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Nick Couldry, il colonialismo emergente dei dati

Nick Couldry, il colonialismo emergente dei dati

Parla l’autore, insieme a Ulises Mejias, de «Il prezzo della connessione». Giovedì 10, il sociologo sarà ospite della John Cabot a Roma. E venerdì interverrà al Politecnico di Torino. Il sistema è a caccia di nuovi territori o frontiere dai quali estrarre valore. La regolazione non basta, bisogna fornire soluzioni tecniche, sociali, politiche, scientifiche ed educative

La discussione critica sul potere dei dati e sulla loro capacità di fornire una rappresentazione adeguata, anche rispetto a preferenze, abitudini e comportamenti delle persone è ormai decollata. Uno dei testi più interessanti di questo ampio dibattito è il volume di Nick Couldry e Ulises Mejias: Il prezzo della connessione (Il Mulino, pp. 384, euro 39, traduzione di Paola Palminiello; edizione originale The costs of connection, Stanford University Press, 2019). Il volume sostiene che la colonizzazione della vita attraverso i dati è «il piano B» del colonialismo per continuare il processo di appropriazione di «territori» a disposizione.

Il processo di enclosures nel Seicento rese possibile la privatizzazione dei pascoli inglesi e l’acquisizione delle terre e del surplus economico, dando inizio all’accumulazione per spossessamento all’origine del capitale della prima rivoluzione industriale. Il land grabbing non si fermò al Regno Unito, ma cercò nelle colonie nuovi spazi di espansione.

L’espropriazione delle terre comuni – considerate prive di titoli validi di proprietà – da allora non si è mai interrotta. Al presente siamo in una fase critica del capitale. È alla ricerca disperata di nuovi spazi di estrazione e astrazione.

Abbiamo posto alcune domande a Nick Couldry, in questi giorni a Roma, che ci risponde anche a nome del suo coautore Ulises Mejias.

Ci può spiegare la differenza tra colonialismo storico e colonialismo dei dati?

Il colonialismo dei dati è un ordine sociale emergente basato su un nuovo tentativo di impadronirsi delle risorse del mondo a beneficio delle élite. Come il colonialismo storico, è basato sull’estrazione e l’appropriazione di risorse di valore. Il vecchio colonialismo si appropriava della terra, delle risorse e del lavoro umano. Il nuovo si appropria di noi, dello scorrere quotidiano della nostra vita, nella forma astratta dei dati digitali. Questo nuovo colonialismo non sostituisce il vecchio, ma aggiunge una nuova cassetta degli attrezzi, che implica raccogliere, processare e applicare i dati. Non c’è corrispondenza diretta tra vecchio e nuovo colonialismo.

La brutalità non è la stessa, ma c’è ancora molta violenza in queste nuove forme di sfruttamento e l’intero nuovo ordine emergente dal colonialismo dei dati è basato sulla forza piuttosto che sulla scelta, e usa le stesse disuguaglianze storicamente costituite. Non siamo contro i dati di per sé. Stiamo specificamente criticando la forma dell’estrattività dei dati che ha un solo obiettivo: la generazione di valore in modo iniquo e asimmetrico, che impatta in negativo sulle tradizionali vittime del colonialismo, non importa se le definiamo in termini di razza, classe o genere, o nell’intersezione di tutte queste categorie.

Crede che questo progetto neocoloniale che interviene sulla vita umana produrrà una forma di mercificazione in cui non ci sarà più nulla che possa essere protetto dalla produzione capitalistica di valore?

Se pensiamo in termini marxisti, sfruttamento ed espropriazione avvengono rispetto ai lavoratori nei luoghi di lavoro. Nel capitalismo dei dati, lo sfruttamento avviene ovunque e sempre. Possiamo anche rilassarci e interagire con amici e con la famiglia, e l’estrazione e il tracciamento avvengono comunque. La ragione per cui sempre meno aree della vita sono protette dallo sfruttamento è che la mentalità coloniale presuppone che i dati, come la natura e il lavoro prima di loro, siano una risorsa economica. I dati sono abbondanti, disponibili e privi di padrone.

Il nostro ruolo è solo produrli e arrenderci alle corporazioni commerciali, le uniche capaci di trasformarli in qualcosa di produttivo e utile. Questa premessa è fallace perché si basa su un modello estrattivista e produce un ordine diseguale in cui solo pochi guadagnano e molti sono esclusi.

L’estrazione dei dati è un modo per accedere alle informazioni intime delle persone? Oppure pensa che l’informazione creata dai processi di datificazione possa piuttosto orientare il comportamento delle persone senza comprenderle? Non crede che questo processo di estrazione alla fine non produca abbastanza valore, soprattutto se i consumatori sono espropriati della loro volontà e magari anche delle loro risorse?

Il colonialismo dei dati è un sistema per rendere le persone più facili da usare per le macchine. I dati catturati dalle piattaforme non possono restituire la complessità di un singolo essere umano. La pubblicità ipertargettizzata potrebbe non funzionare bene. Ma le corporazioni monetizzano i dati usandoli per influenzare decisioni commerciali e politiche, rivendendo a noi la nostra vita (organizzano la vita e perfino predicono problemi di salute ed emotivi). Anche quando i dati non possono essere direttamente monetizzati, accumulati o anticipati generano valore in termini di investimenti speculativi che costruiscono valore per il mercato azionario.

Questo sistema non fissa limiti. Né il colonialismo, né il capitalismo ne hanno. Il sistema è sempre a caccia di nuovi «territori» o «frontiere» dai quali estrarre valore. È il motivo per cui Lenin diceva che l’esito dell’imperialismo è la forma più avanzata di capitalismo: dopo aver esaurito le persone da sfruttare a casa, devi colonizzare nuove zone di estrazione che diventano anche nuovi mercati per quello che vendi. Questa è la strategia dietro il colonialismo dei dati, visto come l’ultima appropriazione di terre in una lunga serie di appropriazione di risorse.

Ci può dire di più sulla strategia per decolonizzare i dati? Come possiamo coltivare il principio di discontinuità rispetto alla connessione dei dati?

La regolazione è una strategia, ma è improbabile che sia sufficiente, perché non pensa in termini di forme di vita, come invece fa il pensiero decoloniale. Secondo le idee più avanzate di alcuni studiosi di diritto, i dati non dovrebbero essere connessi, l’estrazione dei dati deve essere disgregata, impedendo che piattaforme educative o sociali possano ridistribuirli a reclutatori o assicuratori. Ma questa idea di discontinuità nella connessione non è stata accolta dai regolatori. La nuova legislazione sui dati in EU va in direzione opposta: assicurare un flusso di dati, il più possibile libero tra le corporazioni.

