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Criptovalute di Stato, tra presente e scenari futuri

Criptovalute di Stato, tra presente e scenari futuri

Le criptovalute di Stato potrebbero prendere corpo nell’America Centrale, nel Sudamerica e in Asia, senza, però, passare dall’Europa. In quest’ultimo caso, la Banca centrale europea intende rafforzare i controlli ed invita alla prudenza rispetto alla diffusione delle criptovalute. 

Il punto di partenza della nostra disamina riguarda i dati concernenti l’adozione delle valute digitali, che, sin dall’anno scorso, ha registrato una sempre maggiore diffusione a livello internazionale, tale da indurre ad un affinamento della regolamentazione dei mercati. La società ChainAlysis ha rilevato che dal 2019 al 2021 l’utilizzo delle criptovalute è aumentato del 2500% con le piccole economie emergenti a guidare la speciale classifica delle economie nazionali. In testa troviamo il Vietnam, seguito da India, Pakistan, Ucraina e Kenya. Gli Stati Uniti, tra le economie avanzate, si piazzano all’ottavo posto, mentre la Cina al tredicesimo. Prima dello scoppio della guerra, l’Ucraina si è dotata di una serie di norme volte a regolamentare i mercati delle criptovalute. 

Da cosa dipende l’accentuata diffusione delle valute digitali nei Paesi in via di sviluppo? La risposta risiede nella scarsa diffusione di infrastrutture bancarie e finanziarie. Le criptovalute sono un surrogato dei conti di deposito e con le stablecoin sono, nei Paesi in via di sviluppo, lo strumento più idoneo per trasferite valuta da e per l’estero con costi abbordabili, senza i paletti delle limitazioni previsti dalle autorità monetarie. In Sudamerica, come in Venezuela e Argentina, le criptovalute mirano a proteggere, non senza rischi e falle, il risparmio dai tassi di inflazione molto alti e dalla svalutazione della divisa domestica.

Il caso El Salvador

Qualche settimana fa Galoy, la piattaforma bancaria di El Salvador, attiva già dal novembre del 2020 con il lancio del Bitcoin Beach Wallet, si è detta pronta a far conoscere una nuova stablecoin legata al dollaro. Una modalità che ha come primo obiettivo la riduzione della volatilità rispetto alle criptovalute non ancorate come i Bitcoin. Le stablecoin sono nate per fronteggiare i rischi delle cripto-attività non garantite. Il loro valore è legato ad un’attività o ad un portafoglio a basso rischio. Tale contesto, però, richiede adeguata regolamentazione onde evitare che le stablecoin siano tali solo sulla carta e solo di nome. Le nuove monete, gli Stablesats, non hanno bisogno di token per funzionare e avrebbero il pregio di essere facilmente spendibili. 

Galoy per sostenere questo nuovo progetto ha effettuato un aumento di capitale di 4 milioni di dollari. Il progetto intende essere autosufficiente al massimo. Per questo motivo il Centro-America si prefigge l’ambizioso traguardo di diventare un vero e proprio laboratorio per le cripto-attività. La piattaforma è stata aperta, oltre che in Costa Rica, a Panama con uno sguardo sempre più interessato ad altri Paesi del Sudamerica. Perno di Galoy la rete Lightning Network, con la quale ci si sgancia da soggetti terzi per svolgere controlli, con la possibilità per i Paesi con forte inflazione e grande esposizione in dollari americani di dotarsi di uno strumento gestibile solo da essi e la possibilità di avere un dollaro sintetico in grado di mantenere il proprio valore al di là del tasso di cambio di riferimento.

