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DAZN IN CRISI DI REPUTAZIONE: ANCORA PROBLEMI, E ANCORA, E ANCORA…

DAZN IN CRISI DI REPUTAZIONE: ANCORA PROBLEMI, E ANCORA, E ANCORA…

DAZN è una piattaforma di streaming online, parte del colosso Perform Group, sport media company globale, la quale, a sua volta è proprietaria di siti come Goal.com, Runningball e OptaSport. La “mente” dietro al gruppo è Len Blavatnik, figlio di immigrati ucraini approdati in USA, dove ha conseguito una laurea in scienze informatiche presso la Columbia University e poi un MBA alla Harvard Business School, per poi fondare Acces Industries, gruppo di intermediazione finanziaria e di investimenti, decollata anche grazie alla vendita, decisa da Blavatnik, delle sue quote nell’azienda petrolifera TNK-BP, operazione che gli permise di portare a casa ben 7 miliardi di dollari di ricavi, investiti in immobili di lusso, produzioni hollywoodiane, case discografiche, applicazioni per cellulare, fino ad arrivare al petrolio e all’alluminio russo, e – appunto – al mercato dei diritti sportivi in TV. Nella successiva fase di diversificazione dei suoi investimenti, ha infatti creato DAZN, che nel 2018 è entrata con una certa euforia nel campo dei diritti TV della seria A italiana, trasmettendo le partite online tramite la connessione wi-fi di casa, e vincendo successivamente la gara per il triennio dal 2022 al 2024.

DAZN è nella bufera per evidenti limiti nella gestione delle connessioni: nuovamente, diremmo, perché a ben guardare le difficoltà non sono certamente un fulmine a ciel sereno, ed anzi erano evidenti da tempo, come denunciarono i mass-media fin dal debutto nel 2018.

La Lega Calcio, a questo punto decisamente spazientita, ha annunciato la propria volontà di prendere provvedimenti severi, con l’obiettivo di scongiurare con certezza assoluta (perlomeno nei propri desideri) l’eventualità che i gravi disservizi possano ripetersi ancora in futuro, evitando sia il comprensibile scontento tra gli abbonati, sia possibili ricorsi legali e le richieste di risarcimento su larga scala da parte dei cittadini infuriati.

Anche perché – come giustamente evidenziato da addetti ai lavori del settore del management sportivo con curriculum più che consolidato – questa situazione problematica rischia di danneggiare, alla lunga, anche le squadre, sia per la minore esposizione del brand degli sponsor, che avranno non poche ragioni per lamentarsi a loro volta, sia per la disaffezione di quel pubblico occasionale e non fidelizzatissimo che ha di certo di meglio da fare che “litigare” ad ogni match con la piattaforma tecnologica DAZN.

Nel frattempo si è mossa anche l’Agcom, che ha chiesto con urgenza chiarimenti a Dazn su quanto accaduto, sui gravi disservizi intercorsi, e su come la società stia operando per evitare il ripetersi dei problemi di connessione in occasione delle prossime partite di calcio, chiedendo inoltre a Dazn di provvedere celermente ad erogare gli indennizzi previsti dalla precedente delibera punitiva adottata dall’Autorità, riservandosi – se tutto ciò non dovesse accadere – di assumere ogni iniziativa che dovesse rivelarsi utile e necessaria, frase che non suona per nulla rassicurante ai vertici dell’azienda, che fonti ben informate riferiscono essere assai agitati.

DAZN a questo punto ha attivato un servizio di assistenza per tentare di ridurre l’impatto del problema per gli utenti, servizio il cui obbiettivo pare essere quello di risolvere – per quanto possibile in breve tempo – le problematiche che affliggono la piattaforma, ma nel contempo ha anche informato i propri clienti riguardo ad importanti modifiche delle politiche di condivisione dei contenuti e degli abbonamenti e anche dei costi di acquisto del servizio, ottenendo come unico risultato quello di far montare ancora di più la polemica, che letteralmente infuria sui Social, con un evidente danno reputazionale per l’azienda.

