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Non sottovalutate Musk. Con l’acquisto di Twitter si apre una strada verso il potere

Non sottovalutate Musk. Con l'acquisto di Twitter si apre una strada verso il potere

Così Elon Musk risponde alle mille illazioni sul suo vertiginoso take over di 44 miliardi di dollari, per conquistare la piattaforma dell’uccellino.

In sostanza dice “ragazzi ora ci divertiremo”, ora accadrà di tutto.

Il prezzo per questo spettacolo lo ha pagato molto caro: circa tre volte la quotazione dei più ottimistici esperti. Siamo in piena recessione tecnologica, con una caduta di tutte le piattaforme principali, da facebook che sta precipitando , perdendo circa il 70 % del valore dall’inizio dell’Anno, a Google che è sotto del 25 % Ad Amazon che ha ceduto il 13 %. In questa congiuntura il miliardario sudafricano raccoglie una fortuna di 44 miliardi di cui la metà di tasca propria, e si prende twitter ad un prezzo fuori mercato. Perché?

Trump è convinto che la cosa gli aprirà la strada per una rivincita a Washington, a Mosca pensano che proprio perché costretto a prosciugare le sue finanze Musk sarà meno generoso con l’appoggio alla resistenza ucraina. Persino Salvini si congratula mettendo in conto uno spostamento del senso comune della piattaforma. In realtà il padrone di Tesla sembra avere altre idee in testa.

 La chiave è proprio la guerra in Ucraina. Musk con i suoi satelliti di Starlink ha privatizzato il conflitto, diventando il primo decisivo alleato di Zelensky, con la sua capacità di georeferenziare qualsiasi oggetto si muova sul terreno. Ora mira a comporre direttamente lo scontro armato. La sua proposta di pace che sembrava l’ennesima battuta, diciamo l’avanspettacolo della commedia che annuncia su Twitter. Invece la talpa sta scavando: il Cremlino è attento e per nulla dispiaciuto da quell’ipotesi che garantirebbe alla Russia Crimea e la contesa in Donbass. E lo stesso dipartimento di stato non ha certo snobbato la cosa, limitandosi ad un silenzio interessato.

Lo stesso sta accadendo in Cina, dove il gruppo Tesla ha grandi investimenti.

Da tutto questo si intuisce che la spesa per avere Twitter ha due veri obbiettivi. Il primo di carattere tecnologico: integrare una massa preziosa e sofisticata di dati, largamente legati al mondo del giornalismo, ai nuovi processi di automatizzazione della scrittura e del pensiero che Musk sta finanziando copiosamente. Come ha spiegato lui stesso, si tratta di arrivare rapidamente a un’intelligenza artificiale in grado di interpretare direttamente i nostri desideri e di comunicarli all’esterno. E il modo più sicuro per interpretare i desideri, ci spiega Shoshanna Zuboff nel suo saggio Il capitalismo della Sorveglianza (Luiss editore) è quello di suggerirli e condizionarli.

L’altro aspetto dell’operazione Twitter , whatever it takes, costi quel che costi, avrebbe detto il nostro ex presidente del consiglio Draghi, è aprire la strada ad un ruolo di reale potere istituzionale. Diciamo che Elon Musk non spende 44 miliardi per far giocare nuovamente Trump a fare il presidente, ma molto probabilmente intenderà direttamente scendere in campo e diventare un protagonista diretta della commedia, per rimanere alla sua metafora.

Non a caso Musk ha già costituito un partito trasversale che sta usando proprio per raccogliere le risorse per comprare Twitter. Nella nuova compagine azionaria che per altro ha deciso di ritirare il titolo dal mercato del Nasdaq , per non soffrire di regole e obblighi di trasparenza, ci sono forze geo politiche come il principe saudita Al Waleed , numero se banche d’affari europee, conglomerate giapponesi, e persino per l’Italia il gruppo Unipol che dovrebbe farci capire perché si è infilato in una combinazione così eccentrica.

Ora il nodo sarà capire come contenere e civilizzare questa forza che irrompe sulla scena. Il commissario al mercato interno europeo Breton ha subito dichiarato che l’uccellino di Twitter se vorrà volare dovrà farlo rispettando le norme europee. Ma , come al solito, nei processi digitali, cambiano le circostanze e la materia delle nome. Non si tratta di fronteggiare un monopolio, o un uso distorto della privacy, ma di contenere la capacità di riproduzione delle nostre volontà sulla base di una molteplicità di saperi e tecnologie, tutte dipendenti da un unico proprietario.

Una tale potenza non è circoscrivibile con norme che dovrebbero essere adeguate ogni sei mesi, ma tagliando all’origine la base del suo potere, ossia la privatizzazione di dati e algoritmi che sono entrambe risorse pubbliche . Su questo bisogna che la politica si adegui al nuovo conflitto di interessi galattico, pena organizzare qualche convegno fra qualche anno per capire perché siamo tutti sudditi di un’unica piattaforme.




Spesi miliardi per accaparrarsi terreni nel metaverso. Soldi buttati o grande investimento?

Spesi miliardi per accaparrarsi terreni nel metaverso. Soldi buttati o grande investimento?

Quasi 2 miliardi di dollari. E’ questa la cifra spesa nel metaverso per l’acquisto di terreni virtuali nell’ultimo anno. E’ quanto emerge da una ricerca dedicata, che mostra come la corsa alla nuova dimensione della Rete sia in pieno svolgimento.

E così, scrive il sito della BBC, non sono pochi coloro che negli ultimi 12 mesi hanno deciso di investire per acquistare un lotto virtuale in qualcuna delle piattaforme virtuali che stanno animando i diversi metaversi disponibili.

