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Il social network italiano che anticipò Facebook e fu cancellato per errore

Il social network italiano che anticipò Facebook e fu cancellato per errore

Chiara Ferragni è stata una delle prime blogger di moda al mondo, è tra le influencer più note a livello internazionale e la più seguita in Italia. Il racconto della sua carriera viene spesso fatto iniziare nel 2009, con l’apertura del blog “The Blonde Salad”, e il suo grande successo viene ricondotto a Instagram, ma Ferragni era diventata popolare online già molto prima, tra il 2005 e il 2006. «C’era questo sito su cui è iniziato tutto, quando avevo sedici, diciassette anni, che era Duepuntozero», ha raccontato in un podcast.

Duepuntozero era un social network che tra il 2004 e il 2009 divenne molto popolare tra i giovani italiani, soprattutto in Lombardia. Per molti versi anticipò Facebook, che negli Stati Uniti nacque nello stesso anno, ma anche Instagram, che sarebbe arrivato solo diversi anni dopo. Prima di essere cancellato per errore e sparire per sempre, arrivò ad avere mezzo milione di utenti e a essere il nono sito più visitato in Italia. L’avevano inventato due ragazzi milanesi, che ai tempi avevano 16 anni, facevano il liceo a Milano e non ci guadagnarono mai niente.

«Sicuramente Duepuntozero è stato precursore di Facebook e di tutto quello che è venuto dopo» ricorda Veronica Ferraro, che cominciò a usarlo molto presto, prima di aprire il blog di moda The Fashion Fruit. Oggi Ferraro è un’influencer con 1 milione e 400mila follower su Instagram e dice che una piccola parte iniziale del suo bacino d’utenti era nata proprio su Duepuntozero. «La dinamica era molto simile a quella di Instagram: ognuno aveva la propria pagina, poteva pubblicare le proprie foto – con certi limiti – e ricevere i like. Flickr, che permetteva di pubblicare foto in alta definizione, ha preso piede subito dopo ma per certi versi era più limitato, poi sono arrivati i blog. Sicuramente Duepuntozero è stato un inizio: Chiara [Ferragni] è nata così. Noi ci siamo conosciute lì e mi ricordo che capitava che le persone ci fermassero per strada».

L’idea di fare Duepuntozero venne a Martino Di Filippo, che allora era un liceale appassionato di informatica, tra la fine del 2003 e l’inizio del 2004. Aprì il sito insieme a un amico, Andrea Turati: «io gestivo tutta la parte tecnica mentre lui, che allora faceva il pr per una discoteca ed era più estroverso, inizialmente si prese il compito di parlarne e farlo conoscere in giro», spiega Di Filippo. In quello stesso periodo negli Stati Uniti stava nascendo Facebook, ma sarebbero passati quattro anni prima che cominciasse a diffondersi in Italia. Allora i social network più usati dai giovani erano MSN, che però era prevalentemente una chat, e la piattaforma di profili e blog MySpace, nata nel 2003.

Tutto cominciò perché a Milano c’era un negozio, Amedeo D., che esiste ancora oggi, e che ai tempi era molto frequentato e amato dagli adolescenti. «Il sito di Amedeo D. aveva una chat», ha raccontato Di Filippo, «che era frequentata da qualche centinaio di ragazzi e ragazze di Milano, persone con cui parlavo online e che poi mi capitava di incontrare in alcuni luoghi di ritrovo il sabato pomeriggio». Era una chat di solo testo ma era stata realizzata in modo poco professionale, e gli bastò smanettare un po’ per trovare il modo di caricarci delle foto. Quando anche altri cominciarono a imitarlo la cosa sfuggì un po’ di mano, e il negozio fu costretto a intervenire e togliere questa possibilità.

Di Filippo creò quindi un sito parallelo che chiamò Amedeo D. Duepuntozero, dove gli utenti che usavano la chat del negozio potessero tornare a pubblicare le proprie foto. All’inizio il funzionamento era molto rudimentale: gli utenti mandavano a Di Filippo le foto via chat e lui le metteva sul sito. «Mi piaceva l’idea di avere un sito con le foto perché fino a quel momento mi capitava di parlare con tante persone online, ma di non riconoscerle quando le incontravo dal vivo, semplicemente perché non sapevo che faccia avessero» ha spiegato.