La regolazione non basta e la visione decoloniale dei dati deve fornire molte soluzioni, non solo tecniche, ma sociali, politiche, culturali, scientifiche e educative. Deve collegarsi a lotte che non hanno a che fare coi dati, ma sono lotte per la giustizia e la dignità. Per questo molte risposte creative al colonialismo dei dati arrivano dai gruppi femministi, antirazzisti, e indigeni. Dobbiamo imparare da loro. Con la femminista messicana Paula Ricaurte abbiamo creato un network, Tierra Comun che si propone questo scopo.

Nel libro che ha scritto insieme a Ulises Mejias si dimostra una continuità tra colonialismo e razionalità «occidentale». Come possiamo preservare la ragione, e insieme proteggere il pluralismo, le differenze e l’autonomia umana?

Il primo passo è riconoscere che ragione, pluralismo, autonomia non sono concetti solo dell’Occidente. La razionalità occidentale ha preso in prestito (per essere gentili) molte di queste idee dalle tradizioni non occidentali. Non si tratta di fare a meno della razionalità, ma dell’affermazione occidentale dell’esclusività su di essa. Decolonizzare i dati è in primo luogo un esercizio di creatività e immaginazione. Possiamo imparare molto dai modelli non occidentali di come resistere alla razionalità coloniale. Qualche volta la resistenza deve cominciare con la mente, se resistere con il corpo non è possibile. Ma quando comincia, è inarrestabile. Vediamo comunità prendere il controllo sui loro dati, chiedersi: è possibile decolonizzare l’intelligenza artificiale, o c’è qualcosa di intrinsecamente coloniale in lei? Stiamo cercando di capire come fare, ma i dibattiti sono ormai in corso.

Non crede che epistemologia e politica siano strettamente connesse, tanto che per il successo delle pratiche decoloniali ci sia bisogno di un nuovo modo di pensare e conoscere?

La politica, per quanto rude, si basa sempre su una certa forma del mondo. Qualsiasi lotta politica o trasformazione positiva si basa sulla possibilità di sfidare quelle forme, attraverso epistemologie alternative. Se la politica da cambiare vuole proseguire a beneficiare delle profonde disuguaglianze dell’ordine coloniale, contestarla significa non solo mandare in crisi una particolare narrazione, per esempio sull’origine di una nazione, o della povertà.

Bisogna invece mettere in discussione l’approccio generale alla conoscenza (su cui si basa molta della scienza che ereditiamo) che si appoggia su una visione estrattivista del mondo. Per farlo abbiamo bisogno di pensare la ricerca diversamente e progettare nuovi modi di conoscere e vivere insieme.

SCHEDA. Biennale Tecnologia, «apre» Nicholas Taleb

Nick Couldry è anche ospite alla Biennale Tecnologia che torna a Torino dal 10 al 13 novembre, organizzata dal Politecnico di Torino (si esplora il rapporto tra tecnologia e società). Con Biennale Off e Politecnico Aperto, la manifestazione si estenderà poi in altre sedi diffuse su tutto il territorio regionale. Dopo la «lectio magistralis» del saggista, matematico e filosofo libanese naturalizzato statunitense Nassim Nicholas Taleb, nel corso di quattro giornate ci saranno circa 280 relatori da tutto il mondo. Fra i tanti ospiti internazionali, Naomi Oreskes, Miguel Benasayag, Evgenij Morozov, Suzanne Heywood, Helga Nowotny, Éric Sadin, Heinz Stoewer, Peter Wadhams, Aaron Benanav, Joselle Dagnes, Derrick de Kerckhove; David Goodhart, Jürgen Renn, Jeffrey Schnapp, Bruce Sterling.




Una ricerca di Team Lewis analizza la user experience e il digital marketing dei brand

Una ricerca di Team Lewis analizza la user experience e il digital marketing dei brand

TEAM LEWIS, agenzia globale di marketing, lancia il report annuale Global Marketing Engagement Index™, con l’obiettivo di analizzare l’efficacia dei brand nella relazione con il proprio pubblico.

La ricerca analizza le 300 aziende top della lista Forbes Global 2000 attraverso il Marketing Engagement Tracker (MET). I cambiamenti registrati mostrano alcune tendenze che appaiono paradossali:

  1. Corporate Social Responsibility (CSR) / Environmental, Social and Governance (ESG)
    La sezione ESG del MET verifica se le aziende presentano o menzionano sul proprio sito web l’utilizzo di risorse energetiche rinnovabili o programmi di Diversity & Inclusion. Nonostante l’attualità di questi temi, il punteggio è sceso dal 65% nel 2021 al 56% quest’anno.
  2. Media
    Questa sezione del MET esamina il volume dei contenuti media sul sito web. Può trattarsi di case study, notizie su prodotti o servizi, interviste o citazioni di figure di spicco del management di un’azienda. Il punteggio complessivo è diminuito rispetto allo scorso anno, passando dal 56% del 2021 al 36% del 2022. Questa riduzione si deve al numero maggiore di aziende che ha dovuto affrontare una comunicazione di crisi, interferendo con il normale flusso di comunicazione.
  3. Digital Marketing
    Questa area di indagine del MET analizza i fattori che determinano il successo di un’azienda con il proprio pubblico online. La frequenza di rimbalzo del sito, la Domain Authority, il numero delle top keyword e la keyword difficulty, fino ai posizionamenti SEO (Search Engine Optimization) e SEM (Search Engine Marketing). Il punteggio complessivo è sceso dal 56% del 2021 al 47% del 2022. Questo indica che le aziende stanno investendo meno nelle attività SEO e SEM.

D’altro canto, la ricerca rivela anche dei trend positivi, come quello della presenza sui social, che è aumentata dal 55% del 2021 al 62%.

La User Experience ha avuto un incremento, passando dal 35% del 2021 al 61% del 2022, così come i website reporting score sono saliti dal 26% al 48%.
La sicurezza dei siti web è rimasta all’80%, un punteggio certamente alto, ma che ci fa anche capire che ancora non tutti i siti web sono protetti.

“Queste tendenze rivelano dei paradossi. Assistiamo a un incremento degli investimenti per quanto riguarda l’esperienza utente, ma contestualmente a un calo nella SEO e SEM. Non ha molto senso avere una fantastica UX, se poi gli utenti non riescono a trovare facilmente il sito web. Gli investimenti per la visibilità e l’awareness online dovrebbero aumentare, non diminuire”, spiega Matt Robbins, VP Insight and Research.




