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Una lettera alla Sec svela gli altarini di BlackRock su Cina e investimenti Esg

Una lettera alla Sec svela gli altarini di BlackRock su Cina e investimenti Esg

Negli Stati Uniti BlackRock, la più grande società di gestione degli asset al mondo, è finita sotto esame da parte di un gruppo di procuratori generali statali per via della sua forte attenzione agli investimenti ESG, quelli cioè che tengono conto dell’impatto sull’ambiente, la società e la governance (environmental, social, governance) di una certa operazione finanziaria: si parla in questo caso di “finanza sostenibile”.

NON SOLO ESG: ANCHE LA CINA

Diciannove procuratori generali americani, guidati da Mark Brnovich dell’Arizona, hanno scritto una lettera di otto pagine alla Securities and Exchange Commission (o SEC: è l’ente federale statunitense che vigila sulla borsa valori) per chiederle inoltre di indagare sui rapporti di BlackRock con la Cina, per valutare se la società stia o meno dando la priorità alla sua responsabilità fiduciaria nei confronti degli investitori.

Nella lettera, più nello specifico, si afferma che BlackRock – guidata da Larry Fink – investe e fa affari con aziende cinesi che spesso prestano scarsa attenzione alle questioni ambientali; nel contempo, però, la società fa pressioni sulle compagnie statunitensi affinché adottino politiche di azzeramento netto delle emissioni di gas serra. Era questo, ad esempio, il messaggio delle lettere che Fink inviò nel 2021 ai dirigenti d’azienda e ai clienti di BlackRock.

La lettera dei procuratori generali, invece, chiede alla SEC di indagare se i legami di BlackRock con alcune associazioni per il clima e i suoi obiettivi sugli ESG entrino in conflitto con le sue responsabilità fiduciarie. “Sulla base dei fatti attualmente a nostra disposizione”, si legge, “BlackRock sembra utilizzare il denaro duramente guadagnato dai cittadini dei nostri stati per eludere il miglior ritorno possibile sugli investimenti, nonché il loro voto”.

A fine 2021 Fink aveva proposto la creazione di nuovi veicoli finanziari dedicati allo scorporo degli asset petroliferi, in modo da evitare il rischio di arbitraggio; le compagnie petrolifere, poi, potranno utilizzare i proventi delle vendite per investire nelle tecnologie pulite.

A giugno la SEC aveva avviato un’indagine sui fondi comuni di investimento ESG di Goldman Sachs per accertarsi che rispettassero davvero i princìpi di sostenibilità.

LE CRITICHE A BLACKROCK

“Gli impegni pubblici assunti in passato da BlackRock”, prosegue la lettera, “indicano che ha utilizzato gli investimenti dei cittadini per fare pressione sulle aziende affinché si conformassero ad accordi internazionali come l’accordo di Parigi, che costringono a eliminare gradualmente i combustibili fossili, aumentano i prezzi dell’energia, spingono l’inflazione e indeboliscono la sicurezza nazionale degli Stati Uniti”.

Brnovich, il procuratore generale dell’Arizona alla guida della protesta contro BlackRock, è da anni ostile alle politiche per il clima e per la transizione energetica. L’Arizona è governata da Doug Ducey, membro del Partito repubblicano.

LE POSSIBILI REAZIONI

Il New York Post scrive che, benché i procuratori generali si stiano limitando a chiedere risposte sulle politiche di investimento di BlackRock, le autorità del tesoro di ciascuno dei diciannove stati potrebbero ritirare le rispettive pensioni statali dalle casse di BlackRock, ad esempio, oppure vietare agli stati di avere rapporti finanziari con la società.

Il mese scorso il tesoriere della Virginia occidentale, Riley Moore, ha vietato a cinque grosse istituzioni finanziarie – inclusa BlackRock, ma anche Goldman Sachs e JPMorgan – di stipulare contratti bancari con le agenzie dello stato.

MOTIVAZIONI POLITICHE?

La tesi alla base della lettera di Brnovich e degli altri procuratori generali che si sono rivolti alla SEC è che le politiche di finanza sostenibile di BlackRock siano influenzate da alcuni stati guidati dai democratici come la California, New York, l’Illinois e il Connecticut, i cui fondi pensioni sono gestiti dalla società. “I gestori patrimoniali”, si chiedono gli autori della lettera, “stanno assumendo impegni a zero netto per commercializzarsi a questi investitori?”.

Il Wall Street Journal afferma che il “movimento ESG” si è infiltrato per anni tra gli standard di investimento senza tanti controlli, e che l’amministratore delegato di BlackRock Larry Fink ha “guidato” questa tendenza. Il quotidiano scrive poi che ex-dirigenti di BlackRock – come Brian Deese, oggi direttore del Consiglio economico nazionale degli Stati Uniti  – sono in grado di influenzare l’amministrazione di Joe Biden.

L’ATTACCO DI SOROS A BLACKROCK

In un articolo di commento sul Wall Street Journal, George Soros – imprenditore ungherese naturalizzato statunitense fondatore di Soros Fund Management – criticò gli investimenti di BlackRock in Cina, definendoli  “un tragico errore” che si tradurrà in perdite economiche per i clienti della società e “più importante, danneggerà gli interessi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti e di altre democrazie”.