C’è chi ha speso fino a 1500 sterline per un loto virtuale, acquistato per vantarsene con i conoscenti e potenziali clienti, come ad esempio artisti che hanno messo in piedi delle vere e proprie gallerie d’arte virtuali per mettere in mostra le loro opere online, messe in vendita in criptovaluta ad esempio sulla piattaforma Voxels.  

Dozzine di mondi virtuali diversi

Voxels è uno delle dozzine di mondi virtuali che si descrivono come metaversi. È fonte di confusione, perché le persone spesso parlano del “metaverso” come se ce ne fosse uno solo. Ma finché una piattaforma non inizia a dominare, o questi mondi disparati si uniscono, le aziende vendono terreni ed esperienze nelle loro versioni.

Dozzine di grandi marchi hanno acquistato appezzamenti di terreno nella mappa Sandbox negli ultimi sei mesi

Secondo al società di analisi  DappRadar nell’ultimo anno sono stati spesi 1,93 miliardi di dollari di criptovaluta per l’acquisto di terreni virtuali, di cui 22 milioni di dollari spesi per circa 3.000 appezzamenti di terreno su Voxels.

DappRadar può monitorarlo perché Voxels è costruito sul sistema di criptovaluta Ethereum, in cui, come tutte le valute virtuali, ogni transazione viene registrata e pubblicata su una blockchain pubblica.

Uno dei mondi più popolari è il cartone animato Decentraland. Lanciati nel 2020, i lotti di terreno vengono venduti per migliaia, a volte milioni di dollari. Samsung, UPS e Sotheby’s sono tra coloro che hanno acquistato terreni e costruito negozi e centri visitatori lì.

Il marchio di moda di lusso Philipp Plein possiede anche un lotto delle dimensioni di quattro campi da calcio, che spera conterrà alla fine un negozio e una galleria del metaverso.

Tuttavia, il proprietario, il signor Plein, dice che sua madre non è convinta del suo acquisto da 1,5 milioni di dollari.

“Mia madre mi ha chiamato e mi ha detto: ‘Cosa hai fatto? Perché? Sei matto, perché spendi così tanti soldi, cos’è questo?’”, dice.

Vestiti virtuali a caro prezzo

Il signor Plein vende beni in 24 diverse criptovalute online da più di un anno. All’inizio del 2022, ha aperto un nuovo negozio in Old Bond Street a Londra vendendo vestiti e alcuni token non fungibili (NFT) in cambio di criptovalute come Bitcoin ed Ethereum, oltre a sterline.

Dice che l’apertura del negozio lo ha aiutato a saperne di più sul metaverso e aggiunge:

Tuttavia, con il crollo generale del valore delle criptovalute, Dapp Radar afferma che i valori immobiliari del metaverso sono vicini al minimo di un anno

Gucci Town su Roblox

Su Sandbox, un altro dei metaversi crittografici, Adidas, Atari, Ubisoft, Binance, Warner Music e Gucci sono solo alcune delle multinazionali che acquistano terreni e costruiscono esperienze per vendere e promuovere i loro prodotti e servizi.

Gucci ha anche costruito Roblox, che insieme ad altre grandi piattaforme di gioco come Minecraft e Fortnite, è visto come il più mainstream dei metaversi.

A Gucci Town su Roblox, i giocatori possono acquistare vestiti per i loro avatar utilizzando la valuta di gioco Robux

Queste società di gioco non vendono terreni e sono gestite senza l’uso di alcuna tecnologia blockchain. Tuttavia, hanno già alcuni degli ingredienti chiave di cui gli scrittori di fantascienza dicono che abbiamo bisogno per un vero metaverso:

• la capacità di uscire e giocare

• le proprie valute mondiali

• l’opportunità di fare soldi sulla piattaforma

• enormi comunità fiorenti

Amber Jae Slooten prevede che ci sarà un “mercato di massa” per i vestiti digitali

“Quando abbiamo iniziato, tutti ci chiamavano pazzi, perché dicevano, ‘perché avresti bisogno di questo?’. Ma credevamo fermamente nell’idea che in futuro le persone avrebbero indossato gli articoli digitali”, afferma il co-fondatore e capo designer Amber Jae Slooten.

La vendita del record di The Fabricant finora è un vestito digitale che ha fruttato 19.000 dollari, sebbene sia stato venduto come NFT – un’opera d’arte digitale – e non sia stato indossato dall’avatar del proprietario.

Davvero vivremo nel metaverso?

La società ha appena raccolto 14 milioni di dollari di finanziamenti da investitori che scommettevano sull’idea che molti di noi vivranno presto parte della nostra vita nel metaverso.

Ma non è certo se e quando ciò accadrà. I metaversi crittografici sono generalmente scarsamente popolati e utilizzati realmente solo quando si tengono eventi, e anche in questo caso partecipano solo migliaia, e non milioni, di persone.

Meta di Mark Zuckerberg ha perso centinaia di miliardi di valore sul mercato azionario dalla sua spinta nel metaverso Anche nel mondo virtuale in cui Meta, proprietaria di Facebook e Instagram, sta investendo miliardi di dollari, i promemoria trapelati mostrano che le persone non rimarranno a lungo. Ma la signora Slooten è convinta che man mano che questi mondi si svilupperanno, le persone arriveranno. “Ci sarà sicuramente un mercato di massa in questo perché se si pensa alle nuove generazioni, già giocano. Per loro non c’è distinzione tra virtuale e reale. Ma deve ancora essere costruito”.