Da “Io sono Giorgia” al 25 settembre: storia dell’evoluzione social di Meloni

Da “Io sono Giorgia” al 25 settembre: storia dell'evoluzione social di Meloni

La vittoria di Giorgia Meloni alle ultime elezioni politiche non ci consegnerà, verosimilmente, solo la prima donna presidente del Consiglio nella storia italiana, ma anche la prima possibile premier con un passato digitale e social ben definito. È vero, anche Giuseppe Conte ha avuto dei profili social durante la sua presidenza del Consiglio dei ministri, ma la loro attività è iniziata di concerto con il suo lavoro a Palazzo Chigi e, pertanto, il Conte dei social non ha un passato digitale di cui oggi possiamo avere traccia. Per Giorgia Meloni, invece, sì. 

La leader di Fratelli d’Italia ha aperto il suo profilo Instagram nel 2012: il suo primo post la ritrae in primo piano probabilmente durante un’apparizione televisiva. In questi dieci anni è riuscita a creare un forte consenso sui social network grazie a un linguaggio molto forte, facendosi conoscere – tra le altre cose – per l’utilizzo di grafiche molto colorate che richiamassero l’attenzione degli utenti più distratti a suon di termini come “Vergogna, “inammissibile, “follia, “a casa” e l’intramontabile “Elezioni subito”. Tutto ovviamente in caps lock

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Parole di un’opposizione feroce, costante e, se vogliamo, anche coerente che molto probabilmente vedremo sempre meno sul suo profilo nei prossimi mesi in cui sarà a Palazzo Chigi. Scorrendo il suo profilo Instagram che a oggi contiene quasi 7mila post si può notare che la sua parabola comunicativa si sia inasprita sempre più man mano che cresceva nei sondaggi e lo si percepisce chiaramente ripercorrendo a ritroso le sue storie. 

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Addirittura, il 27 novembre 2012, Giorgia Meloni posta una sua foto in cui viene intervistata da alcuni giornalisti, la caption è singolare: “Al circolo Pd di via Giubbonari per capire le primarie del centrosinistra”. La visita di Meloni, in quell’occasione, era “investigativa”: il 16 dicembre successivo si sarebbero dovute tenere le primarie del Popolo delle Libertà e la futura leader di Fratelli d’Italia era andata a curiosare (come dicono alcuni presenti intervistati da Repubblica in questo video) per saperne un po’ di più. Nonostante la sua candidatura alla guida del partito di Berlusconi, quelle primarie non si tennero mai perché l’ex premier decise di tornare in campo nuovamente. Una frattura che portò alla scissione di Meloni e alla nascita di Fratelli d’Italia

Ma come è cambiata la comunicazione social di Giorgia Meloni in questi anni? Com’è riuscita a creare intorno alla sua figura un così forte consenso e, perché, ha saputo sfruttare al meglio tutti i mezzi a sua disposizione?

  1. L’esposizione ai tormentoni
  2. Un’evoluzione… coerente
  3. Da Facebook a TikTok
  4. Da Pupo al Signore degli Anelli
  5. La “politica delle emozioni”
  6. Come cambierà la sua comunicazione?

L’esposizione ai tormentoni

Il percorso di Giorgia Meloni a livello comunicativo ha toccato il suo apice a metà della scorsa legislatura: il picco risale al 2019, quando due suoi discorsi sono diventati virali. Il primo è conosciuto come Ollolanda, un’abbreviazione delle sue prime parole durante un’intervento televisivo a Di Martedì in cui a proposito della Sea Watch diceva: “O l’Olanda sta avviando un atto ostile nei miei confronti perché mette una nave battente bandiera olandese a fare il trasbordo di immigrati clandestini a casa mia, oppure l’Olanda mi dice che non riconosce la Sea Watch il ché significa che la Sea Watch è una nave pirata e le persone si fanno sbarcare, l’equipaggio si arresta e la nave si affonda”. Dalle prime tre parole, ne è nato il tormentone Ollolanda, una specie di salsa ideata da Fabio Celenza di Propaganda Live

Il secondo discorso, invece, è il caso più eclatante: quello di Io sono Giorgia. Le sue parole al comizio in piazza San Giovanni a Roma del 19 ottobre 2019, diventano il testo della hit di Mem&J, due dj milanesi, che – caso più unico che raro – si pentiranno del successo del loro lavoro (che oggi conta più di 12 milioni di visualizzazioni): “Noi abbiamo voluto girarlo in chiave ironica e trasformarlo in un discorso a favore della comunità lgbt – dissero al Corriere della Sera -. Adesso questa cosa si è persa, tanto che la leader di Fratelli d’Italia lo ha rigirato a suo favore: però, d’altronde, fa parte del gioco. Comunque, il https://youtu.be/fhwUMDX4K8opubblico ha capito che volevamo prenderla per i fondelli”.

MEM & J – Io sono Giorgia

Ed è proprio così: da quel momento Meloni inizia a far suoi i tormentoni che la criticano. Prima posando con la maglietta Ollolanda (ma non con quella messa in vendita per raccogliere fondi per la Sea Watch) e poi facendo sua la canzone Io sono GiorgiaUno slogan identitario che diventerà il suo brand, tanto che che sarà anche il titolo del suo libro. Questa strategia è stata sfruttata anche da altri leader come i gattini di Salvini o il più recente meme sulla pancetta e il guanciale di Letta, ma nessuno è riuscito a capitalizzare al meglio tutto ciò come Giorgia Meloni che ha saputo trarre vantaggio da situazioni apparentemente sfavorevoli. “Pure le mie nipoti lo ballavano – aveva raccontato al Corriere -. Di punto in bianco è come se il mondo si fosse accorto delle cose che dico. Persone che non ti ascoltavano, oggi lo fanno. Se finisco in un remix, anche se montato per contestare le mie idee, in fondo significa che ho qualcosa da dire, no?”. La canzone fu riproposta da M¥SS KETA nella scaletta del proprio concerto a Bologna e ne nacque anche una Io sono Giorgia challenge

“Giorgia Meloni ha un ritmo televisivo che si adatta bene anche alla radio e ai social – spiega Roberta Bracciale, docente di sociologia dei media e direttrice del MediaLaB dell’università di Pisa-. Sa utilizzare bene le pause e la strutturazione del discorso e probabilmente ha iniziato a lavorare con delle persone – noi conosciamo Tommaso Longobardi, ma ce ne sono anche altre – che hanno saputo valorizzare alcuni aspetti del suo carattere come la sua cadenza romana o la sua spontaneità. Nel caso di Ollolanda è successo proprio questo, da una caricatura della sua cadenza è riuscita a trarne vantaggio e l’episodio si è ripetuto con ‘Io sono Giorgia’”. 

