testi stabiliscono poi per le amministrazioni l’obbligo di predisporre un PEBA, cioè un piano per l’eliminazione delle barriere architettoniche. A quasi trent’anni dalla sua entrata in vigore, però, la legge ha finora trovato rara applicazione, probabilmente anche a causa delle difficoltà di coordinamento fra i vari livelli istituzionali e della mancanza di criteri che orientassero le amministrazioni nella redazione dei piani. La realtà si evince chiaramente dai monitoraggi svolti in alcune regioni. Da un’indagine di Anci Lombardia del 2018 emerge che il 94,2% dei comuni lombardi non è dotato di un piano di eliminazione delle barriere architettoniche, mentre un rapporto del Centro regionale per l’accessibilità della Toscana mostra come in oltre quattro contesti regionali su dieci siano presenti barriere fisiche che ne limitano l’accessibilità, dato che arriva a sei su dieci se si considerano anche le barriere percettive. Una stima che si attesta sulla media della condizione nazionale: l’Istat rileva come, dei 55.209 istituti scolastici italiani, solo il 34% risulti completamente accessibile per le persone con disabilità motoria, mentre appena il 18% per impedimenti sensoriali. A livello culturale le cose non cambiano: il 63,5% dei musei italiani, pubblici e privati, non è adeguatamente attrezzato per ricevere persone con gravi disabilità e solo uno su cinque offre materiale e supporti informativi, come percorsi tattili e cataloghi e pannelli esplicativi in braille. Certo, i paesi, i borghi e le città sono luoghi reali, impregnati della loro storia e condizionati dalla geografia, dove i lavori necessari a renderli accessibili si scontrano con la tutela dei beni culturali, soprattutto in un Paese dall’immenso patrimonio artistico come il nostro. Eppure anche in questi casi, apparentemente più difficili, esistono modalità di intervento capaci di tenere in equilibrio la valorizzazione della Storia e la piena autodeterminazione delle persone.
“A mancare sono le capacità dei tecnici e delle amministrazioni di inserire il tema dell’accessibilità nei progetti di opere pubbliche, spesso accorgendosi in ritardo che molti spazi non lo sono o non considerando affatto questa urgenza“, spiega a The Vision Andrea Ferretti, presidente di Peba Onlus, associazione che aiuta i comuni nella redazione dei piani per l’eliminazione delle barriere e nella mappatura delle città italiane. “Redigere un elenco degli ostacoli presenti non è cosa da poco: si va di strada in strada, di edificio in edificio, per rilevare quelle presenti. Serve la sensibilità di saper progettare per tutti e di capire che la trasformazione delle città in luoghi accessibili non è una spesa, ma un investimento”. Una città piena di ostacoli è infatti anche una città diseconomica. Quando l’accessibilità è davvero garantita non solo favorisce il turismo, più inclusivo e competitivo e per questo capace di contribuire in maniera più ampia allo sviluppo economico, culturale e sociale, ma permette anche alle persone con disabilità di esercitare a pieno il proprio diritto al lavoro, oltre che di sviluppare la loro personalità, nella concezione e ampiezza che dovrebbero essere garantite dalla Costituzione.
Visto l’alto tasso di urbanizzazione previsto nei prossimi decenni, è fondamentale che l’inclusione e l’accessibilità vengano integrate in tutti i processi di pianificazione e gestione degli ambienti urbani. Una città non può essere davvero “intelligente” se non può essere vissuta da tutti. Nel processo di trasformazione dei nostri luoghi in smart cities è allora utile considerare la digitalizzazione un mezzo, non un fine, mettendo la tecnologia al servizio delle persone. A Trieste, per esempio, è stata installata una rete di segnalatori radio nei punti strategici della città e sui mezzi pubblici che, grazie a un microsistema di comunicazione inserito nell’impugnatura del bastone, permette alle persone ipovedenti di prenotare la fermata o essere a conoscenza della direzione e della linea dell’autobus. Alcune piattaforme, già adottate anche negli Stati Uniti, permettono invece di rilevare velocemente le barriere architettoniche sul territorio e, attraverso il crowdsourcing, consentono ai cittadini di collaborare alla creazione di un database. Alcuni sperano che questo stimolerà l’emergere di un nuovo tipo di cittadinanza urbana: il cosiddetto smart citizen, un membro della comunità che, anche se non disabile, aiuta ad annotare e documentare gli ostacoli presenti nell’ambiente, aumentando al contempo la propria consapevolezza sul tema. L’intelligenza artificiale può poi venire incontro alle persone sorde nel trascrivere istantaneamente le conversazione di un gruppo, aggiungendo la punteggiatura e il nome di chi parla. Nella metro di New York e Marsiglia e al Museo Luma ad Arles si sta invece testando un’applicazione che, attraverso un’attenta analisi del luogo e delle capacità della persona, dà indicazioni live sulle azioni da compiere o permette di visionare gli itinerari migliori per evitare ostacoli.