A detta di Soros, infatti, BlackRock ha tracciato una linea di distinzione tra le aziende private e quelle statali che non rispecchia la realtà effettiva in Cina, suggerendo che il governo di Pechino possa intromettersi negli affari della società.




AIRB&B: QUANDO I COMPORTAMENTI ALTRUI “SPORCANO” UN LOVEMARK – PARTE II

AIRB&B: QUANDO I COMPORTAMENTI ALTRUI “SPORCANO” UN LOVEMARK – PARTE II

Ci risiamo. Ne avevamo già parlato in passato: se terze parti iscritte a una community adottano comportamenti aggressivi, ineducati, o poco genuini, il loro atteggiamento può coinvolgere il brand della piattaforma web che li ospita, e quando cresce la polemica online, è (anche) il lovemark di profilo internazionale che rischia di rimetterci in reputazione, non solo i singoli utenti iscritti alla App colpevoli di condotte eventualmente inappropriate.

È il caso di Airbnb, il più noto servizio di affitto alloggi online del mondo, il cui marchio a volte è messo a rischio dagli atteggiamenti discutibili di un certo tipo di fornitori di servizio: non già i singoli proprietari di immobili, che hanno fatto grande la community negli anni, bensì le agenzie professionali di affitti, che continuano a confondere la comunità online di Airbnb con un qualunque sito di locazione di alloggi (“qui c’è l’appartamento, paga il denaro per l’affitto”) senza rendersi conto – nella loro profonda ignoranza del meccanismi che regolano le digital PR – che con Airbnb siamo dinnanzi a ben altro: la App in questione basa il proprio business sulla crescita di una ricca e calda comunità virtuale di locatori e affittuari, che non solo condividono e affittano alloggi, ma dialogano, si scambiano esperienze di viaggio, spesso stringono anche relazioni di cordiale conoscenza e a volte di amicizia. Tutto l’opposto rispetto al taglio sciattamente pragmatico di certe agenzie che paiono avere a cuore solo la quantità di conferme di locazione e il relativo fatturato.

Ecco allora un’altra discutibile esperienza di relazione con l’ennesima agenzia di locazione affitti milanese che utilizza Airbnb per il proprio business, episodio che è utile narrare in quanto “iconico” di un modo di intendere le relazioni con la clientela agli antipodi rispetto a quelli originali propri di quella App: basta chiedere se è disponibile del ghiaccio in casa, o i contenitori per prepararlo, e iniziate “a dare fastidio”. Vi viene risposto che il ghiaccio “non si sa se c’è oppure non c’è”; voi replicate suggerendo di verificare meglio l’attrezzatura della casa così da poter ricevere indicazioni inequivoche (ma si sa, chi affitta alloggi dalle agenzie milanesi, seppure su Airbnb, non ha alcun diritto di ricevere informazioni chiare: si deve solo pagare, tacere e “non infastidire chi lavora”…), e tanto basta per far scoppiare la polemica, che si infiamma (da parte dell’agenzia) con toni sconcertanti, arroganti e a tratti minacciosi, tali appunto da coinvolgere, in termini di cattiva propaganda, la celebre App di locazioni (ndr: sorprendentemente, come illustrato negli aggiornamenti in fondo a questo articolo, abbiamo successivamente appurato che le vicende narrate nel nostro primo articolo e quelle riportate in questa nuova parte dell’inchiesta sono riferibili allo stesso identico gruppo d’investimento immobiliare milanese):

“Guardi, il complaint per il ghiaccio che non è in dotazione se lo può evitare, non gradiamo. Vuole la cancellazione gratuita? Così può infastidire altri appartamenti. Per noi non è un problema, cancelliamo?”

Non è stato sufficiente ribadire che la richiesta inoltrata non aveva spirito polemico, ma costituiva eventualmente uno spunto costruttivo di miglioramento del servizio (questo genere di interlocuzioni sono del tutto routinarie tra i veri membri della community di Airbnb): nonostante i ringraziamenti e i saluti ripetuti più volte (verbatim: “Mi spiace di averla urtata, nulla di personale, questa è una web-community e non un sito di affitti, ed è normale per noi utenti interloquire con gli host con riguardo alla dotazione della casa…”), l’aggressione da parte del gestore è proseguita – con un italiano malfermo – in modo compulsivo e insieme raggelante:

“Quindi lei adesso è consigliere della nostra azienda senza averglielo chiesto nessuno! (…) Ma non ha niente di meglio da fare nella vita? (…) Io non la faccio entrare in casa, lei è inquietante (…) Si riprenda, si contenga (…) Lei ha cominciato molestarci con la richiesta del ghiaccio (…) Non è contemplato irritare gli host! Lei ci ha minacciati perché il suo obiettivo è di lasciare una recensione negativa, il suo comportamento è patetico. Lei si sente bene?”

Vebatim mio: “Non ho alcuna intenzione di lasciare una recensione negativa per il ghiaccio o l’attrezzatura del ghiaccio mancante, se l’alloggio è ok avrà certamente una recensione positiva, come ho sempre fatto, il mio era un suggerimento per migliorare il servizio, e comunque l’ho già ringraziata e salutata 5 volte. Grazie e buon giorno!”

