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Non bastano competenze, ci vogliono virtù: come discutere bene per vivere felici

Non bastano competenze, ci vogliono virtù: come discutere bene per vivere felici

Il duplice vantaggio della ricerca della felicità nelle discussioni

Tale prospettiva, rispetto ad altre, è in grado di apportare un duplice vantaggio. Il primo è quello di concentrarsi non solo sulla qualità degli argomenti e sul modo con cui vengono affrontati, ma soprattutto sulla condizione degli argomentatori (più o meno soddisfatti) prima, durante e dopo lo scambio.

Il criterio della felicità mette al centro delle discussioni le persone, senza cedere ora a un intellettualismo formale che dimentica il fattore umano, ora a valutazioni puramente di metodo che dimenticano come quei modi incidano sulla vita reale di chi partecipa a uno scambio dialettico.

Da qui il secondo vantaggio: una prospettiva basata sulla felicità costringe ad ancorare i criteri del buon discutere alla realtà concreta dei dibattiti in carne e ossa che avvengono nella vita quotidiana online e offline, pena altrimenti il produrre visioni idealistiche che propongono dibattiti impossibili da applicare nelle situazioni reali.

Oltre gli argomenti c’è di più: la teoria delle virtù dell’argomentazione

A questo proposito ci sono alcuni spunti molto promettenti provenienti dalla cosiddetta Teoria delle Virtù dell’Argomentazione (in breve VAT) che alcuni autori hanno proposto negli ultimi anni (Cohen 2008, 2013; Aberdein 2010, 2014; Paglieri, 2015; Gascon, 2016).

L’approccio delle virtù dell’argomentazione sostiene che ogni scambio andrebbe considerato mettendo al centro dell’osservazione l’argomentatore e il suo modo di comportarsi nelle interazioni. Un comportamento che può essere virtuoso quando contribuisce alla buona riuscita della discussione, vizioso quando i suoi atti non fanno che distruggere il confronto o renderlo impossibile. La prospettiva della VAT, insomma, potrebbe essere riassunta nello slogan “oltre gli argomenti c’è di più”.

È un approccio particolarmente adatto a osservare e comprendere ciò che succede nelle discussioni online sui social network e in rete dove gli aspetti identitari e i modi di fare sono preminenti rispetto alle idee e ai contenuti: considerare i primi è un modo per tornare a porre al centro i secondi.

Il punto centrale di questo tipo di approccio è che per produrre dispute al contempo competitive (che vadano quindi fino in fondo nelle questioni) e cooperative (che tengano assieme i disputanti senza portarli al muro contro muro) c’è bisogno di concentrarsi sulla capacità umana di scegliere il bene della discussione nel proprio comportamento dialettico.

Al contrario, se si rimane in un’ottica puramente basata sulle abilità argomentative o sulla qualità degli argomenti, difficilmente si riesce a produrre lo stesso effetto. Dal punto di vista educativo la questione è cruciale: se si punta alle semplici competenze (il saper fare) senza le virtù (il saper fare il bene) difficilmente si otterrà un miglioramento dei dibattiti e della capacità dei cittadini di stare in essi in modo soddisfacente e sostenibile[1].

Il litigio Orsini-Ruggeri a Cartabianca

Partiamo con un percorso inverso: osserviamo ciò che non funziona in una discussione e proviamo a mettere a fuoco ciò su cui si potrebbe intervenire per risanare gli scambi deragliati.

Qualche settimana fa, nella trasmissione “Cartabianca” di Rai3, Alessandro Orsini, docente di sociologia alla Luiss, e Andrea Ruggeri, deputato di Forza Italia, sono stati protagonisti di un duro scontro verbale.

La discussione verteva sulla questione della guerra in Ucraina e la posizione di Putin nei confronti della Nato. Uno scambio che, sulla carta, aveva tutti i crismi per funzionare: due interlocutori titolati a parlarne e dotati di tutte le competenze necessarie e sufficienti per argomentare sulla questione.

A un certo punto del confronto, però, qualcosa va storto e l’interazione smette di essere un argomentare e controargomentare e diventa un litigio, ponendo di fatto fine al confronto.

Riporto quali sono stati, più o meno, alcuni degli ultimi passaggi dell’interazione:

-Orsini: “Quello che sto dicendo è che se noi gli mettiamo i “soldatini” e i carriarmati al confine, non va bene per l’Italia”.

-Ruggeri: “Senta non è che siamo dei minus habentes, lei è sicuramente un uomo intelligente non c’è bisogno di fare “i disegnini”… “i soldatini”, non è che siamo tutti più scemi di lei, professore”.

-Orsini: “Nel suo caso qualche dubbio lo avrei!”

-Ruggeri: “Probabilmente ha ragione. Le spiego perché. Io ho lavorato tredici anni in televisione, di gente frustrata come lei che spara qualunque cosa pur di farsi riconoscere al supermercato ne ho visti a decine. Lei è un “vorrei ma non posso” nella vita che cerca di farsi riconoscere per strada. Io rappresento qualcuno, seppur indegnamente, lei non rappresenta nessuno; quindi stia buono al suo posto. Questo è il pupazzo che diceva che nel 2018 avremmo subìto un attentato dell’Isis…”

-Orsini: “Lei è un bugiardo. Lei è un disonesto. Quel video è tagliato.”

-Ruggeri: “È un complotto? Di Chi?”

-Orsini: “Le voglio spiegare perché lei è un cretino. Quel video è tagliato, è un falso”.

Dal discutere sulla questione da cui si era partiti, ciascun interlocutore è passato ad attaccare l’altro sul personale. È accaduto cioè uno spostamento del disaccordo dal contenuto della discussione alla relazione tra i due contendenti (Wazlawick 1971, pp.73-74). Tanto che il tema iniziale è scomparso completamente dal discorso di entrambi. Non si discutono più le idee, ma di come le persone coinvolte si presentano inadeguate allo scambio.

Dal litigio alla perdita di fiducia nel dibattito

Vorrei osservare almeno tre effetti che questo tipo di fallimento di una discussione porta con sé (una trattazione più estesa del tema in Mastroianni, 2020).

Il primo, come abbiamo visto, è la perdita del tema oggetto di discussione: si smette di discutere e di argomentare su ciò da cui si era partiti nel confronto e si passa a criticare i comportamenti dell’interlocutore nel dibattito.

Il secondo effetto lo definirei di trasparenza: mentre i due si accusano a vicenda e vanno allo scontro, mostrano a chi assiste alla discussione alcuni loro aspetti caratteriali e di atteggiamento (negativi in questo caso) privi dell’abituale filtro sociale che avrebbe fatto mantenere loro il controllo delle proprie reazioni. In questo caso i due protagonisti finiscono in una sorta di gara infantile per dimostrare chi è il migliore.

Il terzo effetto, che è quello più grave, è la spettacolarità. Chi osserva due persone che si scontrano può provare una forma di piacere. La soddisfazione di vedere uno sovrastare l’altro, grazie alla aggressività delle espressioni più che per la forza delle argomentazioni, secondo dinamiche tipiche di dominanza e discredito (D’Errico & Poggi, 2010).

Questo tipo di soddisfazione può essere ricondotta a quelli che Aristotele definisce piaceri deplorevoli o distraenti (Aristotele, 1175b, 1173b) che non portano cioè verso il bene dell’azione in oggetto (in questo caso una discussione) ma distolgono da essa.

Ora il punto è che nel partecipare a questo spettacolo che provoca un piacere distraente o deplorevole si paga un biglietto molto salato che è la perdita di fiducia (Mastroianni 2020, p. 27-29). Gli effetti, infatti, dello spostamento del focus dalla discussione alla messa in discussione dei disputanti produce una perdita di fiducia nel dibattito: a forza di perdere per strada i temi, si ha la sensazione che non si possa davvero discutere.

Il caso riportato, come molti che si possono osservare online e offline, aggiunge un ulteriore carico su questa triplice sfiducia perché la dinamica si genera tra un esperto e un politico, cioè personaggi pubblici, titolati e che ricoprono un ruolo nella società. I comuni cittadini che assistono si sentiranno a maggior ragione fiaccati nella possibilità di intrattenere discussioni significative.