Saper surfare sull’onda travolgente dei meme, nel 2022, non dev’essere facile, anche perché spesso possono risultare molto più graffianti di certi editoriali o di alcuni interventi nei talk show politici. La traiettoria di un meme, per quanto pungente, può essere una scheggia impazzita e che non sempre può essere colta al volo: La chiave ironica e pop che ha caratterizzato i processi di viralizzazione del meme –  afferma Roberta Bracciale -, lo ha svuotato dalla sua connotazione politica e ideologica  rendendoli tormentoni di cui si sono riappropriati pubblici diversi e spesso in antitesi e che innescano un processo transmediale nel momento in cui escono dal mondo del digitale e vengono ulteriormente riproposti in televisione. Prendiamo Io sono Giorgia: Mem&J avevano inserito la parte più critica della loro satira – quella in cui Meloni parlava degli omosessuali – nella seconda parte. Oggi però quel blocco nella memoria di tutti è completamente sparito in favore del ritornello orecchiabile e del binomio genitore 1 – genitore 2. Questo perché è stata riutilizzata in diversissime occasioni svuotata completamente di ogni significato”.

Un fenomeno che è stato ripreso da chiunque, da Cristina D’Avena a Cristiano Malgioglio, per arrivare al Times, che quell’anno inserì Giorgia Meloni tra le 20 stelle nascenti del 2020“Uno degli aspetti di quell’articolo – prosegue Bracciale – sottolinea proprio la transmedialità che riesce ad abbracciare Meloni che la rende più popolare, nota e riconoscibile anche a quei cittadini che sono meno attenti alla politica”.

Io sono Giorgia è stato anche esportato all’estero: è stata la stessa Meloni a riproporlo ospite d’onore al raduno di Madrid del partito di destra Vox. Nella nuova versione Yo soy Giorgia, soy una mujer il tormentone è tornato come un boomerang in Italia, dove nel frattempo stava nascendo il corsivo. Ed anche nella nuova lingua, si è insinuato grazie a Propaganda Live e a Elisa Esposito che lo ha fatto suo:

@la7_tv

Il discorso di Giorgia #Meloni in Spagna tradotto in #corsivo da @Elisa Esposito a @welikeduel. #elisaesposito #cörsivœ #imparacontiktok #traduzione #la7

♬ suono originale – LA7

 

Un’evoluzione… coerente

Se c’è una cosa che non si può dire su Giorgia Meloni è che non sia coerente, almeno per ora. La sua ferma opposizione a tutti i governi dell’ultima legislatura probabilmente è stato il motore diesel che in questi cinque anni le ha permesso di arrivare al risultato odierno ottenendo la fiducia di un elettorato che ha visto in lei la paladina che va contro il sistema. E scorrendo qua e là i post che della sua attività di Instagram degli ultimi dieci anni arriva la conferma. Nel giorno del suo trionfo sono tornate frasi e immagini che Meloni aveva già condiviso con i suoi follower, ma che quelli dell’ultim’ora sicuramente avranno perso. 

Il 25 settembre, infatti, sul suo profilo TikTok appare un video autoironico (anche se molti lo hanno definito cringe, ndr) in cui la leader di Fratelli d’Italia appare con due meloni in mano – chiaro riferimento al suo cognome – dicendo soltanto: “25 settembre… ho detto tutto”. 

Una gag che aveva già proposto nel 2013. Nel suo post, Meloni appariva sempre con due meloni e la frase “Sei Meloni? Devi melonare”. Perché? Si tratta di una sua “semi-autocitazione”: “Se sei nomade – aveva detto -, devi nomadare“, cavalcando la scia di quella dichiarazione che aveva sollevato più di una polemica. Torna sul concetto applicandolo a sé stessa, ma con una buona dose di ironia, riuscì comunque a riscuotere un buon consenso di applausi virtuali e like. 

 
 
 
 
 
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Un altro ricorso social si è verificato nella notte del trionfo. Nel suo primo discorso dopo i risultati, Meloni cita San Francesco d’Assisi. Un’aforisma che l’ha accompagnata in questi anni: “Cominciate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E all’improvviso vi sorprenderete a fare l’impossibile”, ha ripetuto nel festante quartier generale di Fratelli d’Italia dopo la sua affermazione, ma lo aveva scritto su Instagram anche nel giorno della festa del Santo nel 2016. E aveva aggiunto: “Tra i tanti insegnamenti che il Santo d’Assisi ci ha lasciato, queste parole ne contengono uno straordinario: ogni persona, anche la più umile, può fare cose grandi. In famiglia, nel lavoro, nella società: ognuno di noi può fare la differenza. Sempre. Basta solo un po’ di coraggio, il resto verrà da sé”.

 
 
 
 
 
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Da Facebook a TikTok

Questo su San Francesco – del 2016 – sembra essere l’ultimo post di carattere religioso a oggi visibile sul profilo di Meloni che, con il tempo, più che su Dio ha preferito concentrarsi sugli altri due pilastri del suo credo politico: la patria e la famiglia. E lo si è capito anche dalla sua campagna TikTok: se da un lato l’abbiamo vista alle prese con panzerotti e tortellini, in base alle regioni che visitava, dall’altro l’abbiamo riconosciuta mentre arringava le folle in piazza. Immancabile il riferimento al suo essere “gattara” (e qui Salvini fa scuola in ambito social), ma c’è stato anche un video che ha generato polemiche: a pochi giorni dal voto Meloni spiegava come votare Fratelli d’Italia con una croce e, subito dopo, invitava chi avesse voluto “cancellare” Fratelli d’Italia a “eliminare il partito” sempre con una croce. Un eccesso di autoironia che, secondo molti, avrebbe potuto generare confusione.

@giorgiameloni_ufficiale

Quando incontro un gatto, l’istinto da gattara ha sempre il sopravvento

♬ suono originale – Giorgia Meloni

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“Vero che ci sono i giovani su TikTok – spiega Bracciale – ma i dati ormai ci dicono che ormai sulla piattaforma sono arrivati anche i pubblici di altre età. Su TikTok alterna una comunicazione più smart ad altri contenuti più istituzionali. Facebook e Instagram, invece, oggi li usa come fossero la vecchia tv generalista in cui condivide le interviste che fa in televisione, una self promotion più tradizionale rispetto a quella più scanzonata di TikTok. Si tratta di una comunicazione integrata con contenuti specificatamente rimodellati per la piattaforma che utilizza anche quando si tratta di uno stesso video. Questo denota una grande cura e un’attenzione particolare per i pubblici dei rispettivi social network e lo si è visto anche nella scelta del suo slogan. ‘Pronti a risollevare l’Italia’ non è uno slogan che polarizza come lo ‘Scegli’ di Letta e questo probabilmente l’avrebbe danneggiata partendo da una posizione di vantaggio alla vigilia dell’ultima campagna elettorale”. 