Nulla da fare. Gli improperi sono incomprensibilmente proseguiti da parte dell’host:

“Zitto, e stia ancora zitto (…) Io sono il proprietario di oltre 44 proprietà immobiliari, e con un certo disgusto, la ospiterò, con un senso di discreta nausea…”

Ci ha pensato il sempre efficientissimo servizio di Airbnb a metterci una toppa, prendendo contatto con ripetute e solerti chiamate (tutte registrate): “Siamo desolati per l’esperienza che ha vissuto come ospite, i toni utilizzati nei suoi confronti sono stati inappropriati” (sono seguiti suggerimenti utili per ottenere un rimborso integrale senza penale, concesso dall’host, e trovare infine una diversa sistemazione per la notte).

A margine, a conferma che non siamo dinnanzi a un locatario privato, è interessante notare come l’annuncio in questione sia pubblicato non già da una società immobiliare italiana – come ci si aspetterebbe considerato che gli alloggi sono ubicati in Italia, chi li gestisce è italiano, e chi si qualifica come proprietario dei 44 appartamenti anche è presumibilmente cittadino e contribuente italiano – bensì da una società immobiliare di diritto inglese, registrata in UK al n° 11034440 il 26 ottobre 2017, con n° partita IVA GB308468684 e con uffici al civico n° 19 di Dragonfly Way, nella cittadina di Northampton.

Direttore locale è un cittadino italiano, G.E.A. (i nomi e cognomi dei protagonisti di questa vicenda sono stati anonimizzati su richiesta degli interessati), di professione consulente, nato a febbraio 1980, che ha sostituito l’anno scorso nella gestione A.B., nato a maggio 1987, e I.G.A., nata a ottobre 1985 (quest’ultima, di origine Bulgara), come risulta dai registri della Company House britannica.

L’indirizzo – curiosamente – coincide anche con altre società di gestione immobiliare (forse riferibili ad aventi diritto italiani?) ad esempio Potengi Real Estate Ltd, Orion Real Estate Ltd, Fooden Ltd, Rio Grande Real Estate Ltd, tutte amministrate da tale S.G., cittadino italiano residente in UK, nato nel marzo 1978, responsabile formalmente della gestione di altre 17 società (probabilmente un consulente contabile o commercialista). La sede di questi uffici è una piccola graziosa villetta in mattoni rossi, tipica a quelle latitudini, sede di uno o massimo due spazi ad uso ufficio, non certamente il grattacielo di una multinazionale: l’assetto pare essere quello di una “domiciliazione”, soluzione nota per essere adottata in molti casi da società immobiliari con aventi diritto economico di nazionalità italiana, ma con sede legale all’estero. Sicuramente nel caso della Rentclass sarà tutto in ordine, e non abbiamo motivo di dubitarne, ma – nuovamente – è utile sottolineare come questo genere di strutture immobiliari e di modalità di gestione dei rapporti con la Clientela, estremamente business-oriented, tendano ad apparire ben lontane dallo spirito di una community inizialmente nata per mettere in contatto privati desiderosi di affittare un proprio alloggio.

Con buona pace di Airbnb, piattaforma funzionale, utilissima e generalmente connotata da un tone-of-voice degli utenti assolutamente garbato e piacevole, e con un eccellente servizio di assistenza clienti, ma la cui atmosfera – per fortuna raramente – è resa a volte “tossica” da personaggi poco garbati, per nulla interessati al benessere della community, interessati solo, purtroppo, a guadagnare denaro, e i cui comportamenti, a volte non conformi, rischiano appunto di “sporcare” un lovemark noto a livello internazionale.

AGGIORNAMENTO DEL 25/05/2023 h 19:07: il titolare della società immobiliare responsabile RENTCLASS, protagonista di quanto riportato in questo articolo, a distanza di 8 mesi dalla pubblicazione ha preso ripetutamente contatto con la redazione della rivista online che state leggendo, e – con toni assai aggressivi – prima ha insistentemente offerto del denaro (da noi mai richiesto!) per ottenere la cancellazione di questo articolo, e poi ha ingiuriato ripetutamente gli autori dello stesso, minacciato ritorsioni di ogni genere nel caso esso non venisse immediatamente rimosso. Le sue telefonate sono state registrate, avvisando l’interlocutore, a tutela degli interessati, ed una diffida legale è stata inviata al Suo indirizzo. Ma lo stesso si è reso totalmente irreperibile, non ritirando la diffida, la cui notifica è stata tentata più volte. To be continued…

AGGIORNAMENTO DEL 16/05/2024 h 11:17: alcuni mesi dopo l’ultimo aggiornamento sopra riportato, il direttore responsabile di questa rivista, Prof. Luca Poma, ha ricevuto notizia di essere stato denunciato per diffamazione aggravata a mezzo stampa dal sig. G.E.A., titolare dell’agenzia di affitto immobili in questione, in relazione all’inchiesta dal titolo AIRB&B: QUANDO COMPORTAMENTI NON GENUINI “SPORCANO” UN LOVEMARK parte I e AIRB&B: QUANDO COMPORTAMENTI NON GENUINI “SPORCANO” UN LOVEMARK parte II, che state leggendo. Il procedimento giudiziario ha seguito il suo corso, e il Giudice ha deciso il non luogo a procedere per il nostro Direttore perché il fatto non sussiste, le domande del denunciante sono quindi state interamente rigettate, come potete leggere qui, nel dispositivo di archiviazione del Tribunale. Il diritto di cronaca e la puntualità delle nostre argomentazioni hanno avuto la meglio sull’arroganza e le minacce, con la speranza di non dover più tornare ad occuparci di questo caso…