Poco dopo un avvocato del negozio gli scrisse intimandogli di cambiare nome alla piattaforma, che così divenne solo Duepuntozero.

A vederlo Duepuntozero ricorda moltissimo Facebook agli inizi, se non altro per l’azzurro usato e la scritta del logo. Quando Di Filippo disegnò il sito non aveva idea di cosa fosse Facebook (anche perché in quel momento non esisteva o era nelle primissime fasi di vita), ma questa somiglianza è meno assurda di quanto si possa pensare. Ai tempi infatti la tecnologia permetteva di fare siti con una struttura molto standard e di usare un numero molto ridotto di caratteri di scrittura: di effetti grafici più innovativi se ne poteva introdurre qualcuno, ma appesantivano di molto il funzionamento dei siti. L’azzurro e il blu inoltre sono colori neutri e rassicuranti, di gran lunga i più utilizzati sul web, sicuramente in quegli anni.

Gli utenti di Duepuntozero potevano costruire un proprio profilo fatto di nickname (prima di Facebook era impensabile usare il proprio nome e cognome online), informazioni personali e fotografie, e pubblicare dei post testuali come su un blog. Il numero di foto che si poteva caricare era limitato quindi per pubblicarne una nuova bisognava cancellarne una vecchia: inizialmente se ne poteva mettere solo una, poi col tempo si arrivò a 24. Si potevano aggiungere gli utenti alla propria lista di amici, ma non era obbligatorio che l’“amicizia” fosse reciproca, quindi di fatto era qualcosa di simile a un “follow” su Instagram. Si potevano lasciare commenti agli altri utenti e mettere i like alle foto, che però si chiamavano “fave”, dall’inglese favourite. Era possibile sapere se gli altri erano online e quando avevano fatto accesso al sito l’ultima volta, ma non esisteva una chat dove gli utenti potessero parlarsi in privato: tutti i commenti erano pubblici e anche i profili.

Il fatto che esistesse un modo per “seguire” gli altri permise a Di Filippo di introdurre una classifica degli utenti con più seguito: quello che veniva chiamato “rank” o “ranking”. È qui che Chiara Ferragni cominciò a distinguersi e, nel giro di un paio d’anni, a diventare molto conosciuta all’interno della community del sito: il suo profilo era sempre tra i primi. «Quando andavi su Duepuntozero in homepage trovavi una specie di bacheca con le attività dei tuoi amici in ordine cronologico: non c’era un algoritmo che decideva cosa mostrare», spiega Di Filippo. «Il grande seguito al profilo di Chiara Ferragni è nato nello stesso modo in cui qualcuno diventa popolare a scuola o in qualsiasi altro gruppo limitato di persone, senza che un algoritmo lo agevolasse: una volta arrivata tra i primi utenti della classifica la cosa si è autoalimentata. Devo dire però che io intervenivo un po’ sulla classifica di popolarità per evitare che fosse troppo sbilanciata».

Inizialmente, quando ancora era usato da poche centinaia o migliaia di persone, l’assistenza agli utenti e la moderazione dei contenuti veniva gestita dai due fondatori, ma poi altri conoscenti vennero coinvolti nel lavoro. Ogni foto infatti veniva approvata manualmente prima della pubblicazione e, proprio come accade con tutti i social network oggi, divenne necessario impostare dei criteri sulla base dei quali decidere cosa approvare e cosa no.

«Ci è capitato di tutto ovviamente, dal ragazzo che provava a pubblicare le foto della ex nuda, a chi scriveva insulti e chi pubblicava foto porno per divertimento», racconta Di Filippo. «C’erano molte foto di nudi femminili più o meno espliciti e ogni volta dovevamo decidere se approvarli o no: mi sembra che alla fine ci affidassimo molto al buon senso, sicuramente i capezzoli erano vietati».

Quando Duepuntozero cominciò ad avere centinaia di migliaia di utenti capitava che ci fossero anche 40mila persone connesse tutte insieme. Il server a cui si appoggiava il sito era di una società che li affittava a poche decine di euro l’anno garantendo traffico illimitato, ma che non aveva mai immaginato di trovarsi a dover gestire un sito simile. «Io ero giovane e non ero consapevole dell’attenzione che richiedeva un social network così trafficato», racconta Di Filippo. «La società che mi affittava il server mantenne la promessa del traffico illimitato e la cifra annuale, ma dovette dedicare un server intero solo a Duepuntozero per evitare problemi di performance».

