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Metti etica e gentilezza nel curriculum e il lavoro del futuro è tuo

Metti etica e gentilezza nel curriculum e il lavoro del futuro è tuo

Forse continuiamo a chiamarle soft perché sono difficili da misurare: morbide e quindi sfuggevoli, interstiziali. Ma di fatto l’aggettivo “soft” fa anche pensare a qualcosa di meno importante e più fragile, non adatto alla durezza della realtà, della competizione, della corsa per il successo. Così, le inafferrabili competenze soft – che caratterizzano l’essere umano e che fanno illividire di rabbia in nostri colleghi robot che, nonostante i miliardi di investimenti in ricerca e tecnologia, non sono in grado di avere intuito, fantasia, visione, empatia – restano sempre un po’ in secondo piano: se ne parla molto ma alla fine non ci si crede fino in fondo.

Sono astratte, hanno output incerti, è difficile misurarne l’impatto sulla bottom line, sono influenzate da troppi fattori perché ci sia la convinzione di poterle efficacemente formare – il santo Graal del ROI della formazione – e quindi si tenta di instradarle in modo tecnologico: realtà aumentata, realtà virtuale, gaming… nella speranza che qualcosa resti, ma senza mai averne la certezza. Se non nei risultati. Perché quando una persona “ha” competenze soft si vede, e si vede bene. Si tratta di capacità che riguardano il saper stare con gli altri, saperli motivare, sapersi spiegare, saper risolvere situazioni complesse, prendere decisioni in assenza di informazioni complete, essere creativi, usare il pensiero laterale, avere autoconsapevolezza e via così.

Secondo una recente ricerca fatta da IBM, sono le competenze che tutti i CEO cercano disperatamente nelle persone. Le competenze tecniche, infatti, sono più facili da apprendere! E’ vero, alcuni sono più talentuosi di altri: ma proprio per gestire i grandi talenti tecnici servono grandi competenze umane. E le competenze umane, o soft skill, servono anche per gestire i non talenti: servono per avere relazioni con tutti e avere relazioni con una quotidianità sempre più imprevedibile e cangiante. Infatti, a essere cresciute drammaticamente negli ultimi anni – altro che sostituite dalla tecnologia, anzi: aumentate di numero e di definizioni per rispondere a quanto la tecnologia produce in scala crescente – sono le cosiddette “professioni senza routine”. Secondo una ricerca del National Bureau of Economic Research di Cambridge, tra il 1976 e il 2014 questa tipologia di professioni ha avuto un tasso di crescita 25 volte più alto rispetto a quello delle professioni routinarie.

Quindi, come osserva l’esperto di risorse umane John Bersin in un recente articolo sulle competenze, se nel 2007 i ricercatori di Oxford e del World Economic Forum lanciavano l’allarme, dicendo che l’automazione avrebbe eliminato il 45% delle professioni, oggi sappiamo che i posti di lavoro non sono spariti ma sono stati sostituiti da professioni nuove: professioni a intensa capacità umana. La maggior parte di noi, oggi, è impiegato proprio in professioni senza routine: le job description cambiano spesso e, ancora più di frequente, cambia il perimetro delle attività. Dobbiamo saperci adattare e continuare a saper collaborare con gli altri in condizioni di estrema incertezza, velocità, complessità. Non si tratta tanto di processare informazioni, quanto di saper selezionare che cosa è importante e di saper leggere tra le righe, quello che non c’è.

John Bersin rinomina le competenze soft: le chiama “power skill”. Per lui, e come non essere d’accordo, sono queste le vere competenze “hard” del presente e del futuro. Nella sua lista di venti power skill vi sono termini che potrebbero sembrare fuori luogo. Ma la resistenza culturale verso aree soft, a bassa possibilità di controllo, si rivela nelle organizzazioni proprio quando ci diciamo “questa cosa sul lavoro non la porterei”. Ci sono la gioia (capacità tutta da esplorare: magari in italiano la tradurremmo diversamente), la generosità, la gentilezza, la pazienza, la tenacia… più che competenze sembrano virtù. Ma ci sono anche l’etica, la capacità di sorprendersi e di perdonare, l’umiltà, l’integrità, l’ottimismo: attitudini e valori che evidentemente si trasformano in saper fare. E infine, per tornare in un’area vagamente più familiare, vi sono sia il “drive” che la capacità di seguire gli altri, la gestione del tempo, la capacità di apprendere, la flessibilità e il teamwork. Un bel pout pourri, di difficile misurazione. Un po’ come dire che vale tutto e niente: è il saper essere umani tra gli umani, inteso all’ennesima potenza.

