1

FEDERGINNASTICA: REPUTAZIONE BRUCIATA?

FEDERGINNASTICA: REPUTAZIONE BRUCIATA?

I fatti

La Federazione Ginnastica d’Italia (F.G.I.) è un Ente Morale fondato nel 1869, con sede nazionale a Roma, affiliata agli analoghi organismi internazionali (F.I.G. Federazione Internazionale di Ginnastica e U.E.G. Unione Europea di Ginnastica) e riconosciuta dal CONI – Comitato Olimpico Nazionale Italiano, e dal CIO – Comitato Olimpico Internazionale. In Italia, la F.G.I. è l’unico Ente di riferimento per le attività di ginnastica artistica maschile e femminile, ginnastica ritmica, ginnastica generale e ginnastica aerobica.

Dopo un secolo e mezzo dalla sua fondazione, questa importante istituzione è ora salita agli onori delle cronache per le denunce di atlete Olimpiche come Nina Corradini e Anna Basta (altre contestazioni stanno prendendo corpo, giorno dopo giorno, a ritmi inquietanti): l’ossessione del peso, i controlli continui, le offese da parte dello staff degli allenatori, le umiliazioni, le mortificazioni pubbliche di fronte a tutte le compagne, allo scopo di demolirne l’autostima, epiteti come “ippopotamo”, “vitello tonnato”, “cinghiale”, con riferimento – dispregiativo – sempre al peso. Una pressione insopportabile, tale da stimolare idee suicidarie in diverse atlete: non ci è scappato il morto per miracolo. Ora scoppia lo scandalo, ne parlano tutti i giornali italiani ed anche la stampa estera: è un intero sistema ad apparire sotto accusa.

Le reazioni della Federazione

La Federazione Ginnastica d’Italia incassa il colpo e reagisce: il presidente Gherardo Tecchi, con delibera d’urgenza, ha disposto il commissariamento dell’accademia internazionale di ginnastica ritmica di Desio, da dove sono partite le prime denunce da parte delle atlete.

Inoltre emette un comunicato stampa: dichiara di non tollerare alcuna forma di abuso e di essere sempre al fianco di tutti i propri tesserati. “Sono state date disposizioni perché siano immediatamente informati la Procura Federale e il Safeguarding Officer per gli accertamenti e le azioni di rispettiva competenza. Su questi profili la Federazione è impegnata a migliorare sia l’informazione che la prevenzione, solo tutti insieme si possono affrontare questi intollerabili comportamenti e sradicarli dal mondo della Ginnastica che è forte, sano e non ha spazio per chi non condivide i valori dello sport”. Anche Andrea Abodi, Ministro dello Sport, ha incontrato il presidente del Coni Giovanni Malagò e quello di Federginnastica: si annunciano provvedimenti incisivi. Parole sante e reazioni dovute. Ma anche assai tardive.

Davvero le istituzioni non sapevano?

Siamo a novembre, ma già da agosto è in corso un’inchiesta della Procura bresciana sui presunti maltrattamenti in palestra, denunciati – attraverso un esposto – dalla mamma di due giovanissime ginnaste che sarebbero state sottoposte a costanti controlli sul peso, ma così pressanti da provocare uno stress realmente insopportabile. Il fascicolo procede a rilento, e per ora non avrebbe ancora avuto risultati. Singolare tuttavia che i vertici nazionali non ne sapessero nulla.

Ma – voci di corridoio a parte, sempre esistite – un’altra denuncia era già nota precedentemente, da anni, scritta nero su bianco: quella di Marta Pagnini, grandissima ginnasta italiana, capitana della squadra nazionale italiana di ritmica, le Farfalle, dal 2012 al 2016, che nel marzo 2018 pubblicò un libro, dal titolo “Fai tutto bene”, scrivendo testualmente: Ho anche incontrato persone negative, che mi hanno resa insicura e fragile, che hanno usato parole pesanti e offensive nei miei confronti, portandomi a passare momenti di grande tristezza e difficoltà. ‘Sei la peggiore, non ti meriti di stare qui’, mi ripetevano. Ogni giorno”

Reazioni e iniziative, allora, da parte di Federginnastica, CONI, Ministero, eccetera? Nessuna. Meglio lasciar correre e non sollevare polemiche, evidentemente.