Si nota insomma come in questo scambio ciò che viene a mancare da parte degli argomentatori è la dedizione al tema (cioè il continuare ad argomentare nel merito) e il distacco da sé (non finire su un piano personale e ad hominem).

Il punto che vorrei sottolineare è che i due disputanti non compiono solo scorrettezze argomentative, ma è come se dimenticassero la reale posta in gioco: il possibile bene che poteva derivare dal confronto, sia per loro come contendenti, sia nei confronti del numeroso pubblico che assiste alla loro discussione, il quale non sta più ottenendo benefici in termini di migliore conoscenza e messa a fuoco dell’argomento.

In altre parole, questo esempio, che è solo uno tra i tanti possibili, ci mostra che una discussione non fallisce solo sul piano dell’argomento (che si è perso per strada ed è entrato su un terreno puramente ad hominem), non fallisce nemmeno solo sul piano dell’argomentare (che è diventato un denunciare le presunte inadeguatezze dell’altro), ma la pienezza del suo fallimento si può davvero capire solo se la si giudica dal punto di vista del bene in gioco per gli attori coinvolti, che non sono solo i due disputanti, ma anche tutti gli altri astanti che, pur senza intervenire, hanno un ruolo attivo nella discussione (Cohen 2013).

I tre antidoti al litigio e il comportamento dell’argomentatore

Per rispondere al problema delle polarizzazioni occorre insomma lavorare su tre dimensioni:

1. La dedizione al tema: il saper stare sul tema e tornare continuamente a esso sarà una delle strade maestre per ricostruire la fiducia nella possibilità di discutere.

2. La padronanza sull’effetto trasparenza: la capacità dell’argomentatore di presentarsi al pubblico nella discussione sarà un aspetto centrale (e non collaterale) della discussione stessa.

3. Una spettacolarità “virtuosa”: realizzare dispute che producano nell’assistervi non un piacere di tipo deplorevole o distraente, ma il piacere che si genera nel condurre un’attività in modo eccellente perseguendo il bene che porta in sé stessa (che in una discussione è il capire meglio una certa questione grazie al confronto di idee).

La sfida numero 1, che mette al centro il valore dell’argomento, sembra apparentemente contraddire quanto detto a proposito delle virtù dell’argomentatore[2]. In realtà più che una contraddizione è una conferma: la centralità dell’argomento è subordinata alla centralità del comportamento dell’argomentatore e non viceversa.

Se è vero infatti che, da un punto di vista teorico, la centralità dell’argomento si può considerare prioritaria rispetto al comportamento dell’argomentatore, in una discussione reale la possibilità di mettere l’argomento al centro, tenendo la sua validità come fulcro valutativo della discussione, è sempre subordinata alla capacità e alla motivazione degli argomentatori di stare in esso e di non deviare.

È una sorta di paradosso che potremmo così formulare: per mantenere al centro gli argomenti e non finire sul personale c’è bisogno di una motivazione personale a mettere al centro l’argomento. Senza questa motivazione, la priorità che l’argomento ha dal punto di vista teorico e logico viene persa nella pratica, come nell’esempio visto nel paragrafo precedente: dal contenuto della discussione ci si sposta alla relazione e al giudizio (negativo) sulle persone. Validità e legittimità dell’argomento, da sole, non potranno mai sostenere il buon esito di una discussione reale. Se si vuole essere realisticamente dediti all’argomento e dare validità e legittimità delle argomentazioni non si può prescindere dal fatto che quella centralità dipenderà da quanto gli argomentatori (le persone in carne e ossa) saranno motivate a impegnarsi in essa.

La virtù nell’argomentare: un esempio pratico

Proviamo a spiegarlo attraverso un esempio. Un formatore sta facendo una lezione sulla gestione della propria reputazione online in un’azienda. Sta parlando in particolare della gestione intelligente della propria immagine sui social. In quel momento uno dei partecipanti alza la mano mostrando sul suo smartphone una foto del formatore tratta da Instagram e dice: “Questa accresce la sua reputazione?”

Si dà il caso che la foto ritragga il formatore a torso nudo, con un vistoso tatuaggio sulla spalla, mentre sta fumando. L’affermazione ha una formulazione entimematica (Paglieri 2011) perché in modo implicito e allusivo sta sostenendo che la foto ha qualcosa di negativo per l’immagine del formatore e quindi ne compromette l’attendibilità e la credibilità sul tema.

Si tratta di un attacco ad hominem piuttosto efficace perché allude a un comportamento personale del formatore che potrebbe indebolire la sua autorevolezza nell’argomentare (Aberdein 2014) sul tema delle immagini e la reputazione online.

Non si tratta di un attacco che possa essere liquidato come una mera distrazione rispetto al tema, perché il dubbio di credibilità sollevato è pertinente all’argomento oggetto di discussione (Mastroianni, 2020, pp. 95-96).

In tale situazione il formatore potrebbe rispondere secondo una prospettiva pragmatica e di pura logica informale denunciando l’ad hominem: “Cosa centrano le mie competenze con i miei fatti privati?” e tentare una contro-argomentazione per ricostruire la sua credibilità: “Ho diversi anni di studio sul tema alle spalle”.

L’effetto di questa affermazione però correrebbe un rischio simile all’esempio che abbiamo visto prima, scivolando nei tre effetti del litigio: perdita del merito del tema (si smetterà di parlare di reputazione digitale e si discuterà piuttosto della coerenza del formatore o del modo di porsi pregiudiziale da parte del partecipante), trasparenza (si noterà che i due non sono in una buona relazione, perché uno accusa e l’altro difende il suo buon nome), spettacolo (alcuni partecipanti si immedesimeranno nella critica del partecipante, altri saranno dalla parte del formatore).

Ora pensiamo invece a una risposta diversa, che definirei all’altezza della dedizione all’argomento e del distacco da sé richiesta a un disputatore virtuoso: “Il fatto che lei trovi inopportuna la mia foto conferma quanto sia importante riflettere su ciò che pubblichiamo su di noi online, non trova?”.

Dando una risposta del genere il formatore avrebbe tre effetti: quello di rinforzare la relazione nel momento del dissenso (non si è offeso per la presunta accusa, ma l’ha accettata come argomentazione a cui replicare), quello di ritornare al merito della questione perché è come se stesse dicendo “non parliamo di me, torniamo a parlare del tema”, infine di rendere lo scambio gradevole e spettacolare grazie a una sovversione (Mastroianni, 2017, pp. 105-108) che ribalta una presunta debolezza (aver pubblicato una foto disinvolta = non essere coerente) trasformandola in un punto di forza (foto percepita come inadatta = importanza del tema della reputazione).

Quello che si può osservare in queste due differenti possibili reazioni del formatore è che per mettere l’argomento al centro di una discussione, e mantenerlo tale, c’è bisogno di motivazioni che vanno oltre l’argomento in sé. In questo caso: distacco da sé stesso per non offendersi, motivazione a cooperare anche in caso di dissenso, sensibilità per il bene di chi ascolta e per mantenere il focus della discussione.

Il ritorno all’argomento è avvenuto grazie alla presenza di una virtù in azione, in questo caso l’umiltà intellettuale (Kidd 2016) che ha permesso al formatore di avere la confidenza necessaria per accettare la messa in dubbio della sua coerenza e credibilità. È quella che altrove ho definito “la mossa del gattino” (Mastroianni, 2019): invece di contrattaccare denunciando l’azione scorretta dell’avversario e allargando la portata delle proprie competenze (come un fiero leone che distrae dall’argomento difendendo sé stesso); ridurre il proprio perimetro (il gattino), accettare la critica, e mostrare che proprio quel limite apparente in realtà si può trasformare in una risorsa utile per affrontare l’argomento e quindi tornare a esso.

Il comportamento virtuoso pone al centro l’argomento

Al di là del caso in sé, di cui è difficile dare una reale stima di come andrebbe a finire, c’è un elemento da rilevare: la prospettiva dell’argomento al centro (e la sua validità) si realizza pienamente in presenza di un argomentare che segua la prospettiva delle virtù. Il comportamento virtuoso dell’argomentatore non può che favorire la messa al centro dell’argomento, scongiurando che si finisca a distrarsi andando sul personale.