Da Pupo al Signore degli Anelli

Ogni scelta, dunque, sembra essere meticolosamente ragionata anche se può concretizzarsi attingendo a un vastissimo bagagliaio di cultura pop. Ed è forse proprio grazie al suo rispondere al pop con altro pop è probabilmente riuscita anche a schivare – almeno parzialmente – le critiche di vip, cantanti e influencer da milioni di follower, a partire da Chiara Ferragni che ha espresso più volte dissenso nei confronti della leader del primo partito italiano. 

“Se c’è una leader che incarna il pop alla perfezione è lei – aggiunge Bracciale – lo si vede anche nelle scelte musicali adottate che vanno da Su di noi di Pupo a Il cielo è sempre più blu di Rino Gaetano (da cui la famiglia del cantante si è dissociata, ndr). Si tratta di musica ‘nazionalpopolare’, che tutti conoscono: usa un linguaggio medio per un’audience media. E risulta comprensibile perché parla in maniera semplice, fa esempi semplici, ricorre a parole chiave che poi riutilizza sempre nello stesso modo nei comizi e in televisione”.

Per questo, sembra quasi naturale che nel suo comizio finale Giorgia Meloni sia stata introdotta dalla voce di Pino Insegno che cita Il Signore degli Anelli (a cui diede la voce): “Verrà il giorno della sconfitta, ma non sarà questo giorno”, mentre una musica epica accompagna lo sventolio delle bandiere di Fratelli d’Italia in Piazza del Popolo a Roma. 

@giorgiameloni_ufficiale

Piazza del Popolo (Roma) ora. Che spettacolo!

♬ suono originale – Giorgia Meloni

Ora, premesso che il mondo tolkeniano sia una grande passione mai celata della premier in pectore, c’è da valutare anche l’aspetto comunicativo della vicenda: “Il suo essere trasversale a livello comunicativo è racchiuso qui – continua la professoressa dell’università di Pisa -, sono frasi che arrivano subito, che tutti riconoscono in maniera immediata anche se non si è visto il film. Aveva utilizzato lo stesso metodo in campagna elettorale per punzecchiare Di Maio quando, nel celebre video in cui viene immortalato in versione Dirty Dancing, sul profilo di Giorgia Meloni viene condiviso un video con la frase più famosa del film: ‘Nessuno può mettere Giggino in un angolo’”.

https://www.tiktok.com/@giorgiameloni_ufficiale/video/7143251423474502917

La “politica delle emozioni”

Nei suoi profili, rispetto a quelli dei suoi avversari, Meloni condivide in maniera molto oculata alcuni momenti della sua vita privata, ma, al contrario di quanto avviene quando è sola sul palco, nel pubblicare le foto dei suoi momenti di intimità con la figlia risulta decisamente più moderata di quello che sembra. Ne viene fuori un profilo di una donna che è una durissima combattente per i suoi avversari politici, ma che giustamente sa sciogliersi davanti alle persone che ama. Potrebbe essere questo un altro aspetto che ha colpito positivamente gli utenti? Magari facendola preferire a Matteo Salvini, il quale abusa molto di più della sua vita privata e famigliare sui social media? 

“Quella di Meloni potrebbe essere definita la ‘politica delle emozioni’, lei è molto è molto brava a gestire le emozioni sia nei social media, sia nei media tradizionali – conclude Bracciale -. Anche quando ammette di ricevere tanti meme perché le si gonfiano le vene, risponde di non essere in grado di non infervorarsi davanti a certi temi che la appassionano. Oltre al ricorso a elementi pop e alla self promotion, un terzo elemento che fa parte della sua comunicazione è la privatizzazione delle sue emozioni: lei usa in maniera strategica alcuni momenti che sono fortemente emozionali del suo privato, come le foto della figlia in cui – come ha anche recentemente dichiarato – traspare il senso di colpa per aver passato poco tempo con lei durante la campagna elettorale innescando l’identificazione di molte madre moderatrici che si trovano a vivere lo stesso dilemma. Possiamo intuire che quest’uso moderato di questa narrazione le permette di risultare più credibile rispetto ai suoi avversari perché non è un uso abusato o urlato”.

 

 
 
 
 
 
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Come cambierà la sua comunicazione?

Tutto questo ha permesso di decretare il successo di Giorgia Meloni? “Sicuramente le ha garantito una grande visibilità e popolarità anche grazie ai suoi mezzi comunicativi – conclude Bracciale -, anche se c’è da dire che il risultato elettorale va configurato in un contesto in cui ci sono altri fattori di cui non si può tener conto come la pandemia, il conflitto in Ucraina, il parallelo crollo della Lega e l’essere l’unico partito che non aveva avuto ancora modo di esprimersi al governo”. 

Ora però, per la futuribile premier, c’è una nuova sfida. Come cambierà la sua comunicazione qualora Mattarella – come sembra – le affidasse l’incarico di governo. C’è da remare, o meglio, surfare su un’onda favorevole che può ben presto trasformarsi in uno tsunami. Meloni, che secondo le indiscrezioni di alcuni media ha voluto da subito una linea di sobrietà dopo il trionfo elettorale, dovrà essere in grado di gestire un profilo che ora – per forza di cose – dovrà cambiare alcuni aspetti del suo linguaggio virando verso una comunicazione più istituzionale. Ce la farà?

Il primo assaggio lo ha avuto nei commenti ricevuti sotto il suo tweet di ringraziamento a Volodymyr Zelensky. Il presidente ucraino si è complimentato su Twitter per la vittoria di Meloni alle elezioni, augurandosi la collaborazione dell’Italia per la risoluzione del conflitto. “Caro Zelensky, sai che puoi contare sul nostro leale sostegno alla causa della libertà del popolo ucraino. Sii forte e mantieni salda la tua fede!”, ha risposto la leader di Fratelli d’Italia, che ha subito dovuto fronteggiare alcune critiche dei “suoi” che l’accusano di aver già ritrattato alcune delle sue posizioni in politica estera.

Altro grosso problema sulla sua futura presidenza è l’ombra del fascismo, di cui sono stati accusati molti esponenti di Fratelli d’Italia. In questo caso non sarà facile togliersi di dosso un’etichetta che il suo partito non ha mai respinto con forza. Il giorno dopo l’affermazione alle urne di Fratelli d’Italia, molti utenti di TikTok – gli stessi che erano andati con le magliette di Peppa Pig – hanno realizzato diversi video, dalla satira pungente per criticare i richiami nostalgici nel partito alle posizioni dello stesso in tema di diritti. Come verrà gestito tutto questo a livello comunicativo?