Facebook cominciò a essere usato in Italia tra il 2007 e il 2008, ma questo non ebbe un impatto negativo su Duepuntozero perché erano di fatto due cose molto diverse. Su Facebook si andava per trovare i propri amici e rimanerci in contatto, mentre Duepuntozero era pensato per «farti gli affari degli altri e ritrovare la ragazza che avevi visto al bar il giorno prima». Da questo punto di vista era molto più simile a quello che è oggi Instagram.

Era molto conosciuto nel nord Italia e gli utenti di Milano non sono mai scesi sotto il 25 per cento del totale. Ma nei suoi ultimi anni si diffuse molto anche altrove: in ordine le città dove era più popolare dopo Milano erano Roma, Bergamo, Torino, Brescia, Genova e Napoli. Gli utenti erano studenti delle scuole superiori e dell’università: le date di nascita andavano dal 1985 al 1993. In meno di tre anni, tra il giugno del 2006 e il febbraio del 2009, Duepuntozero ebbe più di 66 milioni di visite e 1,6 miliardi di pagine viste: la durata media di una visita era di 24 minuti.

Il successo della piattaforma cominciò ad attrarre alcune imprese che volevano sfruttarlo per fare pubblicità, oltre ad alcuni locali milanesi che volevano farsi conoscere tra i giovani, ma non se ne fece mai niente. A un certo punto a Di Filippo arrivò una proposta dalla Manzoni, la concessionaria pubblicitaria del Gruppo Espresso. «Mi offrirono mezzo milione di euro per mettere i loro banner pubblicitari su Duepuntozero per un anno, ma io non accettai», racconta Di Filippo: «qualcuno provò anche a comprarlo, ma a me non è mai interessato guadagnarci dei soldi, lo facevo perché mi piaceva. Anche oggi che ho trent’anni passati e faccio un lavoro tecnico, continuo a dedicarmi alla gestione di community perché mi piace avere a che fare con gruppi di persone da motivare, con cui generare discussioni ed engagement».

Nel 2009 Di Filippo aveva 22 anni, stava finendo l’università e non aveva molta idea di come continuare a gestire un sito di quelle dimensioni. Quello che per lui era sempre stato un hobby cominciava a diventare un lavoro, che si aggiungeva allo studio e ad altri lavori. Decise di mettersi in società con alcune persone poco più grandi che in quegli anni si occupavano di organizzazione di serate a Milano, con l’idea che potessero aiutarlo a rendere tutto il lavoro più strutturato.

«Quando abbiamo provato a mettere in piedi questa società però sono nati i problemi che hanno portato alla fine di Duepuntozero», racconta. Un giorno, poco dopo aver messo online una nuova versione del sito che era stato quasi completamente riscritto, successe un pasticcio e una persona della società cancellò per errore tutte le copie del sito esistenti. Duepuntozero andò offline e Di Filippo si rese conto che riportarlo online avrebbe comportato moltissimo lavoro, così decise di abbandonare l’idea.

Col senno di poi, vedendo l’enorme successo di Facebook in quegli stessi anni, molte persone che conoscevano e usavano Duepuntozero si sono chieste cosa sarebbe potuto diventare se le cose fossero andate in maniera diversa. Indubbiamente Duepuntozero aveva alcune funzionalità estremamente innovative per quegli anni: l’attenzione alle foto e la possibilità di mettere i like per esempio erano molto insolite. Anche l’intuizione di inserire in homepage l’elenco dei prossimi compleanni degli amici arrivò su Duepuntozero prima che su Facebook.

Nel suo podcast Muschio Selvaggio, il rapper Fedez, marito di Chiara Ferragni e a sua volta utente di Duepuntozero da giovane, dà una sua versione della storia: «ha avuto nelle mani Facebook ed è riuscito a non guadagnare un cazzo. Ci vuole del talento» dice riferendosi a Di Filippo.

