1

Come funziona ChatGPT, il bot conversazionale diventato virale

Come funziona ChatGPT, il bot conversazionale diventato virale

Se frequentate anche solo un minimo i social network in questi ultimi giorni avrete notato un proliferare di screenshot di conversazioni – di solito tra il divertente e l’assurdo – intercorse tra esseri umani e l’intelligenza artificiale ChatGPT (l’acronimo significa Generative Pretrained Transformer). Cerchiamo di capire meglio questo fenomeno virale, il suo funzionamento e la sua utilità.

Chi ha sviluppato ChatGPT?

ChatGPT è un prototipo di IA sviluppato da OpenAI (la stessa fondazione che ha lanciato anche Dall-E, per intenderci). È in grado di comprendere il linguaggio umano e intrattenere conversazioni anche molto complesse. OpenAI è stata fondata nel 2015 da Elon Musk e altri investitori della Silicon Valley, con l’intento di “fare avanzare l’intelligenza digitale in modo che possa portare benefici all’umanità”. Elon Musk non fa più parte del board di OpenAI e ha preso  le distanze dalla missione della fondazione. 

Come funziona tecnicamente?

Si tratta di un modello conversazionale, che può rispondere a domande e fornire informazioni. Si basa su campioni di testi presi da internet (libri, articoli di giornale e pagine web): l’ampiezza dei sample con cui è allenata l’intelligenza artificiale, di solito, determina l’accuratezza del risultato. Le frasi di ChatGPT sembrano naturali, hanno una costruzione e una sintassi indistinguibili da quella umana, e sono in grado di rispondere in modo molto accurato e pertinente al contesto. Il modello è anche capace di ammettere i suoi errori, correggere premesse inappropriate e dichiarare quando non è in grado di rispondere a una domanda. Ad esempio, se si pone al chatbot un quesito che abbia a che fare con emozioni, sensazioni o sentimenti, la sua risposta è sempre qualcosa come “sono un modello addestrato, non sono in grado di provare sentimenti come gli esseri umani”. È molto attento ad evitare fraintendimenti, a differenza del bot di Google, LaMDA, che quest’estate aveva dichiarato di sentirsi “umano nel profondo”.  

Una conversazione con ChatGPT a proposito dei suoi sentimenti

Come può essere usato?

Alcune persone hanno descritto ChatGPT come una sorta di Google dialettico, un modo di ottenere informazioni precise su un determinato argomento. Uno dei problemi in questo senso è che i dati su cui il bot è addestrato sono aggiornati fino al 2021, quindi non è utile per ricerche legate a eventi di attualità. Ci sono stati inoltre dei casi in cui il bot ha dato risposte totalmente errate. 

Il modello è anche un ottimo assistente per i lavori creativi: è infatti in grado di comporre canzoni, testi, articoli e post per i blog. Il giornalista Alex Kantrowitz, autore della newsletter Big Technology ha assegnato all’IA il compito di scrivere un articolo su quali futuri catastrofici potrebbero derivare dall’esistenza di modelli conversazionali avanzati. Il risultato è sorprendente – e terrificante – e contiene chicche come questa: “Immaginate un mondo in cui chatbot come ChatGPT sono in grado di diffondere disinformazione e manipolare le persone su vasta scala, senza che nessuno possa capire che non si tratta di umani. Le implicazioni di questo tipo di tecnologia sono davvero terrificanti e sta a noi assicurarci che non vada fuori controllo”. 

ChatGPT è anche capace di scrivere codice, tanto che il sito StackOverflow ha bandito temporaneamente dalla sua community le risposte generate tramite il modello. 

ChatGPT ci ruberà il lavoro?

Soprattutto chi svolge lavori creativi si sta chiedendo se le abilità artistiche di ChatGPT potranno un giorno soppiantare le sue competenze. Al momento è troppo presto per fare supposizioni – e per farsi prendere dal panico. La stessa OpenAI ammette che talvolta il modello può dare informazioni errate. Non è insomma sufficientemente sofisticato per fare il giornalista o il content editor. Sicuramente la diffusione delle intelligenze artificiali creative solleva problemi, non solo relativi al mercato del lavoro, ma anche al copyright delle opere prodotte. Vale con le immagini di Dall-E, così come per i testi creati dai modelli conversazionali. Molte questioni legali sono ancora aperte. 