Anche se capaci di contribuire allo sviluppo di una società più efficiente, veloce e globalizzata, bisogna però tener conto di come le tecnologie possano costituire anche un elemento di emarginazione. Pensiamo alle generazioni più anziane, meno pratiche con determinati strumenti o processi di innovazione, o alla scarsa alfabetizzazione digitale riscontrata nel nostro Paese, nonostante nel 2018 il Consiglio dell’Unione europea l’abbia qualificata come una competenza base. Inoltre, nonostante le buone intenzioni, spesso le iniziative che si basano sull’apporto di tutta la comunità danno per scontato che chiunque possa notare o misurare l’accessibilità dell’ambiente circostante, ma in molti casi si rischia di considerare solo le barriere legate alle disabilità motorie – se non quando anche queste vengono sottostimate, per esempio non conoscendo le reali dimensioni delle diverse sedie a rotelle –, ignorando quelle cognitive o relative a vista, udito e malattie croniche. “Serve investire nella formazione e nell’aumentare la consapevolezza che se un luogo è accessibile, lo è per tutti. Ma per gli altri è una maggiore comodità, per noi un diritto che non sempre viene rispettato”, racconta a The Vision Valentina Tomirotti, scrittrice e attivista disabile. “La politica deve guardare a un processo di co-creazione, in cui la pianificazione, l’aggiornamento delle normative e la loro attuazione sia svolta includendo le associazioni, per saper integrare al meglio i vari bisogni in termini di mobilità e accessibilità che coinvolgono le persone con disabilità”. Nel 1985, l’architetto americano Ronald Mace coniò il termine Universal Design, descrivendolo come “la progettazione di prodotti e ambienti utilizzabili da tutti, nella maggior estensione possibile, senza necessità di adattamenti o ausili speciali”. A distanza di quasi quarant’anni, è una rivoluzione di come concepire il rapporto tra le persone, l’ambiente e il territorio che si fa sempre più rilevante per costruire e adeguare le città del futuro.
Questo articolo è realizzato da THE VISION in collaborazione con Telepass, tech company all’avanguardia nella rivoluzione della mobilità in ambito urbano ed extraurbano in un’ottica sempre più innovativa e sostenibile. Grazie a un’unica app che tiene insieme un esclusivo metodo di pagamento e una pluralità di servizi legati alla smart mobility, come le strisce blu, il carburante o la ricarica dell’auto elettrica, l’uso di monopattini, bici e scooter in sharing, l’acquisto di biglietti per treni e pullman, il noleggio di auto, il pagamento del bollo o a favore della Pubblica Amministrazione, Telepass trasforma ogni spostamento in un’esperienza senza confini.
Ford sta entrando nel Metaverso, ecco tutte le novità in cantiere
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Dopo Renault, ora è il turno di Ford. La nota casa automobilistica statunitense il 2 settembre ha depositato 19 domande di marchio presso l’Ufficio Brevetti e Commercio degli Stati Uniti d’America. Una notizia che sta facendo il giro del mondo.
A rivelare questa novità è stato Mike Kondoudis, avvocato specializzato in marchi che ormai conosciamo bene per i suoi leaks interessanti. Attraverso un tweet ha specificato che le domande sono tutte legate a Metaverso e Token Non Fungibili. In particolare si tratta dei suoi marchi Mustang, Bronco, Explorer, F-150 Fulmine, Lincoln e altri.