Citando questa frase, Di Filippo spiega che «nella maggior parte dei prodotti innovativi la quantità di cose copiate o riprese da altro è sempre maggiore rispetto a quella delle invenzioni: vale per tutto e anche per Duepuntozero. Però mi sento di dire che non sono in totale disaccordo sul fatto che Duepuntozero sia stato un Facebook prima di Facebook: la differenza sostanziale stava in come io l’ho vissuta. Non l’ho mai pensato come un business. E mi va anche bene che mi dicano che sono stato scemo a non guadagnarci, perché non era il mio obiettivo».




Grazie a Twitter, Elon Musk potrebbe accelerare lo sviluppo dei suoi impianti cerebrali

Grazie a Twitter, Elon Musk potrebbe accelerare lo sviluppo dei suoi impianti cerebrali

Elon Musk, il magnate statunitense a capo di numerose aziende innovative, tra cui Tesla e SpaceX, continua a far parlare di sé. L’acquisizione di Twitter portata a termine a fine ottobre aggiunge un nuovo tassello al dominio digitale dell’imprenditore, che proprio su Twitter conta più di 110 milioni di followers. 

Il suo personaggio visionario e controverso fa sorridere alcuni/e, ma preoccupa altri/e. Oltre ad ambire a elettrificare il mondo e a colonizzare Marte, Musk crede di poter arrivare un giorno a connettere il cervello umano all’intelligenza artificiale. Per questo, nel 2016 ha fondato l’azienda Neuralink, che produce interfacce neurali da impiantare nel cervello. Si tratta di dispositivi ancora lontani da questo obiettivo, sperimentati perlopiù su scimmie e maiali. 

Ma grazie ai dati sensibili dei circa 330 milioni di utenti attivi di Twitter, Neuralink potrebbe arrivare a sviluppare neurotecnologie invasive, ovvero impianti cerebrali in grado di leggere e persino manipolare il cervello delle persone, influenzandone il comportamento, i ricordi, i pensieri e le emozioni. È ciò che teme Marcello Ienca, esperto di etica delle neurotecnologie del Politecnico federale di Losanna (EPFL). 

La Svizzera è molto impegnata sia nello sviluppo che nella regolamentazione delle tecnologie che si interfacciano con il sistema nervoso umano. Secondo Ienca, però, il piccolo Paese tra le Alpi potrà fare poco da solo per contrastare l’avanzata di sistemi e piattaforme in grado di condizionare l’opinione pubblica. 

SWI swissinfo.ch: Marcello Ienca, perché secondo lei Elon Musk è “moralmente inadatto”, come ha affermato in un post a essere sia il presidente di Twitter sia il CEO di Neuralink?  

Marcello Ienca: Il fatto che la stessa persona che possiede una delle principali aziende al mondo che produce neurotecnologie impiantabili nel cervello sia anche il proprietario di una piattaforma social che raccoglie i dati sensibili di milioni di utenti è alquanto preoccupante. 

hiunque si occupi di neurotecnologie che leggono e influenzano il cervello umano dovrebbe attenersi a degli standard morali molto elevati. Questo non è il caso di Elon Musk. Stiamo parlando di un personaggio eccentrico che sfrutta già la sua pagina Twitter per comportarsi da capo troll del web, condizionare l’andamento sul mercato delle sue aziende e influenzare politicamente milioni di elettori ed elettrici, come abbiamo visto durante la campagna per le ultime elezioni di medio termine statunitensi [Musk ha invitato l’elettorato a votare per il partito repubblicano, ndr].  

Nulla nel suo comportamento fa pensare che sia disposto a rinunciare alla manipolazione dell’opinione pubblica per motivi etici e questo lo rende inadatto a sviluppare tecnologie che si interfacciano con il cervello, il dominio di massima salienza morale di cui disponiamo.   

Sulla carta, però, tra Neuralink e Twitter non c’è alcun collegamento. Come possono dei tweet aiutare le aziende di neurotecnologie a sviluppare dispositivi in grado di influenzare la mente umana? 

Un tweet può dire molto su una persona. Può dare indicazioni non solo sul credo politico e religioso, ma anche su pensieri, emozioni e stati psicologici. Grazie all’intelligenza artificiale, è possibile analizzare i sentimenti di una persona sulla base del linguaggio verbale. Questo processo, chiamato Natural language processing for sentiment analysis, permette di estrarre da un tweet informazioni psicografiche [che classificano cioè l’utenza sulla base di caratteristiche personali e psicologiche, ndr] su una persona con un buon grado di attendibilità statistica.  

