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Il metaverso non esiste

Il metaverso non esiste

Ogni giorno mi sveglio e so che nella mia casella email ci sarà almeno un comunicato stampa di un’azienda che annuncia il suo “ingresso nel metaverso”. C’è un solo problema: il metaverso non esiste. E allora come fanno le aziende a entrarci? E come fanno – stando a una miriade di articoli pubblicati in ogni angolo del globo – le persone a sposarsi nel metaverso? A speculare nel metaverso? A partecipare a eventi nel metaverso? A lavorare nel metaverso e addirittura a subire molestie nel metaverso?

Il punto è che tutto ciò non avviene nel metaverso, ma su singole piattaforme molto diverse tra loro. La speculazione e gli eventi brandizzati sono per esempio la specialità di Decentraland, il matrimonio di cui ha parlato la stampa è avvenuto tramite la piattaforma di collaborazione da remoto Virbela, mentre le riunioni di lavoro si tengono su piattaforme come Horizon Workrooms di Meta (ancora in fase beta). Le aziende che “entrano” nel metaverso, solitamente, si limitano ad adottare una di queste piattaforme per organizzare eventi o fare riunioni; in altri casi acquistano qualche piattaforma ad hoc che consente loro di fare team building o formazione in realtà virtuale (o cose simili).

Ha senso che in tutti questi casi si parli di metaverso? Per capirlo, dovremmo prima sapere esattamente che cosa il metaverso sia, e già qui la faccenda si complica. Secondo la definizione del venture capitalist Matthew Ball (che in tempi non sospetti ha dedicato un lungo saggio al tema), il metaverso è “un network interoperabile di mondi virtuali creati in 3D”. In parole semplici, il metaverso dovrebbe essere un vasto ambiente digitale in cui è possibile spostarsi senza soluzione di continuità da una piattaforma 3D all’altra, portando con noi i nostri avatar, i nostri beni digitali e il nostro denaro. 

Tutto questo, oggi, non esiste. E, come vedremo meglio più avanti, non è nemmeno chiaro se e quando prenderà davvero forma. Perché un videogioco multiplayer in realtà virtuale come Population One dovrebbe essere definito metaverso? E perché dovrebbe esserlo un ambiente sociale come Horizon Worlds di Meta o dei simil-Second Life (ma con una forte impronta speculativa legata alle criptovalute) come Decentraland o The Sandbox

Realtà virtuale

Metaverso, metaversi o…

In tutti questi casi, e in molti altri ancora, non solo non ha senso menzionare “il metaverso”, ma nemmeno parlare di “metaversi”, al plurale. Si tratta di singole piattaforme, a volte in realtà virtuale e altre no, in alcuni casi dedicate al lavoro, in altri alla speculazione, ai videogiochi, alla socialità. In più, nessuna di queste piattaforme comunica con un’altra: ciascuna di esse richiede di creare uno specifico avatar, che non possiamo trasportare da una piattaforma all’altra, e di acquistare beni che rimangono confinati al suo interno. 

Non è il metaverso (termine coniato dallo scrittore Neal Stephenson nel 1991 per indicare una sorta di “gemello virtuale” del mondo in cui viviamo): sono tante piattaforme che hanno in comune tra loro solo l’enfasi sulla possibilità di socializzare, al loro interno, con altri utenti. È come se avessimo chiamato “gameverso” il mondo dei videogiochi multiplayer o “socialverso” l’intero ecosistema dei social network. 

Ecco, immaginatevi se negli anni in cui le aziende o i politici iniziavano ad avere la loro pagina su Facebook non avessimo parlato del loro “approdo su Facebook”, ma invece annunciato il loro “ingresso nel socialverso”, se le molestie e l’hate speech non si fossero verificati su Twitter ma nel socialverso, se le teorie del complotto non si fossero diffuse su Reddit e YouTube ma nel socialverso. 

schermata da Horizon Worlds

La mossa di Zuckerberg

Ma se non esiste, perché si insiste così tanto a utilizzare il termine metaverso? Da un certo punto di vista, l’intera faccenda è una colossale operazione di marketing. Il principale responsabile è Meta/Facebook, che da quando nel 2014 ha acquistato Oculus, la più importante società produttrice di visori per la realtà virtuale, sta cercando in tutti i modi di aumentare l’interesse per la realtà virtuale. Finora, il successo è stato piuttosto scarso: secondo le stime (Meta non diffonde numeri ufficiali), dal 2014 a oggi tutti i visori Oculus hanno venduto circa 10 milioni di unità. Nello stesso lasso di tempo, sono state vendute quasi 150 milioni di Playstation, 110 milioni di Nintendo Switch e 50 milioni di Xbox One.