Polemiche aggravate – come ve ne fosse bisogno… – dalla folle, inavveduta e inspiegabile decisione di cancellare dal proprio Twitter un post di scuse che era stato inizialmente pubblicato, decisione che non è certo passata inosservata agli addetti ai lavori.

Innumerevoli le voci critiche, a partire dal tifoso interista Enrico Mentana: il notissimo giornalista ha da anni una querelle aperta con DAZN, proprio a causa del perdurare dei disservizi, polemica che ovviamente non accenna ad abbassarsi nei toni, e che non fa che amplificare ulteriormente il rebound reputazionale negativo per la filiale italiana dell’azienda americana.

Senza una buona reputazione – che si costruisce con un comportamento aziendale in linea con le attese dei cittadini – non bastano certamente promesse, marketing accattivante e pubblicità, per garantire la sopravvivenza di un’azienda nel lungo periodo. La reputazione aziendale impatta infatti direttamente sul valore di mercato dell’azienda, toccando un insieme di fattori come l’identità, l’immagine, la notorietà e la riconoscibilità, che influiscono sugli stakeholder e sul valore percepito dai clienti.

La buona reputazione è l’asset immateriale più importante e di maggior valore per qualunque azienda, come confermano sia una letteratura assai robusta, sia le ricerche di mercato – secondo una recente indagine di Weber Shandwick dal titolo “The State of Corporate Reputation”, il 63% del valore di mercato di un’azienda è infatti attribuibile alla reputazione – sia, infine, le numerosissime evidenze empiriche che correlano il danno reputazionale, e la scorretta gestione delle crisi reputazionali, a ingenti danni economici e a distruzione del valore per gli azionisti. E non c’è alcun motivo per il quale questo caso, che colpisce Dazn, evidentemente non adeguatamente preparata a gestire queste criticità, dovrebbe fare eccezione.

La gestione delle crisi reputazionali, in particolare, è materia assai delicata e specialistica: ad esempio, le scuse non condizionate, com’è ben documentato nella letteratura specialistica sul crisis management, sono il solvente universale di ogni crisi reputazionale.  Potrà infatti apparire paradossale, ma negli ultimi anni – complice l’affermarsi di una virata verso il web 2.0, caratterizzato da un elevato grado di partecipazione e interazione tra gli utenti – quella delle scuse non condizionate è la strategia che si è rivelata in assoluto più efficace: scusarsi con sincerità e schiettezza smorza le polemiche, smussa le armi ai giornalisti, preserva quanto più possibile la reputazione dell’organizzazione e riduce le – inevitabili – richieste di risarcimento danni in sede giudiziale. Gli interlocutori delle aziende coinvolte nelle crisi apprezzano tale comportamento, e, percependo una riduzione generale dell’entropia, valutano la crisi e i suoi effetti con occhi più “concilianti”.

Come amo ripetere spesso in aula, e come confermano gli esperti di reputation management, è sconcertante notare come il dimensionamento dei vari colossi industriali non è necessariamente indice di una cultura aziendale adeguata a tutelare il valore degli azionisti mediante l’adozione di corrette procedure di previsione e di gestione delle crisi

E dire che è tutto già scritto: sarebbe sufficiente, banalmente, applicare buone prassi codificate e note da tempo. E dopo 4 anni di segnali (neppure troppo deboli…) di crisi, DAZN, davvero, non ha più scuse.




Apple accusata di non aver ascoltato le lamentele delle donne sugli abusi in ufficio

Apple accusata di non aver ascoltato le lamentele delle donne sugli abusi in ufficio

Il Financial Times ha pubblicato un lungo rapporto in cui afferma che Apple ha promosso una cultura tossica nei confronti delle segnalazioni di cattiva condotta da parte dei dipendenti, persino prendendo misure cautelative contro le donne che hanno denunciato abusi sessuali sul posto di lavoro.