FACEBOOK / META IN CRISI DI REPUTAZIONE “ATTO QUARTO”: IGNORATE LE DONNE PERSEGUITATE IN IRAN

FACEBOOK/META IN CRISI DI REPUTAZIONE “ATTO QUARTO”: IGNORATE LE DONNE PERSEGUITATE IN IRAN

Facebook – oggi Meta, dopo il rebranding del 2021 – non è certamente nuova a crisi reputazionali di ampia portata: è stata a più riprese coinvolta in scandali che hanno avuto risonanza mediatica mondiale, a partire da quello – notissimo – di Cambridge Analytica, che vide l’azienda coinvolta nel mercato delle vendite dei dati personali degli utenti a fini di micro-targeting politico, passando attraverso le influenze russe sulle elezioni 2016 in USA, evento che ha visto l’azienda di Menlo Park essere lo strumento (inconsapevole?) di una manipolazione dell’infosfera da parte dell’intelligence di Mosca, fino all’ultimo in ordine di tempo, deflagrato alcuni mesi fa, relativo alle dimissioni della Data-engineer Frances Haugen, sconcertata dagli standard etici dell’azienda, a suo dire del tutto inadeguati nel contrastare – tra gli altri problemi – niente meno che la tratta online di esseri umani, lo spaccio di droga attraverso la piattaforma stessa e la manipolazione di bambini e adolescenti a fini commerciali.

Il colosso americano vanta circa 2,8 miliardi di utenti mensili (1,84 miliardi di utenti attivi ogni giorno) e si riconferma, nonostante la forte concorrenza, come la piattaforma social preferita dagli utenti in rete, raggiungendo il 59% dei fruitori di internet. Fin dalla sua creazione, Facebook ha dominato il mondo dei social media, nonostante diversi competitor come Instagram (poi acquisito da Facebook), Snapchat o Twitter, e più recentemente TikTok, sia siano fatti strada con ottimi risultati. Facebook non manca certamente di meriti: aver dato l’opportunità a persone di ritrovarsi sulla rete e rendere possibile e semplice il contatto tra utenti lontani geograficamente, specie nei Paesi più remoti, rafforzando l’idea di community virtuale e riuscendo a intercettare bisogni di svago e di relazione degli utenti online.

Per contro, l’azienda appare sistematicamente inadeguata nel rispondere alle sfide più contemporanee, specie sul fronte della difesa dei diritti fondamentali degli utenti, come conferma questo nuovo caso di crisi che vede coinvolta la multinazionale americana.

Mancata difesa dei diritti delle donne perseguitate: un nuovo scandalo

In effetti i problemi per il colosso di Menlo Park e il suo fondatore Mark Zuckerberg paiono non avere mai fine: Wired USA in un suo articolo denuncia come Meta sia accusata di colpevole lassismo nel tutelare la sicurezza delle donne in Iran, in particolare le attiviste per i diritti umani.

Da mesi, infatti, i gruppi di cittadini che si occupano di diritti delle donne in Iran vengono perseguitati da Bot e da profili Fake che si aggregano in massa ai loro account Instagram, seguendoli, per poi pregiudicare l’attività informativa sulla tutela dei diritti umani, ad esempio “segnalando” specifici post da migliaia di utenze in contemporanea, ottenendone la rimozione/cancellazione, puntualmente disposta dai sistemi automatici di Meta, in prima istanza non presidiati da esseri umani e quindi di fatto incapaci di discernere tra una segnalazione motivata e una faziosa ed eterodiretta. 

Nonostante le richieste di intervento fatte arrivare ripetutamente a Meta – che controlla Instagram, oltreché Facebook – la situazione non sta trovando soluzione. Le attiviste per i diritti delle donne affermano di aver subito repressioni particolarmente aggressive da parte del governo Iraniano negli ultimi mesi, inclusi casi di sorveglianza, nella vita reale, da parte delle forze dell’ordine, culminati in arresti: ad esempio, in occasione della “Giornata nazionale dell’Hijab e della castità”, celebrata in 12 luglio, un numero significativo di donne ha partecipato a proteste legate all’hashtag #No2Hijab, levandosi il velo in pubblico, e venendo poi in molti casi arrestate dalla feroce “polizia religiosa”, sempre molto aggressiva verso qualunque manifestazione di dissenso popolare.

La (feroce) repressione in Iran

La libertà sociale in Iran, sotto il governo della dittatura teocratica di stampo Khomeinista, è da sempre in discussione, e le repressioni dei cittadini – anche violente – sono all’ordine del giorno, ma Instagram è uno dei pochi social media internazionali accessibili e ancora non completamente censurati, in un panorama digitale in generale sotto stretta sorveglianza. Tuttavia, i forti rallentamenti della connessione web a fini di controllo sociale, che possono giungere fino allo spegnimento quasi totale di internet nell’intera nazione, sono pratiche piuttosto comuni per il Governo di Teheran, al fine sia di censurare specifici contenuti sgraditi, ma anche e soprattutto per impedire il diffondersi a livello internazionale di foto e video relative alle periodiche proteste di piazza organizzate da cittadini insofferenti verso la soffocante dittatura dei Mullah.