Nick Couldry, il colonialismo emergente dei dati

Nick Couldry, il colonialismo emergente dei dati

Parla l’autore, insieme a Ulises Mejias, de «Il prezzo della connessione». Giovedì 10, il sociologo sarà ospite della John Cabot a Roma. E venerdì interverrà al Politecnico di Torino. Il sistema è a caccia di nuovi territori o frontiere dai quali estrarre valore. La regolazione non basta, bisogna fornire soluzioni tecniche, sociali, politiche, scientifiche ed educative

La discussione critica sul potere dei dati e sulla loro capacità di fornire una rappresentazione adeguata, anche rispetto a preferenze, abitudini e comportamenti delle persone è ormai decollata. Uno dei testi più interessanti di questo ampio dibattito è il volume di Nick Couldry e Ulises Mejias: Il prezzo della connessione (Il Mulino, pp. 384, euro 39, traduzione di Paola Palminiello; edizione originale The costs of connection, Stanford University Press, 2019). Il volume sostiene che la colonizzazione della vita attraverso i dati è «il piano B» del colonialismo per continuare il processo di appropriazione di «territori» a disposizione.

Il processo di enclosures nel Seicento rese possibile la privatizzazione dei pascoli inglesi e l’acquisizione delle terre e del surplus economico, dando inizio all’accumulazione per spossessamento all’origine del capitale della prima rivoluzione industriale. Il land grabbing non si fermò al Regno Unito, ma cercò nelle colonie nuovi spazi di espansione.

L’espropriazione delle terre comuni – considerate prive di titoli validi di proprietà – da allora non si è mai interrotta. Al presente siamo in una fase critica del capitale. È alla ricerca disperata di nuovi spazi di estrazione e astrazione.

Abbiamo posto alcune domande a Nick Couldry, in questi giorni a Roma, che ci risponde anche a nome del suo coautore Ulises Mejias.

Ci può spiegare la differenza tra colonialismo storico e colonialismo dei dati?

Il colonialismo dei dati è un ordine sociale emergente basato su un nuovo tentativo di impadronirsi delle risorse del mondo a beneficio delle élite. Come il colonialismo storico, è basato sull’estrazione e l’appropriazione di risorse di valore. Il vecchio colonialismo si appropriava della terra, delle risorse e del lavoro umano. Il nuovo si appropria di noi, dello scorrere quotidiano della nostra vita, nella forma astratta dei dati digitali. Questo nuovo colonialismo non sostituisce il vecchio, ma aggiunge una nuova cassetta degli attrezzi, che implica raccogliere, processare e applicare i dati. Non c’è corrispondenza diretta tra vecchio e nuovo colonialismo.

La brutalità non è la stessa, ma c’è ancora molta violenza in queste nuove forme di sfruttamento e l’intero nuovo ordine emergente dal colonialismo dei dati è basato sulla forza piuttosto che sulla scelta, e usa le stesse disuguaglianze storicamente costituite. Non siamo contro i dati di per sé. Stiamo specificamente criticando la forma dell’estrattività dei dati che ha un solo obiettivo: la generazione di valore in modo iniquo e asimmetrico, che impatta in negativo sulle tradizionali vittime del colonialismo, non importa se le definiamo in termini di razza, classe o genere, o nell’intersezione di tutte queste categorie.

Crede che questo progetto neocoloniale che interviene sulla vita umana produrrà una forma di mercificazione in cui non ci sarà più nulla che possa essere protetto dalla produzione capitalistica di valore?

Se pensiamo in termini marxisti, sfruttamento ed espropriazione avvengono rispetto ai lavoratori nei luoghi di lavoro. Nel capitalismo dei dati, lo sfruttamento avviene ovunque e sempre. Possiamo anche rilassarci e interagire con amici e con la famiglia, e l’estrazione e il tracciamento avvengono comunque. La ragione per cui sempre meno aree della vita sono protette dallo sfruttamento è che la mentalità coloniale presuppone che i dati, come la natura e il lavoro prima di loro, siano una risorsa economica. I dati sono abbondanti, disponibili e privi di padrone.

Il nostro ruolo è solo produrli e arrenderci alle corporazioni commerciali, le uniche capaci di trasformarli in qualcosa di produttivo e utile. Questa premessa è fallace perché si basa su un modello estrattivista e produce un ordine diseguale in cui solo pochi guadagnano e molti sono esclusi.

L’estrazione dei dati è un modo per accedere alle informazioni intime delle persone? Oppure pensa che l’informazione creata dai processi di datificazione possa piuttosto orientare il comportamento delle persone senza comprenderle? Non crede che questo processo di estrazione alla fine non produca abbastanza valore, soprattutto se i consumatori sono espropriati della loro volontà e magari anche delle loro risorse?

Il colonialismo dei dati è un sistema per rendere le persone più facili da usare per le macchine. I dati catturati dalle piattaforme non possono restituire la complessità di un singolo essere umano. La pubblicità ipertargettizzata potrebbe non funzionare bene. Ma le corporazioni monetizzano i dati usandoli per influenzare decisioni commerciali e politiche, rivendendo a noi la nostra vita (organizzano la vita e perfino predicono problemi di salute ed emotivi). Anche quando i dati non possono essere direttamente monetizzati, accumulati o anticipati generano valore in termini di investimenti speculativi che costruiscono valore per il mercato azionario.

Questo sistema non fissa limiti. Né il colonialismo, né il capitalismo ne hanno. Il sistema è sempre a caccia di nuovi «territori» o «frontiere» dai quali estrarre valore. È il motivo per cui Lenin diceva che l’esito dell’imperialismo è la forma più avanzata di capitalismo: dopo aver esaurito le persone da sfruttare a casa, devi colonizzare nuove zone di estrazione che diventano anche nuovi mercati per quello che vendi. Questa è la strategia dietro il colonialismo dei dati, visto come l’ultima appropriazione di terre in una lunga serie di appropriazione di risorse.