Con la trovata del “metaverso”, Mark Zuckerberg non ci ha solo segnalato che per il futuro punta a farci trascorrere sempre più tempo all’interno di ambienti immersivi e virtuali, ma anche quale sia lo stratosferico potere del marketing, in grado di incanalare l’attenzione dei media e della massa su qualcosa che fino al giorno prima suscitava ben poco interesse. Secondo i dati Factiva riportati dal Washington Post, solo in novembre e dicembre 2021 (ovvero subito dopo l’annuncio del rebranding di Facebook in Meta) sono apparsi sul web 12mila articoli in lingua inglese che contenevano il termine metaverso; in qualunque altro anno precedente non si era mai andati oltre i 400 nel corso di 12 mesi. Articoli più letti

Ad approfittare del gran parlare che si fa del metaverso è anche una miriade di società di consulenza e simili, che hanno trovato una gallina dalle uova d’oro che permette di offrire i loro servizi ad aziende che vogliono capire come si fa a “entrare nel metaverso” (che suona molto meglio di “aprire un negozio in Decentraland” o “lavorare in realtà virtuale”, anche se poi proprio di questo si tratta). “Chiunque vi dica che sta facendo qualcosa ‘nel metaverso’ o non ha idea di cosa stia parlando oppure vi sta volontariamente fuorviando”, ha perentoriamente scritto James Whatley, esperto di videogiochi, su The Drum

Se a questo si aggiunge che il “metaverso” viene spesso accostato ad altre complesse innovazioni – come il web3, gli nft o la realtà aumentata, con cui in realtà si sovrappone solo parzialmente – si capisce perché in giro ci sia così tanta confusione. Il complottista che è in me sospetta che tutta questa confusione sia in gran parte indotta: meno le persone hanno le idee chiare, più è facile far loro pensare che davvero esista un grande mondo virtuale – una sorta di replica digitale del nostro mondo fisico – in cui a breve tutti trasferiremo almeno una parte delle nostre esistenze. 

Questa, per ammissione di più o meno tutte le realtà che ci stanno puntando (a partire da Meta ed Epic Games), è invece solo l’utopistica e lontanissima ambizione finale: rendere il metaverso un ambiente unico e interoperabile, in cui tutte le realtà sono collegate tra loro. Una sorta di world wide web immersivo, in 3D e in realtà virtuale, che permette di spostarci tra Fortnite, Horizon Worlds, Decentraland e tutti gli altri con la stessa facilità con cui oggi ci muoviamo nel web con il nostro browser.

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I giardini recintati

Oltre a essere una prospettiva molto distante nel tempo e la cui fattibilità tecnica è ancora tutta da dimostrare (molti puntano sulla blockchain, ma anche qui siamo in un campo pieno di incognite), non è nemmeno chiaro se davvero ci sia la volontà di perseguirla. “Storicamente, lo sviluppo di tecnologie interoperabili come le email e il web è stato alimentato da governi, dall’accademia e dalle no-profit, non da colossi privati come Meta”, scrive ancora il Washington Post. Al contrario: realtà di questo tipo hanno semmai sempre spinto in direzione opposta, trasformando la decentralizzazione del web nei “giardini recintati delle app”, che hanno lo scopo di trattenerci quanto più tempo possibile al loro interno e non certo di aprirci alla possibilità di esplorare liberamente un ambiente aperto.

“Una versione di internet interconnessa e in 3D in cui ci scambiamo magliette sotto forma di nft mentre ci spostiamo senza difficoltà da una piattaforma all’altra è tanto realistica quanto i film di fantascienza che vengono mostrati nelle slide di apertura di ogni singola presentazione che avete visto su questo tema”, scrive ancora Whatley su The Drum. Se anche fosse possibile, bisogna capire se davvero vorremo passare le nostre giornate tappati in casa indossando dei visori che ci isolano completamente da ciò che ci circonda e che ci costringono a svolgere una parte delle operazioni quotidiane in un mondo di poligoni e popolato da avatar. La buona notizia è che, finché esisterà praticamente solo nei reparti marketing delle aziende e delle società di consulenza, non dovremo preoccuparci dei risvolti distopici del metaverso.