In merito all’interesse che si registra attorno alle criptovalute, nello scorso mese di maggio i rappresentanti delle banche centrali di 44 Paesi emergenti si sono riuniti a El Salvador nel corso del meeting dello “Sme Finance working group”. L’incontro a El Salvador non è stato casuale, dato che qui, neanche un anno fa, per la prima volta è stato adottato il Bitcoin come moneta a corso legale e conseguente equiparazione al dollaro statunitense

Guardano con interesse alla svolta salvadoregna Paraguay, Argentina, Brasile, Nicaragua, Panama e Messico anche se in questi Paesi provvedimenti a livello centrale non se ne registrano ancora. Di sicuro una parte politica strizza l’occhio alle criptovalute di Stato. 

bitcoin adozione
L’adozione del Bitcoin nel mondo

Criptovalute al sole dei Caraibi

Restando nell’America Centrale, le Bahamas hanno aperto ai pagamenti con le monete digitali per il pagamento delle tasse. Si tratta di un inizio. La Banca centrale delle Bahamas ha emesso il Sand Dollar ed il governo ne ha autorizzato l’utilizzo. L’esempio delle Bahamas è stato definito un «disegno di criptovaluta progressista e lungimirante». Al sole dei Caraibi, dunque, potrebbe essere realizzato un vero e proprio hub crittografico, così come auspicato dalle autorità bancarie e finanziarie bahamiane. 

L’approccio normativo internazionale

Se è vero che alcuni Stati stanno dimostrando interesse nei confronti delle criptovalute, è altrettanto vero che l’approccio normativo cambia da Paese a Paese. Divieto all’uso delle criptovalute da parte di Egitto, Marocco, Algeria, Bolivia, Bangladesh, Nepal. Alla Cina ci dedicheremo più avanti.  Una sorta di sistema “misto” riguarda invece Nigeria, Namibia, Colombia, Ecuador, Arabia Saudita, Giordania, Turchia, Iran, Indonesia, Vietnam e Russia. In questi Paesi è limitata la possibilità per le banche di operare con cripto-attività o è vietato l’uso per effettuare pagamenti. 

«Questa situazione – commenta Fabio Panetta del board della BCE – è insoddisfacente, poiché le cripto-attività rappresentano un fenomeno globale e le tecnologie sottostanti possono svolgere un ruolo importante, anche al di fuori del settore finanziario. L’azione regolamentare va coordinata a livello internazionale, al fine di far fronte a problemi quali l’uso delle cripto-attività per operazioni illecite transfrontaliere o il loro impatto ambientale. In tale ambito, la regolamentazione deve ricercare un delicato equilibrio tra rischi e benefici, evitando di soffocare innovazioni che possono innalzare l’efficienza sia nei pagamenti sia in altri comparti».

L’opera regolamentatrice sulle cripto-attività in Europa è in piena attività. Si pensi all’entrata in vigore del regolamento UE, denominato MiCA (Markets in crypto-assets). 

Lo scenario mondiale 

I cambiamenti in corso stanno inducendo le Banche Centrali a correre ai ripari considerato che dietro l’angolo non mancano dei rischi. Vediamo quali. 

Una banconota costituisce un credito nei confronti di una Banca Centrale ed è, quindi, la forma di denaro più sicura. Bisogna però ricordare che solo le banche commerciali possono accedere alle riserve della banca centrale. Ecco, quindi, il primo rischio: una moneta digitale della Banca Centrale permetterebbe l’accesso a tutti. La conseguenza sarebbe che il pubblico potrebbe detenere conti presso la Banca Centrale. Altra conseguenza riguarderebbe la possibilità di tenere il denaro della Banca Centrale in portafogli emessi privatamente. 

Di qui, dunque, un atteggiamento neutrale – di forza indifferenza potremmo dire – da parte delle Banche Centrali rispetto alla questione. Un approccio, in buona sostanza, volto a non caldeggiare l’uso della “moneta elettronica” per non destabilizzare la supremazia delle Banche Centrali sui mercati mondiali. A ciò si aggiungono altre preoccupazioni legate alla sicurezza, alla privacy delle transazioni e, per portare il ragionamento alle estreme conseguenze, all’esistenza e al ruolo delle stesse banche centrali.

Nel 2021 la Federal reserve statunitense ha svolto uno studio approfondito per delineare gli scenari futuri e individuare gli strumenti per intervenire in vari contesti. Anche la Banca Centrale Europea si è data da fare con l’approvazione dell’avvio «della fase di ricerca di un progetto di euro digitale»Bruxelles si è data una prospettiva temporale di breve termine per la realizzazione dell’euro digitalefacendola coincidere con l’anno 2026.