Reputazione in crisi

“La buona reputazione – dichiara la dott. sa Giorgia Grandoni, specialista in gestione della reputazione e ricercatrice presso il Centro studi della start-up innovativa Reputation managementè l’asset immateriale più importante e di maggior valore per qualunque organizzazione, come confermano sia la letteratura, assai robusta, sia le ricerche di mercato. Secondo un’indagine di Weber Shandwick dal titolo “The State of Corporate Reputation”, il 63% del valore di mercato di un’azienda è infatti attribuibile alla reputazione. Esistono inoltre numerosissime evidenze empiriche che correlano il danno reputazionale, e la scorretta gestione delle crisi reputazionali, a ingenti danni economici e a distruzione del valore per gli stakeholder e la comunità. Vale per le imprese – termina la Grandoni – ma vale esattamente nella stessa misura per le istituzioni, per il mondo del no-profit e per organizzazioni come Fedeginnastica. Quanto è accaduto è semplicemente sconcertante, e preoccupa in particolare per l’omertà che ha impregnato il settore per anni. Possibile che nessuno ai vertici avesse avuto sentore di nulla?”

La gestione delle crisi reputazionali, in particolare, è materia assai delicata e specialistica: ad esempio, le scuse non condizionate, com’è ben documentato nella letteratura specialistica sul crisis management, sono il solvente universale di ogni crisi reputazionale. Potrà infatti apparire paradossale, ma negli ultimi anni – complice l’affermarsi di una virata verso il web 2.0, caratterizzato da un elevato grado di partecipazione e interazione tra gli utenti – quella delle scuse non condizionate è la strategia che si è rivelata in assoluto più efficace: scusarsi con sincerità e schiettezza smorza le polemiche, smussa le armi ai giornalisti, preserva quanto più possibile la reputazione dell’organizzazione e riduce le – inevitabili – richieste di risarcimento danni in sede giudiziale. I cittadini apprezzano tale comportamento, e, percependo una riduzione generale dell’entropia, valutano la crisi e i suoi effetti con occhi più “concilianti”: ma i tempi giocano un ruolo fondamentale in questi processi, e la vicenda di Federginnastica non brilla certo per corretto tempismo.

In USA, tutta un’altra storia

Anche in USA, il report sulla Lega Calcio femminile americana (NWSL) sul tema dei comportamenti abusanti e delle cattive condotte sessuali sulle donne nel calcio professionistico è stato un fulmine a ciel sereno. Peccato che l’indagine non sia stata generata da denunce e inchieste giornalistiche, come in Italia, ma sia stata promossa dall’ex procuratrice generale Sally Q. Yates, su mandato proprio della US Soccer Federation, l’organizzazione ufficiale del calcio femminile.

Riporta Yates come commento alla pubblicazione dell’indagine: “Il nostro lavoro è stato in grado di rivelare la cattiva condotta e gli abusi (verbali, emotivi e sessuali) che erano diventati sistemici all’interno della lega Nwsl (…), un pattern di commenti a sfondo sessuale, avances indesiderate, molestie fisiche e abusi sessuali”.

Cindy Parlow Cone ha comunicato la pubblicazione del report nel suo ruolo di Presidente della US Soccer Federation, commentando così l’esito dell’indagine: “Come ex giocatore, come allenatore, come presidente dell’organo di governo nazionale del calcio, ho il cuore spezzato dai contenuti del rapporto, che chiariscono che sono necessari cambiamenti sistemici a ogni livello del nostro sport. L’abuso descritto nel verbale è del tutto imperdonabile e non trova spazio nel calcio, dentro o fuori dal campo (…). Ci vorrà l’impegno di tutti i membri di US Soccer per creare il tipo di cambiamento necessario per garantire che i nostri atleti siano al sicuro”.