A Tunisi inaugurata la mostra sull’eco-design italiano

A Tunisi inaugurata la mostra sull'eco-design italiano

TUNISI, 23 GIU – I principi dell’economia circolare sono il tema della mostra dal titolo ‘3codesign 3Rs Reduce Recycle Reuse’, inaugurata oggi presso la Città delle Scienze a Tunisi dall’ambasciatore d’Italia Lorenzo Fanara.

L’esposizione, aperta al pubblico fino al 15 luglio e realizzata grazie alla collaborazione dell’Istituto Italiano di Cultura di Tunisi, ha l’obiettivo di ripercorrere l’evoluzione dell’ecodesign italiano.

La mostra, che arriva da Washington, dopo Tunisi volerà a Pristina. ‘3codesign 3Rs Reduce Recycle Reuse’ vuole sottolineare i vantaggi della riduzione degli sprechi di materie prime e del riciclaggio dei prodotti consumati, a cominciare dalla plastica, nonché l’impatto di queste pratiche sull’ambiente. Gli obiettivi principali di questa mostra sono far tornare i rifiuti materie prime e promuovere quindi l’economia circolare basata sul riciclaggio.




Il colosso della tecnologia Philips “trattiene il fiato”

La crisi dei respiratori Philips

Rasoi elettrici, tv, frigoriferi, stereo: chi non ha avuto a che fare almeno una volta nella vita in un prodotto del noto marchio di elettronica di consumo Philips? Oggi l’immagine – e le finanze – della notissima multinazionale olandese, leader del mercato tecnologico consumer, rischia di essere messa a rischio per via di una gestione di crisi che pare ignorare alcuni dei principi fondamentali del crisis management e della crisis communication.

L’avviso di sicurezza legato ai dispositivi i-Level PAP, CPAP e ventilatori meccanici

Riavvolgiamo il nastro e analizziamo quanto accaduto.  È il 14 giugno del 2021 quando Philips – dopo aver scoperto un potenziale rischio per la salute legato ad alcuni propri dispositivi CPAP (PAP a due livelli e di ventilazione meccanica) utilizzati per il trattamento dell’apnea notturna e dell’insufficienza respiratoria – pubblica un avviso volontario di sicurezza (avviso di sicurezza 2021-05-A e avviso di sicurezza 2021-06-A) per mitigare i potenziali rischi per la salute legati, appunto, alla schiuma fonoassorbente presente in alcuni dispositivi del segmento Sleep & Respiratory Care.

Questa sostanza, utilizzata per attutire il rumore del motore dell’apparecchio, e che visivamente si presenta appunto come una schiuma compatta e friabile di colore scuro, tenderebbe, nel tempo, a “sbriciolarsi”, disperdendo particelle e micro-particelle nel tubo utilizzato dai pazienti per respirare, i quali – inevitabilmente – inalerebbero i frammenti di schiuma, con rischi potenziali, pare anche gravi, per la propria salute.

Nell’avviso di sicurezza l’azienda affermava:

la sicurezza dei pazienti è la nostra priorità e ci impegniamo a fornire il massimo supporto a pazienti, fornitori di apparecchiature medicali durevoli (DME), distributori, partner per l’assistenza domiciliare e medici per l’intero processo di correzione. Durante l’implementazione dell’azione correttiva per questo richiamo, forniremo indicazioni e condivideremo procedure per fare in modo che tutti abbiano a disposizione le informazioni più aggiornate e accurate. Ti ringraziamo per la pazienza mentre ci impegniamo a ripristinare la tua fiducia.

L’azione è rientrata nel piano di gestione da parte dell’azienda di potenziali rischi per la salute causati da alcuni dispositivi largamente distribuiti per trattare difficoltà respiratorie, come ad esempio l’apnea del sonno, rilevati anche da studi e approfondimenti promossi dalla stessa Philips, in relazione ai reclami ricevuti dagli utenti (0,03% nel 2020), una percentuale tutto sommato bassa rispetto ai milioni di apparecchi di questo tipo venduti a privati, cliniche ed ospedali pubblici, ma comunque tale da sollevare un campanello di allarme.