Ci può dire di più sulla strategia per decolonizzare i dati? Come possiamo coltivare il principio di discontinuità rispetto alla connessione dei dati?

La regolazione è una strategia, ma è improbabile che sia sufficiente, perché non pensa in termini di forme di vita, come invece fa il pensiero decoloniale. Secondo le idee più avanzate di alcuni studiosi di diritto, i dati non dovrebbero essere connessi, l’estrazione dei dati deve essere disgregata, impedendo che piattaforme educative o sociali possano ridistribuirli a reclutatori o assicuratori. Ma questa idea di discontinuità nella connessione non è stata accolta dai regolatori. La nuova legislazione sui dati in EU va in direzione opposta: assicurare un flusso di dati, il più possibile libero tra le corporazioni.

La regolazione non basta e la visione decoloniale dei dati deve fornire molte soluzioni, non solo tecniche, ma sociali, politiche, culturali, scientifiche e educative. Deve collegarsi a lotte che non hanno a che fare coi dati, ma sono lotte per la giustizia e la dignità. Per questo molte risposte creative al colonialismo dei dati arrivano dai gruppi femministi, antirazzisti, e indigeni. Dobbiamo imparare da loro. Con la femminista messicana Paula Ricaurte abbiamo creato un network, Tierra Comun che si propone questo scopo.

Nel libro che ha scritto insieme a Ulises Mejias si dimostra una continuità tra colonialismo e razionalità «occidentale». Come possiamo preservare la ragione, e insieme proteggere il pluralismo, le differenze e l’autonomia umana?

Il primo passo è riconoscere che ragione, pluralismo, autonomia non sono concetti solo dell’Occidente. La razionalità occidentale ha preso in prestito (per essere gentili) molte di queste idee dalle tradizioni non occidentali. Non si tratta di fare a meno della razionalità, ma dell’affermazione occidentale dell’esclusività su di essa. Decolonizzare i dati è in primo luogo un esercizio di creatività e immaginazione. Possiamo imparare molto dai modelli non occidentali di come resistere alla razionalità coloniale. Qualche volta la resistenza deve cominciare con la mente, se resistere con il corpo non è possibile. Ma quando comincia, è inarrestabile. Vediamo comunità prendere il controllo sui loro dati, chiedersi: è possibile decolonizzare l’intelligenza artificiale, o c’è qualcosa di intrinsecamente coloniale in lei? Stiamo cercando di capire come fare, ma i dibattiti sono ormai in corso.

Non crede che epistemologia e politica siano strettamente connesse, tanto che per il successo delle pratiche decoloniali ci sia bisogno di un nuovo modo di pensare e conoscere?

La politica, per quanto rude, si basa sempre su una certa forma del mondo. Qualsiasi lotta politica o trasformazione positiva si basa sulla possibilità di sfidare quelle forme, attraverso epistemologie alternative. Se la politica da cambiare vuole proseguire a beneficiare delle profonde disuguaglianze dell’ordine coloniale, contestarla significa non solo mandare in crisi una particolare narrazione, per esempio sull’origine di una nazione, o della povertà.

Bisogna invece mettere in discussione l’approccio generale alla conoscenza (su cui si basa molta della scienza che ereditiamo) che si appoggia su una visione estrattivista del mondo. Per farlo abbiamo bisogno di pensare la ricerca diversamente e progettare nuovi modi di conoscere e vivere insieme.

SCHEDA. Biennale Tecnologia, «apre» Nicholas Taleb

Nick Couldry è anche ospite alla Biennale Tecnologia che torna a Torino dal 10 al 13 novembre, organizzata dal Politecnico di Torino (si esplora il rapporto tra tecnologia e società). Con Biennale Off e Politecnico Aperto, la manifestazione si estenderà poi in altre sedi diffuse su tutto il territorio regionale. Dopo la «lectio magistralis» del saggista, matematico e filosofo libanese naturalizzato statunitense Nassim Nicholas Taleb, nel corso di quattro giornate ci saranno circa 280 relatori da tutto il mondo. Fra i tanti ospiti internazionali, Naomi Oreskes, Miguel Benasayag, Evgenij Morozov, Suzanne Heywood, Helga Nowotny, Éric Sadin, Heinz Stoewer, Peter Wadhams, Aaron Benanav, Joselle Dagnes, Derrick de Kerckhove; David Goodhart, Jürgen Renn, Jeffrey Schnapp, Bruce Sterling.




Una ricerca di Team Lewis analizza la user experience e il digital marketing dei brand

Una ricerca di Team Lewis analizza la user experience e il digital marketing dei brand

TEAM LEWIS, agenzia globale di marketing, lancia il report annuale Global Marketing Engagement Index™, con l’obiettivo di analizzare l’efficacia dei brand nella relazione con il proprio pubblico.