Nel caso della vicenda USA, è accaduto infatti esattamente il contrario rispetto all’Italia: è l’iniziativa autonoma della Federazione che ha sollevato pubblicamente il caso, e non uno scandalo emerso a seguito di denunce delle atlete che ha – solo in un secondo momento – sollecitato la Federazione ad intervenire.

Conclusioni

Se le inchieste giudiziarie e le verifiche di carattere interno alla Federazione confermeranno, com’è presumibile, lo scenario riferito dalle atlete, la reputazione di Federginnastica in primis, e del CONI a seguire, ne risulterà significativamente pregiudicata, e – vista la gravità dei problemi emersi – è difficile immaginare che ci si possa limitare a “voltare pagina” con generiche promesse di discontinuità e roboanti provvedimenti disciplinari.

Problematiche come queste andrebbero prevenute, intercettate anticipatamente mediante appositi assessment di crisis & risk management: sarebbe sufficiente, banalmente, applicare buone prassi codificate e note da anni. Ma applicarle per tempo, sollecitamente, e non solamente dopo lo scoppio di un pubblico scandalo.




Corpi “reali” e cucina: il dibattito sulle tiktoker Natasha e Jenny

Corpi "reali" e cucina: il dibattito sulle tiktoker Natasha e Jenny

Ed ecco un’altra polemica social, anch’essa esplosa l’ultima estate: le due sorelle TikToker Natasha e Jenny, al centro di un surreale dibattito per il loro aspetto fisico. Mentre i loro video culinari conquistavano un pubblico sempre più ampio, alcune critiche si sono concentrate sulla loro forma fisica, considerata non conforme ai canoni estetici tradizionali dei social media.

Questo caso ha riacceso il dibattito sull’importanza dell’aspetto fisico nel mondo dei social media, in particolare per i creator. Da un lato, c’è chi sostiene che l’immagine sia fondamentale per attirare l’attenzione e costruire un seguito. Dall’altro, si leva la voce di coloro che difendono il diritto di ognuno di essere sé stessi, senza sentirsi giudicati per il proprio corpo.

Nel caso specifico delle due sorelle, la polemica ha assunto una connotazione particolare, legata al tema del cibo e della cucina. Il loro successo è stato costruito proprio sulla condivisione di ricette e consigli culinari, ma le critiche ricevute hanno messo in discussione la loro credibilità come esperte di cucina, associando implicitamente la capacità di cucinare a un corpo magro e atletico.

Queste esperienze mettono in evidenza come l’aspetto fisico possa influenzare significativamente la reputazione di un creator e la percezione che il pubblico ha della sua professionalità. Chi non risponde ai canoni estetici dominanti rischia di essere screditato, anche quando le sue competenze sono innegabili.

Le conseguenze di queste dinamiche possono essere profonde e durature. In primo luogo, possono scoraggiare molte persone, soprattutto le donne, dall’esprimere la propria creatività sui social media. In secondo luogo, possono contribuire a rafforzare l’idea che esiste un unico modello di bellezza al quale tutti devono conformarsi.

È fondamentale che le piattaforme social e i media tradizionali promuovano una maggiore inclusività e diversità, valorizzando le differenze individuali e celebrando la bellezza in tutte le sue forme. Solo in questo modo potremo creare un ambiente online più sano e più rispettoso per tutti.




Dalla Rete alla Tv: la polemica sulla “Prof del Corsivo”

Dalla Rete alla Tv: la polemica sulla "Prof del Corsivo"

Questa estate ha visto esplodere sulla scena digitale una nuova star: la “prof del corsivo”. Con una serie di video divertenti e ironici, Elisa Esposito ha conquistato il cuore degli utenti del web, insegnando loro le sfumature e le peculiarità dell’accento milanese. Il successo è stato tale da portarla sugli schermi televisivi, dove ha consolidato la sua fama.