Questo introduce e si collega alla sfida numero 2 sull’effetto trasparenza e la conseguente padronanza di sé che un argomentatore dovrebbe avere in un dibattito. Qui arriviamo agli aspetti più pragmatici dell’interazione (cioè sull’argomentare in modo più o meno corretto) il cui peso si coglie fino in fondo proprio grazie allo sguardo più ampio delle virtù o dei vizi in campo.

Cosa può spingere, infatti, il formatore a non dare una risposta litigiosa e a mostrarsi paziente e disposto a discutere anche di fronte a un attacco ad hominem? Non è l’argomento in sé, non è nemmeno l’argomentare, ma qualcosa di più, cioè il riconoscimento di ciò che sta accadendo in questa discussione: la messa alla prova del formatore di fronte al pubblico.

A ben vedere, infatti, la vera posta in gioco dell’ad hominem non è riconoscibile del tutto se intesa solo in termini di logica informale e nemmeno in una chiave interpretativa prettamente pragmatica. Quel “Questa foto accresce la sua reputazione?” detto da un “partecipante tra partecipanti” nella posizione di ricevere una certa formazione, rivolto a un “formatore in cattedra” nella posizione di chi quella formazione la deve elargire, rappresenta una sfida a un intero sistema di valori e di orizzonti di significati legati alla relazione in cui gli interlocutori si stanno trovando.

La posta in gioco, insomma, non si riduce solo all’espressione di un set di idee più o meno ragionevoli sulla formazione, ma riguarda il riconoscimento o il disconoscimento della bontà di una relazione che si sta sviluppando in uno specifico e reale momento, così come riguarda il riconoscimento o meno della persona che si ha di fronte nel ruolo di esperto e competente adeguato allo scopo. C’è dentro, tra l’altro, anche l’affermazione di una visione del mondo (preminenza della coerenza personale sulla competenza) unita a un richiamo morale all’unione dei simili (i partecipanti sottoposti alle difficoltà di gestire la propria immagine pubblica) contro un diverso, il teorico-formatore, che può avere il privilegio di discettare su questo tema senza avere le mani in pasta.

È un conflitto di valori che avrà un effetto sul senso della relazione formatore-partecipante nel contesto in cui si trovano, e quindi sulla possibilità di sintonizzarsi o meno per capirsi e far andare la formazione a buon fine. È il “resto della storia” che l’ottica della VAT è in grado di riconoscere.

I modelli del duello e del duetto

Adelino Cattani nella sua riflessione sul dibattito parla di due modelli contrapposti di discussione con le efficaci immagini del duello e del duetto (Cattani 2019, p.19).

Nel primo avviene una gara in cui si decreta un vincitore e uno sconfitto, nel secondo la qualità del confronto è valutata in base alla capacità dei due interlocutori di stare nella differenza di opinioni in un certo modo.

A questa immagine si può aggiungere la riflessione di Stefano Bartezzaghi (2017) che fa notare come una competizione in cui una delle parti vinca senza alcuna resistenza dell’altra è molto meno soddisfacente di quella in cui i due sfidanti dimostrano di dare il meglio di sé. Questo fa capire che in ogni sfida la posta in gioco non è mai il semplice vincere, ma anche il giocare stesso come dimensione in cui emergono le capacità dei due contendenti di fronte a chi li osserva sfidarsi.

Nella risposta “virtuosa” il formatore ha l’occasione di generare questo tipo di soddisfazione perché è come un tennista che non si arrende di fronte alla palla lanciata dall’avversario in un angolo difficile del campo, ma si getta a recuperarla là dove è arrivata; lo scambio sarà spettacolare e chi assiste apprezzerà le mosse anche al di là di chi avrà alla fine segnato il punto (per rimanere nella metafora del gioco di Bartezzaghi).

La soddisfazione legata a un certo modo di argomentare è stata distinta da Cohen (2008) in due possibili significati. Si può essere soddisfatti da una discussione (satisfied by an argument) oppure soddisfatti nella discussione (satisfyied in the argument).

Il primo tipo di soddisfazione è più emotivo e allude a un certo tipo di effetto che si prova a causa dello scambio: ad esempio ciò che abbiamo tratteggiato come piacere nel sentirsi migliore dell’altro o nel vedere il proprio beniamino primeggiare con i suoi argomenti rispetto all’interlocutore con cui non si è d’accordo.

Diverso è invece è essere soddisfatti nella discussione, che scaturisce, come spiega Cohen, dal sentire di aver avuto la possibilità di esprimersi pienamente, di aver ricevuto il giusto ascolto, di aver visto raccolte e riconosciute le obiezioni e le critiche. Questo secondo tipo di risultato è ciò che caratterizza un buon confronto in senso virtuoso: non indica solo l’aver soddisfatto i requisiti logici, retorici e dialettici, ma indica che è stato di piena soddisfazione per le persone che vi hanno partecipato.

Nel nostro esempio, se il formatore si fosse limitato a rintuzzare il partecipante rispondendogli a tono, magari con un altro ad hominem (Schopenhauer, “Stratagemma 21”), non avrebbe davvero risposto all’emergere di un pensiero dissidente rispetto alla sua autorevolezza nel parlare di reputazione digitale. Avrebbe creato uno spettacolo negativo adatto a richiamare il consenso di coloro già in accordo con lui, ma non avrebbe dato spazio alle resistenze silenziose presenti nel pubblico a cui si stava rivolgendo. Perdendo un’occasione di migliore comprensione del tema per tutti.

La virtù include la competenza: l’importanza dell’educazione al dibattito

La buona argomentazione nella prospettiva che stiamo tracciando non è solo quella più logica o più cortese, ma soprattutto quella che è portata avanti da un argomentatore virtuoso (Cohen 2008). È una prospettiva educativa che va oltre la maturazione di semplici competenze (skill) dell’argomentazione per rivolgersi al piano più ampio delle virtù.

Aberdein fa notare che la differenza tra competenza e virtù si apprezza appieno quando si pensa ai discorsi manipolatori e alle argomentazioni fallaci che convincono commettendo un errore di ragionamento nel discorso. Una fallacia, infatti, può essere affermata in una discussione sia in modo competente (skillfull) che in modo incompetente (not skillful). Nel primo caso, siamo di fronte alla manipolazione consapevole, messa in campo ad arte da un interlocutore per ingannare gli altri; nel secondo siamo di fronte a un semplice errore di ragionamento o a un fraintendimento dovuto a una mancanza di abilità nell’argomentare.

Questa prospettiva rivela in modo particolarmente efficace come ci possa essere un argomentatore competente (skillfull) – cioè molto capace nell’usare le sue capacità dialettiche e retoriche – ma allo stesso tempo vizioso (è il caso del manipolatore). Tanto che Aberdein osserva (2010, p. 21): mentre gli argomenti viziosi possono essere skillfull (le manipolazioni) o not skillfull (gli errori di ragionamento), è molto difficile che si possa avere il contrario, cioè un argomentatore virtuoso che non sia competente. La virtù, infatti, per essere tale richiede in sé le competenze adeguate per condurre in modo eccellente l’azione. Gli argomentatori semplicemente competenti, insomma, possono essere piuttosto viziosi, come dice Cohen (2013b, p. 16).

A noi sembra quindi di poter trarre una conclusione: un’educazione al dibattito che si muova nella prospettiva delle virtù comprenderà in sé stessa e porterà al massimo grado lo sviluppo delle competenze di argomentazione, mentre una formazione basata solo sulle competenze argomentative non garantirà che da esse possano venire discussioni che davvero cerchino il bene dei partecipanti.

Come dice Adelino Cattani (2018, p. 28-29) non si tratta di formare dei nuovi sofisti capaci di sostenere qualsiasi posizione, ma persone abili nel discutere che abbiano la capacità di valutare in ogni specifica situazione il bene o il male che una disputa può procurare a sé stessi e agli altri.