La ricerca analizza le 300 aziende top della lista Forbes Global 2000 attraverso il Marketing Engagement Tracker (MET). I cambiamenti registrati mostrano alcune tendenze che appaiono paradossali:

  1. Corporate Social Responsibility (CSR) / Environmental, Social and Governance (ESG)
    La sezione ESG del MET verifica se le aziende presentano o menzionano sul proprio sito web l’utilizzo di risorse energetiche rinnovabili o programmi di Diversity & Inclusion. Nonostante l’attualità di questi temi, il punteggio è sceso dal 65% nel 2021 al 56% quest’anno.
  2. Media
    Questa sezione del MET esamina il volume dei contenuti media sul sito web. Può trattarsi di case study, notizie su prodotti o servizi, interviste o citazioni di figure di spicco del management di un’azienda. Il punteggio complessivo è diminuito rispetto allo scorso anno, passando dal 56% del 2021 al 36% del 2022. Questa riduzione si deve al numero maggiore di aziende che ha dovuto affrontare una comunicazione di crisi, interferendo con il normale flusso di comunicazione.
  3. Digital Marketing
    Questa area di indagine del MET analizza i fattori che determinano il successo di un’azienda con il proprio pubblico online. La frequenza di rimbalzo del sito, la Domain Authority, il numero delle top keyword e la keyword difficulty, fino ai posizionamenti SEO (Search Engine Optimization) e SEM (Search Engine Marketing). Il punteggio complessivo è sceso dal 56% del 2021 al 47% del 2022. Questo indica che le aziende stanno investendo meno nelle attività SEO e SEM.

D’altro canto, la ricerca rivela anche dei trend positivi, come quello della presenza sui social, che è aumentata dal 55% del 2021 al 62%.

La User Experience ha avuto un incremento, passando dal 35% del 2021 al 61% del 2022, così come i website reporting score sono saliti dal 26% al 48%.
La sicurezza dei siti web è rimasta all’80%, un punteggio certamente alto, ma che ci fa anche capire che ancora non tutti i siti web sono protetti.

“Queste tendenze rivelano dei paradossi. Assistiamo a un incremento degli investimenti per quanto riguarda l’esperienza utente, ma contestualmente a un calo nella SEO e SEM. Non ha molto senso avere una fantastica UX, se poi gli utenti non riescono a trovare facilmente il sito web. Gli investimenti per la visibilità e l’awareness online dovrebbero aumentare, non diminuire”, spiega Matt Robbins, VP Insight and Research.




Da “Io sono Giorgia” al 25 settembre: storia dell’evoluzione social di Meloni

Da “Io sono Giorgia” al 25 settembre: storia dell'evoluzione social di Meloni

La vittoria di Giorgia Meloni alle ultime elezioni politiche non ci consegnerà, verosimilmente, solo la prima donna presidente del Consiglio nella storia italiana, ma anche la prima possibile premier con un passato digitale e social ben definito. È vero, anche Giuseppe Conte ha avuto dei profili social durante la sua presidenza del Consiglio dei ministri, ma la loro attività è iniziata di concerto con il suo lavoro a Palazzo Chigi e, pertanto, il Conte dei social non ha un passato digitale di cui oggi possiamo avere traccia. Per Giorgia Meloni, invece, sì. 

La leader di Fratelli d’Italia ha aperto il suo profilo Instagram nel 2012: il suo primo post la ritrae in primo piano probabilmente durante un’apparizione televisiva. In questi dieci anni è riuscita a creare un forte consenso sui social network grazie a un linguaggio molto forte, facendosi conoscere – tra le altre cose – per l’utilizzo di grafiche molto colorate che richiamassero l’attenzione degli utenti più distratti a suon di termini come “Vergogna, “inammissibile, “follia, “a casa” e l’intramontabile “Elezioni subito”. Tutto ovviamente in caps lock

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Un post condiviso da Giorgia Meloni (@giorgiameloni)



Parole di un’opposizione feroce, costante e, se vogliamo, anche coerente che molto probabilmente vedremo sempre meno sul suo profilo nei prossimi mesi in cui sarà a Palazzo Chigi. Scorrendo il suo profilo Instagram che a oggi contiene quasi 7mila post si può notare che la sua parabola comunicativa si sia inasprita sempre più man mano che cresceva nei sondaggi e lo si percepisce chiaramente ripercorrendo a ritroso le sue storie. 

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Addirittura, il 27 novembre 2012, Giorgia Meloni posta una sua foto in cui viene intervistata da alcuni giornalisti, la caption è singolare: “Al circolo Pd di via Giubbonari per capire le primarie del centrosinistra”. La visita di Meloni, in quell’occasione, era “investigativa”: il 16 dicembre successivo si sarebbero dovute tenere le primarie del Popolo delle Libertà e la futura leader di Fratelli d’Italia era andata a curiosare (come dicono alcuni presenti intervistati da Repubblica in questo video) per saperne un po’ di più. Nonostante la sua candidatura alla guida del partito di Berlusconi, quelle primarie non si tennero mai perché l’ex premier decise di tornare in campo nuovamente. Una frattura che portò alla scissione di Meloni e alla nascita di Fratelli d’Italia

Ma come è cambiata la comunicazione social di Giorgia Meloni in questi anni? Com’è riuscita a creare intorno alla sua figura un così forte consenso e, perché, ha saputo sfruttare al meglio tutti i mezzi a sua disposizione?

  1. L’esposizione ai tormentoni
  2. Un’evoluzione… coerente
  3. Da Facebook a TikTok
  4. Da Pupo al Signore degli Anelli
  5. La “politica delle emozioni”
  6. Come cambierà la sua comunicazione?