Kondoudis non ci ha pensato due volte a rivelare il progetto di Ford. L’obiettivo è quello di entrare nel Metaverso e nel mondo degli NFT. Lo farà attraverso applicazioni virtuali creando auto, veicoli industriali, SUV e abbigliamento. Il tutto supportato anche da un mercato online di collezionabili.
FORD sta facendo un grande passo avanti nel Metaverso! La società ha depositato 19 domande di marchio per tutti i suoi principali marchi.
Ford si prepara per Metaverso e NFT
Come Renault, anche Ford si è decisa a prepararsi per un prossimo debutto nel Metaverso depositando domande di marchio relative a veicoli virtuali e abbigliamento autenticabili con NFT. Nel documento depositato presso l’Ufficio Brevetti e Commercio degli Stati Uniti d’America si legge:
File multimediali scaricabili contenenti grafica, testo, audio e video di automobili, SUV, camion e furgoni autenticati da token non fungibili (NFT); prodotti virtuali scaricabili, ovvero programmi per computer riguardanti automobili, SUV, camion e furgoni, parti e accessori per veicoli terrestri e abbigliamento da utilizzare in mondi virtuali online.
A questo si aggiungono anche la promozione di opere d’arte digitali di terzi mediante la fornitura di portafogli digitali online attraverso un sito Web ad hoc e negozi al dettaglio online con Token Non Fungibili e oggetti da collezione digitali.
Sembra proprio che Ford, da quanto si evince nel documento ufficiale, sta lavorando sodo per realizzare servizi di intrattenimento virtuali. In altre parole, la fornitura di automobili virtuali non scaricabili online compresi SUV, camion e furgoni. Non mancheranno anche accessori per veicoli e abbigliamento.
Tutto potrà essere fruito attraverso ambienti virtuali realizzati ad arte per scopi di intrattenimento. In questo senso, saranno anche create fiere ed eventi specifici online dove sarà possibile agli utenti parteciparvi in realtà aumentata.
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TikTok è un pericolo per la sicurezza nazionale?
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Negli Stati Uniti, nel contesto della campagna elettorale per le elezioni di metà mandato di novembre, i legislatori e le autorità di regolamentazione sono tornati ad accusare TikTok di essere una minaccia per la privacy dei cittadini e la sicurezza nazionale del paese. L’amministrazione del presidente Joe Biden starebbe lavorando a delle misure per risolvere il problema, la cui esatta portata rimane è ancora poco chiara, al pari degli obiettivi dei futuri provvedimenti. TikTok, controllata dal gigante tecnologico cinese Bytedance, conta più di un miliardo di utenti a livello globale, di cui circa 135 milioni negli Stati Uniti. Negli ultimi due anni diversi politici, tra cui l’ex presidente statunitense Donald Trump, hanno avvertito della possibilità che il governo cinese possa usare l’app per raccogliere dati sui cittadini o lanciare operazioni per influenzare la società.
Alla fine del 2019 e all’inizio del 2020 l’esercito statunitense ha vietato ai suoi membri l’uso di TikTok, così come la Transportation security administration – l’ente che si occupa della sicurezza dei mezzi di trasporto – e altre agenzie federali. Il mese scorso, il responsabile amministrativo della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha consigliato ai deputati di non installare l’app. Poco prima, il 17 giugno, BuzzFeed News ha riportato in un’inchiesta che i dipendenti di ByteDance hanno accesso ai dati degli utenti statunitensi di TikTok in alcuni contesti. Ma per i cittadini comuni, gli avvertimenti delle autorità hanno continuato a essere vaghi e inconsistenti, sottolineando la poco chiarezza delle preoccupazioni dei legislatori.