Shaghayegh Norouzi, attivista per i diritti delle donne, in relazione alle recenti vicende che riguardano Meta, denuncia: “Se per esempio stiamo lavorando a una denuncia di violenza sessuale da parte di una persona che ha forti legami con il governo, veniamo sommersi da un sacco di follower falsi. Negli ultimi dieci giorni, oltre 100.000 account falsi hanno iniziato a seguire il nostro account pubblico. Segnalano ripetutamente i nostri post, e Instagram li rimuove. Questi attacchi compromettono in modo specifico la capacità di diffondere il nostro messaggio e di entrare in contatto con le donne e le minoranze che hanno bisogno di aiuto“. Secondo osservatori indipendenti, circa trenta gruppi per i diritti delle donne iraniani locali, e quaranta nel resto del mondo, sono stati attaccati in questo modo.

La reazione – del tutto inadeguata – di Meta/Facebook

Nonostante un rapporto della Media Foundation Qurium abbia dimostrato che Meta era a conoscenza del grave problema fin da aprile 2022, la reazione è stata – come al solito – blanda e inefficace. I portavoce di Meta hanno dichiarato che “un’indagine sugli attacchi dei Bot in Iran era in corso”, accompagnando lo statement con le solite frasi vuote di significato nei quali gli addetti alle pubbliche relazioni di Menlo Park paiono essere davvero esperti: “Vogliamo che tutti si sentano al sicuro su Instagram, in particolare gli attivisti, sia in Iran che nel resto del mondo. Stiamo continuando a indagare sulle segnalazioni e prenderemo provvedimenti “.

Alla fine di giugno, un consorzio di attivisti ha rilasciato una dichiarazione relativa a questi attacchi verso gruppi di donne iraniane, tramite la no-profit AccessNow, esortando Meta a prendere provvedimenti più incisivi: l’azienda a quel punto ha confermato di aver eliminato gradualmente centinaia (!) di account Instagram coinvolti, dimostrando di ignorare colpevolmente (o dolosamente?) l’entità e la portata del problema, che coinvolge milioni di account, com’è noto a tutti gli addetti ai lavori.

Alla domanda su cosa potrebbe giustificare le aggressioni rilevate dagli attivisti sui loro account, Meta ha rifiutato di commentare in via ufficiale, decidendo – gravemente, a mio avviso – di non prendere posizione e non schierarsi, di fatto, su un tema fortemente sensibile dal punto di vista sociale, e confermando una volta di più – semmai ve ne fosse stato bisogno – il proprio DNA “business & marketing oriented”.

I ricercatori al lavoro sul dossier hanno scoperto che i Bot utilizzati in aprile e maggio sembravano essere stati acquistati da alcune specifiche società di social media marketing con sede in Pakistan: queste aziende pubblicizzano servizi che permettono a un cliente di acquistare 10.000 follower Bot per la ridicola cifra di 50 dollari, e fino a un milione di account falsi per circa 1.500 dollari, riporta Wired. Ai Bot automatizzati, si somma l’attività di un numero impressionante di account fake, in parte probabilmente riconducibili alle cyber-truppe iraniane, parte dei servizi di sicurezza interni, molto attivi nel controllo e nella repressione negli ecosistemi digitali, e in parte provenienti da “troll-farm” a pagamento, vere e proprie aziende che affittano forza lavoro per questo genere di attività malevole, eludendo qualunque normativa e codice etico.

Un (in)spiegabile “muro contro muro”

È di tutta evidenza che Meta abbia tardato a indagare sul problema, nonostante disponesse di documentazione e di prove sufficienti per intervenire rapidamente, considerato che gli account falsi violano palesemente gli standard della community. Tord Lundström, direttore tecnico di Qurium, ha riferito ad esempio di aver cercato (inutilmente) di dare suggerimenti concreti all’azienda su come indagare e identificare i Bot che l’organizzazione ha scoperto nella sua analisi, ma i riscontri sono stati molto blandi.

Secondo Wired USA, la risposta di Facebook si può riassumere così: “Stiamo indagando, è un problema molto difficile da risolvere, abbiamo molte persone che ci stanno lavorando”. Nel mentre, nulla di concreto succede, e le donne iraniane continuano ad essere perseguitate.

Lundström ha chiarito che “L’industria dei follower, dei like e delle recensioni false ha una solida presenza all’interno di Facebook, da anni”, e che la sua Fondazione ha puntualmente identificato decine di portali all’interno della piattaforma che forniscono questo tipo di servizi: secondo gli specialisti interpellati da Wired USA “ci vorrebbero pochi secondi per trovarli, ma Facebook incontra inspiegabili difficoltà a fermare questo mercato”.

Milad Keshtan, responsabile del programma United For Iran, ha espresso a Wired perplessità analoghe: “Abbiamo elementi molto chiari che confermano che Meta potrebbe aiutarci a combattere queste campagne, ma non abbiamo ottenuto alcuna risposta da parte dell’azienda, nonostante l’abbiamo contattata ripetutamente“. Dopo queste dichiarazioni, Meta ha ribadito genericamente che “un’indagine è in corso” (questo l’abbiamo capito…). L’attivista Norouzi ha aggiunto: “Siamo sconvolte dal fatto che Instagram permetta ai detrattori di usare la propria piattaforma per soffocare le voci delle donne e delle minoranze“.