Ciò consente di capire, per esempio, se un individuo è più tendente alla positività o alla negatività, al rischio o alla paura, per poi bombardarlo con campagne pubblicitarie o informazioni mirate, vere o false che siano. Un caso emblematico è stato lo scandalo di Cambridge Analytica, che ha fatto profiling psicografico accedendo abusivamente ai dati degli e delle utenti di Facebook per influenzarli politicamente.  

Attualmente è difficile estrarre queste informazioni altamente sensibili dai dati cerebrali di chi usa le neurotecnologie, anche perché il numero di utenti è limitato. Ma se a questi dati cerebrali si combinano a quelli psicografici di milioni di utilizzatori e utilizzatrici di Twitter è possibile potenziare notevolmente le capacità non solo di questo social, ma anche delle neurotecnologie e di comprendere e classificare le persone sulla base di caratteristiche psicologiche, per influenzarle e manipolarle maggiormente. 

Anche Facebook ci aveva provato nel 2018, lanciando un’interfaccia cervello-computer, un progetto che Zuckerberg ha successivamente lasciato cadere, probabilmente per motivi di costi. 

Dobbiamo quindi aspettarci che le neurotecnologie di Musk siano presto in grado di leggere e condizionare la mente umana? 

È probabile. Le neurotecnologie oggi non consentono di leggere il pensiero in maniera estesa, ma sono già in grado di stabilire correlazioni statistiche tra dati cerebrali e informazioni psicologiche, suscitando preoccupazione per la privacy. Quando il numero di utenti (e quindi di dati) aumenterà, anche i rischi di avere dispositivi più invasivi della privacy mentale sarà maggiore. 

Qui non si tratterebbe più solo di curare pazienti affetti da problemi psichici e neurologici, che potrebbero beneficiare enormemente di queste tecnologie, ma di commercializzare dispositivi utilizzabili da un numero crescente di persone per registrare le attività del cranio e ottimizzare i processi mentali, la concentrazione e la memoria. Sul mercato esistono già dei dispositivi tipo fitbit del cervello per monitorare il sonno, l’attenzione e l’ansia. Alcune app permettono persino di controllare oggetti fisici con la mente.  

La Svizzera è attrezzata per contrastare i rischi delle neurotecnologie e proteggere la privacy della sua utenza?  

La Svizzera è forse uno dei Paesi meglio posizionati a livello mondiale per quanto riguardo lo studio delle implicazioni etiche e sociali delle neurotecnologie e lo sviluppo di strumenti normativi innovativi per affrontare queste sfide.  

La Confederazione ha partecipato attivamente alla stesura delle raccomandazioni sull’innovazione responsabile delle neurotecnologieLink esterno dell’OCSE, che oggi è il primo standard internazionali in materia. E organizzazioni come GESDALink esterno [il Summit di anticipazione della diplomazia scientifica e tecnologica di Ginevra, ndr], hanno messo le neurotecnologie al centro della loro agenda.  

Tuttavia, la Svizzera da sola sarebbe impotente contro Musk o qualsiasi altra azienda globale. Il suo margine di azione per proteggere la privacy e l’integrità mentale di un’utenza relativamente piccola è limitato. L’Unione europea, con più di 400 milioni di abitanti, avrebbe invece un potenziale negoziale maggiore perché sarebbe sconveniente per Musk rinunciare a questo bacino di utenti. 




Metaverso al galoppo: nel 2030 il mercato sfiorerà il miliardo di dollari

Metaverso al galoppo: nel 2030 il mercato sfiorerà il miliardo di dollari
metaverso

Vola il mercato dei metaversi. Secondo una ricerca GlobalData, il settore registrerà un tasso di crescita annuale composto (Cagr) del 39,8% per raggiungere i 996 miliardi di dollari nel 2030. “Le aziende di tutto il mondo, comprese quelle dei settori non tecnologici – spiega il report – investono sempre più in questa tecnologia per migliorare il coinvolgimenti dei clienti, l’espansione del brand e l’identificazione di nuovi flussi di entrate”.