Una notizia che andrebbe in netto contrasto con l’immagine che il colosso di Cupertino promuove all’esterno, piena di solidarietà e bandiere arcobaleno. Per il Times, diverse donne hanno presentato nei mesi scorsi reclami al dipartimento delle risorse umane di Apple per abusi sessuali, bullismo e altri incidenti. L’ex dipendente Megan Mohr si è lamentata del fatto che una collega le ha tolto il reggiseno e i vestiti mentre dormiva, scattandole una serie di foto dopo una serata.

Tuttavia, il rappresentante delle risorse umane ha definito l’esperienza un piccolo incidente. “Sebbene ciò che ha fatto sia stato riprovevole come persona e potenzialmente criminale, come dipendente Apple non ha violato alcuna politica nel contesto del suo lavoro” si legge in un’e-mail vista dal Financial Times. “E poiché non ha violato alcuna politica, non gli impediremo di cercare opportunità di lavoro in linea con i suoi obiettivi e interessi”.

Una dipendente dell’Apple Store si è lamentata di due gravi casi di aggressioni sessuali, incluso uno stupro, dicendo che le risorse umane l’avevano trattata non come una vittima, ma come il problema. “Mi è stato detto che il presunto stupratore svolgeva quel lavoro solo per sei mesi e che io sarei stata meglio”. La donna, si legge, ha richiesto un trasferimento che le è stato rifiutato ed oggi si ritrova a lavorare ancora nello stesso negozio.

L’avvocato Margaret Anderson parla di un “ambiente di lavoro tossico” e di “gaslighting”, una forma di manipolazione psicologica violenta e subdola nella quale vengono presentate alla vittima false informazioni con l’intento di farla dubitare della loro stessa memoria e percezione. Quando in Apple, un manager voleva licenziarla, citando false accuse precedenti al suo arrivo in azienda. Secondo quanto riferito, le risorse umane hanno ignorato un documento che aveva creato con i dettagli del caso, confutando le sue posizioni.

I dipendenti si sono anche lamentati del fatto che Apple abbia soppresso l’organizzazione dei lavoratori e il blocco dei canali Slack utilizzati per comunicare su questioni come il comportamento dei capi e l’iniquità salariale. La denuncia di più alto profilo è quella di Jayne Whitt, una direttrice dell’ufficio legale di Apple. Ha riferito alle risorse umane che un collega aveva violato i suoi dispositivi e minacciata. Whitt ha pubblicato un saggio di 2.800 parole sulla piattaforma The Leoness che descrive la situazione, provocando un’ondata di sostegno da parte dei dipendenti Apple.

Tuttavia, il colosso ha proceduto a licenziarla sulla base di quella che ha definito un’indiscrezione “irrilevante”. Whitt ora sta sfidando Apple legalmente, sottolineando che i canali Slack sulla disparità retributiva di genere le hanno aiutato ad aprire gli occhi. “Ero svantaggiata: è così che le donne lottano”, ha detto. “Se queste storie [su Slack] non fossero state pubblicate, non avrei fatto la cosa giusta, al di là della carriera”.

Apple ha dichiarato al Financial Times che lavora duramente per indagare a fondo sulle accuse di cattiva condotta e si sforza di creare “un ambiente in cui i dipendenti si sentano a proprio agio nel segnalare eventuali problemi”. Tuttavia, ha riconosciuto di non aver sempre soddisfatto tali ideali. “Ci sono alcune questioni sollevate che non riflettono le nostre intenzioni o le nostre politiche e che avremmo dovuto gestire in modo diverso, inclusi gli scambi riportati in questa storia. Di conseguenza, apporteremo modifiche alla nostra formazione e ai nostri processi”.




E in Spagna per legge non si potrà sprecare il cibo

E in Spagna per legge non si potrà sprecare il cibo

Il cibo non si butta. Punto. In Spagna sarà a breve una realtà, precisamente dal 2023, grazie a un poderoso piano anti-spreco che coinvolge medie e grandi imprese che saranno “costrette” a trasformare la frutta non vendibile, ad esempio, in marmellata o in succo. Mentre i ristoranti si doteranno obbligatoriamente della “Doggy bag”. Sono solo alcune delle proposte contenute nel disegno di legge al vaglio. Poche settimane fa il governo socialista guidato dal presidente Pedro Sánchez ha infatti approvato un progetto che punta a un unico obiettivo: non gettare via il cibo con l’ambizione di fare scuola in Europa.