In definitiva, pare che qualunque attività di contrasto a ciò che porta accessi sulla piattaforma (e quindi denaro, grazie al costo delle inserzioni pubblicitarie, direttamente proporzionali al traffico) non sia percepito come una priorità, da parte dei team di Zuckerberg.

Team peraltro fortemente sotto-dimensionati: sorprendentemente, con oltre 85 miliardi di giro d’affari all’anno, dei quali ben 30 miliardi di utili netti, Meta ha in tutto il mondo solo 58.000 dipendenti, una forza lavoro palesemente inadeguata a gestire efficacemente tutte le complessità proprie della più grande piattaforma web del pianeta. Si sa, il personale in carne ed ossa costa, i sistemi automatizzati invece non protestano mai e non chiedono neppure ferie: fatto sta, che l’assunzione di nuovo personale qualificato pare non essere all’ordine del giorno per Zuckerberg.

Gli effetti sulla reputazione (e sul valore) dell’azienda:

Com’è noto, la reputazione è attualmente considerato come il più importante asset intangibile per un’organizzazione, quello di maggior valore sotto il profilo economico-finanziario: una buona reputazione è in grado di condizionare i comportamenti di acquisto di prodotti e servizi, aumenta quella che in gergo tecnico definiamo “la licenza di operare” di qualunque organizzazione, ovvero la disponibilità e la fiducia che i cittadini garantiscono a un’azienda permettendole quindi di ampliare il proprio business, e aiuta a proteggere dalle crisi reputazionali.

Meta risulta essere sorprendentemente una multinazionale a “bassa cultura” su queste importanti tematiche, in particolare sul fronte dell’adozione di strumenti utili per prevedere e gestire le crisi, difendendo il perimetro reputazionale dell’organizzazione e contenendo i danni: Invece di scambiare autenticità, ascolto e un prodotto di qualità con i 2 miliardi di utenti che hanno letteralmente consegnato le proprie vite nelle mani del colosso del Social, pare essere attenta soprattutto ai profitti a breve termine, senza preoccuparsi di costruire solido valore nel medio-lungo termine, ed anzi – inspiegabilmente – impegnandosi attivamente per distruggerlo, dal momento che è dimostrato dalle evidenze di letteratura e di pratica professionale che il mancato inserimento di preoccupazioni etiche nel business pregiudica, alla lunga, il valore per gli azionisti.

Se Facebook/Meta non inizierà a utilizzare la propria capacità di migliorarsi allineandosi alle aspettative del mercato e dei cittadini, per evolversi in un social network più affidabile, inclusivo, sostenibile e attento ai diritti degli utenti, possiamo scommettere che qualcun altro, prima o poi, capirà come farlo ed entrerà sul mercato con un nuovo modello di business. Con grande gioia per molti.




Petrolio, un patto tra l’Angola e il colosso Chevron per scaricare i veleni in mare

Petrolio, un patto tra l'Angola e il colosso Chevron per scaricare i veleni in mare

Ai confini con la Repubblica del Congo, affacciata sull’Oceano Atlantico, si trova la provincia di Cabinda, un’exclave dello Stato dell’Angola famosa per le sue foreste tropicali, la produzione di caffè, di cioccolato, di olio di palma e di petrolio. Nonostante sia la più piccola provincia dell’Angola, qui si produce il 60 per cento del petrolio del Paese che rappresenta il 50 per cento del Pil e l’89 per cento delle esportazioni nazionali. «Ma noi siamo poveri», commenta Lucas, giovane angolano che vive in Europa.

Le sue parole sono confermate dai dati del National Institute of Statistics  in collaborazione con l’Università di Oxford: il 54% degli angolani vive in povertà. Dal 1955, anno in cui è stato scoperto l’oro nero, a sfruttare i suoi giacimenti sono arrivate di corsa tutte le più grandi compagnie petrolifere del mondo. Cosa che non stupisce. A sorprenderci, invece, è l a segnalazione di una fonte che preferisce rimanere anonima ma che ci racconta una storia mai scritta, e che il Corriere ha verificato nei dettagli.

Il 3 maggio, la società petrolifera americana Chevron, tra le più grandi del mondo che in Angola lavora per mezzo della controllata Cabgoc (Cabinda Gulf Oil Company), ha firmato con il governo una moratoria per poter scaricare nell’oceano tonnellate di rifiuti petroliferi pericolosi. Un accordo che è rimasto nell’ombra.

L’intesa fa sì che il ministero angolano delle Risorse minerarie, del petrolio e del gas abbia dato il via libera a riversare nel mare quelli che in gergo si chiamano i «detriti di perforazione», scarti contaminati che «rappresentano una grave minaccia all’ambiente», ci spiega Alessandro Giannì di Greenpeace Italia.