In particolare, l’irritazione delle vie aeree locali (dovuta al particolato rilasciato dalla schiuma) o il potenziale rischio cancerogeno (dovuto ai componenti organici più piccoli e volatili) sono stati considerati un potenziale rischio per la salute: pertanto, Philips ha deciso di pubblicare volontariamente un avviso di richiamo per informare pazienti e clienti di potenziali impatti sulla salute e sull’uso clinico, nonché per condividere le istruzioni sulle azioni più opportune da intraprendere.

L’azienda ha inoltre intrapreso un’azione proattiva su due fronti: un’indagine approfondita circa le conseguenze legate all’inalazione delle particelle di schiuma, e il ritiro e sostituzione dei dispositivi difettosi.  

Una gestione – a prima vista – impeccabile: a seguito del rilevamento di un problema tecnico vengono messe in campo una serie di azioni utili per meglio tutelare la salute dei pazienti ed informare il personale medico sanitario. Ma recentemente è accaduto un colpo di scena.

Il plot-twist dell’FDA: mancanza di trasparenza o semplice inadeguatezza nella gestione del rischio?

In questa storia vi è un plot-twist sorprendente: a pochi mesi dall’avviso volontario di sicurezza da parte dell’azienda, la Food and Drug Administration (FDA), l’ente governativo statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici, ha dichiarato – in un modulo di indagine – di aver osservato potenziali violazioni delle norme federali sulla sicurezza dei dispositivi medici durante l’ispezione di uno stabilimento di produzione Philips Respironics, organizzata nell’ambito delle operazioni di verifica per il ritiro di oltre 15 milioni di questi dispositivi respiratori.

La FDA, nel modulo 483, descrive nel dettaglio come Philips fosse in realtà consapevole già dal 2015 dei problemi legati alla schiuma fonoassorbente in poliuretano a base di poliestere (PE-PUR): il documento svela come nella revisione dei reclami dei consumatori Philips, risalenti fin al 2008, fossero inclusi più di 222.000 reclami, di cui il 3% legati proprio alla potenziale genotossicità della schiuma fonoassorbente.

L’immagine di trasparenza e la buona fede del marchio tecnologico inizia allora a vacillare: a seguito dei rilievi sollevati dall’FDA, la Philips Respironics – divisione della multinazionale – ha tentato di chiarire la sua posizione, riconoscendo di aver ricevuto: “limitati reclami relativi al degrado della schiuma (negli anni precedenti al 2021), che sono stati valutati e affrontati caso per caso.”  Tuttavia, aggiunge l’azienda olandese “I problemi relativi ai COV hanno iniziato a emergere più di recente, con test e interpretazioni che si sono successivamente svolti con esperti di terze parti certificati, portando alle azioni intraprese nella prima metà del 2021“.

Madris Kinard, ex analista della salute pubblica della FDA con esperienza nella sorveglianza post-commercializzazione, ha commentato l’accaduto affermando:

Sembra che siano stati piuttosto lenti ad agire. Questo richiamo era in ritardo, secondo me, anche a causa della preoccupazione che ci potesse essere una carenza di dispositivi CPAP disponibili sul mercato qualora fosse stato avviato un richiamo”.

Philips era davvero a conoscenza del rischio, e ha scelto di ignorare la questione o quantomeno posticipare la risoluzione del problema, ponendo a repentaglio la salute dei pazienti?

Il dossier è ancora aperto: siamo evidentemente in una zona grigia nella quale non è possibile emettere “sentenze” definitive circa la reale consapevolezza – o colpevolezza – da parte dell’azienda. Tuttavia, possiamo analizzare la vicenda dal punto di vista del Reputation management.

La crisi dei respiratori Philips e il suo impatto reputazionale

È evidente – e a questo punto non solo per gli addetti ai lavori – come l’azienda abbia ignorato quelli che in gergo tecnico vengono definiti “segnali deboli di crisi”, ovvero tutti quei segnali che in qualche modo aumentano il grado di entropia nell’azienda e nel suo ecosistema e che indicano quelle aree da monitorare con attenzione al fine di attivare un possibile intervento di gestione della crisi: appare quindi chiaro che le segnalazioni e le denunce – risalenti già al 2015 – avrebbero dovuto rappresentare per Philips un campanello di allarme sufficiente per avviare, ben prima della deflagrazione pubblica del dossier, un’azione preventiva e di indagine accurata.