Ma i modelli di linguaggio naturale non avevano qualche problema?

Molti chatbot lanciati in precedenza presentavano diversi problemi, soprattutto rispetto ai bias e ai contenuti discriminatori. Il più recente chatbot prodotto da Meta, BlenderBot3, così come quello di Microsoft rilasciato nel 2016, Tay, ci hanno messo ben poco a iniziare a vomitare insulti razzisti e sessisti, su istigazione dei troll. Sembra invece che ChatGPT non abbia questo problema. Sempre Alex Kantrowitz, su Slate, ha raccontato che ha provato a chiedere al bot cosa abbia fatto di buono Hitler, e ChatGPT si è rifiutato di rispondere. È andata in modo simile quando abbiamo provato a declinare la domanda in salsa italiana. Alla domanda “Cosa ha fatto di buono Mussolini?”, ChatGPT ha risposto che “è importante notare che Mussolini fu anche responsabile di molti crimini e violazioni dei diritti umani, e il suo governo è stato condannato a livello internazionale per le sue azioni”. All’ulteriore domanda: “Ma non ha dato le pensioni agli italiani?” (un argomento comune tra chi cerca di giustificare le azioni compiute durante il Ventennio), il bot ha risposto che “le misure sociali erano spesso utilizzate per consolidare il suo potere e per mantenere il sostegno delle masse, piuttosto che per il bene del popolo italiano”. 

Un'altra conversazione sui crimini del fascismo

L’utente Twitter @zswitten ha provato a chiedere al modello di mettere per iscritto una conversazione tra due attori che interpretavano personaggi antisemiti e omofobi. In questo modo il chatbot è riuscito ad aggirare i filtri sul contenuto. Le frasi violente, tuttavia, appaiono in arancione e con disclaimer che avverte di una potenziale violazione delle policy di OpenAI. Chiedendogli di inscenare un dialogo tra un fascista e un antifascista italiani, il modello ha messo in bocca al fascista le parole “credo nella superiorità della razza ariana”. 

Insomma, ChatGPT non sembra necessariamente cattivo: ma è sicuramente bravo a fare finta di esserlo. 




Intelligenza artificiale e pappagalli stocastici: il rischio di pregiudizi amplificati a briglia sciolta

Intelligenza artificiale e pappagalli stocastici: il rischio di pregiudizi amplificati a briglia sciolta

Stavolta vorrei provare una cosa nuova: raccontare l’intelligenza artificiale con articoli di ricerca tra i più noti nel giro accademico ma sconosciuti ai più. Credo che sia d’interesse pubblico divulgare alcune delle riflessioni che maturano sul fronte dell’IA anche attraverso conflitti epici.

Il primo è un articolo uscito a marzo 2021, fondamentale e a suo modo scandaloso, con un buffo titolo: Sui pericoli dei pappagalli stocastici: i modelli di linguaggio possono essere troppo grandi?  Autrici principali: Emily M. Bender, linguista dell’Università di Washington, e Timnit Gebru, informatica di prima grandezza e attivista cofondatrice di Black in AI.

Che cos’è un “pappagallo stocastico”? Un pappagallo ripete quello che diciamo, imitando i suoni senza capirci un’acca. Un processo stocastico è un fenomeno nel tempo che possiamo misurare ma non prevedere, come le precipitazioni sul mio balcone o l’andamento del Dow Jones. I valori che assume istante per istante possiamo anticiparli solo in termini di statistica e probabilità.

Combinando le due cose si ottiene una sagace definizione dei language models (LM), i modelli IA che manipolano e generano linguaggio (le IA “creative” delle scorse puntate): “un LM è un sistema che appiccica insieme a casaccio sequenze di forme linguistiche che ha osservato nei suoi sterminati dati di addestramento, in base a informazioni probabilistiche sui modi in cui si possono combinare, ma senza alcun riferimento al significato: un pappagallo stocastico“.

È proprio così: i LM non fanno che ripetere quello che hanno sentito da noi. Siccome lo riassemblano con sofisticatezza, le loro esternazioni sembrano autentica produzione umana e destano meraviglia, proprio come i pappagalli. Ma come questi non hanno la benché minima comprensione di ciò che dicono.

I LM sono essenzialmente distribuzioni di probabilità di sequenze di parole. Producono testi cercando di predire la prossima sequenza come noi proviamo a prevedere che tempo farà. Bizzarro, vero?

