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Che cos’è il quiet quitting e perché ora vogliamo lavorare lo stretto necessario

Che cos'è il quiet quitting e perché ora vogliamo lavorare lo stretto necessario

«Quiet quitting»: è la parola del momento, e contemporaneamente lo specchio dei tempi. Basta dare uno sguardo ai 10 milioni di hashtag su TikTok che raccontano storie di vita vissuta per rendersene conto e capire che il quiet quitting è anche l’evoluzione delle «grandi dimissioni». In pratica, anziché lasciare il posto fisso come hanno fatto 8 milioni di italiani post pandemia (dati Inps) preferendo spesso la libera professione, ci si limita a lavorare lo stretto necessario. Letteralmente si «lascia lentamente» e in pratica si mettono dei paletti: si lavora quanto basta, evitando ad esempio gli straordinari oppure extra oltre il dovuto. Tutto questo per non farsi risucchiare da un sistema improntato sull’iperattività e sull’iper-reperibilità, incentivate paradossalmente dallo smartworking vissuto nel clou della pandemia in cui dividere casa e ufficio è risultato praticamente impossibile.

«Indipendentemente da come vogliamo definire questo fenomeno – precisa Francesca Contardi, managing director di EasyHunters, società di ricerca e selezione con un Digital Operating Process – dobbiamo necessariamente fare una riflessione sul fatto che negli ultimi due anni i candidati abbiano stravolto i propri valori e abbiano iniziato a considerare il lavoro e la carriera non più come una priorità. C’è chi ha dato dimissioni volontarie, senza avere una alternativa di lavoro già pronta». 

I dati

Il report State of the global workplace 2022 della società di ricerche di mercato Gallup dice che in Europa solo il 14% dei dipendenti è davvero coinvolto nella propria attività lavorativa e che appena il 33% si sente appagato. Intanto, sempre secondo Gallup, negli Stati Uniti i quiet quitter sarebbero addirittura la metà della forza lavoro. Sì, impressionante, anche perché secondo gli analisti i numeri sono destinati a lievitare. Ma soprattutto questo fenomeno è problematico per le aziende che – ammettiamolo! – su quegli extra che ora si rifiutano di fare i quiet quitter hanno sempre contato per raggiungere gli obbiettivi finanziari. Ancora più problematico se si considera che il quiet quitting riguarda la generazione potenzialmente più produttiva, cioè la Z e i millenial, di età quindi inferiore ai 35-40 anni.

I motivi del quiet quitting

La ragione del quiet quitting? Da una parte, si potrebbe pensare che il bisogno di «lasciare lentamente» il lavoro e di staccarsi psicologicamente dalla scrivania sia dettato dalla necessità di non farsi assorbire, ma anche di gestire meglio il work and life balance, e cioè l’equilibrio con la vita privata. Un bisogno legittimo considerato che siamo cresciuti con l’idea di trascorrere la maggior parte delle nostre giornate a lavorare ma, dopo averlo sperimentato in prima persona, abbiamo anche capito quali possono essere le conseguenze in termini di stress e, nei casi peggiori, di burnout.

L’importanza dell’empatia

Gli esperti americani, però, suggeriscono una lettura più approfondita. Invitano ad andare a monte del problema valutando il grado di soddisfazione dei dipendenti, perché è da questo che può essere dettata la voglia di mollare. La maggior parte dei dipendenti interpellati sempre da Gallup ha dichiarato che non sente di crescere, non sente di lavorare accanto a qualcuno che si preoccupi per loro, che incoraggi il loro sviluppo. Insomma: è una crisi manageriale. Una cattiva gestione dovuta ai capi, perché appena uno su tre mostra empatia con i propri dipendenti. La soluzione? Secondo Gallup anzitutto il dialogo: un manager di successo dovrebbe avere una conversazione significativa a settimana con ogni membro del team, per 15-30 minuti.