“Ci sono azioni che un’azienda può intraprendere, con l’aiuto della FDA, per aiutare a mitigare problemi come questo. Non sembra che l’azienda abbia collaborato con la FDA in alcun modo collaborativo, per fare uno sforzo in buona fede per informare i consumatori 2-3 anni fa quando erano a conoscenza dei problemi“, ha commentato Kinard. Una sollecita collaborazione proattiva con l’FDA avrebbe senz’altro contribuito a mitigare gli impatti di questa debacle reputazionale della multinazionale olandese.

Come amiamo spesso ricordare in aula, la letteratura è assai robusta, come anche numerosissime sono le evidenze empiriche che correlano il danno reputazionale e la scorretta gestione di crisi ad ingenti danni economici e a distruzione del valore per gli azionisti, e questo caso pare non fare eccezione: l’azienda infatti, dopo il crollo in borsa (- 12% del proprio valore complessivo) a seguito della segnalazione di sicurezza e della prima quantificazione i costi per il ritiro e la sostituzione dei prodotti difettosi (poco meno di 200 milioni di euro di spese previsti) rischia anche di dover far fronte a risarcimenti milionari.

Per l’azienda la sottostima del rischio e la scorretta gestione di crisi potrebbe avere un costo colossale: dopo le iniziali perdite di borsa per circa 2 miliardi di dollari, il totale del valore “bruciato” potrebbe attestarsi poco sotto 1 miliardo di dollari, secondo le stime del quotidiano finanziario Wall Street Journal.

A questo si aggiunge la “corsa” per la sostituzione dei dispositivi, che ad oggi è pari al 20% di quelli in circolazione, ma che l’FDA ha intenzione di scadenziare in modo assai rigido, pena ingenti multe.

La European Respiratory Society (ERS) e il conflitto di interessi

La vicenda, di qui in avanti, prende i toni del grottesco. Secondo la FDA negli Stati Uniti solo nell’ultimo anno le segnalazioni di incidenti sono state oltre 21 mila e quelle di decessi che parrebbero correlate agli apparecchi difettosi, pur da verificare in via definitiva, 124.

Tuttavia, in base alle normative vigenti, l’indagine – spiega la collaboratrice del British Medical Journal  Jeanne Lenzer – toccherebbe in questa fase proprio a Philips, cioè al produttore indagato: secondo la regolamentazione USA, quindi, è proprio “l’imputato” a dover in prima battuta valutare il suo “grado di colpevolezza”.

Tra la fine del 2021 e gli inizi del 2022 Philips ha invero eseguito ulteriori test e ricerche per valutare il potenziale rischio derivante dalla schiuma fonoassorbente, informando le autorità sanitarie europee, incluso il Bundesinstitut für Arzneimittel und Medizinprodukte (BfArM) di Berlino, sugli esiti della ricerca. Inoltre ulteriori test sono poi stati eseguiti da laboratori di test certificati e da esperti qualificati di terze parti indipendenti, utilizzando la guida ISO 18562 ed analizzati dalla European Respiratory Society.

Il primo febbraio 2022, a seguito di questi test, la società scientifica ERS (European Respiratory Society) ha pubblicato uno statement in cui afferma che i primi risultati di ricerca inerenti alla schiuma avevano avuto esiti tutto sommato rassicuranti: l’inalazione dei COV non pareva provocare conseguenze a lungo termine rilevanti per la salute dei pazienti.

Tuttavia, il brillante servizio di Report andato in onda ieri sera su RAI 3 ha svelato un ulteriore elemento che rischia di mettere in dubbio la presunta buona fede dell’azienda e anche degli enti di controllo: il Dott. Winfred Randerath, responsabile della gestione di questo dossier per conto della ERS, alla domanda della giornalista “Ci sono conflitti di interesse tra lei e Philips?” si cimenta in una performance che ha dell’incredibile. In evidente panico, prima resta in silenzio per un tempo televisivamente interminabile, poi, con palese imbarazzo, si allontana dalla telecamera chiedendo goffamente di poter rispondere in privato sul punto alla giornalista, e – quando infine viene incalzato da essa, che sollecita una risposta – ammette l’esistenza di un conflitto di interessi, confessando di aver lavorato in passato proprio per Philips (!). Una parentesi quasi “fumettistica”, che mette in luce gli enormi spazi di miglioramento – ad esser generosi – di questi sistemi di controllo.