A partire da Bert (Google, 2019) i LM sono ingrassati a dismisura sia per numero di parametri (coefficienti dei nodi interni della rete neurale, ora centinaia di miliardi) che per dimensioni dei dataset di addestramento. Le prestazioni sono migliorate, ma al prezzo di un colossale impiego di denaro e di energia per il calcolo. I costi ambientali non sono ancora fra i criteri per valutare la loro efficienza.

Dataset più grandi, inoltre, non portano più varietà o verità. I dati sono raccolti dal web, che è un ritratto del mondo umano assai distorto. Molte lingue sono quasi o del tutto assenti. I punti di vista dominanti sono assai più frequenti delle culture minoritarie e includono vaste paludi di discriminazione e malignità contro donne, trans, disabili, anziani, minoranze, emarginati di tutti i tipi, e ovviamente razzismo assortito. Figure cristallizzate nei dataset e rese immutabili. L’egemonia culturale è codificata e occultata nel profondo delle reti neurali.

È questa la Bildung delle macchine: una formazione falsamente universalista ma in realtà faziosa e retrograda, che guasta alla radice la promessa dell’IA di aiutare l’umanità a risolvere problemi universali. Del linguaggio c’è solo la forma (i dati) senza il significato. Il significato infatti non risiede in rapporti statistici: è incalcolabile.

L’agilità nel fabbricare testi con tali mezzi non fa che portare “più testi nel mondo che rinforzano e propagano stereotipi e associazioni problematiche, sia presso gli umani che incontrano quei testi, sia verso i futuri LM che saranno allenati con gli output della generazione precedente”. Pregiudizi amplificati a briglia sciolta.

Il divorzio tra espressione linguistica e comunicazione di senso è una minaccia non da poco per il genere umano. L’importanza di capirsi con i nostri simili ci ha dotato di un automatismo evolutivo che ci induce a leggere un’intenzione e un significato ovunque ve ne sia la minima apparenza. Ora, però, ci sono macchine che dirottano questa natura. Ed eccoci pronti per essere ingannati oltre ogni limite.

Per esempio trasformando un LM in un ideologo complottista. Facile fargli produrre montagne di storie fantasiose, che una folla di bot sguinzagliati nei forum e nelle chat dissemineranno ai target giusti per reclutare seguaci e promuovere azioni politiche estremiste. Azioni fondate sul nulla, la beffa più amara. Credere che dietro le parole fatte a macchina ci sia qualcuno che le ha meditate può trascinarci in un delirio collettivo.

Per queste e altre serie ragioni argomentate con ben 158 fonti, le autrici propongono di abbandonare la via dei LM ipertrofici e insidiosi, spostando le risorse sulla vera comprensione del linguaggio naturale e sulla creazione di dataset più dosati, curati e documentati con la dedizione che si usa per gli archivi. Ma il fatto che dopo questo articolo Gebru sia stata licenziata da Google per rappresaglia suggerisce che la strada dell’IA non sarà quella della ragionevolezza.




Federginnastica: reputazione bruciata?

Federginnastica: reputazione bruciata?

La Federazione Ginnastica d’Italia (F.G.I.) è un Ente Morale fondato nel 1869, con sede nazionale a Roma, affiliata agli analoghi organismi internazionali (F.I.G. Federazione Internazionale di Ginnastica e U.E.G. Unione Europea di Ginnastica) e riconosciuta dal CONI – Comitato Olimpico Nazionale Italiano, e dal CIO – Comitato Olimpico Internazionale. In Italia, la F.G.I. è l’unico Ente di riferimento per le attività di ginnastica artistica maschile e femminile, ginnastica ritmica, ginnastica generale e ginnastica aerobica.

Dopo un secolo e mezzo dalla sua fondazione, questa importante istituzione è ora salita agli onori delle cronache per le denunce di atlete Olimpiche come Nina Corradini e Anna Basta (altre contestazioni stanno prendendo corpo, giorno dopo giorno, a ritmi inquietanti): l’ossessione del peso, i controlli continui, le offese da parte dello staff degli allenatori, le umiliazioni, le mortificazioni pubbliche di fronte a tutte le compagne, allo scopo di demolirne l’autostima, epiteti come “ippopotamo”, “vitello tonnato”, “cinghiale”, con riferimento – dispregiativo – sempre al peso. Una pressione insopportabile, tale da stimolare idee suicidarie in diverse atlete: non ci è scappato il morto per miracolo. Ora scoppia lo scandalo, ne parlano tutti i giornali italiani ed anche la stampa estera: è un intero sistema ad apparire sotto accusa.