Facciamo un passo indietro. Per arginare l’impatto ambientale dello sfruttamento del petrolio e proteggere l’ecosistema dallo scarico dei frammenti di perforazione delle piattaforme offshore, nel 2014, il governo angolano ha dato il via a una politica chiamata «zer o discharge», discarica zero. Nonostante questa nuova pratica ambientale, il ministero angolano, nel 2019, ha concesso a vari operatori il permesso di scaricare i loro frammenti di trivellazione contaminati solo in caso di attività esplorative in aree di sviluppo e in acque ultra profonde, o in caso di nuove concessioni. Un via libera che ha allargato le maglie della legge.

A maggio, invece — come mostra il documento che pubblichiamo — la Chevron ha ottenuto l’autorizzazione allo scarico in mare degli scarti contaminati (con un livello massimo di ritenzione di detriti di perforazione del 5%) fino al 2023. Sono autorizzati a scaricare questi rifiuti in fondali bassi a poca distanza dalla riva. Total ed Esso si sono già accodati alla richiesta. Né il ministero del gas dell’Angola, né Chevron hanno risposto alle nostre domande.

«Fa impressione il fatto che succeda in acque basse, dove l’effetto della tossicità è maggiore perché c’è una concentrazione più elevata di veleni», spiega un operatore occidentale sul posto. Ci racconta che queste compagnie petrolifere che operano in tutto il mondo, in Europa e negli Stati Uniti, rispettano le severe leggi dello smaltimento, contribuendo alla salvaguardia degli ecosistemi marini. Nei Paesi occidentali, i processi di smaltimento e pulizia dei fluidi e dei detriti provocati dalla perforazione del suolo marino vengono seguiti accuratamente: «È il famoso double standard che alcuni utilizzano quando operano nelle zone del mondo più povere».

Ma perché l’Angola dovrebbe accettare una richiesta di questo tipo? Perché il potere di certe multinazionali supera quello di governi più deboli e indeboliti dalla corruzione e dalle guerre civili, governi più ricattabili.

Il ministero, ricostruiscono sempre fonti occidentali, avrebbe detto che la richiesta di Chevron è arrivata quando il prezzo del petrolio era ai minimi storici e la deroga doveva essere un tentativo per tagliare i costi dello smaltimento dei detriti. Ma ora che a causa della guerra il prezzo del petrolio ha raggiunto i massimi storici? Difficilmente si tornerà indietro.

Una stima prudente è che in un anno verranno scaricate 12 mila tonnellate di detriti di perforazione e 6 milioni di litri di petrolio nell’oceano. Senza contare che la pulizia del suolo marino inquinato comporta una spesa di centinaia di milioni di dollari. «Quando abbandoni questi materiali nel mare, rilasci petrolio, metalli pesanti e fanghi che circolano nell’ambiente e che mettono a rischio la fauna marina. Finiscono nella rete alimentare e nei nostri piatti», dice Giannì. Una conseguenza molto grave in un Paese dove la pesca è tra le attività principali.




Barani, lo spezzino che vuole fare del Savona la prima squadra green: “Il calcio sia d’esempio”

Barani, lo spezzino che vuole fare del Savona la prima squadra green: “Il calcio sia d’esempio”

C’è un manager spezzino che si è messo in testa di dimostrare che un club di calcio può essere il motore di un cambiamento culturale nella direzione del rispetto dell’ambiente. Un paradigma declinato direttamente all’interno del funzionamento proprio di un’azienda sportiva e indirettamente utilizzando la prerogativa di visibilità che il gioco del pallone concede. Lui si chiama Vittorio Barani, 52 anni originario di Vernazza, fede blucerchiata, e la società a partire dalla quale vuole costruire questo progetto è il Savona Calcio.

Dirigente di un’importante azienda dell’energia, ha studiato un progetto che parte dagli spostamenti della prima squadra e arriva alla ristrutturazione del vecchio stadio “Bacigalupo”. Poi ha radunato una serie di imprenditori del centro Italia pronti a dare una mano al Savona, finito addirittura in Prima Categoria, e ora spera di poter mettere alla prova dei fatti le proprie intuizioni nei prossimi anni.

Città della Spezia ci ha fatto una chiacchierata.

La domanda nasce spontanea: come fa un’azienda calcistica a diventare ad impatto zero e farsi motore di una diversa coscienza su alcuni temi presso gli stakeholder, che siano tifosi, istituzioni o partner commerciali?

“Noi siamo partiti dal concetto che tutto il mondo affronta una crisi che rappresenta una sfida. Un fenomeno globale, come globale è il calcio. Abbiamo ragionato su tre temi: energia, acqua e ambiente. Per ognuno si possono trovare soluzioni via via più efficaci. Per quanto riguarda la parte energetica, pensiamo per iniziare ad uno stadio coperto da pannelli fotovoltaici e ad un’illuminazione a led. Per la parte idrica, vorremmo installare serbatoi autoportanti per raccogliere l’acqua piovana durante la stagione piovosa da utilizzare per il manto erboso. Ai nostri ospiti vorremmo presentare uno stadio plastic free che sia certificato dagli enti preposti. Di buona pratica in buona pratica, si può pensare di fare con il tempo di un impianto di calcio una specie di comunità energetica all’interno del tessuto urbano. Perché non pensare di mettere a disposizione le eventuali eccedenza di acqua o di corrente elettrica per progetti sociali? Uno stadio vive una volta alla settimana, i residenti ogni giorno”.

Come si rinuncia, per esempio, ad un pullman diesel per le trasferte senza incidere sui bilanci?