«Essere disponibili al confronto e all’ascolto – aggiunge Francesca Contardi – permette di cogliere, in breve tempo, eventuali criticità, ma soprattutto crea relazioni basate sulla fiducia e aiuta a costruire (o ricostruire) un ambiente sano, nel quale le persone si sentano parte di un gruppo che ha gli stessi obiettivi e gli stessi valori. Non servono grandi slogan, ma ambienti di lavoro flessibili non solo in termini di tempi e luoghi, ma soprattutto di gestione delle persone che, oggi più che mai, desiderano bilanciare nel miglior modo possibile vita professionale e vita privata».




Il caso Patrizio Morellato: quando le rotture personali diventano vendette Online

Il caso Patrizio Morellato: quando le rotture personali diventano vendette Online

Lo scorso aprile, la vicenda che ha visto protagonista l’influencer Patrizio Morellato è stato un ottimo esempio di come le rotture personali e i dissapori possano trasformarsi in vendette pubbliche sui social media. Il gesto clamoroso di Morellato, che ha bruciato pubblicamente le foto della sua ex, Brisida, ha suscitato una serie di interrogativi sulla responsabilità degli influencer e sui confini della privacy nel mondo digitale.

Patrizio Morellato, noto per la sua attività di influencer e il suo seguito sui social media, ha deciso di portare la sua controversia personale con l’ex compagna Brisida sotto i riflettori, bruciando in diretta le loro foto condivise. L’evento, trasmesso attraverso le sue storie su Instagram, ha immediatamente catturato l’attenzione dei suoi follower e dei media, trasformandosi in un caso di grande eco pubblica.

Il gesto di Morellato non è isolato, ma rappresenta un fenomeno crescente in cui le rotture personali e le incomprensioni tra ex partner vengono amplificate e sfruttate sui social media. Spesso, ciò che inizia come un litigio privato si trasforma in una battaglia pubblica, in cui le azioni e le dichiarazioni vengono utilizzate per infangare la reputazione dell’altra persona. Questo fenomeno non solo esacerba le tensioni personali, ma contribuisce anche a una cultura di vendetta digitale che può avere conseguenze significative per le persone coinvolte.

Nel contesto degli influencer, la questione assume una dimensione ulteriore. La visibilità e l’influenza che questi personaggi esercitano sui social media comportano una responsabilità peculiare. Il fatto che Morellato abbia scelto di condividere pubblicamente il suo gesto di vendetta solleva interrogativi su quanto la notorietà e la piattaforma che gli è concessa dovrebbero influenzare le sue azioni.

Gli influencer, per la loro stessa natura, hanno una maggiore esposizione mediatica e una responsabilità maggiore nel gestire le proprie azioni e dichiarazioni. La condivisione di eventi personali e privati sui social media può avere effetti a catena, influenzando non solo la reputazione degli individui coinvolti, ma anche l’opinione pubblica e la percezione sociale. Questo tipo di comportamento, sebbene possa essere visto come un modo per esprimere emozioni e rivendicazioni personali, ha anche il potenziale di alimentare conflitti e diffondere negatività.

D’altro canto, il diritto alla libertà di espressione e la volontà di condividere aspetti della propria vita personale sono componenti – se non addirittura dei diritti – fondamentali della vita pubblica moderna. Tuttavia, è cruciale che chi ha un grande seguito rifletta sulle conseguenze delle proprie azioni e consideri l’impatto che possono avere sugli altri e su sé stessi.

In sintesi, il caso di Patrizio Morellato dimostra come le rotture e i dissapori personali possano trasformarsi in vendette pubbliche sui social media, specialmente quando sono amplificate da figure influenti. Questa situazione mette in luce la necessità di una maggiore consapevolezza e responsabilità nell’uso delle piattaforme digitali, dove la linea tra espressione personale e rispetto per gli altri può facilmente sfumare.