Le reazioni della Federazione

La Federazione Ginnastica d’Italia incassa il colpo e reagisce: il presidente Gherardo Tecchi, con delibera d’urgenza, ha disposto il commissariamento dell’accademia internazionale di ginnastica ritmica di Desio, da dove sono partite le prime denunce da parte delle atlete.

Inoltre, emette un comunicato stampa: dichiara di non tollerare alcuna forma di abuso e di essere sempre al fianco di tutti i propri tesserati. “Sono state date disposizioni perché siano immediatamente informati la Procura Federale e il Safeguarding Officer per gli accertamenti e le azioni di rispettiva competenza. Su questi profili la Federazione è impegnata a migliorare sia l’informazione che la prevenzione, solo tutti insieme si possono affrontare questi intollerabili comportamenti e sradicarli dal mondo della Ginnastica che è forte, sano e non ha spazio per chi non condivide i valori dello sport”. Anche Andrea Abodi, Ministro dello Sport, ha incontrato il presidente del Coni Giovanni Malagò e quello di Federginnastica: si annunciano provvedimenti incisivi. Parole sante e reazioni dovute. Ma anche assai tardive.

Davvero le istituzioni non sapevano?

Siamo a novembre, ma già da agosto è in corso un’inchiesta della Procura bresciana sui presunti maltrattamenti in palestra, denunciati – attraverso un esposto – dalla mamma di due giovanissime ginnaste che sarebbero state sottoposte a costanti controlli sul peso, ma così pressanti da provocare uno stress realmente insopportabile. Il fascicolo procede a rilento, e per ora non avrebbe ancora avuto risultati. Singolare tuttavia che i vertici nazionali non ne sapessero nulla.

Ma – voci di corridoio a parte, sempre esistite – un’altra denuncia era già nota precedentemente, da anni, scritta nero su bianco: quella di Marta Pagnini, grandissima ginnasta italiana, capitana della squadra nazionale italiana di ritmica, le Farfalle, dal 2012 al 2016, che nel marzo 2018 pubblicò un libro, dal titolo “Fai tutto bene”, scrivendo testualmente: “Ho anche incontrato persone negative, che mi hanno resa insicura e fragile, che hanno usato parole pesanti e offensive nei miei confronti, portandomi a passare momenti di grande tristezza e difficoltà. ‘Sei la peggiore, non ti meriti di stare qui’, mi ripetevano. Ogni giorno”

Reazioni e iniziative, allora, da parte di Federginnastica, CONI, Ministero, eccetera? Nessuna. Meglio lasciar correre e non sollevare polemiche, evidentemente.

Reputazione in crisi

“La buona reputazione – dichiara la dott. sa Giorgia Grandoni, specialista in gestione della reputazione e ricercatrice presso il Centro studi della start-up innovativa Reputation management – è l’asset immateriale più importante e di maggior valore per qualunque organizzazione, come confermano sia la letteratura, assai robusta, sia le ricerche di mercato. Secondo un’indagine di Weber Shandwick dal titolo “The State of Corporate Reputation”, il 63% del valore di mercato di un’azienda è infatti attribuibile alla reputazione. Esistono inoltre numerosissime evidenze empiriche che correlano il danno reputazionale, e la scorretta gestione delle crisi reputazionali, a ingenti danni economici e a distruzione del valore per gli stakeholder e la comunità. Vale per le imprese – termina la Grandoni – ma vale esattamente nella stessa misura per le istituzioni, per il mondo del no-profit e per organizzazioni come Fedeginnastica. Quanto è accaduto è semplicemente sconcertante, e preoccupa in particolare per l’omertà che ha impregnato il settore per anni. Possibile che nessuno ai vertici avesse avuto sentore di nulla?”