“Attualmente l’idrogeno non è un’alternativa perseguibile per mancanza di infrastrutture, ma la teniamo d’occhio. Però sarei molto contento di vedere la squadra muoversi intanto con mezzi ibridi. Mi piacerebbe vedere i nostri calciatori spostarsi solo con auto elettriche, che siano loro i primi a fare proprio questo tipo di approccio. Creare regole precise in questo senso in modo che calciatori e dirigenti siano i primi ambasciatori di questa filosofia. Avere un partner industriale di peso renderebbe la cosa semplice da realizzare chiaramente.”.

Vittorio Barani

Perché proprio Savona?

“La proprietà ed il presidente, l’avvocato Cittadino, si sono dimostrati molto sensibili a questi temi e hanno sposato subito il progetto di squadra green. Altro aspetto importante è il fatto che il Savona si trova attualmente in Prima Categoria e questo ci dà lo spazio per crescere con il tempo, modellando il progetto secondo i nostri princìpi. Partire dal professionismo sarebbe stato più difficile”.

La piazza savonese come vi ha accolti: tifoseria e istituzioni?

“Il Savona Calcio esce da un periodo travagliato, la piazza dei tifosi è naturalmente alla finestra per capire le nostre mosse. Siamo partiti pensando dalla squadra, seguendo gli iter per rinnovare il settore tecnico, dall’allenatore alla dirigenza e fino ai calciatori. Dalle istituzioni, un progetto che include uno stadio green che ottenga le necessarie certificazioni, è stato accolto con apprezzamento. Nei primi giorni di settembre ci sarà la presentazione ufficiale e poi cercheremo le aziende che ci diano una mano a realizzarlo”.

la monetina è in terra. Palla o campo?

Come si tiene assieme il risultato sportivo con una progettazione di lungo periodo?

“Ho incontrato subito i tifosi del Savona. Avevano il desiderio di rivedere il club usare il simbolo storico, perso negli ultimi anni. La squadra va nella stessa direzione, le nuove divise saranno presentate presto e anche quello sarà un momento importante di identità. Stiamo aspettando di completare la rosa. Siamo coscienti di non essere in una piazza che può rimanere in Prima Categoria, che ambisce al professionismo per propria collocazione naturale. Siamo pronti a lavorare per raggiungere standard che al momento non ci sono”.

Una squadra green è un approccio che rappresenta sicuramente una novità in Italia. All’estero?

“Il progetto è originale e nasce dall’unione di due circostanze. Il fatto che io lavori in un’azienda del settore ambiente, e quindi viva giornalmente le tematiche della sostenibilità, e la mia passione per il calcio. In Italia non vi sono precedenti, nella terza serie inglese c’è un club che punta molto sulle politiche ambientali. Ma per noi è un discorso nuovo, ci sentiamo dei precursori”.

Diego Farias e Morten Thorsby

Cosa la ha ispirata a lanciarsi in questa avventura?

“Mia figlia Gaia di 21 anni. Mentre elaboravo il progetto a casa, ho notato il suo interesse. I giovani hanno una sensibilità particolare sui temi dell’ambiente. Nel progetto di un Savona green c’è l’utilizzo dei giocatori all’interno delle scuole come testimonial delle buone pratiche ambientali, oltre che dell’aspetto sportivo. Mi piacerebbe far vedere il calcio in maniera diversa. Oggi questo è uno sport che non sempre lancia messaggi costruttivi tra plusvalenza, tatuaggi, veline, simulazioni, auto di grossa cilindrata… noi vorremmo perseguire un’immagine che sia meno superficiale, se mi è concesso. Non è impossibile. Sono amico di Morten Thorsby, che con i suoi atteggiamenti e scelte personali è per me un modello ed un esempio di quanto potrebbe fare il calcio per il pianeta”.

Partendo dalla Liguria, che certo è una regione in cui l’antropizzazione e l’industrializzazione è stata particolarmente aggressiva nel corso degli scorsi decenni.

“Se la televisione negli anni Sessanta ha contribuito ad alfabetizzare l’Italia, oggi il calcio potrebbe avere la stessa funzione per quanto riguarda l’utilizzo cosciente delle limitate risorse del pianeta o dei nostri consumi. Con il Savona, nel nostro piccolo, vorremmo avere un ruolo di questo tipo. Se il messaggio sarà recepito dalle grandi aziende, faremo presto a diventare un simbolo di questo approccio innovativo secondo me”.

Zona portuale Savona

Alla Spezia si va verso il rinnovamento del Picco con una nuova tribuna. Secondo lei cosa si potrebbe fare da subito per renderlo a basso impatto?

“In verità a marzo abbiamo anche fatto qualche incontro con lo Spezia Calcio, ci sarebbe piaciuto poter sviluppare il progetto di una prima squadra green in serie A. C’erano imprenditori importanti pronti ad investire sul Picco, ma non è andata in porto. Io credo che, in generale, tutte le società calcistiche dovranno convergere verso queste idee sul breve periodo. Per quanto riguarda il Picco, intanto penserei ad un modo, in accordo con l’amministrazione comunale, per permettere ai tifosi di raggiungere lo stadio con una mobilità dedicata: mezzi elettrici, una pista ciclabile pensata per loro e magari un parcheggio per le biciclette sarebbe un buon inizio”.