La Cina sembra essersi attrezzata meglio di tutti. La versione elettronica dello yuan è stata testata in alcune regioni e sono state messe in campo diverse iniziative per avvicinare i cittadini alla moneta digitale. Si pensi ai premi della lotteria e la creazione di un portafoglio digitale (e-CNY). 

Gli Stati Uniti non hanno fatto mistero della loro preoccupazione provocata dalla creazione, già qualche anno fa, della moneta digitale cinese – lo e-yuan -, che mira ad internazionalizzare lo yuan e al tempo stesso a difendere la propria sovranità monetaria. L’esigenza è proteggersi dalle aziende tecnologiche statunitensi che a loro volta faranno leva sul dollaro. Ma non mancano iniziative volte ad arginare la diffusione delle cripto-valute stesso in Cina. La People’s Bank of China nel 2021 ha dichiarato illegali le transazioni di criptovalute, il mining e la pubblicità legata alla moneta elettronica. Considerata la corrispondenza di amorosi sensi con la Cina, anche Russia e India stanno assumendo un atteggiamento cauto. 

E in Europa? In Spagna, alla fine della scorsa primavera, l’Agenzia delle Entrate ha espresso un parere vincolante secondo il quale gli NFT avranno una tassazione del 21% in relazione alle attività di creazione e compravendita degli stessi da parte di società o artisti. Il futuro sarà sicuramente caratterizzato dalla diffusione e dall’utilizzo della moneta digitale. Ciò però non fa dormire sonni tranquilli alle autorità finanziarie centrali, che si stanno attrezzando per creare una valuta digitale sostenuta da una Banca centrale (Central bank digital currency – CBDC) con il primario obiettivo di contrastare la volatilità cui sono sottoposte le criptovalute decentralizzate quali Bitcoin, Ethereum o le stablecoin. La BCE continua a rassicurare e ad affermare che la moneta digitale non manderà in pensione il contante. In gioco, dicono alcuni esperti, c’è anche la sovranità nazionale.

Nei prossimi cinque-sei anni sicuramente molte persone avranno portafogli digitali diversificati con denaro in conti bancari tradizionali e stablecoin gestiti da società private. Fare previsioni a lungo termine potrebbe comunque essere azzardato, considerato quanto accade in questi giorni. Il pensiero va subito ad alcuni programmi arenatisi. Meta (ex Facebook) intendeva lanciare la propria stablecoin; ha dovuto fare i conti con le autorità di regolamentazione statunitensi, che ne hanno bloccato il progetto. A preoccupare sono gli obiettivi di Meta e la possibilità che la stablecoin possa essere utilizzata per finanziare transazioni illecite all’interno e fuori dai confini nazionali.

Ecco perché la valuta digitale sostenuta direttamente dalle Banche Centrali (Central bank digital currency – CBDC) rappresenta, contemporaneamente, per i governi un baluardo e un trampolino per difendere e recuperare la sovranità perduta. Con l’aggiunta di bloccare la minaccia al monopolio statale presentata dalle criptovalute o quella legata ad operazioni come quelle messe in piedi da Facebook. Insomma, lo scenario è in divenire e i fatti del presente saranno preziosi per ogni iniziativa e strategia futura.




Guerra ed elezioni nel “dark web”: una lezione dalla Svizzera

Guerra ed elezioni nel “dark web”: una lezione dalla Svizzera

Le polemiche che stanno coinvolgendo il comitato parlamentare di sorveglianza dei servizi segreti (Copasir), presieduto da Adolfo Urso di Fratelli d’Italia, circa le interferenze e manomissioni che operano in rete sulla campagna elettorale, ci confermano che ormai gran parte della comunicazione politica passa per canali non visibili, in quello spazio insondabile che chiamiamo dark web, che altera radicalmente il processo di formazione dell’opinione pubblica, basato proprio sulla condivisione trasparente dei contenuti. Singolare è il sostanziale silenzio dei partiti, come il Pd. Che pure è colpito da queste strategie che sono, secondo dati riconosciuti internazionalmente, promossi prevalentemente da centrali che operano direttamente alle dipendenze dei servizi russi.