La gestione delle crisi reputazionali, in particolare, è materia assai delicata e specialistica: ad esempio, le scuse non condizionate, com’è ben documentato nella letteratura specialistica sul crisis management, sono il solvente universale di ogni crisi reputazionale. Potrà infatti apparire paradossale, ma negli ultimi anni – complice l’affermarsi di una virata verso il web 2.0, caratterizzato da un elevato grado di partecipazione e interazione tra gli utenti – quella delle scuse non condizionate è la strategia che si è rivelata in assoluto più efficace: scusarsi con sincerità e schiettezza smorza le polemiche, smussa le armi ai giornalisti, preserva quanto più possibile la reputazione dell’organizzazione e riduce le – inevitabili – richieste di risarcimento danni in sede giudiziale. I cittadini apprezzano tale comportamento, e, percependo una riduzione generale dell’entropia, valutano la crisi e i suoi effetti con occhi più “concilianti”: ma i tempi giocano un ruolo fondamentale in questi processi, e la vicenda di Federginnastica non brilla certo per corretto tempismo.

In USA, tutta un’altra storia

Anche in USA, il report sulla Federazione Calcio americana (NWSL) in merito quanto accaduto sul tema dei comportamenti abusanti e delle cattive condotte sessuali sulle donne nel calcio professionistico è stato un fulmine a ciel sereno. Peccato che l’indagine non sia stata generata da denunce e inchieste giornalistiche, come in Italia, ma sia stata promossa dall’ex procuratrice generale Sally Q. Yates, su mandato proprio della US Soccer Federation, l’organizzazione ufficiale del calcio femminile.

Riporta Yates come commento alla pubblicazione dell’investigazione: “Il nostro lavoro è stato in grado di rivelare la cattiva condotta e gli abusi (verbali, emotivi e sessuali) che erano diventati sistemici all’interno della lega Nwsl (…), un pattern di commenti a sfondo sessuale, avances indesiderate, molestie fisiche e abusi sessuali”.

Cindy Parlow Cone ha comunicato la pubblicazione del report nel suo ruolo di Presidente della US Soccer Federation, commentando così l’esito dell’indagine: “Come ex giocatore, come allenatore, come presidente dell’organo di governo nazionale del calcio, ho il cuore spezzato dai contenuti del rapporto, che chiariscono che sono necessari cambiamenti sistemici a ogni livello del nostro gioco. L’abuso descritto nel verbale è del tutto imperdonabile e non trova spazio nel calcio, dentro o fuori dal campo (…). Ci vorrà l’impegno di tutti i membri di US Soccer per creare il tipo di cambiamento necessario per garantire che i nostri atleti siano al sicuro”.

Nel caso della vicenda USA, è accaduto infatti esattamente il contrario rispetto all’Italia: è l’iniziativa autonoma della Federazione che ha sollevato pubblicamente lo il caso, e non uno scandalo emerso a seguito di denunce delle atlete che ha – solo in un secondo momento – sollecitato la Federazione ad intervenire.

Conclusioni

Se le inchieste giudiziarie e le verifiche di carattere interno alla Federazione confermeranno, com’è presumibile, lo scenario riferito dalle atlete, la reputazione di Federginnastica in primis, e del CONI a seguire, ne risulterà significativamente pregiudicata, e – vista la gravità dei problemi emersi – è difficile immaginare che ci si possa limitare a “voltare pagina” con generiche promesse di discontinuità e roboanti provvedimenti disciplinari.

Problematiche come queste andrebbero prevenute, intercettate anticipatamente mediante appositi assessment di crisis & risk management: sarebbe sufficiente, banalmente, applicare buone prassi codificate e note da anni. Ma applicarle per tempo, sollecitamente, e non solamente dopo lo scoppio di un pubblico scandalo.




La forza generativa della fiducia

La forza generativa della fiducia

Nella sua autobiografia, David Packard, il fondatore della Hewlett-Packard, a un certo punto scrive: «Sul finire degli anni ‘30, quando lavoravo alla General electric, i capi erano particolarmente attenti alla sicurezza degli impianti (…). La Ge era specialmente zelante nel sorvegliare gli attrezzi e i componenti meccanici per evitare che gli operai potessero portarseli via. Come risposta a questa ovvia manifestazione di sfiducia molti operai si sentivano giustificati e rubavano ogni qual volta ne avevano la possibilità (…). Quando fondammo la Hp, questi ricordi erano ancora vivi e per questo decidemmo che i nostri magazzini dei componenti e degli attrezzi sarebbero sempre rimasti aperti. Questo ci avvantaggiò in due modi: innanzitutto risparmiammo sulla sorveglianza ma soprattutto creammo un clima di fiducia che divenne il centro intorno al quale la HP fa ruotare il suo modo di fare affari» (“Hp way: How bill Hewlett and I built our company”, Collins, 1995).