Un modello semplicemente competitivo di dibattito, che abbia come principale valore la vittoria, secondo l’immagine della battaglia e del duello, potrebbe rivelarsi diseducativo: in esso, infatti, la ricerca di pura competizione basata sulle competenze dell’argomentazione porterebbe spesso a scadere nella manipolazione per ottenere la vittoria.

Allo stesso tempo, occorre ammettere che la cooperazione da sola non può bastare. Trovare punti di collaborazione in una discussione, evitando rotture, non è sufficiente come criterio per ciò che abbiamo detto della “posta in gioco”: è necessario che ci sia lo scambio, che si celebri la disputa e che si stia nel dissenso per arrivare a una discussione pienamente soddisfacente. Tra l’altro, la pura prospettiva cooperativa non riesce ad aiutare in molte situazioni reali in cui l’altro non ha intenzione di cooperare.

Ad esempio, nel caso della “foto incriminata” del formatore che abbiamo visto, un’ottica puramente cooperativa in cui la risposta non sapesse entrare in competizione con la sfida sollevata, sarebbe stata di nuovo viziosa e non virtuosa, perché non avrebbe affrontato la crisi di autorevolezza generata.

Per la riflessione fin qui svolta ci sembra, insomma, di poter dire che competizione e cooperazione senz’altro non possono essere poste in alternativa, ma non possono nemmeno essere giustapposte in una sorta di equilibrio paritario. Ci vuole un modello più articolato.

È importante che la competizione emerga sul piano del merito degli argomenti e dei loro requisiti logico-inferenziali: alle competenze di un manipolatore devono corrispondere le competenze di un interlocutore nel non lasciarsi manipolare da ragionamenti fallaci. Questo livello però dovrebbe essere costantemente corretto e completato dall’ottica della virtù capace di incidere sul comportamento da tenere in una disputa (l’effetto trasparenza) e sullo spettacolo costruttivo o meno che ne deriverà per chi assiste. In altre parole, se le competenze spingeranno a mettere tutti gli sforzi per andare fino in fondo con la massima abilità argomentativa nel mettere alla prova le proprie idee e quelle dell’altro, le virtù faranno sì che in quella competizione si mantenga il focus sul bene delle persone reali coinvolte.

Saranno le virtù, infatti, a dare la motivazione per mantenere al centro l’argomento pur nella differenza di vedute, a coltivare il distacco da sé pur di fronte ad attacchi scomposti, a essere disposti a muoversi in condizioni di discussione avverse e imperfette, e così via. Tutti elementi che sfuggirebbero o non sarebbero sufficientemente tenuti in conto dalla semplice ottica competitiva.

Conclusioni

Il vero punto però è sempre lo stesso: perché prendersi la briga di tutto questo sforzo virtuoso? Qui si torna al punto che abbiamo messo a fuoco in partenza: la felicità che l’agire virtuoso promette.

Nell’ottica delle virtù, a dare soddisfazione agli esseri umani è il compiere azioni in modo eccellente e consapevole, cioè trovando il fine nel compiere al meglio quelle azioni stesse (Aristotele, I, 7, 1097a-b), in questo caso il buon discutere.

Insomma, la questione non si riduce solo ad avere buoni argomenti (il piano del merito della questione), non dipende esclusivamente dal ben discutere (il piano dell’argomentare in modo competente), ma ha il suo culmine nell’ottenere il bene nella discussione (il piano delle virtù dell’argomentazione e della felicità che ne consegue). Quest’ultima dimensione è l’unica che può entrare in concorrenza con i piaceri distraenti prodotti dagli scontri che non portano lontano.

Farsi ispirare dalla prospettiva delle virtù nell’educazione alla disputa vuol dire in fin dei conti mettere la ricerca della felicità in competizione con le effimere promesse dei litigi.


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Note

  1. Una versione in inglese e più approfondita di questo saggio in Bruno Mastroianni, “From the Virtues of Argumentation to the Happiness of Dispute”, in Adelino Cattani e Bruno Mastroianni (a cura di), “Competing, cooperating, deciding: for a deliberative debate model”, FUP, Firenze, 2022. 
  2. Una delle critiche alla Teoria delle Virtù dell’Argomentazione è stata mossa proprio al suo essere sbilanciata sul disputante rispetto all’argomentazione che porta. Bowell and Kingsbury (2013) fanno notare che gli aspetti di validità degli argomenti sono ineliminabili, e quindi la teoria delle virtù, mettendo al centro l’argomentatore, non sembra essere in grado di porsi come reale alternativa all’approccio più classico centrato sull’argomentazione. Su una linea simile Godden (2016) ha sollevato un problema di priorità, sostenendo che un’ottica centrata sui comportamenti dell’argomentatore ha bisogno di fondamento in una certa concezione di razionalità per riconoscere in cosa consiste un buon argomento, che è poi l’obiettivo del comportamento virtuoso. Il valore dell’azione dell’argomentatore virtuoso sarebbe insomma secondario e subordinato alla qualità razionale dell’argomento. A questi rilievi ha risposto in modo piuttosto efficace Fabio Paglieri (2015) mostrando come l’aspetto davvero proficuo della VAT è proprio quello di non avere la validità e la cogenza degli argomenti al centro, cioè di non avere bisogno di tale fondamento per il suo oggetto di studio (2015, p. 69-71). Una prospettiva ripresa da Gascon (2015) nell’osservare che proprio ciò che va oltre la mera validità e consistenza è essenziale per valutare l’argomentazione in modo davvero completo. 



IN CINA E ASIA – LA CINA COMPLETERÀ GOVERNANCE DIGITALE ENTRO IL 2035

IN CINA E ASIA – LA CINA COMPLETERÀ GOVERNANCE DIGITALE ENTRO IL 2035

“Linee guida per rafforzare la costruzione del governo digitale”: è il documento programmatico pubblicato giovedì scorso dal Consiglio di Stato cinese per costruire un sistema di governo completamente informatizzato. Obiettivo: aiutare il governo a elaborare politiche di governance accurate ed efficienti entro il 2035. Sebbene il documento non fornisca dettagli, Pechino sembrerebbe voler utilizzare la tecnologia per ottenere migliori risultati nella governance. Un obiettivo chiave sarà l’analisi dei “big data” per migliorare la gestione macroeconomica dell’economia nazionale. Sebbene esistano dibattiti sulla misura in cui i governi possono prevedere le attività e le tendenze economiche sulla base dei dati, il governo cinese è stato da sempre ben disposto ad applicare i big data al suo modello di governance economica.

Un’altra area chiave della governance digitale sarà poi la sicurezza e il controllo sociale: la Cina renderà il suo sistema “più intelligente” e rafforzerà la sua piattaforma di big data di pubblica sicurezza per “prevedere” e “prevenire” i rischi sociali. La Cina mira anche a potenziare ulteriormente il programma “Sharp Eyes“, o Xueliang Project, un enorme sistema di sorveglianza guidato dallo stato. Infine, sarà rafforzato l’uso da parte del governo cinese delle tecnologie digitali in aree come la sorveglianza e il credito sociale sarà rafforzato, già motivo di critiche in patria e all’estero per la violazione della privacy dei cittadini cinesi da parte del governo.

Su questo secondo aspetto fa luce un’inchiesta pubblicata ieri dal New York Times. Il quotidiano della Grande Mela riporta i dettagli di queste tecnologie di sicurezza emergenti, che sono descritte principalmente come software di polizia, dotati di intelligenza artificiale, in grado di sfruttare le riserve di dati a livello nazionale per consentire alla polizia di operare con opacità e impunità. Tra le tecnologie più utilizzate dalle autorità cinesi vi sono quelle basate sulla geolocalizzazione ed il riconoscimento facciale: Megvii, una startup di intelligenza artificiale, ha dichiarato ai media statali cinesi che il suo sistema di sorveglianza potrebbe fornire alla polizia un motore di ricerca per il crimine, analizzando enormi quantità di filmati per intuire modelli comportamentali e avvertire le autorità di comportamenti sospetti. Ad esempio, se le telecamere rilevassero una persona che trascorre troppo tempo in una stazione ferroviaria, il sistema la segnalerebbe alle autorità come possibile borseggiatore. Tecnologie simili sono già in uso: nel 2022, la polizia di Tianjin ha acquistato da Hikvision un sistema per prevedere le proteste basandosi sulla localizzazione dei petizionisti cinesi, un termine generico che descrive le persone che tentano di sporgere denuncia contro i funzionari locali alle autorità centrali.