Oltre 1.300 tonnellate di cibo vengono sprecate ogni anno in Spagna 
Oltre 1.300 tonnellate di cibo vengono sprecate ogni anno in Spagna  

Come spiegato dal ministro spagnolo dell’agricoltura, della pesca e dell’alimentazione Luis Planas, il nuovo strumento adottato dal Governo modificherà i processi della catena alimentare nei punti in cui essa è più inefficiente. Ma, ispirato all’economia circolare, il “progetto di legge sulla prevenzione delle perdite e degli sprechi alimentari” è notevole anche sul piano etico, dal momento che include progetti collaborativi tra ristoranti, organizzazioni di quartiere e banche alimentari. Pena? Multe salatissime fino a 500 mila euro.
I numeri a suffragio, sono di fatto impietosi: 1.300 tonnellate di cibo (31 kg pro capite) che ogni anno vengono gettate dai cittadini.

Ma nel dettaglio, come si potrà attuare questo progetto che sa già di capofila rivoluzionario in termini di spreco?
Guardando nel profondo delle aziende produttrici e distributrici. Sarà per tutti un obbligo morale, come quella che tocca la grande distribuzione. Il governo propone a supermercati e ai negozi alimentari, linee di vendita per prodotti “Brutti, imperfetti o poco attraenti”, dal momento che parte delle 1.300 tonnellate di cibo sprecato in Spagna ogni anno deriva anche dagli inestetismi del cibo. In più, pensa ad offrire fra gli scaffali prodotti stagionali, locali e biologici, educando alla comprensione dei tre termini. Prodotti che rispettino i reali cicli naturali senza l’impiego di dissertanti, pesticidi e ausili chimici vari non sono “perfetti”, ma tutto quello che appare poco attraente è in realtà ben più naturale e salutare.

Un piatto tipico: la paella
Un piatto tipico: la paella 

E a che punto siamo in Italia? Ancora molto lontani dai virtuosismi spagnoli. L’unica iniziativa al momento in piedi è quella del14 settembre del 2016 (legge 166/2016), la cosiddetta norma “antisprechi”, la cui prima firmataria è stata l’onorevole Maria Chiara Gadda. Una legge che, a differenza della Spagna, punta quasi tutto sull’educazione alimentare nelle scuole e su campagne di comunicazione ad hoc prevedendo anche una riduzione della tassa rifiuti per chi dona il cibo e favorendo la Doggie bag nei ristoranti.
Viene da chiedersi in quali ristoranti in Italia ci sia, da parte dei ristoratori, un’attenzione talmente importante da consigliare di loro sponte, l’asporto del “non mangiato” al cliente.
Diciamo che nella maggior parte dei casi è sempre il cliente a chiedere e nella migliore delle ipotesi, lo stesso esce fuori dal ristorante con una bustona di plastica approntata alla meno peggio, con buona pace del riciclo e della sostenibilità.




Cosa succede quando acquisisci un marchio in difficoltà, oppure caduto in disgrazia

Cosa succede quando acquisisci un marchio in difficoltà, oppure caduto in disgrazia

InViaggi e Teorema, Columbus e Marcelletti. Cos’hanno in comune questi quattro gloriosi tour operator? Caduti in disgrazia e praticamente cessata l’attività, i rispettivi marchi sono stati rilevati (spesso dai curatori fallimentari) da altri t.o., che mirano a rilanciarli. Questo solo negli ultimi tre anni. Val la pena acquisire un marchio, magari spendendo un sacco di soldi? Sono più i rischi o i vantaggi? Usciamo dal turismo e vediamo cosa è successo in altri settori. Il bilancio offre più ombre che luci e bisogna avere la pazienza di leggere fino in fondo.