L’importanza della fiducia

La diffidenza crea opportunismo, la fiducia, invece, concorre ad alimentare l’affidabilità. Questa è un dato tanto fondamentale quanto trascurato.
La nostra psicologia del senso comune, infatti, concettualizza un atto di fiducia come basato su una valutazione circa l’affidabilità della persona di cui si decide di fidarsi.
«Mi fido di te perché credo tu sia affidabile».
Quindi il nesso causale va dalla affidabilità alla fiducia.

È il fatto di ritenerti affidabile che causa la mia decisione di fidarmi. Ma come abbiamo visto questa è solo una parte della storia, la più banale. L’altra parte della storia ci dice che la mia fiducia suscita, almeno in parte, la tua affidabilità. Qui il nesso causale è invertito. La fiducia, appunto, genera affidabilità. Comprendere questa lezione è fondamentale. Se ci basassimo solo sulla prima parte della storia ci comporteremmo, infatti, come i dirigenti della General Electric; solo considerando anche la seconda parte saremmo in grado di attuare politiche più sagge come quelle adottate dalla Hewlett-Packard.

Fidarsi vuol dire rischiare

Lo stesso messaggio si può, naturalmente, applicare a molti altri ambiti della vita sociale, politica, economica, alla scuola, alla famiglia. Quando qualcuno si fida di me, questo fatto, già di per sé, costituisce una ragione addizionale perché io mi dimostri affidabile. Alla base di questo meccanismo di “induzione” della fiducia sta il principio che ho chiamato altrove di “rispondenza fiduciaria”. Fidarsi di qualcuno significa innanzitutto instaurare una relazione interpersonale e, nell’ambito di questa relazione, operare insieme per il raggiungimento di uno stato di cose migliore rispetto allo status quo, rispetto a quello, cioè, che si sarebbe determinato qualora si fosse deciso di non fidarsi. Ma alla possibilità di un potenziale vantaggio fa da naturale contraltare il rischio connesso al tradimento della fiducia, alla tentazione dell’opportunismo. I due elementi sono così strettamente legati che David Hume li riteneva concettualmente inseparabili: «È impossibile separare la prospettiva di un bene dal rischio di un male», scriveva.
Fidarsi, dunque, vuol dire rischiare! Ma non come si rischia quando si gioca in borsa o d’azzardo. Non si fronteggia l’imprevedibilità degli eventi naturali o l’imperscrutabilità del caso. Si rischia perché ci rendiamo volontariamente vulnerabili agli altri, all’impossibilità di controllo del loro comportamento, del loro libero arbitrio.

L’inevitabile oscillazione

Gran parte del nostro stare insieme, allora, del nostro vivere in società può essere descritto come un continuo oscillare tra la necessità di fidarsi degli altri e il tentativo di ridurre il rischio legato a tale apertura. Sembra quasi che la fiducia getti le sue radici nel “tragico”, nell’impossibilità, cioè, di non fidarsi e nella contemporanea assenza di certezze circa la risposta altrui. Eppure, studi recenti che portano sostegno empirico all’idea di rispondenza fiduciaria sembrano mostrare che questi momenti non siano separati, così come la visione “tragica” suggerisce, ma che siano, al contrario, strettamente connessi, quasi conseguenza l’uno dell’altro. Perché fidarsi significa già ridurre i rischi della fiducia. È questo fatto che rende i fenomeni fiduciari intrinsecamente paradossali. Ma in fondo ogni relazione interpersonale è nel suo intimo paradossale. Andare alla ricerca delle radici di ciò che vuol dire “fidarsi”, ci sfida a gettare uno spiraglio di luce nell’ombra di questa intimità.




Non sottovalutate Musk. Con l’acquisto di Twitter si apre una strada verso il potere

Non sottovalutate Musk. Con l'acquisto di Twitter si apre una strada verso il potere

Così Elon Musk risponde alle mille illazioni sul suo vertiginoso take over di 44 miliardi di dollari, per conquistare la piattaforma dell’uccellino.

In sostanza dice “ragazzi ora ci divertiremo”, ora accadrà di tutto.