CINA: CAMPAGNA DI 100 GIORNI PER MIGLIORARE LA SICUREZZA PUBBLICA

La Cina ha lanciato una campagna di 100 giorni che, secondo il ministero della Pubblica Sicurezza, dovrebbe migliorare la sicurezza pubblica. L’annuncio arriva due settimane dopo il brutale attacco contro un gruppo di donne per le strade della città di Tangshan, nel nord della Cina, che ha suscitato proteste a livello nazionale. Le autorità “massimizzeranno la presenza delle forze di polizia a livello di municipale e di comunità” per rafforzare la protezione di donne, bambini e anziani, ha annunciato sabato il dicastero, nella speranza di placare la microcriminalità in vista del 20° Congresso del Partito Comunista. Il ministero ha affermato in un avviso che collegherà la polizia e le pattuglie della polizia armata attraverso un meccanismo di risposta rapida che permetterà di intervenire in cinque minuti. I poteri civili saranno inoltre mobilitati per prendere di mira i crimini di strada tipici del periodo estivo, mentre verranno intensificati anche i pattugliamenti notturni e i controlli su armi ed esplosivi.

La campagna sarà guidata dal nuovo ministro della Sicurezza Pubblica, Wang Xiaohong. Stella nascente della politica cinese, Wang promuoverà la visione della sicurezza nazionale di Xi Jinping, dando nuova forza alla lotta alla corruzione tra le forze dell’ordine. Wang è il primo ufficiale di polizia professionista a guidare il ministero in 24 anni e, a differenza dei suoi quattro predecessori, non è mai stato un alto funzionario provinciale. Vicinissimo al presidente cinese, Wang era a capo di un sottodistretto dell’ufficio di polizia a Fuzhou, la capitale della provincia del Fujian, quando Xi era segretario del partito locale. Dopo un avanzamento di carriera, Wang è diventato vice capo della pubblica sicurezza del Fujian, proprio mentre Xi era governatore della provincia, tanto che fonti del SCMP sostengono sia stato anche responsabile della sicurezza personale del leader. Nel 2015, Wang è diventato il capo della polizia di Pechino, per poi essere rapidamente promosso vice ministro della pubblica sicurezza.

La nomina di Wang, ufficializzata venerdì, era ampiamente prevista dopo che a novembre era già stato nominato capo del partito del Ministero della Pubblica Sicurezza. Come i precedenti capi della pubblica sicurezza, anche Wang dovrebbe diventare consigliere di stato dopo le “due sessioni”, o lianghui, gli incontri politici di marzo.

PECHINO RIVEDE LA LEGGE ANTITRUST

I legislatori cinesi hanno approvato modifiche alla legge antitrust del paese, entrata in vigore nel 2008. Sebbene il testo integrale della legge non sia ancora stato reso pubblico, stando all’ultima bozza datata ottobre 2021, le modifiche rimetteranno i giganti della tecnologia cinese sotto lo scrutinio della leadership cinese, che si era inizialmente dimostrata disposta ad allentare la pressione sulle aziende tech. Gli emendamenti proposti aumenteranno significativamente le sanzioni per le società che non segnaleranno fusioni e acquisizioni alle autorità di regolamentazione. Nei casi in cui la mancata divulgazione danneggi l’ambiente competitivo, la multa più alta sarà equivalente al 10% delle entrate dell’anno precedente, superando così la barriera dei 500 000 yuan prevista dalla legge del 2008. Anche se si ritiene che la mancata segnalazione non danneggi la concorrenza, il tetto della sanzione viene comunque aumentato di dieci volte a 5 milioni di yuan. Già l’anno scorso Alibaba, insieme a Tencent Holdings, Baidu e Didi, era stata multata per non aver riportato le sue acquisizioni, ed ora le autorità applicheranno un controllo più approfondito su tutte le operazioni di M&A che coinvolgono i settori del benessere pubblico, la finanza, la scienza e la tecnologia ed i media.

Mentre imbriglia le big tech, Pechino cerca di sostenere le piccole e medie imprese nell’ambito dell’iniziativa di “prosperità comune”, baluardo delle politiche socioeconomiche del presidente Xi Jinping. Le imprese la cui quota di mercato scenderà al di sotto di una certa soglia saranno infatti esentate dalla normativa antitrust e potranno fissare prezzi di rivendita se tale pratica non pregiudica la concorrenza. Le multe per aver violato la legge antimonopolio sono salite ad un record di 23,5 miliardi di yuan nel 2021, rispetto ai soli 400 milioni di yuan nel 2020. I nuovi emendamenti, adottati dal Comitato permanente del Congresso nazionale del popolo, entreranno in vigore il 1° agosto, secondo quanto riporta l’agenzia di stampa Xinhua.

WASHINGTON E ALLEATI LANCIANO UN’INIZIATIVA PER AIUTARE LE ISOLE DEL PACIFICO

“Partners in Blue Pacific”: così si chiama il programma lanciato da Washington ed i suoi alleati nel Pacifico per aiutare le piccole nazioni insulari della regione. Lo schema di cooperazione mira a fornire supporto contro i problemi legati ai cambiamenti climatici ed alla pesca illegale, ma rappresenta anche l’iniziativa chiave di Giappone, Australia, USA, Regno Unito e Nuova Zelanda per contrastare le iniziative cinesi nel Pacifico.

Intervistato dal Financial Times, un alto funzionario americano ha dichiarato che il patto di collaborazione include una serie di misure mirate al rafforzamento delle presenze diplomatiche alleate nella regione, nonché un accordo per inviare giovani leader della regione a corsi di formazione diplomatica e manageriale negli Stati Uniti. Per quanto riguarda l’aspetto della sicurezza, i funzionari americani dichiarano che il coinvolgimento navale americano nella regione pacifica aumenterà e non si esclude una cooperazione strategica e di difesa “un po’ più permanente”. In un contesto in cui la presenza americana è in declino mentre l’assertività cinese aumenta, il programma “Partners in Blue Pacific” si configura dunque come lo strumento chiave per permettere a Washington ed i suoi partner nel Pacifico di aumentare la propria presenza regionale in campi che spaziano dalla diplomazia e la sicurezza fino al cambiamento climatico e alla salute.

Il programma è stato accolto positivamente dalle Samoa, ed anche altri paesi, tra cui Corea del Sud, Canada e Germania, hanno espresso interesse per l’iniziativa. La Francia si è unita ai colloqui di Washington, ma per ora ha deciso di sospendere la partecipazione al programma in attesa di approfondire i legami con la regione prima di impegnarsi. Non sono invece mancate le reazioni a caldo della Cina: Liu Pengyu, portavoce dell’ambasciata cinese negli Stati Uniti, ha affermato che le nazioni insulari del Pacifico meridionale “non sono il cortile di casa di nessun paese, tanto meno un’arena per giochi geopolitici”. Pechino ritiene infatti di adottare nella regione una politica di apertura e inclusività, senza cercare alcuna sfera di influenza. Tuttavia, il patto di sicurezza firmato con le isole Salomone ha suscitato preoccupazione sul fatto che la Cina possa costruire una base navale in un’area più vicina a Canberra e alle Hawaii, dando all’esercito cinese stanziato nel Pacifico una capacità militare e strategica molto maggiore.




Alcol e consenso: una tiktoker scatena il dibattito

Alcol e consenso: una tiktoker scatena il dibattito

Una ragazza in stato di ebbrezza è in grado di esprimere un consenso valido ad un rapporto sessuale? Il quesito, recentemente lanciato su TikTok dall’influencer Linda Stabilini, ha acceso un acceso dibattito online, dividendo l’opinione pubblica e riaccendendo i riflettori su un tema tanto complesso quanto delicato.