Abbigliamento giovanile: Guru – La parabola del marchio di abbigliamento creato da Matteo Cambi a Parma, nel 1999, è balistica, ovvero dalle stelle alle stalle in una manciata di anni. Da zero ai cento milioni di euro del 2006, dalle prime magliette artigianali distribuite agli amici a milioni di T-shirt vendute in tutto il mondo: nei primi anni 2000 la margherita stilizzata a sei petali colorati, con contorni neri marcati, diventa un love-mark, indossato da calciatori e soubrette televisive, deejay e protagonisti del gossip da spiaggia. Nel 2008 il tracollo: 100 milioni di debiti, Matteo Cambi prima arrestato e poi condannato per bancarotta fraudolenta. Dal 2008 a oggi il marchio Guru passa di mano tre volte: acquisito dal colosso indiano Bombay Rayon Fashion Limited, nel 2016 la sua partecipata italiana, Brlf Italia, chiede il concordato preventivo; nel 2019 subentra la svizzera Ibs Sagl di Lugano, che però affida la commercializzazione alla monegasca Ghep, che nel 2021 diventa l’unica titolare di Guru. Oggi sul sito di Guru l’iconica T-shirt con la margherita si compra con 30 euro, ma chi se la ricorda più?

Sportswear: Sergio Tacchini, Fila, Ellesse – Negli anni ’70/’80 gli italiani erano i più bravi e innovativi creatori di abbigliamento sportivo nel mondo. Altro che Nike o Adidas. Limitandoci al tennis, Sergio Tacchini, marchio creato nel 1966 dall’omonimo tennista, vestiva Jimmy Connors e Ilie Năstase, Adriano Panatta e John McEnroe. Fila, fondata a Biella nel 1911, nel 1973 diventa Fila Sport e veste Guillermo Vilas e Björn Borg (che con l’iconica polo in cotone a costine vince cinque tornei di Wimbledon consecutivi). La perugina Ellesse, fondata nel 1959 da Leonardo Servadio, da cui prende le iniziali, nel 1975 comincia a produrre abbigliamento da tennis e veste Corrado Barazzutti, che nel 1976 vince l’unica Coppa Davis per l’Italia, in Cile. Sergio Tacchini, Fila ed Ellesse sono marchi tuttora presenti nello sportswear, ma – da molti anni e dopo innumerevoli vicende societarie – non appartengono più ai fondatori, né hanno sede in Italia. Dal 2019 Sergio Tacchini fa capo a due private equities americani, Twin Lakes Capital e B. Riley Principal Investments. Nel 2007 Fila viene acquistata dall’imprenditore sud-coreano Gene Yoon e a Biella rimane solo la Fondazione Fila Museum, che accoglie oltre 30.000 tra capi di abbigliamento, scarpe e accessori a marchio Fila. Dal 1994 Ellesse è un marchio della holding britannica Pentland Group, che controlla tra gli altri Speedo e Berghaus. Nessuno dei grandi tennisti italiani di oggi indossa questi marchi, ormai diventati “heritage brands”: Matteo Berrettini veste Boss, Jannik Sinner e Lorenzo Musetti sono sponsorizzati da Nike sin da quando erano ragazzini.