Il report del servizio informazioni della Confederazione elvetica, rilanciato da “Repubblica” qualche giorno fa, denuncia, con un corredo di documenti, l’uso di server russi dislocati nel territorio svizzero per interferire nei diversi Paesi europei. In particolare, gli apparati di sicurezza di Zurigo guardano all’Italia come anello debole dell’Unione europea, proprio nel corso dell’attuale campagna elettorale. Si denuncia un’attività di inquinamento dei flussi informativi, diretti individualmente a migliaia di singoli elettori. Il tutto nell’inattività completa delle autorità competenti del nostro Paese, a partire dall’Agcom.

Appare interessante, proprio ai fini del contrasto di queste strategie di infiltrazione, l’attività e la struttura dell’ente che ha elaborato il report citato da “Repubblica”: la Centrale di annuncio e di analisi per la sicurezza dell’informazione. Si tratta di un organismo istituito in Svizzera nel lontano 2004, a tre anni dall’11 settembre, quando i più avvertiti esponenti dei sistemi di sicurezza avevano già percepito le turbolenze che si sarebbero ripercosse lungo le reti digitali.

Il primo ottobre del 2004, infatti, viene costituita l’agenzia con il compito di monitorare lo scenario complessivo dell’informazione del Paese. L’elemento più originale e rilevante riguarda proprio la connessione fra sistemi informatici e quadro della comunicazione. L’agenzia svizzera, a differenza delle diverse agenzie italiane, ha il mandato di analizzare costantemente proprio le anomalie che collegano il mondo della rete ai fenomeni dell’informazione, con l’obbligo di formulare un rapporto semestrale su quanto affiora nell’infosfera.

Nel 2008, quattro anni dopo la sua costituzione, l’agenzia scrive nel suo settimo rapporto (gennaio-giugno 2008): “Questa evoluzione esige un ripensamento: d’ora in poi ci si dovrà focalizzare sulla protezione dell’informazione e prescindere dalla protezione esclusiva dei computer e delle reti sui quali sono archiviate le informazioni, il che comporta una gestione rafforzata delle informazioni e dei dati, una classificazione delle informazioni e simili. Ciò presuppone, d’altronde, un’attenta ponderazione dei rischi che deve condurre a un adeguamento dei canali di distribuzione, dei diritti di accesso e dei luoghi di archiviazione al valore effettivo delle informazioni. Non ogni canale di distribuzione o luogo di archiviazione dell’informazione presenta la medesima sicurezza e non tutti i documenti di un’azienda sono ugualmente sensibili. In tal modo la sicurezza dell’informazione è integrata nel processo di management commerciale e strategico dei rischi”. Indubbiamente una straordinaria capacità predittiva che permette ai dirigenti dell’agenzia di anticipare le minacce che da lì a qualche anno diventeranno reali in tutto il mondo. Solo cinque anni dopo, viene elaborata dai vertici militari del Cremlino la teoria della “guerra ibrida”, che porterà poi alle clamorose azioni di intromissione nella campagna presidenziale americana del 2016 con Cambridge Analytica.

Importante ci pare proprio l’identificazione della produzione personalizzata delle informazioni, più che delle infrastrutture di raccolta ed elaborazione, come vero epicentro delle azioni di manomissione e interferenza. Il mondo del giornalismo come motore della distribuzione digitale delle notizie viene così integrato nelle strategie di cybersecurity (vedi il nostro precedente articolo).