A fronte dell’enorme bacino di utenti, TikTok è senza dubbio una potenziale fonte di una grande quantità di dati personali che, come accade per altre piattaforme, potrebbero essere sfruttati per diffondere disinformazione o promuovere operazioni di influenza. Ma il motivo per cui TikTok è diventato oggetto di attenzioni particolari è meno chiaro. Attualmente è già possibile acquistare o acquisire una notevole mole di dati sensibili relativi a persone che vivono negli Stati Uniti in vari modi, attraverso altre piattaforme pubbliche di social media, l’industria del marketing digitale, i broker di dati e i leak. Già da molto prima dell’ascesa di TikTok, poi, la Cina era già nota sulla scena mondiale per aver rubato enormi quantità di dati su americani e altri soggetti da governi e aziende di tutto il mondo. Le contromisure di Biden e Trump
Secondo un rapporto pubblicato venerdì 2 settembre da Semafor, l’amministrazione Biden sta preparando una serie di ordini esecutivi per affrontare il problema di TikTok e quello più generale dell’accesso del settore tecnologico cinese ai dati degli americani. Secondo il rapporto, le azioni della Casa Bianca potrebbero prevedere una riduzione significativa degli investimenti statunitensi in Cina, mentre altre possibili misure potrebbero limitare la vendita di tecnologia a clienti cinesi e i dati sui cittadini statunitensi che le aziende tecnologiche cinesi possono raccogliere.
Queste misure sarebbero meno drastiche rispetto all’approccio a TikTok adottato dal predecessore di Biden, ma avrebbero una portata e una serie di potenziali ramificazioni più ampie. Negli ultimi mesi dell’amministrazione Trump, la Casa Bianca ha tentato di bloccare TikTok sugli app store statunitensi se ByteDance non avesse accettato di vendere la società a un’azienda con sede negli Stati Uniti. Sebbene la mossa sia fallita, TikTok ha preso provvedimenti per allontanarsi dai suoi proprietari cinesi e a giugno ha annunciato che tutto il traffico degli utenti statunitensi sarebbe stato indirizzato negli Stati Uniti. L’azienda è tuttora al lavoro per eliminare tutti i dati degli utenti dai propri server e operare il passaggio al cloud di Oracle.
“Il punto è che TikTok è usato da un sacco di gente – spiega Rui Zhong, ricercatrice del Kissinger Institute on China and the United States. –. L’amministrazione Trump ha cercato di vietare anche WeChat, che oltre a essere una piattaforma di comunicazione è anche una piattaforma tecnologica che raccoglie una grande quantità di dati, più di TikTok. Ma negli Stati Uniti WeChat è usato quasi esclusivamente dagli immigrati cinesi, mentre TikTok è estremamente popolare anche tra gli americani“.
Zhong aggiunge che, se da un punto di vista della sicurezza nazionale degli Stati Uniti è importante riconoscere le possibili minacce, non ci sono abbastanza informazioni su possibili rischi concreti. Sembra che le autorità statunitensi non abbiano ancora mostrato, almeno pubblicamente, una prova incontrovertibile che dimostri l’urgenza della minaccia. I dubbi dei legislatori americani e le risposte di TikTok
Il 24 giugno, pochi giorni dopo la pubblicazione dell’inchiesta di BuzzFeed, un gruppo di senatori repubblicani ha inviato una lettera al Segretario del Tesoro Janet Yellen “per chiedere delucidazioni sulla risposta tardiva da parte dell’amministrazione Biden ai rischi per la sicurezza nazionale e la privacy posti da TikTok“. Il 28 giugno, un altro gruppo di nove senatori repubblicani ha inviato una letteraall’amministratore delegato di TikTok, Shou Zi Chew, chiedendo informazioni sulle pratiche di gestione dei dati dell’azienda e sul rapporto con ByteDance, dal momento che l’azienda ha sempre sostenuto di non condividere i dati degli utenti statunitensi con il governo cinese.
In una serie di risposte fornite quest’estate ad alcuni senatori e agli utenti statunitensi, TikTok ha ribadito con fermezza che non condivide e non condividerà mai i dati degli utenti statunitensi con il governo cinese, aggiungendo di essere un’entità separata con sede negli Stati Uniti, soggetta alle leggi del paese. L’azienda non riporta pubblicamente lerichieste di dati da parte dei governi, ma pubblica due volte l’anno un rapporto sullerichieste di rimozione di contenuti arrivate dai governi. Quest’ultimo documento mostra che l’azienda non ha mai soddisfatto una richiesta di rimozione proveniente dalla Cina.