La ricerca “Metaverse Market Size, Share, Trends, Analysis, and Forecasts by Vertical, Component Stack. Region, and Segment 2022-2030” rivela che diversi operatori di mercato del settore tecnologico, compresi quelli che producono semiconduttori, componenti e software applicativi, stanno sfruttando più che possono il metaverso. E questo trend ha portato le dimensioni del mercato del metaverso a un valore di 22,79 miliardi di dollari nel 2021.

La distribuzione territoriale

La quota maggiore di mercato è detenuta dalle regioni Asia-Pacifico e Nord America.

“La forte presenza di grandi colossi tecnologici nelle economie avanzate del Nord America e nelle economie emergenti della regione Asia-Pacifico sta alimentando la crescita del mercato del metaverso – spiega GlobalData – Secondo le stime di GlobalData, queste due regioni detengono insieme il 50% della quota di mercato del metaverso”.

La tipologia di investimenti

Le aziende che opeano in Nord America e Asia Pacifico si stanno concentrando sulle tecnologie critiche che si possono implementare grazie al metaverso, come Blockchain, machine learning, AR e VR, AdTech, piattaforme di pagamento, applicazioni aziendali, gaming e governance dei dati.

Inoltre, l’aumento del numero di startup che sfruttano queste tecnologie, sia nelle economie sviluppate che in quelle emergenti, finirà per incrementare i ricavi del mercato dei metaversi.

“Il metaverso è ancora in gran parte concettuale, ma potrebbe trasformare il modo in cui le persone lavorano, fanno acquisti, comunicano e consumano contenuti. Sebbene sia nelle prime fasi di sviluppo, questa tecnologia ha il potenziale per essere il prossimo mega-tema dei media digitali – spiega Deepak Agarwal, Project Manager at GlobalData –  Inoltre, l’adozione su larga scala di tecnologie di nuova generazione, tra cui AR e VR, accentuerà l’adozione del metaverso da parte della maggior parte degli stakeholder”.

Il sondaggio dell’Istituto Piepoli

Intanto in Italia cresce il numero di chi si dice disponibile ad utilizzare il metaverso. A tracciare il quadro un sondaggio dell’Istituto Piepoli presentato nella giornata conclusiva del Festival Digitale Popolare che si è tento a Torino nei giorni scorsi.

Il Metaverso non è più uno spazio virtuale sconosciuto ai più, anzi, tre italiani su quattro ne hanno sentito parlare e ben il 52% degli intervistati, cioè più di uno su due, sarebbe propenso ad utilizzare già da domani questa realtà virtuale che con l’ausilio di guanti e visori digitale rende possibile fare qualsiasi cosa, assistere a una partita, ascoltare un concerto, fare una passeggiata in una città diversa da quella in cui si vive, partecipare a una riunione di lavoro, in modo assolutamente realistico, ossia con la sensazione di essere effettivamente presenti sul luogo. Il dato dimostra quanto il digitale da strumento d’élite, si sia trasformato nel corso del tempo in strumento sempre più popolare.

Basti pensare, rileva ancora lo studio, che se qualche hanno gli strumenti più utilizzati dagli italiani erano per lo più i social network e i siti, oggi il digitale sta estendendo le proprie aree di applicazione tanto che un italiano su cinque tra gli under 54 anni afferma di utilizzare nella propria quotidianità lavorativa le piattaforme per fare le call mentre podcast e videogame solo quale anno fa appannaggio esclusivo dei giovani oggi sono di massa tra le persone di età compresa tra i 35 e 54 anni. Infine, per quanto riguarda l’informazione, la ricerca sottolinea che i giovani da sempre utilizzano maggiormente i social network ma il 40% degli over 54, persone, dunque, non native digitali si informano attraverso il medesimo strumento dei più giovani mentre le chat non sono più considerate uno modo per parlare con gli altri ma uno strumento di informazione dal 10% degli italiani e quasi dal 20% dei più giovani.