Straordinariamente sensibili appaiono gli analisti svizzeri quando intuiscono – siamo ancora distanti dalle strategie che verranno praticate dagli Stati Uniti in Ucraina, nel 2014, e da Mosca in Occidente – che la deformazione e la personalizzazione dei contenuti in rete possa costituire un’arma di pressione politica sulle istituzioni di un Paese: “L’hacktivism può basarsi su motivazioni nazionalistiche oppure incarnare una sorta di protesta pubblica, una forma di resistenza civile. Internet costituisce una tribuna pubblica e consente di attirare l’attenzione a livello mondiale con mezzi relativamente semplici. Inoltre Internet e le tecnologie dell’informazione svolgono un ruolo sempre più importante negli Stati moderni, circostanza che accresce il numero delle zone di attacco. Gli attori di un conflitto politico o di una controversia di qualsiasi genere possono sfruttare Internet e le tecnologie sia come strumento, sia come bersaglio. A tale scopo gli hacker motivati politicamente si avvalgono di numerosi mezzi illegali o perlomeno dubbi. Sovente si fa uso del defacement di pagine Web, ossia della deturpazione di pagine Web, come pure di attacchi DoS, ovvero di attacchi ai server nell’intento di pregiudicare uno o più dei suoi servizi. Ulteriori mezzi sono i redirect, il furto di informazioni, le parodie di pagine Web, il blocco virtuale delle sedi, il sabotaggio e il software appositamente sviluppato (…). Si può quindi presumere che in futuro i conflitti politici e le controversie saranno vieppiù scortati da hacking a sfondo politico. In merito va osservato che simili azioni possono accompagnare i conflitti e le guerre, ma non sono adatti al sostegno diretto alle operazioni di guerra. Pertanto l’amalgama che si opera volentieri tra hacktivism e ‘guerra informatica’ non corrisponde alla realtà”.

La guerra entrava così nell’orizzonte dell’hacktivism già da vari anni, diventando utente e promotore del nuovo giornalismo digitale. Si comprende, in questo passaggio, come un’attenzione geopolitica alle dinamiche di rete permetta di cogliere la natura e gli effetti che questo mondo ormai produce nella realtà, trasformando persino la guerra in un caso di intelligence diffusa. Una lezione per i nostri controllori e tutori della sicurezza digitale che, a metà campagna elettorale, ancora si interrogano sulle forme e i poteri per intervenire bonificando uno scacchiere ormai largamente presidiato da forze estere. Ma anche un monito alla sinistra, che continua a stupirsi di come ceti sociali, territori e categorie produttive, mutino i propri orientamenti, e non reagiscano a sollecitazioni che sembrano clamorose.

Come diceva Cioran, alla fine degli anni Ottanta: “Non si abita un Paese, si abita una lingua”, intendendo che le forme di comunicazione determinano identità e cittadinanza ancora più che le tradizioni culturali o il senso di appartenenza territoriale. E oggi la lingua è la rete.




Cambridge Analytica in salsa italiana

Cambridge Analytica in salsa italiana

Le dure polemiche contro il nostro paese da parte dei vertici del Cremlino arrivano, non a caso, in un momento delicatissimo della campagna elettorale. In particolare quando  si registrano movimenti più che sospetti nella rete  che preludono  ad una vera tempesta digitale, non meno violenta di quella annunciata dal portavoce di Putin Peskov. Qualcuno da vari mesi sta rastrellando decine di migliaia di dati sensibili degli italiani. Da giugno ad agosto la compravendita di informazioni personali ( telefoni, mail, indirizzi social, frequentazioni on line) riguardanti cittadini o imprese italiane è aumentato del 357 % secondo quanto emerge dalla ricerca condotta dalla società specializzata Swascan (  swascan.com/it/dark-web-analysis-italia/ ) diretta da Pierguido Iezzi, uno dei più accreditati esperti italiani di Cybersecurity.
Lo scambio di materiali che riguardano gli elettori italiani viene intermediato prevalentemente da due centri del Darkweb Breached.to e XSS. Sono due piazze dove prospera lo smercio e il brokeraggio di dati illegali, che vengono acquisti e combinati secondo la nota lezione di Cambridge Analytica.
Nei mesi estivi , spiegano i ricercatori di Swascan , si è constatato un’impennata di attenzione al mercato italiano. Le transazioni sono alquanto irregolari, , caratterizzate da dati a volte sporadici, legati a singole realtà territoriali o singoli gruppo sociali, a volte più consistenti come è accaduto il 25 agosto in cui 36 mila documenti e files della P.A. italiana sarebbero stati venduti. Offerti anche botnet e sistemi di ripresa, mediante telecamere piazzate all’insaputa degli interessati, per registrare immagini compromettenti.
Siamo nel pieno di una strategia che mira a mettere nel mirino il nostro paese. Rendendo vulnerabile, in questa fase, più che il circuito dei server e data base aziendali, direttamente i singoli profili di elettori che , dopo essere stati elaborati e identificati, diventano destinatari di flussi di informazioni personalizzate che interferiscono direttamente sul loro comportamento. Si riproduce così il manuale della cosidetta guerra ibrida, teorizzata dal generale russo Valery Gerasimov, e raccontato in un suo libro –Il Mercato del Consenso- da Christopher Wylie, il giovane e talentuoso programmatore che sviluppò l’algoritmo che guidò le strategie di disinformazione attuate nel corso della campagna presidenziale del 2016, che vide la sorprendente vittoria di Donald Trump.