L’esposizione ai tormentoni

Il percorso di Giorgia Meloni a livello comunicativo ha toccato il suo apice a metà della scorsa legislatura: il picco risale al 2019, quando due suoi discorsi sono diventati virali. Il primo è conosciuto come Ollolanda, un’abbreviazione delle sue prime parole durante un’intervento televisivo a Di Martedì in cui a proposito della Sea Watch diceva: “O l’Olanda sta avviando un atto ostile nei miei confronti perché mette una nave battente bandiera olandese a fare il trasbordo di immigrati clandestini a casa mia, oppure l’Olanda mi dice che non riconosce la Sea Watch il ché significa che la Sea Watch è una nave pirata e le persone si fanno sbarcare, l’equipaggio si arresta e la nave si affonda”. Dalle prime tre parole, ne è nato il tormentone Ollolanda, una specie di salsa ideata da Fabio Celenza di Propaganda Live

Il secondo discorso, invece, è il caso più eclatante: quello di Io sono Giorgia. Le sue parole al comizio in piazza San Giovanni a Roma del 19 ottobre 2019, diventano il testo della hit di Mem&J, due dj milanesi, che – caso più unico che raro – si pentiranno del successo del loro lavoro (che oggi conta più di 12 milioni di visualizzazioni): “Noi abbiamo voluto girarlo in chiave ironica e trasformarlo in un discorso a favore della comunità lgbt – dissero al Corriere della Sera -. Adesso questa cosa si è persa, tanto che la leader di Fratelli d’Italia lo ha rigirato a suo favore: però, d’altronde, fa parte del gioco. Comunque, il https://youtu.be/fhwUMDX4K8opubblico ha capito che volevamo prenderla per i fondelli”.

MEM & J – Io sono Giorgia

Ed è proprio così: da quel momento Meloni inizia a far suoi i tormentoni che la criticano. Prima posando con la maglietta Ollolanda (ma non con quella messa in vendita per raccogliere fondi per la Sea Watch) e poi facendo sua la canzone Io sono GiorgiaUno slogan identitario che diventerà il suo brand, tanto che che sarà anche il titolo del suo libro. Questa strategia è stata sfruttata anche da altri leader come i gattini di Salvini o il più recente meme sulla pancetta e il guanciale di Letta, ma nessuno è riuscito a capitalizzare al meglio tutto ciò come Giorgia Meloni che ha saputo trarre vantaggio da situazioni apparentemente sfavorevoli. “Pure le mie nipoti lo ballavano – aveva raccontato al Corriere -. Di punto in bianco è come se il mondo si fosse accorto delle cose che dico. Persone che non ti ascoltavano, oggi lo fanno. Se finisco in un remix, anche se montato per contestare le mie idee, in fondo significa che ho qualcosa da dire, no?”. La canzone fu riproposta da M¥SS KETA nella scaletta del proprio concerto a Bologna e ne nacque anche una Io sono Giorgia challenge

“Giorgia Meloni ha un ritmo televisivo che si adatta bene anche alla radio e ai social – spiega Roberta Bracciale, docente di sociologia dei media e direttrice del MediaLaB dell’università di Pisa-. Sa utilizzare bene le pause e la strutturazione del discorso e probabilmente ha iniziato a lavorare con delle persone – noi conosciamo Tommaso Longobardi, ma ce ne sono anche altre – che hanno saputo valorizzare alcuni aspetti del suo carattere come la sua cadenza romana o la sua spontaneità. Nel caso di Ollolanda è successo proprio questo, da una caricatura della sua cadenza è riuscita a trarne vantaggio e l’episodio si è ripetuto con ‘Io sono Giorgia’”. 

Saper surfare sull’onda travolgente dei meme, nel 2022, non dev’essere facile, anche perché spesso possono risultare molto più graffianti di certi editoriali o di alcuni interventi nei talk show politici. La traiettoria di un meme, per quanto pungente, può essere una scheggia impazzita e che non sempre può essere colta al volo: La chiave ironica e pop che ha caratterizzato i processi di viralizzazione del meme –  afferma Roberta Bracciale -, lo ha svuotato dalla sua connotazione politica e ideologica  rendendoli tormentoni di cui si sono riappropriati pubblici diversi e spesso in antitesi e che innescano un processo transmediale nel momento in cui escono dal mondo del digitale e vengono ulteriormente riproposti in televisione. Prendiamo Io sono Giorgia: Mem&J avevano inserito la parte più critica della loro satira – quella in cui Meloni parlava degli omosessuali – nella seconda parte. Oggi però quel blocco nella memoria di tutti è completamente sparito in favore del ritornello orecchiabile e del binomio genitore 1 – genitore 2. Questo perché è stata riutilizzata in diversissime occasioni svuotata completamente di ogni significato”.

Un fenomeno che è stato ripreso da chiunque, da Cristina D’Avena a Cristiano Malgioglio, per arrivare al Times, che quell’anno inserì Giorgia Meloni tra le 20 stelle nascenti del 2020“Uno degli aspetti di quell’articolo – prosegue Bracciale – sottolinea proprio la transmedialità che riesce ad abbracciare Meloni che la rende più popolare, nota e riconoscibile anche a quei cittadini che sono meno attenti alla politica”.

Io sono Giorgia è stato anche esportato all’estero: è stata la stessa Meloni a riproporlo ospite d’onore al raduno di Madrid del partito di destra Vox. Nella nuova versione Yo soy Giorgia, soy una mujer il tormentone è tornato come un boomerang in Italia, dove nel frattempo stava nascendo il corsivo. Ed anche nella nuova lingua, si è insinuato grazie a Propaganda Live e a Elisa Esposito che lo ha fatto suo:

@la7_tv

Il discorso di Giorgia #Meloni in Spagna tradotto in #corsivo da @Elisa Esposito a @welikeduel. #elisaesposito #cörsivœ #imparacontiktok #traduzione #la7

♬ suono originale – LA7

 

Un’evoluzione… coerente

Se c’è una cosa che non si può dire su Giorgia Meloni è che non sia coerente, almeno per ora. La sua ferma opposizione a tutti i governi dell’ultima legislatura probabilmente è stato il motore diesel che in questi cinque anni le ha permesso di arrivare al risultato odierno ottenendo la fiducia di un elettorato che ha visto in lei la paladina che va contro il sistema. E scorrendo qua e là i post che della sua attività di Instagram degli ultimi dieci anni arriva la conferma. Nel giorno del suo trionfo sono tornate frasi e immagini che Meloni aveva già condiviso con i suoi follower, ma che quelli dell’ultim’ora sicuramente avranno perso. 