Il social network italiano che anticipò Facebook e fu cancellato per errore

Il social network italiano che anticipò Facebook e fu cancellato per errore

Chiara Ferragni è stata una delle prime blogger di moda al mondo, è tra le influencer più note a livello internazionale e la più seguita in Italia. Il racconto della sua carriera viene spesso fatto iniziare nel 2009, con l’apertura del blog “The Blonde Salad”, e il suo grande successo viene ricondotto a Instagram, ma Ferragni era diventata popolare online già molto prima, tra il 2005 e il 2006. «C’era questo sito su cui è iniziato tutto, quando avevo sedici, diciassette anni, che era Duepuntozero», ha raccontato in un podcast.

Duepuntozero era un social network che tra il 2004 e il 2009 divenne molto popolare tra i giovani italiani, soprattutto in Lombardia. Per molti versi anticipò Facebook, che negli Stati Uniti nacque nello stesso anno, ma anche Instagram, che sarebbe arrivato solo diversi anni dopo. Prima di essere cancellato per errore e sparire per sempre, arrivò ad avere mezzo milione di utenti e a essere il nono sito più visitato in Italia. L’avevano inventato due ragazzi milanesi, che ai tempi avevano 16 anni, facevano il liceo a Milano e non ci guadagnarono mai niente.

«Sicuramente Duepuntozero è stato precursore di Facebook e di tutto quello che è venuto dopo» ricorda Veronica Ferraro, che cominciò a usarlo molto presto, prima di aprire il blog di moda The Fashion Fruit. Oggi Ferraro è un’influencer con 1 milione e 400mila follower su Instagram e dice che una piccola parte iniziale del suo bacino d’utenti era nata proprio su Duepuntozero. «La dinamica era molto simile a quella di Instagram: ognuno aveva la propria pagina, poteva pubblicare le proprie foto – con certi limiti – e ricevere i like. Flickr, che permetteva di pubblicare foto in alta definizione, ha preso piede subito dopo ma per certi versi era più limitato, poi sono arrivati i blog. Sicuramente Duepuntozero è stato un inizio: Chiara [Ferragni] è nata così. Noi ci siamo conosciute lì e mi ricordo che capitava che le persone ci fermassero per strada».

L’idea di fare Duepuntozero venne a Martino Di Filippo, che allora era un liceale appassionato di informatica, tra la fine del 2003 e l’inizio del 2004. Aprì il sito insieme a un amico, Andrea Turati: «io gestivo tutta la parte tecnica mentre lui, che allora faceva il pr per una discoteca ed era più estroverso, inizialmente si prese il compito di parlarne e farlo conoscere in giro», spiega Di Filippo. In quello stesso periodo negli Stati Uniti stava nascendo Facebook, ma sarebbero passati quattro anni prima che cominciasse a diffondersi in Italia. Allora i social network più usati dai giovani erano MSN, che però era prevalentemente una chat, e la piattaforma di profili e blog MySpace, nata nel 2003.

Tutto cominciò perché a Milano c’era un negozio, Amedeo D., che esiste ancora oggi, e che ai tempi era molto frequentato e amato dagli adolescenti. «Il sito di Amedeo D. aveva una chat», ha raccontato Di Filippo, «che era frequentata da qualche centinaio di ragazzi e ragazze di Milano, persone con cui parlavo online e che poi mi capitava di incontrare in alcuni luoghi di ritrovo il sabato pomeriggio». Era una chat di solo testo ma era stata realizzata in modo poco professionale, e gli bastò smanettare un po’ per trovare il modo di caricarci delle foto. Quando anche altri cominciarono a imitarlo la cosa sfuggì un po’ di mano, e il negozio fu costretto a intervenire e togliere questa possibilità.

Di Filippo creò quindi un sito parallelo che chiamò Amedeo D. Duepuntozero, dove gli utenti che usavano la chat del negozio potessero tornare a pubblicare le proprie foto. All’inizio il funzionamento era molto rudimentale: gli utenti mandavano a Di Filippo le foto via chat e lui le metteva sul sito. «Mi piaceva l’idea di avere un sito con le foto perché fino a quel momento mi capitava di parlare con tante persone online, ma di non riconoscerle quando le incontravo dal vivo, semplicemente perché non sapevo che faccia avessero» ha spiegato.

Poco dopo un avvocato del negozio gli scrisse intimandogli di cambiare nome alla piattaforma, che così divenne solo Duepuntozero.

A vederlo Duepuntozero ricorda moltissimo Facebook agli inizi, se non altro per l’azzurro usato e la scritta del logo. Quando Di Filippo disegnò il sito non aveva idea di cosa fosse Facebook (anche perché in quel momento non esisteva o era nelle primissime fasi di vita), ma questa somiglianza è meno assurda di quanto si possa pensare. Ai tempi infatti la tecnologia permetteva di fare siti con una struttura molto standard e di usare un numero molto ridotto di caratteri di scrittura: di effetti grafici più innovativi se ne poteva introdurre qualcuno, ma appesantivano di molto il funzionamento dei siti. L’azzurro e il blu inoltre sono colori neutri e rassicuranti, di gran lunga i più utilizzati sul web, sicuramente in quegli anni.

Gli utenti di Duepuntozero potevano costruire un proprio profilo fatto di nickname (prima di Facebook era impensabile usare il proprio nome e cognome online), informazioni personali e fotografie, e pubblicare dei post testuali come su un blog. Il numero di foto che si poteva caricare era limitato quindi per pubblicarne una nuova bisognava cancellarne una vecchia: inizialmente se ne poteva mettere solo una, poi col tempo si arrivò a 24. Si potevano aggiungere gli utenti alla propria lista di amici, ma non era obbligatorio che l’“amicizia” fosse reciproca, quindi di fatto era qualcosa di simile a un “follow” su Instagram. Si potevano lasciare commenti agli altri utenti e mettere i like alle foto, che però si chiamavano “fave”, dall’inglese favourite. Era possibile sapere se gli altri erano online e quando avevano fatto accesso al sito l’ultima volta, ma non esisteva una chat dove gli utenti potessero parlarsi in privato: tutti i commenti erano pubblici e anche i profili.

Il fatto che esistesse un modo per “seguire” gli altri permise a Di Filippo di introdurre una classifica degli utenti con più seguito: quello che veniva chiamato “rank” o “ranking”. È qui che Chiara Ferragni cominciò a distinguersi e, nel giro di un paio d’anni, a diventare molto conosciuta all’interno della community del sito: il suo profilo era sempre tra i primi. «Quando andavi su Duepuntozero in homepage trovavi una specie di bacheca con le attività dei tuoi amici in ordine cronologico: non c’era un algoritmo che decideva cosa mostrare», spiega Di Filippo. «Il grande seguito al profilo di Chiara Ferragni è nato nello stesso modo in cui qualcuno diventa popolare a scuola o in qualsiasi altro gruppo limitato di persone, senza che un algoritmo lo agevolasse: una volta arrivata tra i primi utenti della classifica la cosa si è autoalimentata. Devo dire però che io intervenivo un po’ sulla classifica di popolarità per evitare che fosse troppo sbilanciata».