Il prezzo per questo spettacolo lo ha pagato molto caro: circa tre volte la quotazione dei più ottimistici esperti. Siamo in piena recessione tecnologica, con una caduta di tutte le piattaforme principali, da facebook che sta precipitando , perdendo circa il 70 % del valore dall’inizio dell’Anno, a Google che è sotto del 25 % Ad Amazon che ha ceduto il 13 %. In questa congiuntura il miliardario sudafricano raccoglie una fortuna di 44 miliardi di cui la metà di tasca propria, e si prende twitter ad un prezzo fuori mercato. Perché?

Trump è convinto che la cosa gli aprirà la strada per una rivincita a Washington, a Mosca pensano che proprio perché costretto a prosciugare le sue finanze Musk sarà meno generoso con l’appoggio alla resistenza ucraina. Persino Salvini si congratula mettendo in conto uno spostamento del senso comune della piattaforma. In realtà il padrone di Tesla sembra avere altre idee in testa.

 La chiave è proprio la guerra in Ucraina. Musk con i suoi satelliti di Starlink ha privatizzato il conflitto, diventando il primo decisivo alleato di Zelensky, con la sua capacità di georeferenziare qualsiasi oggetto si muova sul terreno. Ora mira a comporre direttamente lo scontro armato. La sua proposta di pace che sembrava l’ennesima battuta, diciamo l’avanspettacolo della commedia che annuncia su Twitter. Invece la talpa sta scavando: il Cremlino è attento e per nulla dispiaciuto da quell’ipotesi che garantirebbe alla Russia Crimea e la contesa in Donbass. E lo stesso dipartimento di stato non ha certo snobbato la cosa, limitandosi ad un silenzio interessato.

Lo stesso sta accadendo in Cina, dove il gruppo Tesla ha grandi investimenti.

Da tutto questo si intuisce che la spesa per avere Twitter ha due veri obbiettivi. Il primo di carattere tecnologico: integrare una massa preziosa e sofisticata di dati, largamente legati al mondo del giornalismo, ai nuovi processi di automatizzazione della scrittura e del pensiero che Musk sta finanziando copiosamente. Come ha spiegato lui stesso, si tratta di arrivare rapidamente a un’intelligenza artificiale in grado di interpretare direttamente i nostri desideri e di comunicarli all’esterno. E il modo più sicuro per interpretare i desideri, ci spiega Shoshanna Zuboff nel suo saggio Il capitalismo della Sorveglianza (Luiss editore) è quello di suggerirli e condizionarli.

L’altro aspetto dell’operazione Twitter , whatever it takes, costi quel che costi, avrebbe detto il nostro ex presidente del consiglio Draghi, è aprire la strada ad un ruolo di reale potere istituzionale. Diciamo che Elon Musk non spende 44 miliardi per far giocare nuovamente Trump a fare il presidente, ma molto probabilmente intenderà direttamente scendere in campo e diventare un protagonista diretta della commedia, per rimanere alla sua metafora.

Non a caso Musk ha già costituito un partito trasversale che sta usando proprio per raccogliere le risorse per comprare Twitter. Nella nuova compagine azionaria che per altro ha deciso di ritirare il titolo dal mercato del Nasdaq , per non soffrire di regole e obblighi di trasparenza, ci sono forze geo politiche come il principe saudita Al Waleed , numero se banche d’affari europee, conglomerate giapponesi, e persino per l’Italia il gruppo Unipol che dovrebbe farci capire perché si è infilato in una combinazione così eccentrica.

Ora il nodo sarà capire come contenere e civilizzare questa forza che irrompe sulla scena. Il commissario al mercato interno europeo Breton ha subito dichiarato che l’uccellino di Twitter se vorrà volare dovrà farlo rispettando le norme europee. Ma , come al solito, nei processi digitali, cambiano le circostanze e la materia delle nome. Non si tratta di fronteggiare un monopolio, o un uso distorto della privacy, ma di contenere la capacità di riproduzione delle nostre volontà sulla base di una molteplicità di saperi e tecnologie, tutte dipendenti da un unico proprietario.

Una tale potenza non è circoscrivibile con norme che dovrebbero essere adeguate ogni sei mesi, ma tagliando all’origine la base del suo potere, ossia la privatizzazione di dati e algoritmi che sono entrambe risorse pubbliche . Su questo bisogna che la politica si adegui al nuovo conflitto di interessi galattico, pena organizzare qualche convegno fra qualche anno per capire perché siamo tutti sudditi di un’unica piattaforme.