Il primo incubatore italiano con sede nel metaverso

Open Seed è il primo incubatore italiano con sede nel metaverso. Veicolo d’investimento, holding, acceleratore e incubatore, Open Seed detiene 25 partecipazioni in startup ad alto potenziale e società di successo come Treedom, CleanBnb, FitPrime e Over. Proprio Over ha creato Over the Reality, un Metaverso, in realtà mista (Augmented Reality/Virtual Reality), open source e alimentato dalla Blockchain di Ethereum. “Nel metaverso di Over, abbiamo costruito la nostra sede digitale su 500 metri quadri di superficie virtuale – spiega Lorenzo Ferrara, presidente e di Open Seed  – Crediamo fermamente nella tecnologia come strada per migliorare la vita delle persone e il Metaverso rappresenta una frontiera ancora tutta da plasmare ed esplorare. Per questo abbiamo deciso di investire nella creazione di un vero e proprio incubatore dove potremo selezionare le startup, riunirci, fare formazione, eventi o semplicemente incontrarci per uno scambio di idee. Il tutto in un luogo virtuale che abbiamo studiato come un grande open space, con postazioni, un’area relax e una grande vetrata che fa intravedere Firenze, come se fossimo proprio nella nostra sede fisica”.




Zuckerberg, il futuro del lavoro sarà nel metaverso. Lancia visori Meta Quest Pro

Zuckerberg, il futuro del lavoro sarà nel metaverso. Lancia visori Meta Quest Pro

Meta ha svelato il primo visore pensato apposta per il metaverso.

Durante l’evento Connect, il gruppo guidato da Mark Zuckerberg ha tolto il velo a Meta Quest Pro. Il dispositivo sarà in vendita dal 25 ottobre anche in Italia, al prezzo di 1799,99 euro, comprensivo di controller Meta Quest Touch Pro, punte dello stilo, inserto parziale per bloccare la luce e base di ricarica.

Non necessita di un computer esterno, avendo già tutto il necessario per funzionare in maniera indipendente.

“Il metaverso è una incredibile tecnologia che dà tante opportunità. Crediamo in questa visione, più persone e creator ci sono ora nella realtà virtuale e più marchi nel metaverso, è il segno che il futuro non è così lontano. Noi ci siamo stati dall’inizio. A parte i giochi, sarà una esperienza sociale”: ha detto Mark Zuckerberg all’evento Connect, un anno dopo il cambio del nome da Facebook in Meta, per concentrare gli sforzi della società nel metaverso.

Arriva anche una collaborazione con Microsoft. “Il metaverso cambierà ogni cosa, dal gioco alla produttività. E se lo facciamo insieme sono convinto che possiamo plasmare il futuro della realtà virtuale per rendere il suo utilizzo più interessante che mai”. Sono le parole con cui Satya Nadella, Ceo di Microsoft, ha lanciato una serie di applicazioni rimodulate per sfruttare al meglio il metaverso sui visori di Meta. “Per questo – ha proseguito durante l’evento Connect a cui ha preso parte – come Microsoft, siamo entusiasti di poter collaborare con Meta per portare online la nuova versione di Teams pensata apposta per il metaverso”. “Nel futuro – ha aggiunto Nadella alla conferenza di Meta, Connect – potrete usare i vostri avatar per svolgere il lavoro di sempre in un ambiente che può abbattere le distanze”. Sul visore Quest Pro di Meta-Facebook arriverà così anche una declinazione di Microsoft 365, la suite del gigante americano dedicata alla produttività, da Office al cloud. Nell’ambito dei videogame, Microsoft lancia sui visori Meta Quest anche il servizio Xbox Cloud Gaming, in versione beta, per consentire ai giocatori di accedere ai principali titoli della console sfruttando la sola connessione a internet.

Meta Quest Pro è dotato di sensori ad alta risoluzione, che promettono esperienze avanzate di realtà mista, uno dei punti centrali del nuovo visore è il sistema di tracciamento degli occhi e delle espressioni naturali del viso, che permettono all’avatar nel metaverso di rappresentare l’utente non in maniera statica, come avviene oggi per molte app di realtà virtuale, ma con un certo dinamismo nei movimenti del volto, sia durante le riunioni di lavoro che momenti di svago e divertimento. Meta Quest Pro è il primo dispositivo al mondo che utilizza la nuova piattaforma Qualcomm Snapdragon XR2+, ottimizzata per la realtà virtuale e capace di funzionare con il 50% di potenza in più rispetto agli attuali Meta Quest 2. Sotto la plancia del Quest Pro ci sono 12 gb di memoria ram e 256 gb di archiviazione. I sensori sono in tutto dieci: cinque all’interno del visore e cinque fuori, per mappare meglio lo spazio. Ciò permette di offrire una modalità pass-through a colori per passare dalla visuale 3D a quella del mondo circostante senza togliere di dosso i visori. I contenuti vengono così sovrapposti all’ambiente intorno, per tante attività, dalla prova di un divano nella propria stanza alla riproduzione di un ufficio con colleghi sparsi per il mondo, dove ognuno può usare la sua vera tastiera e mouse. “Grazie al tracking degli occhi e alle espressioni facciali, Meta Quest Pro ci porta a un passo dal mostrare il nostro io autentico nel metaverso” le parole di Zuckerberg durante la presentazione.