Molestie sui mezzi di trasporto: il ruolo delle influencer nella lotta contro gli abusi

Molestie sui mezzi di trasporto: il ruolo delle influencer nella lotta contro gli abusi

Recentemente l’attenzione pubblica è stata catturata da due episodi che hanno visto protagoniste due influencer italiane: Giulia Salemi e Aida Diouf. Entrambe hanno denunciato sui propri canali social le proprie esperienze di molestie subite sui mezzi di trasporto, contribuendo a sollevare un dibattito cruciale su come affrontare e prevenire tali abusi.

Giulia Salemi ha denunciato di essere stata molestata da un tassista. Le sue accuse sono state supportate da registrazioni audio in cui si sentono chiaramente le avances improprie ricevute. Giulia ha il merito della prontezza di spirito documentando direttamente l’accaduto, così da ottenere prove tangibili che potrebbero essere utilizzate per azioni legali e per sensibilizzare il pubblico sui comportamenti inaccettabili. Il coraggio poi dimostrato nel rendere pubbliche queste registrazioni ha avuto un impatto significativo, suscitando solidarietà e accrescendo la consapevolezza riguardo al problema delle molestie sui mezzi di trasporto.

Aida Diouf ha in vece raccontato le molestie subite su un treno. Sebbene abbia documentato l’accaduto attraverso video e testimonianze, non ha ripreso direttamente l’aggressore. Il suo racconto ha comunque messo in luce la gravità della situazione, contribuendo a stimolare il dibattito sull’importanza di garantire la sicurezza pubblica.

Questi episodi dimostrano quanto sia efficace e funzionale condividere tali esperienze sui social media. Da un lato, l’atto di raccontare pubblicamente queste esperienze può avere un’importante funzione educativa e sociale. Fornisce visibilità a problematiche che spesso rimangono invisibili e permette ad altre persone di sentirsi meno sole. Inoltre, promuove una maggiore consapevolezza e può incoraggiare le vittime a parlare e a denunciare gli abusi.

Dall’altro lato, la pubblicazione di tali contenuti può sollevare dubbi relative a privacy e sicurezza delle vittime. Le registrazioni e i racconti potrebbero esporre ulteriormente le persone coinvolte, inclusi potenziali aggressori, e suscitare una varietà di reazioni che vanno dall’empatia alla colpevolizzazione. È quindi essenziale che la condivisione di queste esperienze sia gestita con cautela, bilanciando il diritto alla privacy con il bisogno di denuncia e di cambiamento sociale.

Il fine educativo di queste condivisioni sui social media è chiaro: sensibilizzare l’opinione pubblica, educare su comportamenti inaccettabili e stimolare un cambiamento culturale verso una maggiore rispetto e sicurezza per tutti. Tuttavia, è fondamentale che tali iniziative siano accompagnate da misure adeguate di protezione delle vittime e da una riflessione critica su come tali contenuti vengano utilizzati e interpretati.

In sintesi, la condivisione delle esperienze di molestie da parte di influencer come Giulia Salemi e Aida Diouf ha il potenziale di portare a una maggiore consapevolezza e a cambiamenti positivi, ma è cruciale che avvenga in modo responsabile e rispettoso della dignità di tutti i soggetti coinvolti.




IL CASO DI ELISA ESPOSITO E LA CULTURA NEL MONDO DEGLI INFLUENCER

IL CASO DI ELISA ESPOSITO E LA CULTURA NEL MONDO DEGLI INFLUENCER

Elisa Esposito, l’influencer che ha guadagnato notorietà come “professoressa del corsivo” grazie alla sua imitazione esagerata della cadenza milanese, è stata ospite di una trasmissione radiofonica che ha rapidamente acceso un dibattito acceso sulla cultura nel mondo degli influencer. Durante la trasmissione, Elisa è stata invitata a leggere uno dei versi più celebri della Divina Commedia di Dante Alighieri, ma la sua reazione ha lasciato molti allibiti: non ha riconosciuto il testo, manifestando una sorprendente mancanza di familiarità con uno dei pilastri della letteratura italiana.