Eppure questa capacità a scuola non hanno materie, e anche le università spingono sempre di più su altro. Forse non abbiamo dedicato abbastanza attenzione e risorse alla possibilità che queste competenze possano essere acquisite e migliorate in modi diversi rispetto alla formazione tradizionale. Che non si tratti di ap-prenderle (prenderle da qualche parte, da qualcuno), in un processo top down di trasferimento di contenuto a un contenitore: che quindi i canali di insegnamento e formazione che abbiamo creato per trasferire nozioni non siano adatti a trasferire anche le competenze soft.

E così non siamo mai certi di star davvero formando queste competenze. Vanno verificate nella quotidianità, ma non c’è un misuratore che ci dica se, quanto e quando sono apprese. Sono esperienziali (perché, come abbiamo scoperto con l’intelligenza emotiva, regina tra tutte le competenze soft, la loro acquisizione “cabla” il nostro cervello, cambiando in modo radicale i nostri comportamenti e per farlo ha bisogno di pratica continua), beneficiano di esempi e di role model, sono spesso “nascoste” nella diversità. Ma, soprattutto, le power skill le abbiamo già, sono nella nostra natura. Riguardano la psicologia, quindi, più che la conoscenza; riguardano il far fiorire ciò che siamo, più che aggiustarlo secondo necessità.

E’ legittimo pensare che sia difficile inquadrarle, formarle, misurarle, ma questo non giustifica la scelta di metterle in secondo piano. Se gli strumenti che abbiamo oggi non sembrano adeguati a migliorarle e a dar loro il giusto valore, allora cambiamoli, o sarà lo strumento a determinare ciò che vale invece che essere utile a svilupparlo. Le professioni emergenti, non routinarie e ad alta intensità umana, hanno bisogno di persone dotate di competenze soft (umane, potenti, trasversali, di vita… sul nome dobbiamo metterci d’accordo) – e la buona notizia è che le competenze soft sono accessibili a tutti, perché sono parte del corredo di capacità naturali degli esseri umani. Superiamo l’incertezza e crediamoci: è ora di investire davvero, a tutti i livelli, su nuovi modi di misurarle e di migliorarle.




Orsetti fetish e documenti inquietanti: perché Balenciaga ha ritirato le sue due ultime campagne (chiedendo scusa)?

Orsetti fetish e documenti inquietanti: perché Balenciaga ha ritirato le sue due ultime campagne (chiedendo scusa)?

Doveva essere una campagna di Natale dedicata agli oggetti del cuore di Demna, il direttore creativo della maison Balenciaga. Eppure, è finita per essere tutt’altro: uno scandalo con tanto di scuse pubbliche e presa di posizione contro la pedofilia. L’errore (leggasi anche: orrore) di valutazione in effetti c’è, e solleva non poche critiche rispetto ai passaggi degli addetti ai lavori dietro le quinte: com’è possibile che nessuno si sia accorto di nulla?

Tutto è iniziato con i peluche a forma di orsetto vestiti in stile bondage, parola che il dizionario Treccani definisce esattamente così: «Pratica sessuale consistente nel legare o immobilizzare il partner, consenziente». Tutto è peggiorato con l’associazione di questi stessi peluche al mondo dell’infanzia: cosa ci facevano due bambine, con gli orsetti fetish tra le mani, nella campagna Balenciaga Objects?