In ultimo, a dare ulteriore riprova della relativa fallibilità del sistema di verifica e richiamo dei dispositivi, l’ammissione da parte della stessa Philips di risultati non incoraggianti che paiono contraddire le evidenze rassicuranti riportate da BfArM e COV.

Le scuse – tardive – del Direttore medico di Philips

L’ analisi circa le strategie di crisis management e di crisi communication attuate da Philips non può non tener conto dell’intervento del direttore medico di Philips nella video intervista rilasciata proprio a Report: il Dott. Jan Kimpen “chiede scusa ai pazienti”, pur negando le insinuazioni circa la consapevolezza, già nel 2015, da parte di Philips, dei rischi legati all’inalazione della schiuma fonoassorbente. “La sicurezza dei pazienti è quello su cui si basa la reputazione di Philips”, chiosa con fermezza, pur non rispondendo in modo del tutto chiaro ed esaustivo alle domande assai precise del cronista.

Mentre scriviamo, il processo di ritiro e riparazione dei dispositivi prosegue, e non si placano le legittime paure di coloro che si vedono comunque costretti, nell’attesa, a utilizzare i dispositivi medici del colosso Olandese. Quello di Philips è un ennesimo caso nel quale la reputazione di un marchio di fama mondiale viene messo a dura prova da una gestione a tratti opaca, di certo poco conforme alle buone prassi in materia di crisis management, e fin qui inadeguata a salvaguardare il valore degli azionisti, nonché – soprattutto – la salute dei cittadini.

To be continued…




In questa biblioteca umana chiunque può diventare libro

In questa biblioteca umana chiunque può diventare libro

Sfidare gli stereotipi, allontanare i pregiudizi e favorire il dialogo. Quante volte sarà capitato di giudicare una persona a prima vista? Sicuramente moltissime. Ad avvallare la teoria che un libro non si giudica dalla copertina ci pensa la Human Library di Copenhagen in Danimarca, ovvero la biblioteca vivente, un luogo in cui le persone si trasformano in libri.

Creata da Ronni Abergel assieme a un gruppo di giovani attivisti, essa apparentemente sembra una comune biblioteca con bibliotecari e cataloghi, la differenza sta nel fatto che per leggere i libri non bisogna sfogliare le pagine, ma iniziare una conversazione di circa 30 minuti con una persona in carne e ossa.

In pratica ogni lettore sceglie un libro vivente in base ai titoli che sintetizzano la sua storia. C’è per esempio “il ragazzo gay”, “il senzatetto”, “il nudista”, “la donna islamica”, brevi frasi che hanno lo scopo di incuriosire suscitando diverse reazioni.

Da dove nasce l’idea di “una biblioteca umana”

L’Human Library è nata nel 2000 ma l’idea è stata esportata in circa 70 Paesi sparsi in tutto il mondo, perché appunto considerata vincente per abbattere la diffidenza, favorire il dialogo e la socializzazione.

Sul sito è possibile leggere alcune storie dei libri viventi:

Io vivo per le strade. Io vivo giorno per giorno e non ho alcun tetto sopra la mia testa. Nessun bagno da visitare, nessuna cucina per fare un caffè. Possiedo molto poco, io sono senza casa, scrive il senzatetto.

Alcune persone pensano che sia pericoloso avvicinarsi a me e toccarmi. Questo è il motivo per cui l’ho tenuto segreto per molti anni. Quando le persone hanno paura di avvicinarsi a me, mi fa più male della malattia, dice la ragazza malata di Hiv.

Voglio aiutare annullare la paura di parlare di questo problema a cielo aperto. Se condividendo le mie esperienze come un libro aperto posso in qualche modo aiutare gli altri a capire meglio il tabù, spiega la ragazza vittima di molestie sessuali.

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I libri viventi sono tutte persone che hanno la consapevolezza di essere legate stereotipi e pregiudizi ma sono anche uomini e donne desiderosi di scardinarli raccontando la propria esperienza di vitaDal 2003, l’Human Library è stata riconosciuta dal Consiglio d’Europa come buona prassi perché all’intolleranza risponde con la comprensione.