Da una parte, la tiktoker sostiene l’autonomia di scelta anche sotto l’influenza di sostanze alcoliche. Secondo la sua opinione, una donna, seppur inebriata, manterrebbe la facoltà di decidere autonomamente in merito alla propria sessualità. L’idea di base è che l’alcol, pur alterando il giudizio e le inibizioni, non elimini del tutto la capacità di discernimento.

Dall’altra parte, numerose voci si levano contro questa posizione, evidenziando i rischi e le criticità che ne derivano. L’alcol, infatti, agisce sul sistema nervoso centrale, abbassando la guardia e rendendo più vulnerabili a pressioni esterne e manipolazioni. In uno stato di alterazione, il consenso prestato potrebbe non essere realmente libero e consapevole, esponendo la persona a potenziali abusi e violenze.

La questione è complessa e sfaccettata, non riducibile a un semplice “sì” o “no”. Diversi fattori entrano in gioco, come il grado di intossicazione, le circostanze in cui si verifica l’incontro e le dinamiche relazionali tra le persone coinvolte.

È fondamentale ricordare che il consenso deve essere sempre esplicito, entusiasta e privo di coercizioni. In caso di dubbi, la prudenza dovrebbe sempre indurre a desistere da qualsiasi contatto intimo.

Il dibattito acceso da Linda Stabilini, seppur con toni accesi, ha il merito di riportare l’attenzione su un tema cruciale. È necessario promuovere una cultura del consenso basata sul rispetto reciproco, sulla consapevolezza dei propri limiti e sulla responsabilità individuale. Solo attraverso un’educazione adeguata e un dialogo aperto sarà possibile prevenire abusi e violenze, tutelando la libertà di scelta di ogni persona.

Oltre alle posizioni sopracitate, è importante sottolineare alcuni aspetti cruciali del dibattito:

  • la legge: in molti paesi, incluso l’Italia, la sussistenza di un reato sessuale dipende dalla dimostrazione della mancanza di consenso. L’alcol, seppur non escludendo automaticamente la capacità di discernimento, può essere considerato un elemento rilevante ai fini della valutazione del consenso stesso.
  • il rispetto: indipendentemente dal proprio punto di vista, è fondamentale mantenere un atteggiamento rispettoso verso tutte le opinioni e le esperienze personali. Le vittime di abusi sessuali non devono mai essere colpevolizzate o invalidate.
  • il supporto: esistono numerose risorse e servizi di supporto per le vittime di violenza sessuale. In caso di bisogno, è importante non esitare a chiedere aiuto.

In conclusione, la questione del consenso in stato di ebbrezza è complessa e non ha risposte facili. È necessario un approccio multidisciplinare che coinvolga esperti di diritto, medicina, psicologia e sociologia per approfondire il tema e individuare soluzioni efficaci per prevenire abusi e violenze. Il dibattito innescato dalla tiktoker, seppur con toni accesi, rappresenta un’occasione per sensibilizzare l’opinione pubblica e promuovere una cultura del rispetto e della responsabilità.




Bilancio di sostenibilità, lo strumento più efficace per comunicare l’impegno sociale e ambientale dell’impresa

Bilancio di sostenibilità, lo strumento più efficace per comunicare l'impegno sociale e ambientale dell'impresa

Non ha nulla a che fare con la contabilità e le scritture. Non è obbligatorio ma piace sempre più alle imprese e agli enti. Si tratta del bilancio di sostenibilità ovvero la prassi di comunicare periodicamente (ogni anno), in modo totalmente spontaneo, i riflessi dell’attività dell’azienda sull’ecosistema socio-ambientale in cui è inserita. L’obiettivo è promuovere una visione più completa dell’operato dell’organizzazione, che tenga conto non solo dei risvolti economico-finanziari ma anche dell’impatto sulla società e il territorio in cui è immersa.

In un’economia che è sempre più globale e interconnessa, consumatori e investitori sono alla ricerca di maggior trasparenza, in particolare per quel che riguarda tematiche che toccano da vicino la sensibilità personale dei cosiddetti stakeholder, i portatori di interesse verso l’azienda, che si tratti di soci, dipendenti clienti o investitori. I dati dell’ultimo Osservatorio nazionale sullo stile di vita sostenibile di LifeGate evidenziano come ben 36 milioni di italiani, ovvero il 72% della popolazione maggiorenne del nostro Paese (era il 67% lo scorso anno), ritengono la sostenibilità un tema sentito o molto sentito. Il 26% dei consumatori, inoltre, si dice disponibile a pagare un sovrapprezzo per l’acquisto di un prodotto o di un servizio con caratteristiche di maggior sostenibilità. A parità di rendimento, poi, anche l’89% dei finanziatori è più incline a privilegiare un investimento sostenibile rispetto a uno che non offre queste garanzie.

Cos’è il bilancio di sostenibilità o report di sostenibilità

“L’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”. È questa la definizione che l’Unione Europea dà del bilancio di sostenibilità nel 2001, citandolo all’interno del Libro Verde della Commissione UE. Cinque anni dopo, il Ministero dell’Interno italiano ha messo nero su bianco una definizione nazionale di questo documento aziendale. “Il Bilancio Sociale è l’esito di un processo in cui l’amministrazione rende conto delle scelte, attività, risultati e dell’impiego di risorse in un dato periodo, in modo da consentire ai cittadini e ai diversi interlocutori di conoscere e formulare un proprio giudizio su come l’amministrazione interpreta e realizza la sua missione istituzionale e il suo mandato”. In parole semplici, è il documento di carattere informativo con cui l’azienda comunica il proprio impegno (in gergo si chiama accountability o assunzione di responsabilità), gli obiettivi che intende raggiungere e i traguardi già ottenuti in tre aree chiave della relazione con il suo ecosistema di riferimento:

  • Ambiente ecologico: come utilizza le risorse naturali e qual è il suo impatto ambientale
  • Ambiente economico: come genera e ridistribuisce ricchezza, aiuta a far progredire il Paese e ridurre la disoccupazione
  • Ambiente sociale: come tutela i diritti dei lavoratori, si impegna a ridurre i divari di genere e favorire la crescita del territorio in cui opera

Caratteristiche del bilancio di sostenibilità

Oggi consumatori e investitori sono sempre più attenti agli aspetti della riduzione dell’impatto ambientale delle attività e attribuiscono a questo valore un peso crescente nelle proprie decisioni di consumo e finanziarie. Il bilancio di sostenibilità rappresenta, quindi, un incentivo allettante per le aziende che non sono obbligate per legge a redigere la dichiarazione non finanziaria ma che vogliono comunque pubblicizzare l’impegno dimostrato nel ridurre l’impatto ambientale e socio-economico della propria attività. Scegliere di rendicontare la sostenibilità significa promuovere un modo di operare più trasparente e responsabile per l’azienda, che assicura vantaggi evidenti.

  • Migliorare la Brand Reputation dimostrando un impegno concreto sulle tematiche ESG (Environmental, Social e Governance), superando i limiti del Greenwashing.
  • Costruire un modello di business più solido e improntato alla resilienza operando un Risk Management più efficace che tiene conto degli effetti delle dinamiche socio-ambientali sulla Supply Chain e, più in generale, su tutta l’attività.
  • Impegnare l’azienda nella rilevazione periodica dei dati relativi all’andamento della gestione aziendale, con la conseguenza di attuare un monitoraggio più granulare e un miglioramento continuo delle performance aziendali.
  • Identificare e ridurre inefficienze e sprechi, a vantaggio dei risultati economico-finanziari.
  • Aiutare a identificare minacce e opportunità di business attraverso una più attenta valutazione dell’ecosistema socio-ambientale di riferimento.
  • Accedere un più ampio ventaglio di finanziamenti, per esempio quelli che rientrano nell’ambito dell’Impact Investing.
  • Ridurre gli oneri finanziari potendo contare su iniezioni di risorse pubbliche (stanziamenti PNRR) e operando una gestione dei rischi più completa.
  • Ampliare la platea dei clienti affacciandosi a nuovi mercati o nicchie di consumatori più attenti all’impatto ambientale e sociale dei propri comportamenti.
  • Realizzare un elemento di differenziazione solido e duraturo rispetto alla concorrenza. L’attenzione ai temi della sostenibilità è, infatti, un denominatore comune alla maggior parte delle aziende di successo in questo periodo storico.
  • Motivare, attrarre e fidelizzare i migliori talenti. I giovani lavoratori dimostrano una sensibilità sempre più alta rispetto alla dimensione etica dell’operato delle organizzazioni presso cui operano.