Scattata da Gabriele Galimberti, presentato dal marchio come un fotografo spesso coinvolto in progetti che lo vedono all’opera con le eccentricità della vita quotidiana, la campagna porta in scena decine e decine di oggetti concepiti come regali di Natale, andando a completare la serie fotografica Toy Stories dell’artista stesso: «Un’esplorazione di ciò che le persone collezionano e ricevono come regali», recita la nota stampa ufficiale. Che si venda pure l’idea come si vuole, fatto sta che il popolo di Twitter – la piattaforma social proprio recentemente abbandonata da Balenciaga (pare per colpa di Elon Musk) – non è stato indulgente: «Credevo la gente stesse scherzando, ma no. Forse è per questo che Balenciaga ha lasciato Twitter. Non vogliono essere accusati. Sì, queste bambine stringono tra le mani orsetti vestiti con look in stile bondage», ha twittato un’utente.

La polemica non termina qui. Circa due settimane prima del lancio di Balenciaga Objectsla casa di moda diretta da Dmena aveva divulgato anche la campagna della collezione Balenciaga / adidas per la stagione Primavera-Estate 2023, a cui anche la modella Bella Hadid e l’attrice Isabelle Huppert hanno prestato il volto. Scattate negli uffici della Borsa di New York dal fotografo Chris Maggio, le immagini sono state ulteriore oggetto di controversia. 

Isabelle Huppert per Balenciaga

Zoom alla mano, l’autorevole profilo social Diet Prada ha portato in evidenza ulteriori riferimenti al mondo della pedofilia. Tra documenti sparsi ovunque nel disordine apocalittico dell’ufficio, proprio sotto un’iconica borsa Hourglass di Balenciaga, compare lo stralcio di una sentenza del 2008 che, come riporta la fonte, ribadisce «la promozione o la pubblicità della pornografia infantile come crimine federale non protetto dalla libertà di parola». Ancora, nel setting in cui posa Isabelle Huppert è stato incluso un libro d’arte di Michael Borremeans. «Il suo lavoro – scrive Diet Prada – è caratterizzato da bambini e adulti nudi coinvolti in atti di violenza, incluso il cannibalismo».

Alla luce di tutto ciò, segue un’infinità di domande: dov’erano gli addetti ai lavori? Chi ha approvato quei documenti? Chi li ha scelti? E dov’era Demna, designer che si è sempre schierato dalla parte dei diritti umani? Le scuse non sono tardate ad arrivare. «Ci scusiamo sinceramente per qualsiasi offesa abbia potuto arrecare la nostra campagna di Natale – ha scritto Demna su Instagram. – I nostri peluche a forma di orsetto non avrebbero dovuto essere presentati accanto a dei bambini in questa campagna. Abbiamo immediatamente rimosso la campagna da tutte le nostre piattaforme». 

Scuse a firma Demna anche per la campagna Balenciaga / adidas: «Ci scusiamo per aver messo in mostra documenti inquietanti nella nostra campagna. Abbiamo a cuore questo tema e ci muoveremo legalmente contro le parti responsabili della creazione del set includendo oggetti non approvati nella nostra campagna Primavera-Estate 2023. Condanniamo fortemente l’abuso sui bambini in ogni forma. Ci schieriamo a sostegno del benessere e la sicurezza dei bambini».

Chi dovrà rispondere ai provvedimenti legali è ancora da scoprire. Intanto, Gabriele Galimberti, che ha scattato Balenciaga Objects, ha rilasciato la seguente dichiarazione a Newsweek: «Non sono nella posizione di commentare le scelte di Balenciaga, ma devo evidenziare che non sono stato assolutamente coinvolto nella scelta dei prodotti, dei modelli (le bambine, ndr) né della loro stessa associazione». 




Nasce il “Treno Infinito” a emissioni zero: si ricarica da solo con la gravità

Nasce il “Treno Infinito” a emissioni zero: si ricarica da solo con la gravità

La compagnia mineraria australiana Forterescue ha annunciato la progettazione del primo “Ininity Train”, il Treno Infinito, che si ricaricherà autonomamente sfruttando la sola forza di gravità. Questo treno, il primo di una serie, permetterà di trasportare enormi quantità di ferro dalle miniere alle industrie senza consumare diesel e dunque senza alcuna emissione di CO2 e altre sostanze inquinanti nell’ambiente. La sua realizzazione è considerata un passo fondamentale per Fortescue, che sAnnui è impegnata a raggiungere le emissioni zero nette entro il 2030. Un esempio virtuoso per tutti, che porterà anche molti nuovi posti di lavoro.