Ma dietro questa rapida ascesa, si nasconde una piccola polemica. Diversi addetti ai lavori e colleghi influencer hanno infatti fatto notare come l’ironia sul corsivo milanese non fosse una novità assoluta. Anzi, molti di loro avevano già sperimentato questo filone comico molto prima della sua esplosione mediatica.

La domanda che sorge spontanea è: chi ha inventato la ruota? O, in questo caso, chi ha per primo ironizzato sul corsivo? È giusto che una sola persona si appropri di un trend e ne diventi il simbolo indiscusso, o è più corretto riconoscere il contributo di tutti coloro che hanno contribuito a renderlo popolare?

I social media, da un lato, offrono a chiunque l’opportunità di diventare famoso e di esprimere la propria creatività. Dall’altro, però, la viralità che contraddistingue certi contenuti amplifica fenomeni come il “copia e incolla” e la difficoltà nel riconoscere l’originalità. In un mondo dove l’attenzione è sempre più frammentata, è facile che idee e contenuti vengano ripresi e rielaborati da più persone, spesso senza che venga citata la fonte originale.

Questa vicenda ci insegna l’importanza di riconoscere e valorizzare il lavoro degli altri. Anche quando un’idea diventa virale e raggiunge un vasto pubblico, è fondamentale ricordare chi l’ha concepita per prima. Inoltre, ci invita a riflettere sulla natura effimera della fama online e sulla necessità di costruire un’identità digitale autentica e duratura.

La storia della “prof del corsivo” è solo uno dei tanti esempi di come i social media stiano trasformando il nostro modo di comunicare e di consumare contenuti. In questo nuovo scenario, è fondamentale saper distinguere tra originalità e imitazione, e promuovere una cultura del riconoscimento reciproco. Solo in questo modo potremo creare un ambiente online più sano e più equo per tutti.




La recitazione su TikTok: tra autenticità, meritocrazia e capacità

La recitazione su TikTok: tra autenticità, meritocrazia e capacità

Negli ultimi anni, TikTok è diventato un terreno fertile per la nascita di nuove forme di intrattenimento, tra cui la recitazione. Influencer e content creator si cimentano in sketch, doppiaggi e mini-serie, conquistando il pubblico con la loro creatività e ironia. Ma quanto la loro performance è autentica recitazione? E quanto conta il talento in un mondo dove il successo è spesso determinato da altri fattori?

Per molti, TikTok rappresenta una piattaforma democratica che permette a chiunque di mostrare il proprio talento e di emergere, indipendentemente da background o provenienza. La facilità d’uso del social e la brevità dei video incoraggiano la sperimentazione e la spontaneità, dando vita a nuove forme di espressione artistica.

In questo contesto, la recitazione non è più relegata ai palcoscenici tradizionali, ma diventa accessibile a tutti, con la possibilità di raggiungere un pubblico vastissimo. Nasce così una nuova generazione di attori, spesso autodidatti, che si formano attraverso tutorial online e il confronto con la community. Ed è qui che l’influencer Giulia Salemi, effettua uno sketch drammatico ripreso da Francesca Santaniello, attrice.

Tuttavia, questa democratizzazione della recitazione non è priva di rischi. La brevità dei video e la ricerca costante dell’effetto virale possono portare a una recitazione superficiale e poco curata. Inoltre, l’algoritmo di TikTok premia spesso contenuti leggeri e divertenti, a discapito di lavori più complessi e impegnativi.

Inoltre, la popolarità su TikTok non sempre rispecchia il talento recitativo. Il successo può essere determinato da fattori esterni come la bellezza, la simpatia o la capacità di creare trend. Questo può creare senso di ingiustizia e frustrazione tra chi investe tempo e impegno nella propria formazione artistica, senza ottenere il giusto riconoscimento.