Inizialmente, quando ancora era usato da poche centinaia o migliaia di persone, l’assistenza agli utenti e la moderazione dei contenuti veniva gestita dai due fondatori, ma poi altri conoscenti vennero coinvolti nel lavoro. Ogni foto infatti veniva approvata manualmente prima della pubblicazione e, proprio come accade con tutti i social network oggi, divenne necessario impostare dei criteri sulla base dei quali decidere cosa approvare e cosa no.

«Ci è capitato di tutto ovviamente, dal ragazzo che provava a pubblicare le foto della ex nuda, a chi scriveva insulti e chi pubblicava foto porno per divertimento», racconta Di Filippo. «C’erano molte foto di nudi femminili più o meno espliciti e ogni volta dovevamo decidere se approvarli o no: mi sembra che alla fine ci affidassimo molto al buon senso, sicuramente i capezzoli erano vietati».

Quando Duepuntozero cominciò ad avere centinaia di migliaia di utenti capitava che ci fossero anche 40mila persone connesse tutte insieme. Il server a cui si appoggiava il sito era di una società che li affittava a poche decine di euro l’anno garantendo traffico illimitato, ma che non aveva mai immaginato di trovarsi a dover gestire un sito simile. «Io ero giovane e non ero consapevole dell’attenzione che richiedeva un social network così trafficato», racconta Di Filippo. «La società che mi affittava il server mantenne la promessa del traffico illimitato e la cifra annuale, ma dovette dedicare un server intero solo a Duepuntozero per evitare problemi di performance».

Facebook cominciò a essere usato in Italia tra il 2007 e il 2008, ma questo non ebbe un impatto negativo su Duepuntozero perché erano di fatto due cose molto diverse. Su Facebook si andava per trovare i propri amici e rimanerci in contatto, mentre Duepuntozero era pensato per «farti gli affari degli altri e ritrovare la ragazza che avevi visto al bar il giorno prima». Da questo punto di vista era molto più simile a quello che è oggi Instagram.

Era molto conosciuto nel nord Italia e gli utenti di Milano non sono mai scesi sotto il 25 per cento del totale. Ma nei suoi ultimi anni si diffuse molto anche altrove: in ordine le città dove era più popolare dopo Milano erano Roma, Bergamo, Torino, Brescia, Genova e Napoli. Gli utenti erano studenti delle scuole superiori e dell’università: le date di nascita andavano dal 1985 al 1993. In meno di tre anni, tra il giugno del 2006 e il febbraio del 2009, Duepuntozero ebbe più di 66 milioni di visite e 1,6 miliardi di pagine viste: la durata media di una visita era di 24 minuti.

Il successo della piattaforma cominciò ad attrarre alcune imprese che volevano sfruttarlo per fare pubblicità, oltre ad alcuni locali milanesi che volevano farsi conoscere tra i giovani, ma non se ne fece mai niente. A un certo punto a Di Filippo arrivò una proposta dalla Manzoni, la concessionaria pubblicitaria del Gruppo Espresso. «Mi offrirono mezzo milione di euro per mettere i loro banner pubblicitari su Duepuntozero per un anno, ma io non accettai», racconta Di Filippo: «qualcuno provò anche a comprarlo, ma a me non è mai interessato guadagnarci dei soldi, lo facevo perché mi piaceva. Anche oggi che ho trent’anni passati e faccio un lavoro tecnico, continuo a dedicarmi alla gestione di community perché mi piace avere a che fare con gruppi di persone da motivare, con cui generare discussioni ed engagement».

Nel 2009 Di Filippo aveva 22 anni, stava finendo l’università e non aveva molta idea di come continuare a gestire un sito di quelle dimensioni. Quello che per lui era sempre stato un hobby cominciava a diventare un lavoro, che si aggiungeva allo studio e ad altri lavori. Decise di mettersi in società con alcune persone poco più grandi che in quegli anni si occupavano di organizzazione di serate a Milano, con l’idea che potessero aiutarlo a rendere tutto il lavoro più strutturato.

«Quando abbiamo provato a mettere in piedi questa società però sono nati i problemi che hanno portato alla fine di Duepuntozero», racconta. Un giorno, poco dopo aver messo online una nuova versione del sito che era stato quasi completamente riscritto, successe un pasticcio e una persona della società cancellò per errore tutte le copie del sito esistenti. Duepuntozero andò offline e Di Filippo si rese conto che riportarlo online avrebbe comportato moltissimo lavoro, così decise di abbandonare l’idea.

Col senno di poi, vedendo l’enorme successo di Facebook in quegli stessi anni, molte persone che conoscevano e usavano Duepuntozero si sono chieste cosa sarebbe potuto diventare se le cose fossero andate in maniera diversa. Indubbiamente Duepuntozero aveva alcune funzionalità estremamente innovative per quegli anni: l’attenzione alle foto e la possibilità di mettere i like per esempio erano molto insolite. Anche l’intuizione di inserire in homepage l’elenco dei prossimi compleanni degli amici arrivò su Duepuntozero prima che su Facebook.

Nel suo podcast Muschio Selvaggio, il rapper Fedez, marito di Chiara Ferragni e a sua volta utente di Duepuntozero da giovane, dà una sua versione della storia: «ha avuto nelle mani Facebook ed è riuscito a non guadagnare un cazzo. Ci vuole del talento» dice riferendosi a Di Filippo.

Citando questa frase, Di Filippo spiega che «nella maggior parte dei prodotti innovativi la quantità di cose copiate o riprese da altro è sempre maggiore rispetto a quella delle invenzioni: vale per tutto e anche per Duepuntozero. Però mi sento di dire che non sono in totale disaccordo sul fatto che Duepuntozero sia stato un Facebook prima di Facebook: la differenza sostanziale stava in come io l’ho vissuta. Non l’ho mai pensato come un business. E mi va anche bene che mi dicano che sono stato scemo a non guadagnarci, perché non era il mio obiettivo».




Grazie a Twitter, Elon Musk potrebbe accelerare lo sviluppo dei suoi impianti cerebrali

Grazie a Twitter, Elon Musk potrebbe accelerare lo sviluppo dei suoi impianti cerebrali

Elon Musk, il magnate statunitense a capo di numerose aziende innovative, tra cui Tesla e SpaceX, continua a far parlare di sé. L’acquisizione di Twitter portata a termine a fine ottobre aggiunge un nuovo tassello al dominio digitale dell’imprenditore, che proprio su Twitter conta più di 110 milioni di followers. 