Ma com’è possibile ricaricare un treno con la sola forza di gravità? Il “segreto” è nelle batterie all’avanguardia, che si ricaricheranno da sole mentre il treno percorre i tratti in discesa della ferrovia (dalle miniere alle fabbriche) e durante le frenate. In parole semplici, le batterie sfrutteranno la forza di gravità per ricaricarsi, permettendo al treno di percorrere il tratto in salita di ritorno (dalle fabbriche alle miniere) senza consumare un solo goccio di diesel. Grazie alle batterie ricaricabili ad alte prestazioni si eviterà anche la necessità di installare infrastrutture per energie rinnovabili lungo il tragitto.

Fortescue, che ha sede a Perth, nella sterminata Australia Occidentale, ha una flotta di 54 locomotive diesel che trasportano enormi convogli. Ciascun treno minerario è lungo ben 2,8 chilometri ed composto da 244 vagoni, in grado di trasportare oltre 34mila tonnellate di minerale di ferro. Sono “mostri” che nel solo 2021, come indicato dalla compagnia mineraria, hanno consumato 82 milioni di litri di diesel. Non è solo una spesa enorme, ma anche una quantità spropositata di CO2 emessa in atmosfera, il gas a effetto serra in grado di catalizzare il riscaldamento globale, alla base dei cambiamenti climatici.

Per dire basta a spreco e inquinamento l’azienda australiana ha deciso di acquisire Williams Advanced Engineering (WAE), una società con sede nel Regno Unito specializzata in batterie per veicoli elettrici. È un ramo commerciale della Williams, storica scuderia di Formula 1. Con la chiusura dell’accordo entrambe le aziende hanno rilasciato un comunicato in cui hanno annunciato il primo progetto congiunto: lo spettacolare Treno Infinito. “L’Infinity Train ha la capacità di essere la locomotiva elettrica a batteria più efficiente al mondo”, ha dichiarato con orgoglio Elizabeth Gaines, amministratore delegato di Fortescue. “L’Infinity Train non solo accelererà la corsa di Fortescue per raggiungere le emissioni nette zero entro il 2030, ma ridurrà anche i nostri costi operativi, creerà efficienze nella manutenzione e opportunità di produttività”, le ha fatto eco il dottor Andrew Forrest, fondatore dell’azienda mineraria. Non resta che vedere il primo Treno Infinito in marcia nella terra dei canguri.




La comunicazione e i partiti: come prima, più di prima

La comunicazione e i partiti: come prima, più di prima

La geografia politica del congresso del Pd passa per i contratti di consulenza alle agenzie di comunicazione. Bonaccini, prima ancora di annunciare un programma, fa sapere che si è affidato alla stessa agenzia che “cura” – verbo quanto mai significativo – Majorino a Milano nella sua corsa alla presidenza della Regione Lombardia. A Roma il candidato di un variegato fronte interno ed esterno, D’Amato, sta selezionando i suoi consulenti, con un occhio alle relazioni dei diversi pretendenti. È diventato ormai senso comune che un leader politico, o sindacale, debba avere al suo fianco un angelo custode, il più delle volte a pagamento, che lo guidi e orienti nel ginepraio della comunicazione digitale. Al vertice della Cgil, la prima cosa che ha fatto (qualcuno dice anche l’unica) il nuovo segretario generale Landini, all’indomani della sua nomina, è stata quella di costruire, disfare e appaltare la strategia della comunicazione del più grande sindacato italiano, che oggi è affidata ad alcuni scienziati del web.