Un futuro incerto per la recitazione su TikTok

Il futuro della recitazione su TikTok è ancora incerto. Da un lato, la piattaforma ha il potenziale per far emergere nuovi talenti e dare vita a nuove forme di espressione artistica. Dall’altro, il rischio di superficialità e la mancanza di meritocrazia non possono essere ignorati.

Sarà importante trovare un equilibrio tra la democratizzazione dell’arte e la valorizzazione del talento. Forse la soluzione sta nel promuovere una maggiore formazione e un’educazione critica del pubblico, in modo che sia in grado di apprezzare la recitazione di qualità, indipendentemente dalla piattaforma su cui viene proposta.

In conclusione, la recitazione su TikTok è un fenomeno complesso con luci e ombre.

Offre nuove opportunità per gli artisti emergenti, ma allo stesso tempo presenta dei rischi che non possono essere sottovalutati. Il tempo dirà se questa nuova forma di espressione artistica riuscirà a superare le sue criticità e ad affermarsi come un terreno fertile per il talento e la creatività.




Bufere digitali e scheletri nell’armadio: la social media crisis di Giulia Torelli

Bufere digitali e scheletri nell’armadio: la social media crisis di Giulia Torelli

Giulia Torelli, in arte  Rockandfiocc, è nata nel 1987 a Parma, ha passato la sua infanzia in campagna per poi trasferirsi a Milano, dove – come scrive lei stessa nella bio del suo blog – è stata Social media manager per brand di lusso e “contemporaneamente”  una it-Blogger di Grazia.it. Intanto conduceva un programma radiofonico e seguiva la sua community in espansione su Instagram; eppure nonostante le sue doti multitasking, per l’ennesima volta, pare non essere stata in grado di utilizzare il suo notevole cervello contemporaneamente alla bocca, finendo coinvolta in un epic-fail su Instagram.

Closet organizer, si occupa di organizzare e fare il decluttering dell’armadio delle proprie clienti, di aiutarle nella scelta dei  nuovi acquisti per avere e seguire uno stile tutto proprio, senza perdersi nel caos di uno shopping  compulsivo che di volta in volta va ad aggiungersi nel fondo del  cassetto – e forse – presa dal suggerire cosa deve rimanere e cosa deve uscire dall’armadio degli altri, non si è resa conto che nel suo c’è qualche scheletro, e che quelli – una volta usciti – non possono essere donati o venduti, ma reclamano il proprio spazio e fanno anche un bel po’ di trambusto.

A pochi giorni fa risale la sua ultima esternazione sulle storie di Instagram, dove ha esordito con frasi del tipo “ma veramente i vecchi hanno il diritto di voto? Dovrebbero stare fermi con quelle loro manine… starsene a casa, invece che andare in giro con quelle mascherine sotto al naso… e invece no, eccoli li attaccati alla vita”: frasi “forti” che non sono di certo passate inosservate sui Social, tanto da scatenare un vero e proprio shitstorm nei suoi confronti; ma procediamo con calma.   

La Torelli, nonostante si professi sostenitrice della libertà di pensiero e opinione, dell’accettazione del proprio io che non sempre combacia alla perfezione con i canoni stereotipati della società, non è però nuova a questo tipo di scivoloni. Come ci ha riportato alla memoria, tramite un suo post, Selvaggia Lucarelli, Rockandfiocc è stata già altre volte nell’occhio del ciclone di Instagram: accusata di “grassofobia” dopo aver pubblicato una foto di un servizio fotografico ritraente una modella con il classico “rotolo di pancia”, con sotto il suo commento disgustato perché – secondo il suo pensiero – le riviste di moda nascono per sognare e quindi dovrebbero far vedere solo la perfezione.