Il 25 settembre, infatti, sul suo profilo TikTok appare un video autoironico (anche se molti lo hanno definito cringe, ndr) in cui la leader di Fratelli d’Italia appare con due meloni in mano – chiaro riferimento al suo cognome – dicendo soltanto: “25 settembre… ho detto tutto”. 

Una gag che aveva già proposto nel 2013. Nel suo post, Meloni appariva sempre con due meloni e la frase “Sei Meloni? Devi melonare”. Perché? Si tratta di una sua “semi-autocitazione”: “Se sei nomade – aveva detto -, devi nomadare“, cavalcando la scia di quella dichiarazione che aveva sollevato più di una polemica. Torna sul concetto applicandolo a sé stessa, ma con una buona dose di ironia, riuscì comunque a riscuotere un buon consenso di applausi virtuali e like. 

 
 
 
 
 
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Un altro ricorso social si è verificato nella notte del trionfo. Nel suo primo discorso dopo i risultati, Meloni cita San Francesco d’Assisi. Un’aforisma che l’ha accompagnata in questi anni: “Cominciate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E all’improvviso vi sorprenderete a fare l’impossibile”, ha ripetuto nel festante quartier generale di Fratelli d’Italia dopo la sua affermazione, ma lo aveva scritto su Instagram anche nel giorno della festa del Santo nel 2016. E aveva aggiunto: “Tra i tanti insegnamenti che il Santo d’Assisi ci ha lasciato, queste parole ne contengono uno straordinario: ogni persona, anche la più umile, può fare cose grandi. In famiglia, nel lavoro, nella società: ognuno di noi può fare la differenza. Sempre. Basta solo un po’ di coraggio, il resto verrà da sé”.

 
 
 
 
 
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Da Facebook a TikTok

Questo su San Francesco – del 2016 – sembra essere l’ultimo post di carattere religioso a oggi visibile sul profilo di Meloni che, con il tempo, più che su Dio ha preferito concentrarsi sugli altri due pilastri del suo credo politico: la patria e la famiglia. E lo si è capito anche dalla sua campagna TikTok: se da un lato l’abbiamo vista alle prese con panzerotti e tortellini, in base alle regioni che visitava, dall’altro l’abbiamo riconosciuta mentre arringava le folle in piazza. Immancabile il riferimento al suo essere “gattara” (e qui Salvini fa scuola in ambito social), ma c’è stato anche un video che ha generato polemiche: a pochi giorni dal voto Meloni spiegava come votare Fratelli d’Italia con una croce e, subito dopo, invitava chi avesse voluto “cancellare” Fratelli d’Italia a “eliminare il partito” sempre con una croce. Un eccesso di autoironia che, secondo molti, avrebbe potuto generare confusione.

@giorgiameloni_ufficiale

Quando incontro un gatto, l’istinto da gattara ha sempre il sopravvento

♬ suono originale – Giorgia Meloni

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“Vero che ci sono i giovani su TikTok – spiega Bracciale – ma i dati ormai ci dicono che ormai sulla piattaforma sono arrivati anche i pubblici di altre età. Su TikTok alterna una comunicazione più smart ad altri contenuti più istituzionali. Facebook e Instagram, invece, oggi li usa come fossero la vecchia tv generalista in cui condivide le interviste che fa in televisione, una self promotion più tradizionale rispetto a quella più scanzonata di TikTok. Si tratta di una comunicazione integrata con contenuti specificatamente rimodellati per la piattaforma che utilizza anche quando si tratta di uno stesso video. Questo denota una grande cura e un’attenzione particolare per i pubblici dei rispettivi social network e lo si è visto anche nella scelta del suo slogan. ‘Pronti a risollevare l’Italia’ non è uno slogan che polarizza come lo ‘Scegli’ di Letta e questo probabilmente l’avrebbe danneggiata partendo da una posizione di vantaggio alla vigilia dell’ultima campagna elettorale”. 

Da Pupo al Signore degli Anelli

Ogni scelta, dunque, sembra essere meticolosamente ragionata anche se può concretizzarsi attingendo a un vastissimo bagagliaio di cultura pop. Ed è forse proprio grazie al suo rispondere al pop con altro pop è probabilmente riuscita anche a schivare – almeno parzialmente – le critiche di vip, cantanti e influencer da milioni di follower, a partire da Chiara Ferragni che ha espresso più volte dissenso nei confronti della leader del primo partito italiano. 

“Se c’è una leader che incarna il pop alla perfezione è lei – aggiunge Bracciale – lo si vede anche nelle scelte musicali adottate che vanno da Su di noi di Pupo a Il cielo è sempre più blu di Rino Gaetano (da cui la famiglia del cantante si è dissociata, ndr). Si tratta di musica ‘nazionalpopolare’, che tutti conoscono: usa un linguaggio medio per un’audience media. E risulta comprensibile perché parla in maniera semplice, fa esempi semplici, ricorre a parole chiave che poi riutilizza sempre nello stesso modo nei comizi e in televisione”.