Non parliamo poi della destra, che a livello globale si è ormai fusa con le tonalità della comunicazione in rete. Come spiegava il coordinatore della campagna elettorale di Trump nel 2016, Brad Pascale, uno dei protagonisti del caso Cambridge Analytica, “solo la destra può usare le risorse della rete che declinano al meglio i temi del populismo”. In realtà, solo la destra può essere senza timori e vergogne una destra oltranzista ed estremista, che si adagia nella dinamica radicaleggiante delle bolle della rete per valorizzare la capacità magnetica dei temi più oltranzisti, come il razzismo, il complottismo e la lotta alla democrazia rappresentativa. Sarebbe interessante comprendere bene chi ha guidato chi nella relazione fra Salvini e la cosiddetta “bestia”, il gruppo di comunicatori coordinato da Luca Morisi, uno dei tanti personaggi enigmatici e oscuri che affiorano dalle pieghe del web e all’improvviso diventano dei Rasputin di questo o quel dirigente politico.

Lo stesso è accaduto a Giorgia Meloni, che si è trovata in poco tempo sbalzata dalle cantine di percentuali elettorali quasi da prefisso telefonico agli attici di partito di maggioranza relativa. Nel percorso è apparso, in un dato momento, Tommaso Longobardi, un altro sacerdote dei social che, con fare esoterico e misterioso, ha accreditato il miracolo della sua protetta con una strategia di puro supporto. Anche in questo caso, “il mezzo è il messaggio” – avrebbe detto qualcuno che di comunicazione se ne intendeva. E il mezzo non è Twitter o Tik Tok, ma è la professionalizzazione dei sistemi comunicativi. Il vero passaggio che ha completamente stravolto le dinamiche politiche, agganciando definitivamente la scena del dibattito fra i partiti al quadro americano, è proprio questa esternalizzazione, una sorta di off shore del know-how politico.

Come per tutte le perversioni, si incomincia con Berlusconi, che rovescia completamente il paradigma ideologico, comprendendo che la comunicazione (nel suo caso quella televisiva), non è più solo ancella, servizio, ma diventa struttura economica e sociale, rappresentando il principale luogo di produzione della ricchezza. Forza Italia, a metà degli anni Novanta, diventa la prima infrastruttura multimediale che si trasforma in partito, usando la rete dei venditori pubblicitari come macchina organizzativa e comunicativa. La vera intuizione che permette a un outsider di sbaragliare il campo è proprio l’identificazione della comunicazione come linguaggio e infrastruttura comunicativa. Si aggrega e stabilizza un consenso in base alle modalità di trasferimento della comunicazione. Berlusconi costruisce così un partito attorno alle sue televisioni, con un architrave costituito dal network di Publitalia, una falange che in poche settimane contatta decine di migliaia di imprenditori, scambiando con loro il voto con spazi pubblicitari.

Il segnale viene male decodificato dalla sinistra,che pensa di avere perso per via della giacca marrone di Occhetto nel famoso confronto da Mentana. Con l’Ulivo si apre una nuova stagione: il gruppo dirigente del centrosinistra compra la capacità di comunicare nel nuovo mondo dell’informazione, cooptando tecnici ed esperti. Ogni leader e candidato fa bella mostra dei suoi consiglieri: leggendari i Lothars di D’Alema, che come sempre vuole saperne una più del diavolo, e affida ai più radicali dei suoi collaboratori l’incarico di usare i media. Si tratta, infatti, non di elaborare strategie per attraversare il sistema comunicativo, ma di arruolare di volta in volta giornalisti e opinionisti per sgombrare il campo dai fastidiosi critici. La comunicazione diventa un buttafuori, che rende più tranquilla la navigazione del leader. Siamo nel passaggio di secolo: il partito diventa definitivamente liquido, non perché i dirigenti siano frivoli, ma perché la base sociale è del tutto sradicata da ogni identità forte, visto che i processi produttivi si smaterializzano e le fabbriche diventano fortini assediati dai cinesi.