In definitiva, però, TikTok è ancora di proprietà di ByteDance. E alcuni dipendenti di ByteDance possono accedere ai dati degli utenti di TikTok. Questo significa che anche il Partito comunista cinese al potere può accedere ai loro dati? Nella sua risposta del 30 giugno ai senatori repubblicani, Chew ha dichiarato che “i dipendenti al di fuori degli Stati Uniti, compresi quelli che vivono in Cina, possono accedere ai dati degli utenti statunitensi di TikTok a seguito di una serie di severi controlli di cybersicurezza e protocolli di approvazione delle autorizzazioni supervisionati dal nostro team di sicurezza, che ha sede negli Stati Uniti“. Da tempo, Chew e TikTok sostengono di non avere “mai fornito dati di utenti statunitensi al Partito comunista cinese, e che non lo faremmo nemmeno a fronte di una richiesta”. Quando Wired US ha chiesto a TikTok come queste affermazioni si conciliassero con il fatto che ByteDance ha effettivamente dell’accesso ai dati e che potrebbe essere costretta a disporne dalla legge cinese, la portavoce delle piattaforma Maureen Shanahan ha spiegato che “TikTok è[un servizio,ndr]erogato negli Stati Uniti da TikTok Inc. una società costituita in California e soggetta alle leggi e ai regolamenti statunitensi“.Armi impari
Tuttavia, rimane da capire se TikTok sia effettivamente una minaccia specifica per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti o semplicemente uno strumento usato dai legislatori del paese per affrontare questioni più generali legate a sicurezza e privacy dei dati, disinformazione, moderazione dei contenuti e condizionamento delle società in un mercato tecnologico globalizzato.
“Ci sono sicuramente segnali che indicano che gli sforzi di influenza cinese sono destinati a crescere e siano legati alla più ampia strategia del governo cinese in materia di autoritarismo digitale – sottolinea Kian Vesteinsson, analista del think tank no-profit sui diritti digitali Freedom House –. Ma è importante riconoscere che ancheil governo degli Stati Uniti ha autorità di sorveglianza della sicurezza nazionale ambigue. Negli ultimi anni, le agenzie governative statunitensi hanno monitorato gli account dei social media di persone che coordinavano le proteste negli Stati Uniti e hanno effettuato perquisizioni di dispositivi elettronici in tutto il paese e al confine. Questo tipo di tattica mina l’idea che si tratti solo di una minaccia straniera“.
C’è poi una questione legata a un possibile squilibrio di potere. Per governo cinese, la popolarità e la diffusione della piattaforma all’interno degli Stati Uniti potrebbe renderla uno strumento per estrarre i dati degli utenti statunitensi e lanciare operazioni di influenza nel paese. Di contro. è possibile che il governo statunitense ritenga di non disporre di un meccanismo analogo attraverso il quale poter attingere direttamente ai dati degli utenti cinesi e cercare di influenzare l’opinione pubblica cinese.
“Supponiamo per un attimo che l’intelligence statunitense abbia accesso a WeChat. Dovrebbe faticare per ottenerlo e sarebbe costantemente a rischio di essere scoperta e neutralizzata. La Cina, invece, non deve faticare per avere accesso a TikTok: lo ha per legge – spiega Jake Williams, direttore dell’intelligence sulle minacce informatiche della società di sicurezza Scythe ed ex hacker della National security agency –. Di per sé, non credo che la presenza dell’app di TikTok sui dispositivi delle persone rappresenti una minaccia significativa, ma la possibile raccolta dei dati da parte della Cina attraverso la piattaforma rappresenta una preoccupazione maggiore, soprattutto se combinata con gli altri dati già acquisiti da attori statali cinesi“.
Data la sua immensa popolarità, la sua proprietà e il fatto che la maggior parte delle attività di TikTok sono per natura pubbliche, non esiste una soluzione tecnica chiara per escludere la Cina dal servizio. La questione è se il governo degli Stati Uniti abbia o meno intenzione di progettare una soluzione commerciale o incentivare lo sviluppo di una piattaforma alternativa. Tuttavia, le violazioni della privacy, i problemi di sicurezza e le operazioni di influenza straniera contro i residenti negli Stati Uniti attraverso i social media sono problemi che il governo statunitense non ha ancora risolto. E né i divieti tecnologici né la contro-sorveglianza risolveranno la questione.