Zuckerberg ha reso noto anche alcuni dati: un’app su 3, sullo store di Quest (quello dei visori), ottiene ricavi milionari; un totale di 33 app ha ottenuto ricavi oltre i 10 milioni di dollari, un aumento dalle 22 app, capaci di arrivare agli stessi risultati, rilevate a febbraio 2022, ed è raddoppiato il numero di app, dal 2021, con ricavi oltre i 5 milioni di dollari.




Shopping nel Metaverso: il 46% dei consumatori è propenso all’acquisto

Shopping nel Metaverso: il 46% dei consumatori è propenso all’acquisto

L’eCommerce nel Metaverso attira metà dei consumatori. Ma un quarto di loro non sa cosa siano gli Nft.

Ecco i principali dati che mette in luce l’indagine di BigCommerce sulle nuove tendenze nel mondo eCommerce e le nuove abitudini d’acquisto dei consumatori.

Shopping nel Metaverso: la propensione all’acquisto divide il mondo consumer

Dall’indagine, dal titolo “Global Consumer Report: Current and Future Shopping Trends di BigCommerce, emerge che il Metaverso, le criptovalute e gli NFT sono pronti a rinnovare il mondo del commercio. Tuttavia le esperienze di acquisto personalizzate e gli incentivi rimangono le tendenze principali.

Lo shopping nel Metaverso divide equamente i consumatori: quasi metà è propenso (46%) e poco più della metà no (52%). Ma fra quelli che esprimono propensione all’eCommerce nel Metaverso, il 51% è interessato a comprare sia beni virtuali che fisici.

A differenza del Metaverso, la maggior parte dei consumatori afferma di non conoscere bene gli Nft. Addirittura il 26% dichiara di non sapere neanche cosa siano.

Fra i metodi di pagamento per fare eCommerce, il 5% degli intervistati utilizza le criptovalute, in maggioranza negli Stati Uniti e in Italia.

Le altre tendenze nell’eCommerce

L’indagine di BigCommerce mette in luce anche altre tendenze emergenti nel mondo eCommerce e nuove abitudini d’acquisto dei consumatori. Eccone una panoramica.

Il 55% dei consumatori ammette di fare shopping online almeno una volta alla settimanaModa ed abbigliamento sono le categorie che attraggono di più (80%). Seguono a ruota elettronica (56%) ed intrattenimento (55%).

L’opzione di pagamento Buy Now Pay Later sta acquisendo popolarità: quando disponibile, in Italia la usa il 5% degli intervistati.

Sulle decisioni di acquisto influisce la personalizzazione: i consumatori sono disposti a condividere informazioni personali (quali email, nome o genere) per ricevere un’esperienza di acquisto tagliata su misura.

In Italia, il 38% degli intervistati è propenso a condividere i propri dati a seconda delle informazioni richieste. Il 29% dichiara che dipende dal brand e il 23% non è disponibile in generale.

Inoltre, i valori che più stanno a cuore ai consumatori sono l‘onestà e la trasparenza, ma al secondo posto si piazza la garanzia di salari equi e benefit per i dipendenti.

La maggior parte dei consumatori (84%) mette la sostenibilità del brand fra i valori importanti da prendere in esame al momento decidere un acquisto.

“Questi risultati”, commenta Lisa Eggerton, chief marketing officer at BigCommerce, “dimostrano che i progressi tecnologici stanno ridisegnando il percorso dell’acquirente e offrono ai brand nuovi e migliori modi per coinvolgere i loro clienti”.