I vertici, sganciati da ogni controllo dell’organizzazione cominciano a giocare al “grande fratello”: si costituiscono gli staff come sostitutivo dei gruppi dirigenti, che a loro volta avevano sostituito la base degli iscritti con la grande idea delle primarie. Si passa da una campagna elettorale all’altra: non bisogna avere una strategia ma un linguaggio. Vale lo slogan del marketing: ogni prodotto coincide non con il suo contenuto ma con la sua narrazione. L’avvento dei social offre un grande alibi a chi si voleva sottrarre a ogni controllo dell’organizzazione. Si comincia a civettare con Facebook, e si mette in vetrina il marchio. Si parla di partito “a rete”: si pensa che la comunicazione sia una vetrina e non invece, com’è, una fabbrica. Dunque ci si illude che basti ottimizzare la distribuzione del messaggio e non organizzare interessi e conflitti per dare spessore al partito. A destra, si coglie la straordinaria identificazione della degenerazione dei social in bolle auto-identificative, e si comincia a coltivare la radicalizzazione del ceto medio, indirizzandola contro lo Stato e lo spazio pubblico; a sinistra, invece, si cerca una terza via, professionalizzando la tecnicalità distributiva di un brand e non di una strategia sociale. La svolta avviene dopo le Torri gemelle. Gli Stati Uniti cominciano a costruire quello che Shoshana Zuboff chiama “il capitalismo della sorveglianza”. Si stipulano gli accordi con le start up più promettenti, come Google e Facebook. L’algoritmo comincia a farci parlare e pensare. I linguaggi diventano valore e identità. Come già scriveva McLuhan, “il messaggio di un medium e di una tecnologia è nel mutamento di proporzioni, di ritmo e di schemi che introduce nei rapporti umani”. Ovviamente, nessuno apre questa porta, perché inerpicandosi per questa via significherebbe mutare assetto, linea cultura e organizzazione del proprio partito, ma soprattutto significherebbe giocarsi il primato conquistato. Meglio cambiare staff e consulenti.

La destra sceglie singoli stregoni, coerenti con la propria cultura e soprattutto finalità: incendiare la prateria e usare l’istintiva disintermediazione della rete come spinta plebiscitaria antistituzionale. La sinistra, invece, ingaggia imprese specializzate, che con il camice bianco danno anche la sensazione di piena integrazione nel mercato. Gruppi di avventurieri e spericolati dirigenti politici bocciati si mettono in proprio, e diventano angeli custodi di incerti e insicuri personaggi che si propongono in rete.

Questa transizione avviene nella fase in cui l’intero sistema dell’informazione diventa la vera officina del plusvalore, e dunque l’intero senso comune di una nazione viene fortemente influenzato dalla prevalenza che assumono nell’infosfera linguaggi e valori sempre più condizionati dalla potenza di calcolo. È la piattaforma che determina il vocabolario e abilita i linguaggi: si parla come si clicca, si pensa come si parla.

L’esternalizzazione delle strategie di comunicazione produce poi un’altra distorsione che inquina la democrazia: oltre che mettere all’asta i dati sensibili di un partito o sindacato, che necessariamente sono condivisi con professionisti che lavorano per il miglior offerente, e che domani possono riferire al tuo avversario cosa c’è nei tuoi cassetti, implica anche il fatto che si appalti a soggetti terzi – i quali per questioni di fatturato devono sempre essere in ottimi rapporti con i padroni delle piattaforme – strategie politiche che dovrebbero confliggere o quanto meno limitare i monopoli digitali. Non è un caso, infatti, che nessun consulente digitale solleciti il proprio cliente ad affrontare temi e problemi legati allo strapotere di Google o Apple.

Come possiamo aspettarci una svolta se aumenta la subordinazione dei nuovi dirigenti a questi vecchi meccanismi di controllo da parte dei poteri digitali? Quale riforma della telemedicina attendersi nei confronti dei fornitori che sono gli stessi che assicurano alle agenzie di comunicazione politica grandi fatturati? E nella scuola, o nel giornalismo, come possiamo attenderci svolte rispetto ai domini dei samurai del calcolo? E nella produzione che viene oggi sempre più automatizzata dai sistemi a 5g, come prevedere soluzioni diverse da quelle imposte dai service provider?

Se Bonaccini e Majorino, oppure Schlein, usano gli strumenti che hanno sempre usato i loro predecessori, accadrà quello che è sempre accaduto. Fino alla dissoluzione.