La domanda nasce allora spontanea: cosa è la perfezione per la Torelli? Secondo la Treccani il termine perfezione si utilizza per indicare ciò che è eccellente, non suscettibile di miglioramenti e quindi esente da difetti. Se i sillogismi che abbiamo studiato a scuola ci sono ancora chiari, quindi la perfezione per lei combacia con l’assenza di pancia, ciccia, grasso o come preferite chiamarlo voi. A questo punto sorge spontanea una nuova domanda: non sono i “giovani”, la generazione che vota per partiti che non hanno “paura” del diverso, versus i più anziani che con le loro manine votano persone che riconducono la loro politica ad un pensiero totalitario, dove esiste l’immagine dell’uomo perfetto?

Mettere alla gogna la Torelli perché ha espresso un pensiero che – seppur politicamente scorretto e soprattutto spiegato male – è passato per la testa di molti, ma sarebbe da ipocriti: in quanti si sono ritrovati a dire che le elezioni sono state vinte dal partito che è stato più in grado di comunicare con la maggioranza del popolo italiano, che – secondo i dati Istat – sta appunto “invecchiando” sempre di più…? Chi davanti ad uno specchio non ha desiderato avere qualche centimetro in meno o ha commentato l’outfit di altri dicendo che quell’abito non gli donava per la sua conformazione fisica? Il problema nasce quando quei commenti, quelle parole inappropriate, vengono riferite in modo così tranchant e soprattutto su un palco – Instagram in questo caso – da parte di persone che hanno il potere di influenzare il pensiero degli altri. Eppure la Torelli, mentre parlava alla sua community ben sapeva che ciò che stava esprimendo non era un pensiero particolarmente intelligente, o quantomeno sano, tanto da aggiungere nelle sue storie la didascalia “non l’ho mai detto”: della serie “qui lo dico e qui lo nego”, forse sottovalutando la potenza di fuoco dello strumento che stava utilizzando, anche se una sottostima del genere fatta da una persona che lavora e vive grazie a quello stesso strumento risulta quanto mai singolare.

Pur volendo quindi in parte giustificarla, la stessa Rockandfiocc non ci aiuta: dopo tutto quello che è stato raccontato, mentre online monta la polemica, il suo profilo Instagram rimane in silenzio per giorni. Non un messaggio per chiarire la sua posizione né tantomeno uno per chiedere scusa, anzi: decide poi di rispondere in modo arrogante e saccente tramite un commento alla pagina ufficiale del giornale Grazia, che pubblicando l’accaduto prendeva le distanze da ciò che l’influencer aveva detto. Commento che viene immediatamente cancellato dalla stessa Torelli, forse in un attimo di lucidità, ma l’ennesimo danno era stato fatto. Eppure nella sua qualità di Influencer dovrebbe avere contezza che ciò che appare sui Social difficilmente sparisce per sempre anche se cancellato. I suoi follower e tutte le persone che si sono sentite coinvolte in ciò che è stato detto, meritano un messaggio di spiegazioni, di presa di coscienza che non tutto ciò che viene detto da lei è verbo, che proprio come ogni persona può sbagliare, e che un “confronto” può servire a migliorare ed a crescere.

Bisogna aspettare una settimana – periodo lunghissimo, per la velocità con cui i vari Social e il mondo attuale si muovono – ed ecco che Giulia Torelli decide di fare le sue scuse.