Gelati: Grom – L’Italia è considerata la patria del gelato e non poteva che nascere a Torino, nel 2003, l’avventura del manager ex PWC  Federico Grom e dell’enologo Guido Martinetti. Occupa 25mq la prima gelateria Grom, a pochi minuti da piazza San Carlo: con un capitale di partenza ridottissimo, cui contribuiscono parenti e amici, si fonda su un’idea di marketing precisa, “Il gelato come una volta”. In un unico stabilimento nella cintura torinese e solo con ingredienti di prima qualità, a chilometro zero e da presidi Slow Food, vengono prodotti i semilavorati dei vari gusti: questi, confezionati e surgelati, sono distribuiti alle gelaterie per essere miscelati, mantecati e serviti al pubblico. Il prezzo di vendita è più quello di una pasticceria torinese, che di una gelateria su strada. La crescita è esplosiva: decine di Grom aprono in Italia e all’estero (New York, Londra, Hong Kong) e dopo i 16 milioni di euro di fatturato, nel 2009, si toccano i 23 milioni nel 2011. L’avventura imprenditoriale indipendente di Grom e Martinetti termina bruscamente nel 2015, quando – reduci da alcune difficoltà finanziarie – cedono Grom alla multinazionale britannico-olandese Unilever, che in portafoglio dispone già di vari marchi di gelati industriali, tra cui Algida e Magnum, Carte d’Or e l’americana Ben&Jerry’s. Da allora Grom sbarca nei supermercati con le classiche vaschette da frigo, chiude diversi punti vendita in Italia e dice addio all’artigianalità che l’aveva caratterizzata fino ad allora. Grom e Martinetti restano nel board per diversi anni, pur con sempre minore autonomia gestionale, ma sembrano non condividere più la strategia di Unilever: negli USA è la GDO a intermediare quasi il 97% delle vendite, lasciando alle gelaterie una quota residuale, e il gelato in vaschetta è consumato tutto l’anno. La gelateria con coni e coppette, aperta solo 6 mesi l’anno, non funziona più.

Formazione: Pegaso Università Telematica – Nel 2006 Danilo Iervolino, napoletano, classe 1978, figlio d’arte (il padre Antonio fonda le Scuole Paritarie Iervolino per far recuperare la bocciatura ai cattivi studenti) ha un’idea meravigliosa, ispirata da due accadimenti, uno pubblico e uno privato. Nel 2003 era stato emanato il decreto “Moratti-Stanca” che istituiva le università telematiche; Iervolino si era appena laureato in economia a Napoli e durante un soggiorno negli USA aveva scoperto la formazione a distanza e le nuove piattaforme tecnologiche che – grazie al boom mondiale di internet, si era nel 2002 – si stavano sviluppando. Nel 2006 nasce l’Università Telematica Pegaso, con la forma giuridica di società per azioni, della quale Iervolino è presidente del CdA e maggiore azionista: Pegaso ottiene l’accreditamento del Ministero dell’Istruzione e attiva i primi due corsi di laurea, in giurisprudenza e scienze della formazione. In un sol colpo, Iervolino rompe il monopolio statale (o privato, ma solo per eccellenze come Università Cattolica o Bocconi, Luiss o IULM) e impone il modello della formazione a distanza, basata sul PC e sull’interazione col docente. Il successo è immediato: i corsi di laurea si moltiplicano, sedi di esami si diffondono a decine in tutta Italia, a iscriversi e laurearsi (il titolo è equiparato a quello ottenuto in una università tradizionale) sono prima in migliaia, poi in decine di migliaia. La svolta arriva un anno fa, a settembre 2021: il private equity britannico CVC Capital Partners rileva l’intera proprietà della holding, a cui fanno capo Pegaso Università Telematica e l’Università Mercatorum, valutando l’asset – la cifra è ufficiosa – un miliardo di euro. Danilo Iervolino rimane nel board, ma investe i guadagni in nuove attività, comprando prima la Salernitana Calcio (e qui incrocia Gerardo Soglia ex CIT e Buon Viaggio Network), poi il settimanale L’Espresso da Gedi/la Repubblica.

Due note a margine: di tutte le imprese citate, l’unica a non aver ceduto proprietà/marchio causa difficoltà finanziarie o industriali è quella di Iervolino. Guru, Sergio Tacchini, Fila, Ellesse, Grom e Pegaso – tutte eccellenze italiane – oggi sono in mani straniere.

Conclusione, per i pazienti lettori arrivati fin qui: è costoso e complesso rilevare un marchio, soprattutto se questo è in difficoltà (o peggio). Per questo rimango perplesso sul rilancio di tour operator che hanno vissuto tempi migliori. Nel nostro settore, è un’eccezione: nessuno si è mai sognato di rilanciare marchi come Jolly Hotels o Motel Agip, CIGA o Metha Hotels; e tantomeno Alpi Eagles o Volare Airlines, AirOne o Gandalf. E neanche Alitalia, pensa te.