Per questo, sembra quasi naturale che nel suo comizio finale Giorgia Meloni sia stata introdotta dalla voce di Pino Insegno che cita Il Signore degli Anelli (a cui diede la voce): “Verrà il giorno della sconfitta, ma non sarà questo giorno”, mentre una musica epica accompagna lo sventolio delle bandiere di Fratelli d’Italia in Piazza del Popolo a Roma. 

@giorgiameloni_ufficiale

Piazza del Popolo (Roma) ora. Che spettacolo!

♬ suono originale – Giorgia Meloni

Ora, premesso che il mondo tolkeniano sia una grande passione mai celata della premier in pectore, c’è da valutare anche l’aspetto comunicativo della vicenda: “Il suo essere trasversale a livello comunicativo è racchiuso qui – continua la professoressa dell’università di Pisa -, sono frasi che arrivano subito, che tutti riconoscono in maniera immediata anche se non si è visto il film. Aveva utilizzato lo stesso metodo in campagna elettorale per punzecchiare Di Maio quando, nel celebre video in cui viene immortalato in versione Dirty Dancing, sul profilo di Giorgia Meloni viene condiviso un video con la frase più famosa del film: ‘Nessuno può mettere Giggino in un angolo’”.

@giorgiameloni_ufficiale

“Fratelli d’Italia non ha personalità di spessore per un futuro governo” ripete quotidianamente la sinistra. Il loro Ministro degli Esteri in una delicatissima fase per l’Italia e per il mondo

♬ suono originale – Giorgia Meloni

La “politica delle emozioni”

Nei suoi profili, rispetto a quelli dei suoi avversari, Meloni condivide in maniera molto oculata alcuni momenti della sua vita privata, ma, al contrario di quanto avviene quando è sola sul palco, nel pubblicare le foto dei suoi momenti di intimità con la figlia risulta decisamente più moderata di quello che sembra. Ne viene fuori un profilo di una donna che è una durissima combattente per i suoi avversari politici, ma che giustamente sa sciogliersi davanti alle persone che ama. Potrebbe essere questo un altro aspetto che ha colpito positivamente gli utenti? Magari facendola preferire a Matteo Salvini, il quale abusa molto di più della sua vita privata e famigliare sui social media? 

“Quella di Meloni potrebbe essere definita la ‘politica delle emozioni’, lei è molto è molto brava a gestire le emozioni sia nei social media, sia nei media tradizionali – conclude Bracciale -. Anche quando ammette di ricevere tanti meme perché le si gonfiano le vene, risponde di non essere in grado di non infervorarsi davanti a certi temi che la appassionano. Oltre al ricorso a elementi pop e alla self promotion, un terzo elemento che fa parte della sua comunicazione è la privatizzazione delle sue emozioni: lei usa in maniera strategica alcuni momenti che sono fortemente emozionali del suo privato, come le foto della figlia in cui – come ha anche recentemente dichiarato – traspare il senso di colpa per aver passato poco tempo con lei durante la campagna elettorale innescando l’identificazione di molte madre moderatrici che si trovano a vivere lo stesso dilemma. Possiamo intuire che quest’uso moderato di questa narrazione le permette di risultare più credibile rispetto ai suoi avversari perché non è un uso abusato o urlato”.

 

 
 
 
 
 
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Come cambierà la sua comunicazione?

Tutto questo ha permesso di decretare il successo di Giorgia Meloni? “Sicuramente le ha garantito una grande visibilità e popolarità anche grazie ai suoi mezzi comunicativi – conclude Bracciale -, anche se c’è da dire che il risultato elettorale va configurato in un contesto in cui ci sono altri fattori di cui non si può tener conto come la pandemia, il conflitto in Ucraina, il parallelo crollo della Lega e l’essere l’unico partito che non aveva avuto ancora modo di esprimersi al governo”. 

Ora però, per la futuribile premier, c’è una nuova sfida. Come cambierà la sua comunicazione qualora Mattarella – come sembra – le affidasse l’incarico di governo. C’è da remare, o meglio, surfare su un’onda favorevole che può ben presto trasformarsi in uno tsunami. Meloni, che secondo le indiscrezioni di alcuni media ha voluto da subito una linea di sobrietà dopo il trionfo elettorale, dovrà essere in grado di gestire un profilo che ora – per forza di cose – dovrà cambiare alcuni aspetti del suo linguaggio virando verso una comunicazione più istituzionale. Ce la farà?

Il primo assaggio lo ha avuto nei commenti ricevuti sotto il suo tweet di ringraziamento a Volodymyr Zelensky. Il presidente ucraino si è complimentato su Twitter per la vittoria di Meloni alle elezioni, augurandosi la collaborazione dell’Italia per la risoluzione del conflitto. “Caro Zelensky, sai che puoi contare sul nostro leale sostegno alla causa della libertà del popolo ucraino. Sii forte e mantieni salda la tua fede!”, ha risposto la leader di Fratelli d’Italia, che ha subito dovuto fronteggiare alcune critiche dei “suoi” che l’accusano di aver già ritrattato alcune delle sue posizioni in politica estera.

Altro grosso problema sulla sua futura presidenza è l’ombra del fascismo, di cui sono stati accusati molti esponenti di Fratelli d’Italia. In questo caso non sarà facile togliersi di dosso un’etichetta che il suo partito non ha mai respinto con forza. Il giorno dopo l’affermazione alle urne di Fratelli d’Italia, molti utenti di TikTok – gli stessi che erano andati con le magliette di Peppa Pig – hanno realizzato diversi video, dalla satira pungente per criticare i richiami nostalgici nel partito alle posizioni dello stesso in tema di diritti. Come verrà gestito tutto questo a livello comunicativo?