Quando è obbligatorio il report di sostenibilità

Il bilancio socio ambientale non è una prassi vincolante per le organizzazioni. L’obbligo di rendicontare iniziative e obiettivi legati alla responsabilità sociale d’impresa (CSR, Corporate Social Responsibility) riguarda infatti come già sottolineato la sola dichiarazione non finanziaria. La materia è disciplinata dalla Direttiva UE 95/2014 (Direttiva sull’informativa non finanziaria NFRD), recepita a fine 2016 dal Consiglio europeo e dal Parlamento Europeo, che ha reso la DNF un documento obbligatorio per alcune categorie di imprese ed enti. La stesura di questo documento riguarda al momento le sole aziende di grandi dimensioni, con un attivo di stato patrimoniale superiore ai 20 milioni di euro oppure con ricavi netti superiori ai 40 milioni di euro; i gruppi che impiegano oltre 500 dipendenti su base consolidata e gli enti di interesse pubblico, come le case madri di grandi gruppi industriali. Le informazioni da includere nel documento sono quelle relative ad ambiente, rispetto dei diritti umani e parità di genere, anticorruzione e contrasto alla concussione. Tutte le altre organizzazioni potranno comunque decidere di stilare su base volontaria un report di sostenibilità o bilancio di sostenibilità. La situazione sembra però destinata a cambiare presto. Il 21 aprile 2021, infatti, la Commissione europea ha approvato una proposta di rettifica della Direttiva sulla Rendicontazione della Sostenibilità Aziendale (CSRD), che modifica gli attuali obblighi di rendicontazione contenuti nella NFRD. La proposta estende il campo di applicazione dell’obbligatorietà di stilare la dichiarazione non finanziaria a tutte le grandi aziende e alle società quotate in Borsa a prescindere dalla loro dimensione (con l’eccezione delle sole microimprese). Inoltre, istituisce l’obbligo di verifica (assurance) delle informazioni documentate nel rapporto di sostenibilità e richiede di etichettare digitalmente (taggare) i dati indicati, in modo che possano confluire in un macro database gestito a livello europeo. Infine, introduce una maggior granularità nei requisiti di rendicontazione, prevedendo quindi l’indicazione di informazioni più dettagliate, oltre all’obbligo di uniformarsi a standard validi nella zona della UE.

La differenza tra bilancio di sostenibilità e bilancio sociale

Quando si parla di reportistica relativa alle informazioni di carattere non finanziario, non ci si deve confondere. Diversi sono, infatti, i documenti che è possibile produrre, ciascuno con contenuti e scopi differenti. Vediamo i principali:

  1. Bilancio ambientale (rendiconto di sostenibilità ambientale): questo report informativo redatto su base volontaria si concentra sulle strategie adottate nell’ambito della gestione aziendale per ottenere risultati tangibili in tema di tutela ambientale ed efficienza ecologica, così da ridurre riducendo la cosiddetta carbon footprint.
  2. Bilancio sociale (rendiconto della responsabilità sociale): documento aggiuntivo al tradizionale bilancio d’esercizio, che rappresenta un trait d’union tra la rendicontazione economico-contabile e quella sociale. Il report offre una valutazione a 360° degli effetti che l’attività dell’azienda produce sulla società in cui opera ed è stilato su base esclusivamente volontaria, fatta eccezione per le imprese sociali e per quelle che operano nel terzo settore
  3. Bilancio integrato (report integrato): comunicazione sintetica che illustra le come l’organizzazione intende creare valore per il contesto in cui opera distinguendo obiettivi e azioni di breve, medio e lungo periodo. ll documento si ottiene allineando processi di reportistica esterni e interni all’azienda e copre le stesse aree del bilancio di sostenibilità esponendole, però, in una logica di capitale (umano, economico-finanziario…).
  4. Dichiarazione non finanziaria (dichiarazione consolidata non finanziaria): documento che trova origine nelle disposizioni della direttiva UE 95/2014. Utile per rendicontare le informazioni inerenti l’impatto ambientale e socio-economico dell’attività aziendale, in modo che siano facilmente accessibili e confrontabili da parte di investitori e clienti.
  5. Bilancio di sostenibilità (report di sostenibilità o rapporto di sostenibilità): prospetto che nasce come evoluzione del bilancio sociale e fa parte della categoria di reportistica di carattere non finanziario redatta su base volontaria. Questo strumento permette di rendicontare gli impegni presi sul fronte delle prestazioni economiche, sociali e ambientali, documentando i progressi fatti e i risultati ottenuti. Lo stesso documento illustra anche il sistema di governance a cui va soggetta l’organizzazione.

Come si redige un bilancio di sostenibilità

Ma come si redige in concreto un report di sostenibilità? Non esiste allo stato attuale un riferimento normativo unico, a livello europeo, che indichi la documentazione da produrre, uno schema di organizzazione dei contenuti o una procedura specifica per la sua stesura. Uno schema valido può essere questo.

  • Spiegare i valori fondanti dell’azienda, i principi che ispirano l’operato dei suoi manager, la sua mission.
  • Inquadrare le aspettative degli stakeholder (in primis soci, finanziatori e clienti).
  • Identificare strumenti e dati idonei a supportare il top management nella definizione delle strategie sociali e ambientali.
  • Indicare le prestazioni ottenute sotto il profilo socio-ambientale.
  • Quantificare il contributo sociale e ambientale netto dell’azienda nei confronti dei diversi portatori di interesse.
  • Verificare la coerenza tra obiettivi fissati e risultati ottenuti e valutare i gap.
  • Indicare gli obiettivi di miglioramento nel lasso temporale identificato.

Le aziende possono anche riferirsi ad alcuni framework internazionali e il più diffuso è il GRI (Global Reporting Initiative). L’ente ha pubblicato 36 linee guida da seguire nella stesura dei bilanci di sostenibilità, in modo che siano il più possibile omogenei e trasparenti nei contenuti, così da fornire informazioni facilmente confrontabili. Le organizzazioni che decidono di seguire queste indicazioni – in modo assolutamente volontario e non vincolante – hanno la garanzia di pubblicare documenti dettagliati sotto il profilo dei temi trattati e completi nella disamina dei diversi ambiti di intervento (politiche sociali e del lavoro, consumo di energia, impronta idrica, emissioni di gas serra…). Uniformandosi a questi standard, l’azienda dichiara un livello di reporting basandosi sull’autovalutazione delle proprie prestazioni e obiettivi rispetto ai criteri definiti dal GRI. In aggiunta a questa autodichiarazione, poi, l’organizzazione potrà scegliere anche di:

  • Richiedere al GRI di verificare i contenuti dell’autodichiarazione

Oppure (o in aggiunta)

  • Avvalersi di una società di audit per ottenere un giudizio professionale sull’autodichiarazione

Esempi di bilancio sostenibile

Il rapporto di sostenibilità è ormai una prassi consolidata per molti brand globali. Da diversi anni anche alcune multinazionali e grandissimi gruppi industriali italiani rendono pubblica questa informativa. Tra le realtà più attive nel rendicontare l’impegno assunto sul fronte della circolarità e dell’inclusione troviamo:

  • Barilla ha investito nella riduzione del contenuto di grassi dei propri prodotti, oltre a donare alimenti alle comunità locali e a promuovere un packaging più sostenibile. L’azienda si è impegnata a ridurre progressivamente l’uso della plastica nelle confezioni dei propri prodotti privilegiando carta e cartone provenienti da foreste gestite responsabilmente. Dal 2010 a oggi, poi, il gruppo di Parma ha ridotto le emissioni di CO2 del 31% e ottenuto la neutralizzazione totale (100% delle emissioni di CO2 compensate) per i brand Mulino Bianco e Wasa. Nella filiera, sono circa 10mila le aziende agricole coinvolte in progetti di agricoltura sostenibile.
  • Enel ha presentato nel 2019 il Piano di Sostenibilità 2020-2022, che si focalizza sulla lotta al cambiamento climatico attraverso la crescita delle rinnovabili e la progressiva fuoriuscita del carbone dal mix energetico. Il gruppo misura i propri obiettivi di circolarità, equità e inclusione sociale sulla base di quattro dimensioni significative: energia pulita, lotta al cambiamento climatico, innovazione in infrastrutture più sostenibili, città e comunità più sostenibili. Enel si è impegnata a ridurre dell’80% le emissioni dirette di gas serra per kWh entro il 2030 rispetto ai livelli del 2017, mentre entro il 2040 punta alla completa decarbonizzazione, giocando d’anticipo di 10 anni rispetto agli obiettivi della COP 26 (Conferenza delle Parti sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite) e dell’Accordo di Parigi.
  • Esselunga rendiconta i risultati delle iniziative di spesa solidale promosse in collaborazione con la Caritas Italiana e il Banco Alimentare. Sul fronte ambientale, ha introdotto diverse innovazioni utili a migliorare l’efficienza energetica negli stabilimenti di lavorazione, che oggi sono in grado di autoprodurre energia elettrica e termica dal gas naturale attraverso due impianti di trigenerazione. L’impegno sociale si esprime, invece, soprattutto attraverso la volontà dell’azienda di sostenere i produttori e le eccellenze nostrane nell’ambito dell’iniziativa Rinascita Italia, per cui l’84% dei prodotti a marchio proprio è interamente prodotto nel Belpaese.
  • Ferrero: protezione dell’ambiente, valorizzazione delle persone, promozione di un consumo più responsabile e approvvigionamenti più sostenibili sono i quattro macro obiettivi che il colosso internazionale del food si propone di raggiungere nei prossimi anni. La scadenza fissata è quella del 2030, quando l’azienda di Alba (CN) conta di dimezzare le emissioni derivanti dalle proprie attività prendendo come riferimento i dati del 2018. Già oggi tutti gli stabilimenti europei utilizzano energia elettrica 100% rinnovabile e gli imballaggi riciclabili, compostabili o riutilizzabili già nel 2020 (i dati 2021 non sono ancora stati pubblicati) rappresentavano l’82,9% del totale.
  • Lavazza: l’iniziativa che porterà il Gruppo a neutralizzare la propria impronta ecologica entro il 2030 è stata battezzata “Roadmap to Zero”. Il piano si concretizza in tre linee di azione: monitoraggio delle emissioni inquinanti, introduzione progressiva di processi di efficientamento e compensazione delle emissioni non riducibili. Già a fine 2020 il gruppo ha raggiunto il traguardo dell’azzeramento dell’impatto delle emissioni dirette di CO2, quelle generate da punti vendita, stabilimenti, uffici e veicoli aziendali, oltre che quello delle emissioni indirette generate dall’energia acquistata e consumata. Entro il 2030, invece, è previsto il raggiungimento della piena compensazione delle emissioni indirette lungo tutta la Supply Chain.
  • Salvatore Ferragamo: la nota casa di moda punta molto sui temi dell’inclusione. Ha aderito infatti alla campagna globale “The Hiring Chain” e avviato un’iniziativa di inclusione lavorativa che ha portato all’inserimento in organico di risorse con sindrome di Down. Nel 2021, inoltre, alla società è stato assegnato un punteggio pari alla categoria massima (“A”) nella prestigiosa “A List” del CDP (Carbon Disclosure Project) relativamente alle azioni di riduzione delle emissioni CO2.



La tecnica dell’Envisioning nell’Orientamento professionale

La tecnica dell'Envisioning nell'Orientamento professionale

Cos’è l’Envisioning

Il termine Envisioning viene dal verbo inglese “to envision” e ci porta a concepire una situazione che sia possibile realizzare in futuro. Envisioning significa, con accezione più ampia, crearsi una visione chiara e lungimirante di qualcosa che ci riguarda, esprimendola attraverso un’immagine vivida.
La nostra capacità di envisioning può essere davvero un talento da esprimere che ci porta a “vedere oltre” per darci la possibilità di un futuro più vicino alle fonti della nostra auto-realizzazione. È fondamentale nella ricerca e scelta in ambito di studio e professionale, e come tale diventa una leva orientativa molto potente.

Esperienza di Envisioning nell’orientamento professionale

In questo articolo, vorrei riportare la mia esperienza di utilizzo dell’Envisioning nel lavoro di Orientatore. Il percorso di orientamento dedicato allo sviluppo dell’Envisioning è particolarmente indicato per gli utenti che vogliano sviluppare capacità di costruzione e definizione di un’idea professionale riferibile al mondo del lavoro autonomo ed imprenditoriale. 
Nel caso di percorsi per utenti dei CPI (Centri per l’Impiego), laddove sono emerse dal bilancio di competenze o dai colloqui orientativi attitudini imprenditoriali, propongo le seguenti modalità di “allenamento”orientativo, ognuna con un focus particolare.

1. Comprendere il passato

Il passato è il percorso che abbiamo fatto, sono le cose accadute che ricordiamo. Gli eventi sono localizzati nel tempo rispetto ad un dato momento, possono precederlo o seguirlo, subire salti improvvisi ma identificabili in relazione alla nostra linea del tempo. 
Troviamo il senso di quello che è successo attraverso, ad esempio, la narrazione del nostro percorso professionale, partendo dagli studi realizzati ed attraverso le esperienze lavorative, ciascuna con il suo significato.

Possiamo così rivedere il percorso personale/professionale e pensare ad azioni da sviluppare in modo diverso dal passato, orientandoci verso il cambiamento.

2. Guardare l’insieme

Saper guardare alla complessità delle esperienze fatte è l’espressione della nostra capacità di coglier la trama delle cose, avendo una visione allargata, espansa. Peter Senge è uno dei primi ad aver parlato della competenza del pensiero sistemico. Il lavoro con l’Orientatore  può aiutare a interpretare in modo sistemico il percorso realizzato.
Per l’utente è molto utile, ai fini della scelta orientativa, sviluppare la competenza di saper mettere in relazione gli eventi, le situazioni, i luoghi, i comportamenti, in una unica trama interconnessa. 

3. Essere in relazione con gli altri

Nei contesti sociali e di lavoro costruiamo reti di relazioni, sviluppando le nostre abilità comunicative e la capacità di usare strategie di apprendimento e correzione dei nostri comportamenti. 
Empatia e assertività, comunicazione in gruppo, negoziazione, ecc. sono soft skills fondamentali, da allenare con l’Orientatore, per stabilire relazioni attraverso un giusto equilibrio fra razionalità ed intelligenza emotiva

4. Scorgere il flusso in noi

Il concetto di “Flow” (fluire, scorrere), lo dobbiamo al ricercatore americano Mihaly Csikszentmihalyi, all’inizio degli anni ’70 presso la Claremont Graduate University.

Scorgere in noi il flusso, vederci dentro un’esperienza ottimale, vuol dire percepire la felicità/realizzazione, trovandola ogni volta in cui siamo completamente coinvolti nella situazione che davvero ci piace, sia essa un hobby, un lavoro, lo studio di una materia. 
Arrivare quindi a valorizzare la consapevolezza di quei momenti in cui l’utente ha sperimentato quel particolare stato di grazia in cui è immerso nelle attività che lo coinvolgono, arrivando a perdere la cognizione del tempo. 

5. Immaginare il futuro

Non si può costruire il futuro se non siamo ben radicati nel presente, ovvero nel cosa c’è adesso, è quello che stiamo vivendo nella nostra vita quotidiana, quello che siamo capaci di cogliere ora.
Il percorso orientativo porta ad immaginare il futuro come il mondo delle possibilità, l’unica dimensione dove c’è il cambiamento da attuare, dove si sviluppa il percorso e la trasformazione da compiere. 

Per l’utente Envisioning significa trovare la strada da intraprendere, vederne le tappe, immaginare come sarà, cosa proverà, chi avrà accanto, di cosa avrà bisogno per realizzare, ad esempio, un’idea imprenditoriale, tenendo conto dei vari elementi (il modello personale di business).