Wylie spiega infatti che il punto nevralgico di una strategia che voglia interferire realmente nei processi di formazione dell’opinione pubblica di ua paese riguarda proprio la combinazione e integrazione dei dati individuali di un ristretto numero di elettori, scelti perchè risultano decisivi nei collegi più contendibili. La fase della raccolta dei dati primitivi, aggiunge il giovane programmatore, avviene per vie traverse, secondo itinerari più diversi. 
Nel caso di Cambridge Analytica fu decisivo un gioco a quiz inventato e diffuso appunto a Cambridge, da cui il nome della società, da Aleksandr Kogan, un brillate informatico di origine russa . Grazie a quel sistema, spiega Wylie, ottenemmo “ una vasta gamma di dati sviluppando programmi di raccolta automatica, usando algoritmi di imputazione per ricondurre ad un unico profilo le informazioni provenienti da fonti diverse , e usando poi le reti neurali di depp learning per ottenere previsioni sui comportamenti di nostro interesse “. Poi sappiamo come andò a finire negli Usa.  Ora la storia sembra ripetersi in salsa italiana.

Invece di trovare pretesti, oggi si estraggono direttamente dalle piattaforme social i dati sensibili degli utenti. E si vendono all’ingrosso. Come raccolta Iezzi “ sono stati rilevati  costantemente annunci in riferimento all’Italia, con inserzioni  relative alla richiesta di acquisto  ma anche di vendita di credenziali di accesso ai dati”. Un traffico che procede imperturbabile, durante la campagna elettorale, senza che nessun organismo di vigilanza e controllo, come Copasir o l’Agcom, trovino motivo di intervenire. 
Mentre a livello pubblico assistiamo ad un fuoco di fila contro il nostro paese da parte di diversi personaggi dell’entourage di Putin, dal vice presidente del comitato strategico Medvedev, alla portavoce del ministro degli esteri Lavorv, Zakharova, che   vaticinano sconquassi per l’Italia se dovesse insistere nella sua posizione filo Ucraina, contemporaneamente vediamo che  nel web si comprano e vendono impunemente dati degli elettori italiani rendendo plausibile una strategia di pressione nei loro confronti. Gia nei giorni scorsi le autorità svizzere avevano lanciato un allarme , documentando come i server che fanno capo a società russe dislocati sul territorio elvetico stiano lavorando sull’Italia.
Ora la ricerca di Swascan rende indifferibile un intervento per fare luce sull’intera minaccia che tocca da vicino le elezioni italiane. Si attende un pronunciamento esplicito da parte del Copasir sui dati diffusi dalla società di Iezzi, che ha collaborato con lo stesso comitato di controllo parlamentare sui servizi proprio con vari report sul tema, e soprattutto l’Agcom deve , sulla scorta della consorella svizzera, almeno rendere esplicito lo stato di allarme che dalla rete sta risalendo per l’intero sistema della comunicazione nazionale. 