Il suo personaggio visionario e controverso fa sorridere alcuni/e, ma preoccupa altri/e. Oltre ad ambire a elettrificare il mondo e a colonizzare Marte, Musk crede di poter arrivare un giorno a connettere il cervello umano all’intelligenza artificiale. Per questo, nel 2016 ha fondato l’azienda Neuralink, che produce interfacce neurali da impiantare nel cervello. Si tratta di dispositivi ancora lontani da questo obiettivo, sperimentati perlopiù su scimmie e maiali. 

Ma grazie ai dati sensibili dei circa 330 milioni di utenti attivi di Twitter, Neuralink potrebbe arrivare a sviluppare neurotecnologie invasive, ovvero impianti cerebrali in grado di leggere e persino manipolare il cervello delle persone, influenzandone il comportamento, i ricordi, i pensieri e le emozioni. È ciò che teme Marcello Ienca, esperto di etica delle neurotecnologie del Politecnico federale di Losanna (EPFL). 

La Svizzera è molto impegnata sia nello sviluppo che nella regolamentazione delle tecnologie che si interfacciano con il sistema nervoso umano. Secondo Ienca, però, il piccolo Paese tra le Alpi potrà fare poco da solo per contrastare l’avanzata di sistemi e piattaforme in grado di condizionare l’opinione pubblica. 

SWI swissinfo.ch: Marcello Ienca, perché secondo lei Elon Musk è “moralmente inadatto”, come ha affermato in un post a essere sia il presidente di Twitter sia il CEO di Neuralink?  

Marcello Ienca: Il fatto che la stessa persona che possiede una delle principali aziende al mondo che produce neurotecnologie impiantabili nel cervello sia anche il proprietario di una piattaforma social che raccoglie i dati sensibili di milioni di utenti è alquanto preoccupante. 

hiunque si occupi di neurotecnologie che leggono e influenzano il cervello umano dovrebbe attenersi a degli standard morali molto elevati. Questo non è il caso di Elon Musk. Stiamo parlando di un personaggio eccentrico che sfrutta già la sua pagina Twitter per comportarsi da capo troll del web, condizionare l’andamento sul mercato delle sue aziende e influenzare politicamente milioni di elettori ed elettrici, come abbiamo visto durante la campagna per le ultime elezioni di medio termine statunitensi [Musk ha invitato l’elettorato a votare per il partito repubblicano, ndr].  

Nulla nel suo comportamento fa pensare che sia disposto a rinunciare alla manipolazione dell’opinione pubblica per motivi etici e questo lo rende inadatto a sviluppare tecnologie che si interfacciano con il cervello, il dominio di massima salienza morale di cui disponiamo.   

Sulla carta, però, tra Neuralink e Twitter non c’è alcun collegamento. Come possono dei tweet aiutare le aziende di neurotecnologie a sviluppare dispositivi in grado di influenzare la mente umana? 

Un tweet può dire molto su una persona. Può dare indicazioni non solo sul credo politico e religioso, ma anche su pensieri, emozioni e stati psicologici. Grazie all’intelligenza artificiale, è possibile analizzare i sentimenti di una persona sulla base del linguaggio verbale. Questo processo, chiamato Natural language processing for sentiment analysis, permette di estrarre da un tweet informazioni psicografiche [che classificano cioè l’utenza sulla base di caratteristiche personali e psicologiche, ndr] su una persona con un buon grado di attendibilità statistica.  

Ciò consente di capire, per esempio, se un individuo è più tendente alla positività o alla negatività, al rischio o alla paura, per poi bombardarlo con campagne pubblicitarie o informazioni mirate, vere o false che siano. Un caso emblematico è stato lo scandalo di Cambridge Analytica, che ha fatto profiling psicografico accedendo abusivamente ai dati degli e delle utenti di Facebook per influenzarli politicamente.  

Attualmente è difficile estrarre queste informazioni altamente sensibili dai dati cerebrali di chi usa le neurotecnologie, anche perché il numero di utenti è limitato. Ma se a questi dati cerebrali si combinano a quelli psicografici di milioni di utilizzatori e utilizzatrici di Twitter è possibile potenziare notevolmente le capacità non solo di questo social, ma anche delle neurotecnologie e di comprendere e classificare le persone sulla base di caratteristiche psicologiche, per influenzarle e manipolarle maggiormente. 

Anche Facebook ci aveva provato nel 2018, lanciando un’interfaccia cervello-computer, un progetto che Zuckerberg ha successivamente lasciato cadere, probabilmente per motivi di costi. 

Dobbiamo quindi aspettarci che le neurotecnologie di Musk siano presto in grado di leggere e condizionare la mente umana? 

È probabile. Le neurotecnologie oggi non consentono di leggere il pensiero in maniera estesa, ma sono già in grado di stabilire correlazioni statistiche tra dati cerebrali e informazioni psicologiche, suscitando preoccupazione per la privacy. Quando il numero di utenti (e quindi di dati) aumenterà, anche i rischi di avere dispositivi più invasivi della privacy mentale sarà maggiore. 

Qui non si tratterebbe più solo di curare pazienti affetti da problemi psichici e neurologici, che potrebbero beneficiare enormemente di queste tecnologie, ma di commercializzare dispositivi utilizzabili da un numero crescente di persone per registrare le attività del cranio e ottimizzare i processi mentali, la concentrazione e la memoria. Sul mercato esistono già dei dispositivi tipo fitbit del cervello per monitorare il sonno, l’attenzione e l’ansia. Alcune app permettono persino di controllare oggetti fisici con la mente.  

La Svizzera è attrezzata per contrastare i rischi delle neurotecnologie e proteggere la privacy della sua utenza?  

La Svizzera è forse uno dei Paesi meglio posizionati a livello mondiale per quanto riguardo lo studio delle implicazioni etiche e sociali delle neurotecnologie e lo sviluppo di strumenti normativi innovativi per affrontare queste sfide.  

La Confederazione ha partecipato attivamente alla stesura delle raccomandazioni sull’innovazione responsabile delle neurotecnologieLink esterno dell’OCSE, che oggi è il primo standard internazionali in materia. E organizzazioni come GESDALink esterno [il Summit di anticipazione della diplomazia scientifica e tecnologica di Ginevra, ndr], hanno messo le neurotecnologie al centro della loro agenda.  

Tuttavia, la Svizzera da sola sarebbe impotente contro Musk o qualsiasi altra azienda globale. Il suo margine di azione per proteggere la privacy e l’integrità mentale di un’utenza relativamente piccola è limitato. L’Unione europea, con più di 400 milioni di abitanti, avrebbe invece un potenziale negoziale maggiore perché sarebbe sconveniente per Musk rinunciare a questo bacino di utenti.