Il Jova Beach Party, il fratino, gli econazisti e il greenwashing

Il Jova Beach Party, il fratino, gli econazisti e il greenwashing

Il 21 luglio il sindaco di Vasto indaco di Vasto Francesco Menna aveva definito “ecoterroristi” gli ambientalisti che si oppongono al concerto di Jovanotti in quello che ritengono un ambiente molto delicato. Jovanotti ha rispeso le accuse del sindaco e rincarato la dose: «Il Jova Beach Party non mette in pericolo nessun ecosistema, non devastiamo niente, le spiagge non solo le ripuliamo ma le portiamo a un livello migliore di come le troviamo. Il Jova Beach non è un ‘progetto greenwash’, parola mi fa cagare così come mi fa schifo chi la pronuncia, perché è una parola finta, è un hashtag e gli hashtag sapete dove dovete metterveli. E’ un lavoro fatto bene: se pensate che non sia fatto bene venite a verificare, venite qua. Il mio pubblico è fantastico, ha una coscienza alta rispetto all’ambiente. Se voi, econazisti che non siete altro, volete continuare ad attrarre l’attenzione utilizzando la nostra forza, sono fatti vostri. Il nostro è un progetto fatto bene che tiene conto dell’ambiente, parla di obiettivi di sostenibilità e realizza quelli che è in grado di realizzare con gli strumenti che abbiamo a disposizione».

Intanto il Comitato TAG Costa Mare, che riunisce molte associazioni ambientaliste marchigiane, denuncia: «La chiusura della sezione Wwf del fermano è uno degli effetti collaterali più dannosi del tour di Jovanotti». E il Wwf risponde: «Spiace che al solo fine di alimentare le polemiche sia stata strumentalizzata la scelta dell’Organizzazione Aggregata Wwf Natura Picena di sciogliersi. Va anche detto, però, che tale organizzazione da anni (ben prima di qualsiasi concerto) non raggiungeva i requisiti di partecipazione e rappresentatività previsti dallo statuto del Wwf ed era stata da tempo sollecitata a ristabilire gli elementi minimi per continuare ad operare con il logo del Wwf Italia».·

Inoltre, il Wwf ci tiene a precisare di non essere tra gli organizzatori dei concerti: «Abbiamo fornito supporto al Jova Beach Party per favorire la trasformazione di un evento che comunque si sarebbe tenuto al fine di ridurne al massimo gli impatti» e aggiunge che «Tutte le spiagge interessate dai concerti, compresa quella di Fermo, si trovano in aree fortemente antropizzate dove, quindi, l’impatto delle attività antropiche è purtroppo già molto forte. Grazie al lavoro del Wwf Italiaogni location è stata sottoposta a screening ambientale, una procedura finalizzata ad evidenziare le caratteristiche ecologiche del sito prescelto in termini di habitat e specie presenti, nonché i possibili impatti. Dalle attività di screening ambientale sono scaturite le prescrizioni per gli organizzatori».

Insomma, la polemica impazza e il direttore generale della Lipu, Danilo Selvaggi, cerca di fare il punto sulla sua pagina Facebook. Ecco cosa scrive:

Jovanotti non ha mai aperto un dialogo con le organizzazioni ambientaliste che contestano la sua scelta. Non lo ha fatto nel 2019 e non lo ha fatto quest’anno.

Ha assunto la sua posizione come certamente valida e ha escluso gli argomenti contrari in quanto pretestuosi, infondati o irrilevanti.

Un grave errore, tattico e strategico.

Ho varie volte espresso il mio pensiero, che guarda anzitutto a una necessità di fondo: la disoccupazione umana del territorio. Siamo troppi e dovunque e portati a mettere a frutto ogni occasione e luogo. Questa logica spericolata ha causato una trasformazione territoriale globale, in atto (già realizzata) o in potenza (prossima alla realizzazione), nel senso che gli ambienti integri, “vuoti”, sono ancora tali solo perché ancora non ci siamo organizzati per riempirli, usarli “valorizzarli”.