“Gli Stati Uniti dovrebbero dare il buon esempio – chiosa Vesteinsson di Freedom House –. Quando parliamo di espandere i poteri di sorveglianza del governo statunitense, diamo un pessimo esempio ai governi di tutto il mondo“.
ESG, Pallini: “Ecco lo standard che certifica la compliance delle aziende”
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Nasce da cinque anni di studi il primo schema di certificazione per l’ESG riconosciuto da Accredia, pronto per essere adottato dalle organizzazioni che vogliono misurare il proprio impegno nel campo della Sostenibilità. A metterlo a punto sono stati i ricercatori della Scuola Etica di Alta Formazione e Perfezionamento “Leonardo”, associazione culturale senza fini di lucro che è ora lo “Scheme Owner” della SRG88088. A coordinare il progetto è stato il professor Mauro Pallini, che è anche presidente della Scuola Etica, e che in questa intervista a Esg360 spiega il percorso e le potenzialità dell’iniziativa.
Professor Pallini, ci racconta come siete riusciti ad arrivare a questo risultato?
È stato un lungo lavoro, iniziato in tempi “non sospetti”, cinque anni fa, quando il tema dell’ESG non era ancora sulla “cresta dell’onda” come oggi. Siamo riusciti a riunire in un unico sistema un insieme di requisiti che riguardano ambiente, sociale e governance, facendo una sintesi grazie allo sviluppo di una serie di principi che oggi stanno ottenendo apprezzamento in tutto il mondo. Essenzialmente abbiamo identificato la risposta a un bisogno che con il passare del tempo è sempre più sentito: quello di valutare secondo principi standard le prestazioni delle aziende nel campo dell’ESG, restituendo una fotografia attendibile del loro impegno su tutti e tre i pilastri da cui è composta. Oggi in questo campo c’è ancora una grande confusione, a causa di una complessità che si è rivelata difficile da gestire. Abbiamo deciso di accettare la sfida e di misurarci con questo argomento, con la pubblicazione della norma SRG88088:20. Il percorso di validazione è durato quattro anni abbondanti, un tempo che ci è servito per testare lo schema di certificazione in circa 20 aziende, da soli e con il supporto di Accredia. Così oggi siamo in grado di dare una valutazione dei sistemi di gestione per la Sostenibilità delle aziende, alle quali è possibile rilasciare un rating univoco sulla base dei 17 Sustainability Development Goals delle Nazioni Unite.
Qual è il vantaggio di questo sistema di certificazione?
Il principale vantaggio è che racchiude in un unico sistema i rating che oggi sono “polverizzati”, includendo un sistema di controlli che rende le valutazioni effettivamente attendibili. Il rilascio della certificazione del sistema di gestione e della dichiarazione del Rating necessita di un audit presso le aziende che vogliono ottenere la certificazione con un team di auditor incaricato dall’Organismo di certificazione: si tratta di specialisti, che per più giorni fanno i controlli del caso, acquisiscono tutte le informazioni di cui hanno bisogno e le sintetizzano in una valutazione complessiva. Di fatto questo processo apre anche la strada a nuove professioni: i percorsi per la formazione degli auditor li abbiamo messi in campo ormai da 15 mesi, perché non avrebbe avuto senso disporre di uno standard senza la disponibilità di personale specializzato per le verifiche.
Come funzionano le attività di verifica nelle aziende?
Tutto viene attenzionato e valutato come se passasse all’esame di uno scanner, con una particolare attenzione ai concetti di governance e della sostenibilità sociale. Il valore è nei contenuti della norma SRG88088, perché è ampia e avvolge l’azienda nella sua interezza. Nel corso delle verifiche si va a vedere tutto: dagli obblighi legislativi al coinvolgimento degli stakeholder, dalle strategie imprenditoriali alla gestione sociale, dalla partecipazione della comunità agli istituti di credito: abbiamo generato un framework per valutare tutti gli ambiti e gli aspetti della sostenibilità.
Che vantaggio ha un imprenditore che ottiene la certificazione?