L’incidente ha sollevato una domanda cruciale: quanto è importante per un influencer essere colto? E, d’altro canto, quanto invece vengono premiati coloro che, pur non avendo solide competenze culturali, possiedono altre qualità, come talento nell’intrattenimento e capacità comunicativa?

Elisa Esposito ha costruito la sua fama su un personaggio che sfrutta l’accento milanese in modo caricaturale, guadagnando un vasto seguito sui social media. Il suo successo dimostra come oggi, in un’epoca dominata dall’intrattenimento rapido e immediato, l’autenticità o l’abilità di far sorridere possano avere un impatto ben maggiore della conoscenza culturale tradizionale. Tuttavia, il suo scivolone sulla Divina Commedia ha fatto emergere i limiti di questa forma di popolarità.

Da un lato, molti ritengono che un’influencer come Elisa, che ha un seguito ampio e variegato, dovrebbe possedere almeno una conoscenza di base delle opere e delle figure culturali più importanti del proprio paese. Essere un volto pubblico comporta una responsabilità verso i propri follower, e la mancanza di consapevolezza culturale può essere vista come un esempio negativo, soprattutto per i più giovani, che spesso si ispirano ai loro idoli online.

Dall’altro lato, la realtà del mondo degli influencer mostra che le competenze culturali non sono sempre essenziali per ottenere successo. In molti casi, ciò che conta di più è la capacità di intrattenere, creare contenuti virali e costruire un personaggio accattivante. Questa dinamica premia coloro che, come Elisa Esposito, riescono a catturare l’attenzione del pubblico attraverso mezzi non convenzionali, anche a costo di sacrificare la profondità culturale.

Il caso di Elisa Esposito evidenzia un cambiamento significativo nella società moderna, dove la cultura e l’istruzione formale non sono più gli unici criteri per il successo. Al contrario, il carisma, l’abilità di comunicazione e l’originalità possono essere sufficienti per costruire una carriera di successo online. Tuttavia, questo solleva interrogativi su quali valori stiano realmente guidando la società e su come i nuovi modelli di ruolo influenzino la percezione della cultura tra le nuove generazioni.

In conclusione, mentre il mondo degli influencer continua a evolversi, il caso di Elisa Esposito ci ricorda l’importanza di un equilibrio tra intrattenimento e cultura. Anche se il successo può essere raggiunto attraverso vie non convenzionali, la conoscenza e l’apprezzamento del patrimonio culturale restano valori fondamentali, non solo per chi aspira a essere un modello di riferimento, ma per la società nel suo insieme.




Perché ci ricordiamo tutti dove eravamo e cosa stavamo facendo l’11 settembre 2001

Perché ci ricordiamo tutti dove eravamo e cosa stavamo facendo l'11 settembre 2001

Ci sono date e immagini che segnano più di altre la storia. Senza dubbio una di queste è l’11 settembre 2001, giorno dell’attentato alle Torri Gemelle. Negli Stati Uniti erano le 8.45 (in Italia le 14.45) quando il primo aereo si schiantò contro una delle torri del  World Trade Center a New York. Venti minuti più tardi un secondo aereo fece lo stesso. Sono passati esattamente 21 anni; ma pensateci bene, vi ricordate tutti con precisione – pochissimi esclusi – cosa stavate facendo e dove eravate in quel momento. E c’è un perché.

Perché ci ricordiamo tutti dove eravamo e cosa stavamo facendo l’11 settembre

A spiegarci questo curioso fenomeno sono le neuroscienze, che svelano cosa accade nel nostro cervello una volta che siamo sottoposti a eventi di altissimo impatto emotivo. Ed è innegabile che – sebbene avvenuto dall’altra parte del mondo – l’attacco alle Twin Towers lo sia stato.