Valorizzare: un termine che meriterebbe (e meriterà) una vera e propria riabilitazione semantica.

Che le spiagge siano ambienti già oggi sottoposti a forti pressioni antropiche non può giustificare l’apertura di un nuovo fronte (i grandi concerti estivi), tanto più con protagonista un personaggio che ha sempre inteso dare messaggi pubblici di un certo segno, cioe di attenzione ai deboli e ai sognatori di mondi diversi.

In questo senso il fratino è veramente un simbolo, una metafora, la minoranza delle minoranze, l’indifeso tra gli indifesi. Il che non è bastato a sottrarlo alle ironie dei fans di Jovanotti né, io credo, al suo risentimento personale. Il fratino dovrebbe essere il centro della “grande chiesa da Che Guevara a Madre Teresa” e invece, come ha scritto un fan arrabbiato, “è un uccello rompicoglioni e inutile come tutti gli ambientalisti”.

Dico di più: il vero problema non è stato il primo Jova Beach Party, del 2019, ma questo tour, 2022. La replica del tour è stata una perseveranza spiazzante, come se nulla si potesse realmente apprendere dagli eventi. Forse era il caso di aprire un momento di discussione, di confronto, e invece no. Jovanotti e Trident non ci hanno nemmeno pensato.

Gli amici del Wwf sanno come la pensa la Lipu. Ne abbiamo parlato molto nel 2019, ne abbiamo parlato pochissimo nel 2022 ma ognuno conosce il pensiero dell’altro. Mi permetto tuttavia di invitare a non schiacciare la considerazione del Wwf su questa vicenda. I contributi del Wwf alla conservazione della natura sono preziosissimi in molti campi e continueranno ad esserlo, nonostante ci siamo momenti difficili in cui le cose sono un po’ più complicate e le posizioni nettamente distinte.

L’ambientalismo ha bisogno del Wwf più di quanto ne abbia bisogno Jovanotti. Ovvero, anche Jovanotti ne avrebbe bisogno, tanto bisogno, sebbene – io credo – in un modo un po’ diverso.

Un pensiero finale, ancora una volta, deve andare a tutte le volontarie e i volontari delle organizzazioni ambientaliste e animaliste: Enpa, Legambiente, Italia Nostra, Greenpeace, Pro Natura, Lav, Lac, comitati locali, Wwf eccetera eccetera eccetera e, se permettete, alle volontarie e ai volontari della mia cara Lipu. L’azione di queste persone è enorme e commovente e ha contribuito a cambiare l’Italia, a renderla molto migliore di come la avrebbe resa una certa amministrazione o anche una certa cittadinanza, meno attenta, informata e altruista.

Senza questa azione, che ha tracciato anche un’importante cornice culturale, e senza le azioni analoghe delle associazioni del sociale, del solidarismo, della partecipazione, del civismo, la grande chiesa di Jovanotti forse nemmeno esisterebbe. Sarebbe una mera astrazione. È dunque a questo mondo, concreto, in carne, ossa e idee, che Jovanotti, forse senza capirlo, deve buona parte dell’ispirazione artistica e culturale.

Tuttavia, agire per il bene richiede dazi da pagare. Se cosi non fosse ci sarebbe un qualcosa di storto, una dissonanza. E allora aggiungiamo l’econazismo e la “fogna di Nuova Delhi” alla lunga lista di definizioni che da tempo ci accompagnano (grazie a speculatori, inquinatori, distruttori, bracconieri, ladri di natura, cattiva politica) e andiamo avanti. Anzi, prepariamoci ai contraccolpi della transizione ecologica e a cose persino peggiori.

Questo piccolo grande pianeta, con le sue abbaglianti bellezze e i suoi fratini di ogni ordine e grado, lo merita davvero