Dal momento che si tratta di uno schema accreditato, i vantaggi possono essere importanti. Nelle ultime settimane, ad esempio, mi sono confrontato con i vertici di Intesa Sanpaolo, che mi hanno ribadito come loro riconoscano la certificazione della SRG88088:20 e siano intenzionati – come già hanno fatto in alcuni casi – ad applicare tassi più convenienti alle aziende che ottengono la nostra certificazione. Parliamo di agevolazioni, per esempio i tassi di interesse sui finanziamenti, possono essere ridotti anche del 40/50% rispetto a quelli che vengono applicati a chi non ha la certificazione. In sostanza, quando la banca concede un prestito, con il nostro strumento ha la possibilità non soltanto di verificare le questioni legate al credito, ma riesce ad avere un quadro più ampio e attendibile su chi ha di fronte, e può quindi premiare chi adotta comportamenti più virtuosi verso l’ambiente o verso i propri dipendenti e fornitori, grazie ad una visione imprenditoriale che può assicurare la Business Continuity.
Cosa succede ora che avete ottenuto l’accreditamento?
Intanto sta crescendo l’attenzione delle aziende, che ci chiamano per informarsi e per vedere se è possibile iniziare il percorso che le porterà a ottenere la certificazione. Di pari passo stiamo procedendo con la qualificazione degli organismi di certificazione: abbiamo già iniziato, dei circa 150 presenti in Italia, contiamo di arrivare al 35-40% entro i prossimi mesi. Questo consentirà di poter coprire, potenzialmente, una platea di oltre 400mila imprese su tutto il territorio nazionale.
A questo punto subentra il fattore culturale: le imprese sono pronte?
Ovviamente non tutte si certificheranno, ma la questione culturale si può vincere se si continuerà a fare sensibilizzazione su questi temi, se in altre parole passerà il concetto che la “trasformazione ESG” è un passaggio centrale se vogliamo mettere le basi per un futuro sostenibile da ogni punto di vista. Senza questa volontà, purtroppo, non potranno esserci prospettive di sviluppo per l’uomo sul pianeta. Che sia il momento della sensibilizzazione ce lo confermano i fatti: quando andiamo nelle imprese il primo feedback che abbiamo è che rimangono stupite dai contenuti e si lasciano attrarre da questa soluzione per la transizione.
Anche per creare attenzione attorno a questi temi il 26 maggio avete in programma un appuntamento importate a Milano…
Sì, l’appuntamento è nei locali della Fondazione Culturale Ambrosianeum. A moderare gli interventi sarà il giornalista esperto di sostenibilità Aldo Bolognini, mentre tra i relatori avremo Marco Belardi del centro studi ESG-SRG e Barbara Colombo della Scuola Etica Leonardo che illustrerà i principi dello standard Esg-Srg88088. Per Accredia parteciperà Elena Battellino, che illustrerà il ruolo di Accredia nel nuovo scenario della certificazione dei sistemi di gestione per la sostenibilità. Tra i relatori anche Stefano Bertini di Apave Certification Italia che illustrerà la posizione degli enti di certificazione, Nancy Saturnino dell’Odcec Milano, il vicedirettore di Cassa Lombarda Filippo Casolari e il vicepresidente di Emilbanca Gianluca Galletti. Avremo la testimonianza di un imprenditore che ha già ottenuto la certificazione Roberto Di Domenico della Spiedì srl. Alla tavola rotonda, a cui parteciperò anch’io, è prevista la presenza di Stefania Brancaccio vicepresidente di Coelmo, Michela Turri di Aksilia, di Luigi Guarise consulente di management, di Anna Danzi e Angelo Artale di Finco.
Per concludere, uno dei problemi di questo momento storico è il greenwashing. Il vostro standard è una risposta?
Il nostro standard permette di dare certezza sul tipo di valutazione che le aziende ottengono nel campo della sostenibilità a 360 gradi, quindi anche a livello ambientale. Con questa certificazione, quindi, non c’è rischio greenwashing. Ma a contribuire a risolvere il problema arriverà presto anche una nuova direttiva UE, che ha l’obiettivo di sanzionare chi enuncia attività che non rispondono alla realtà nel campo dell’impegno per la sostenibilità. Potrebbe essere uno strumento di persuasione in più. L’Europa in questo campo vuole essere in prima linea, e se pure il conflitto in Ucraina ne abbia rallentato il percorso, tutti gli analisti sono concordi nel dire che non ci sarà uno stop.