Il Metaverso potrebbe crescere del +1500%, ma i licenziamenti di Meta preoccupano

Il Metaverso potrebbe crescere del +1500%, ma i licenziamenti di Meta preoccupano

Il mondo virtuale è un’opportunità unica oppure una bolla destinata a scoppiare? Il Metaverso sta dividendo gli analisti di mercato, tra chi pensa che questo mondo possa crescere del +1500% superando la quota di mercato di 1.520 miliardi di dollari entro il 2030, e chi invece è scettico. Soprattutto dopo i licenziamenti di Meta, con Zuckerberg che è stato uno dei primi a sostenere questa novità tecnologica.

Il Metaverso può crescere, nonostante i licenziamenti di Meta?

Le grandi aziende che sostengono il futuro business del Metaverso sono sempre di più. Anche Pantone ha dato il suo Color of the Year 2023 al Metaverso, con il Viva Mangenta. Ma dall’alltro lato la divisione Reality Labs di Meta, che sviluppa il Metaverso aziendale, ha registrato 9,4 miliardi di dollari di perdite nel terzo trimestre di quest’anno.

Di recente, la holding che gestisce Facebook, Instagram e WhatsApp ha annunciato 11 mila licenziamenti, il 13% della forza lavoro. E il 38% delle persone in America ancora non conosce il Metaverso (il 68% di questi non vuole conoscerlo).

Meta metaverso

Luca Poma, Professore di Reputation Management e Scienze della Comunicazione all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino, spiega: “Le difficoltà e i licenziamenti di Meta sono solo in minima parte attribuibili alla divisione che si occupa di Metaverso. Sono molti altri i progetti fallimentari abbandonati dal gruppovittima della bulimia creativa del suo fondatore“.

Secondo il professore, “Zuckerberg ha una responsabilità diretta di questi licenziamenti che mandano in soffitta varie avventure come ad esempio Lasso e Shops. Per contro, la tradizionale piattaforma Social di Facebook rimane pesantemente a corto di personale, del tutto inadeguato a gestire il back-office e il servizio clienti affidato massicciamente a Bot spesso molto inefficienti. I motivi di crisi reputazionale riconducibili a Zuckerberg sono ormai talmente numerosi da minare il valore stesso del colosso che lui stesso ha fondato”.

Le possibilità del mondo virtuale

Secondo Poma, tuttavia, le possibilità del metaverso non si esauriscono con Meta. Soprattutto perché pone un modello che trattiene una percentuale alta delle transazioni per chi crea contneuti. Invece, Sandbox, ad esempio lascia all’utente il 95% degli utili, quindi la proposta di Meta/Facebook è anti-economica per il cittadino e molto redditizia solo per lo stesso Zuckerberg. Facebook dovrebbe spendere molto di più per incentivare le persone ad entrare nella sua piattaforma: non è affatto detto che il modello proposto dal colosso di Menlo Park risulti alla fine quello vincente”.

La chiave di volta potrebbe essere la nascita di uno standard condiviso, che permetterà ai creativi di realizzare mondi virtuali per tutti e trarne profitti. Una possibilità enorme, se ben sfruttata.

Come spiega Matteo Aiolfi, fondatore della società di consulenza Espresso Communication“Siamo dinnanzi a qualcosa di nuovo e quantomeno frizzante ed è presto per dire se tutto terminerà in una bolla, come già fu per Second Life 15 anni fa, oppure se il Metaverso prenderà consistenza. Tutto si giocherà, molto probabilmente, sulla definizione di uno standard condiviso: garantire agli utenti di non aver a che fare con tanti silos chiusi, scenario che limiterebbe molto la navigazione, ma permettergli invece di affacciarsi liberamente su più mondi virtuali magari in correlazione tra loro appare come la vera sfida per l’affermazione del modello Metaverso su larga scala. Fermo restando che qualora il Metaverso prendesse piede, certamente si aprirebbe un mercato miliardario come raramente se ne sono visti nella storia del pianeta, con forti opportunità in termine di contenuti e di vendita di servizi online ad alto valore aggiunto”.