PER ESSERE DAVVERO SMART, LE NOSTRE CITTÀ NON DEVONO SOLO ESSERE DIGITALI MA ACCESSIBILI E INCLUSIVE

PER ESSERE DAVVERO SMART, LE NOSTRE CITTÀ NON DEVONO SOLO ESSERE DIGITALI MA ACCESSIBILI E INCLUSIVE

È sorprendente quanto sia terribilmente facile considerare la propria esperienza come universale, dando per scontato che i luoghi che abitiamo o attraversiamo vadano bene così come sono o che, al massimo, il loro unico sviluppo possibile sia un progresso tecnologico. Eppure il modo in cui le città sono progettate e costruite, e le politiche che le governano, hanno conseguenze sulla qualità della vita di miliardi di persone. A viverci, oggi è oltre il 55% della popolazione mondiale, ma i centri urbani continueranno a essere ancor più densamente abitati, tanto che nel 2050 la percentuale dovrebbe arrivare al 68%. Nei prossimi trent’anni, alle città si aggiungeranno circa 2 miliardi e mezzo di persone e 1 miliardo di veicoli, ma la maggior parte delle infrastrutture necessarie devono ancora essere costruite. Ci troviamo in un possibile momento di svolta: le decisioni che prendiamo determineranno se continueremo a crescere in modo frammentato e insostenibile, non sicuro e inquinante, o se invece saremo capaci di creare un futuro sostenibile e più inclusivo. Sono sempre di più, infatti, i comuni impegnati in progetti per gestire le risorse in modo intelligente, diventare economicamente sostenibili ed energeticamente autosufficienti, e attenti alla qualità della vita e ai bisogni dei propri cittadini. Si tratta di trasformare le nostre città in smart cities, cioè un luogo “in cui le reti e i servizi tradizionali sono resi più efficienti con l’uso di tecnologie digitali e di telecomunicazione a beneficio dei suoi abitanti e del business”, secondo la definizione della Commissione europea. Tecnologiche, veloci e sostenibili, le smart cities dovrebbero essere anche aperte, universali, agibili. Non possiamo più permetterci trasformazioni che non siano inclusive: le città del futuro sono accessibili e appartengono a tutte e tutti. 

Oggi non è ancora così. Per le persone con disabilità, infatti, la mobilità si rivela uno dei problemi più difficili da superare a causa delle barriere architettoniche, gli impedimenti materiali e concreti che limitano la mobilità delle persone, e percettive, quelle, per esempio, che rendono scarsamente conoscibile l’ubicazione degli edifici di uso pubblico, e che risultano ostili a persone cieche o sorde. Ostacoli che non permettono di partecipare alla vita civile in maniera autonoma e che impediscono di spostarsi liberamente, anche solo per raggiungere strutture sanitarie, scuole, luoghi di lavoro o di socialità. Secondo un rapporto dell’Istat del 2019, in Italia le persone con disabilità sono 3,1 milioni, pari al 5,2% della popolazione: l’Istituto rileva coloro che riferiscono di avere limitazioni, a causa di problemi di salute, nello svolgimento di attività ordinarie ma ammette che, pur essendo un primo passo, è una modalità che non consente davvero di avere una fotografia adeguata. Nell’Unione europea, il numero di persone disabili supera gli 80 milioni: cittadini e cittadine che non sempre riescono ad avere un eguale accesso ai servizi delle città e a beneficiare della loro crescita economica. Inoltre, la presenza di barriere architettoniche investe in maniera più o meno diretta anche la vita di altre persone, come anziani con difficoltà di deambulazione e genitori con passeggini. Luoghi più accessibili sono infatti posti migliori per tutti.