Siamo abituati ad una Torelli “impulsiva”, poco costruita nell’esprimere i propri pensieri, eppure queste scuse paiono fredde: il solito coinvolgimento – che si è visto per esempio nelle stories che l’hanno portata a doversi scusare – è svanito del tutto. Di certo non è facile ammettere di aver sbagliato, e non lo è soprattutto quando il tuo “peccato” è stato svelato ovunque e Social, televisione, testate giornalistiche ne hanno parlato per giorni. Ma la “rigidità” di queste storie pare davvero eccessiva. Il tono risulta poco empatico con le persone che si sono sentite colpite dalle sue affermazioni, e dividere i pensieri in cinque categorie ben distinte da l’impressione di dover seguire una scaletta e fa perdere di genuinità le parole pronunciate, l’effetto dissolvenza utilizzato per confezionare il video lascia la sensazione di “tagliato” e non detto, come se fosse intervenuto qualcuno dall’esterno per decidere cosa andava bene e cosa no, e il tutto lascia un senso di scarso coinvolgimento. Anche concedendo il beneficio del dubbio e volendo credere che queste scuse siano sentite e reali, si nota troppa differenza tra i due registri comunicativi utilizzati dalla stessa persona, il primo nel video di “accuse” ricco di pathos, mentre percepiamo totale imperturbabilità nel video del “pentimento”. E poi perché – se di scuse si tratta – perché presentarle coprendosi dietro le parole “riordino armadi, la politica non è il mio mestiere…”? Ognuno di noi ha il diritto/dovere di essere attivo socialmente, esprimendo il proprio pensiero e, inutile dirlo, andando a votare. Casomai il tema è “come” farlo.

Ciò che poteva essere utilizzato come “denuncia” nei confronti di una società che probabilmente non rappresenta in modo efficace una fetta dei suoi componenti è stato iper-semplificato: forse come lei dobbiamo dar ragione a chi ha detto che “non sa usare i Social in modo intelligente, e proporzionato ai rischi che implicano”. Scivoloni sono normali e “concessi”, le scuse sono ben accette, ma il dialogo è obbligatorio, e anche in questo caso non c’è stato, le storie dopo solo 24 ore sono scomparse e non è stato possibile per gli utenti commentare pubblicamente e intraprendere così una discussione, rendendo disponibile il discorso solo in modalità unilaterale (perché, se non fosse abbastanza, Rockandfiocc ha già da tanto tolto la barra del commento nelle storie rendendo impossibile rispondere direttamente ad esse) solo ai “fortunati” che hanno cliccato sul cerchietto illuminato della sua pagina Instagram e consolidando così un muro tra lei e i suoi follower. Quello stesso muro che molti suoi colleghi Influencer cercano giustamente di abbattere, assottigliando il divario che c’è tra loro e gli utenti che li seguono, per creare inclusione e far capire che i famosi influencer non sono figli di divinità o essere mitologici, e che  le loro vite, seppur all’apparenza perfette e piene di glamour sono fatte della quotidianità di tutti noi e soprattutto vissute da persone che in quanto tali fanno cose bellissime, ma possono anche sbagliare.

Ogni giorno ci troviamo a combattere una guerra contro stereotipi e pregiudizi che vorremmo scomparissero, che ci fanno sentire inadatti, e tante volte ci troviamo ad essere dalla parte sbagliata, dalla parte dei giudicanti e il più delle volte il giudizio che diamo ricade proprio su noi stessi. Ma l’errore che viene commesso non giustifica ciò che è stato detto o fatto, e non sono il sarcasmo o l’impulsività a risolvere. È vero che il politically correct ci ha stancato, che abbiamo bisogno della verità anche se ingombrante, ma le parole che sono state pronunciate non possono essere attribuite al puro cinismo, che tanto va di moda, ma ad una semplice mancanza di rispetto nei confronti di chi non la pensa come noi o di chi viene considerato diverso da noi.

La bellezza è soggettiva, i sogni sono diversi per ognuno, le priorità cambiano a seconda di chi siamo e cosa vogliamo, tutti vorremmo un mondo che la pensa come noi, che ha le stesse nostre priorità, che rifiuta ciò che per noi è impensabile e inappropriato, ma come disse Mark Twain è anche la differenza di opinioni che permette le corse dei cavalli, e la Torelli, puntando su insensibilità e la strafottenza, ha forse puntato sul cavallo sbagliato.