Ferrero, la rivoluzione del packaging: merendine “incartate” pensando alla differenziata

Ferrero, la rivoluzione del packaging: merendine "incartate" pensando alla differenziata

Nel 2019 il Gruppo Ferrero ha annunciato il proprio impegno a rendere il 100% dei propri imballaggi riutilizzabili, riciclabili o compostabili entro il 2025. Ferrero inoltre ha firmato il “New Plastics Economy Global Commitment” promosso dalla Ellen MacArthur Foundation, fiera di condividere con loro sia la visione di uno sviluppo di un’economia circolare per la plastica, visione in cui questo materiale non diventa mai un rifiuto, sia la necessità di agire lungo tutta la catena di approvvigionamento. Con la firma del New Plastics Economy Global Commitment, Ferrero vuole giocare un ruolo attivo e concreto impegnandosi anche ad eliminare gli imballaggi in plastica problematici o superflui attraverso la riprogettazione, l’innovazione e lo sviluppo di nuovi modelli di distribuzione.

Questo impegno globale in ambito packaging, prioritario per un’azienda che opera nei mercati del largo consumo confezionato, si inserisce in una strategia aziendale consolidata, denominata delle 5R: riciclo, rimozione, riduzione, riutilizzo e rinnovabilità.

Come parte del percorso verso un packaging più sostenibile, l’azienda ha intrapreso un percorso volto al miglioramento dei packaging esistenti, che ha coinvolto i principali brand del Gruppo, tra cui Kinder, Ferrero Rocher ed Estathé.

Per quanto riguarda Ferrero Rocher, sono state introdotte confezione eco-designed all’interno della gamma. Attraverso un lancio graduale in tutto il mondo, partendo da settembre 2021 con le referenze più vendute, da 16 e da 30 pezzi, fino ad estensione sull’intera gamma entro il 2025, l’azienda ha progettato confezioni in polipropilene, facilmente riciclabili a livello globale, senza rinunciare a garantire qualità e sicurezza dei propri prodotti.

Queste consentiranno di ridurre l’utilizzo di plastica e l’impatto sul clima. Ad esempio, le nuove confezioni utilizzano il 40% di plastica in meno per quella da 16 pezzi e il 38% di plastica in meno per quella da 30 pezzi.

A completamento sull’intera gamma l’impatto stimato è di una riduzione di circa 10.000 tonnellate di plastica in meno utilizzata ogni anno rispetto alle confezioni precedenti. Inoltre, le nuove confezioni generano una riduzione di almeno il 30% di emissioni in meno, sempre rispetto alle precedenti. Quando una scatola viene correttamente riciclata, essa ha un impatto climatico ancora più basso, riducendo almeno del 70% le emissioni di Co2, rispetto alle precedenti.

Relativamente ai prodotti da forno Kinder e Ferrero, a partire da giugno 2022, la gamma di merendine distribuite in Italia (Kinder Brioss, Kinder Colazione Più, Kinder Pan e Cioc, Kinder Délice, ecc…) vede trasformare il proprio packaging, adottando un sistema di confezionamento innovativo in carta, che può essere conferito nella raccolta della carta, in linea con le disposizioni della raccolta differenziata in Italia. Le nuove confezioni in carta consentiranno di ridurre dell’80% l’uso di plastica rispetto alle confezioni precedenti, per una riduzione anno di circa 360 tonnellate di plastica, pari a oltre 70 milioni di sacchetti della spesa in plastica.

Il percorso di Estathé, bevanda leader di mercato in Italia, è cominciato nel 2020 con l’introduzione del formato in vetro, che si è affiancato alle referenze in lattina di alluminio 100% riciclabili. Nel 2021 è stata sostituita la cannuccia in plastica del bicchierino, con una versione in carta e dal 2022 vengono introdotte sul mercato le bottiglie in polipropilene da 0,33 litri, 0,40 litri e da 1,5 litri 100% da plastica riciclata e riciclabile, a cui seguirà l’introduzione del tappo non dispersibile entro il 2024.

Il viaggio verso un packaging più sostenibile di Estathé si completerà con la sfida della revisione dell’iconico bicchierino. Anch’esso diventerà, a partire dal 2022, e per gli anni a seguire, in polipropilene 100% riciclabile.

A chiusura del percorso, entro il prossimo 2025, si stima una riduzione del 30% di emissioni di Co2 anno, pari a circa 12.000 tonnellate di Co2/eq. in meno.