Responsabile di questo meccanismo è un ormone chiamato cortisolo e prodotto dal surrene su “richiesta” del cervello. In pratica, nei momenti di maggiore stress emotivo determina l’aumento di glicemia e grassi nel sangue, mettendo a disposizione del nostro corpo tutta l’energia di cui ha bisogno per sostenere lo sforzo emotivo.

Ci sono date e immagini che segnano più di altre la storia. Senza dubbio una di queste è l’11 settembre 2001, giorno dell’attentato alle Torri Gemelle. Negli Stati Uniti erano le 8.45 (in Italia le 14.45) quando il primo aereo si schiantò contro una delle torri del  World Trade Center a New York. Venti minuti più tardi un secondo aereo fece lo stesso. Sono passati esattamente 21 anni; ma pensateci bene, vi ricordate tutti con precisione – pochissimi esclusi – cosa stavate facendo e dove eravate in quel momento. E c’è un perché.

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Perché ci ricordiamo tutti dove eravamo e cosa stavamo facendo l’11 settembre

A spiegarci questo curioso fenomeno sono le neuroscienze, che svelano cosa accade nel nostro cervello una volta che siamo sottoposti a eventi di altissimo impatto emotivo. Ed è innegabile che – sebbene avvenuto dall’altra parte del mondo – l’attacco alle Twin Towers lo sia stato.

Responsabile di questo meccanismo è un ormone chiamato cortisolo e prodotto dal surrene su “richiesta” del cervello. In pratica, nei momenti di maggiore stress emotivo determina l’aumento di glicemia e grassi nel sangue, mettendo a disposizione del nostro corpo tutta l’energia di cui ha bisogno per sostenere lo sforzo emotivo.

Nel libro del giornalista Luca Poma “Il sex appeal dei corpi digitali” compare un intervento illuminante sul tema – dello svedese Lars Olov Bygren, specialista di medicina preventiva al Karolinska Institute – in cui si ricorre proprio all’esempio della memoria legata all’11 settembre.

“Se viviamo un un momento altamente emozionante, e quindi stressante per il cervello, l’ormone cortisolo fa da mediatore in un processo che porta alla fortissima impressione di quell’evento nella memoria. E’ per questo che tutti ci ricordiamo cosa stavamo facendo e dove fossimo l’11 settembre 2001.”

Occhio ai ricordi distorti, però…

Occhio, però, perché può darsi che se chiediamo a qualcuno dove era e cosa stava facendo potrebbe anche dirci una bugia inconsapevole. Uno studio   pubblicato sul Journal of Experimental Psychology, bimensile dell’Associazione Psicologica Americana, ha dimostrato che alcuni vantano ricordi dei quali sono convinti – in relazione a dove fossero e cosa stessero facendo l’11 settembre 2001 – ma non è affatto detto si tratti della verità.

Lo studio dice che di fronte a eventi particolarmente traumatici il cervello umano sia in grado di distorcere i fatti confondendoli con percezioni emotive. E va così che nel nostro subconscio costruiamo un nuovo ricordo che si mischia con quanto realmente accaduto. Il tutto in assoluta buona fede.

 Cosa accadde l’11 settembre 2001

L’11 settembre 2001 quattro attacchi aerei suicidi, realizzati mediante dirottamento aereo, causarono la morte di oltre 2.996 persone, ferendone oltre 6.000. A capo della strage un gruppo di terroristi aderenti ad al-Qāʿida. Tre su quattro raggiunsero il bersaglio designato: le Torri Nord e Sud del World Trade Center di New York – che si sgretolarono in poche ore imprimendo un quadro apocalittico nella memoria collettiva – e il Pentagono. Si riuscì a evitare soltanto l’impatto contro l’ultimo possibile obiettivo a Washington ovvero la Casa Bianca o il Campidoglio. Anche il quel caso, però, per i passeggeri del volo dirottato non ci fu scampo: andarono incontro a uno schianto mortale in un campo della Pennsylvania.