In Italia, i due principali testi che disciplinano la materia sono la legge n.13 del 1989 e il D.P.R. 503 del 1996, che definiscono i concetti basilari di accessibilità, visitabilità e adattabilità. L’accessibilità è concepita come “la possibilità di accedere ad ogni spazio interno ed esterno dell’edificio in modo autonomo e senza pericolo”; la visitabilità riguarda la facoltà di accedere in autonomia ad almeno un servizio igienico e agli spazi degli edifici adibiti allo svolgimento della sua funzione principale; l’adattabilità è invece la capacità di modificare nel tempo lo spazio costruito a costi limitati e senza stravolgerne l’impianto originale. I testi stabiliscono poi per le amministrazioni l’obbligo di predisporre un PEBA, cioè un piano per l’eliminazione delle barriere architettoniche. A quasi trent’anni dalla sua entrata in vigore, però, la legge ha finora trovato rara applicazione, probabilmente anche a causa delle difficoltà di coordinamento fra i vari livelli istituzionali e della mancanza di criteri che orientassero le amministrazioni nella redazione dei piani. La realtà si evince chiaramente dai monitoraggi svolti in alcune regioni. Da un’indagine di Anci Lombardia del 2018 emerge che il 94,2% dei comuni lombardi non è dotato di un piano di eliminazione delle barriere architettoniche, mentre un rapporto del Centro regionale per l’accessibilità della Toscana mostra come in oltre quattro contesti regionali su dieci siano presenti barriere fisiche che ne limitano l’accessibilità, dato che arriva a sei su dieci se si considerano anche le barriere percettive. Una stima che si attesta sulla media della condizione nazionale: l’Istat rileva come, dei 55.209 istituti scolastici italiani, solo il 34% risulti completamente accessibile per le persone con disabilità motoria, mentre appena il 18% per impedimenti sensoriali. A livello culturale le cose non cambiano: il 63,5% dei musei italiani, pubblici e privati, non è adeguatamente attrezzato per ricevere persone con gravi disabilità e solo uno su cinque offre materiale e supporti informativi, come percorsi tattili e cataloghi e pannelli esplicativi in braille. Certo, i paesi, i borghi e le città sono luoghi reali, impregnati della loro storia e condizionati dalla geografia, dove i lavori necessari a renderli accessibili si scontrano con la tutela dei beni culturali, soprattutto in un Paese dall’immenso patrimonio artistico come il nostro. Eppure anche in questi casi, apparentemente più difficili, esistono modalità di intervento capaci di tenere in equilibrio la valorizzazione della Storia e la piena autodeterminazione delle persone.

“A mancare sono le capacità dei tecnici e delle amministrazioni di inserire il tema dell’accessibilità nei progetti di opere pubbliche, spesso accorgendosi in ritardo che molti spazi non lo sono o non considerando affatto questa urgenza“, spiega a The Vision Andrea Ferretti, presidente di Peba Onlus, associazione che aiuta i comuni nella redazione dei piani per l’eliminazione delle barriere e nella mappatura delle città italiane. “Redigere un elenco degli ostacoli presenti non è cosa da poco: si va di strada in strada, di edificio in edificio, per rilevare quelle presenti. Serve la sensibilità di saper progettare per tutti e di capire che la trasformazione delle città in luoghi accessibili non è una spesa, ma un investimento”. Una città piena di ostacoli è infatti anche una città diseconomica. Quando l’accessibilità è davvero garantita non solo favorisce il turismo, più inclusivo e competitivo e per questo capace di contribuire in maniera più ampia allo sviluppo economico, culturale e sociale, ma permette anche alle persone con disabilità di esercitare a pieno il proprio diritto al lavoro, oltre che di sviluppare la loro personalità, nella concezione e ampiezza che dovrebbero essere garantite dalla Costituzione. 

Visto l’alto tasso di urbanizzazione previsto nei prossimi decenni, è fondamentale che l’inclusione e l’accessibilità vengano integrate in tutti i processi di pianificazione e gestione degli ambienti urbani. Una città non può essere davvero “intelligente” se non può essere vissuta da tutti. Nel processo di trasformazione dei nostri luoghi in smart cities è allora utile considerare la digitalizzazione un mezzo, non un fine, mettendo la tecnologia al servizio delle persone. A Trieste, per esempio, è stata installata una rete di segnalatori radio nei punti strategici della città e sui mezzi pubblici che, grazie a un microsistema di comunicazione inserito nell’impugnatura del bastone, permette alle persone ipovedenti di prenotare la fermata o essere a conoscenza della direzione e della linea dell’autobus. Alcune piattaforme, già adottate anche negli Stati Uniti, permettono invece di rilevare velocemente le barriere architettoniche sul territorio e, attraverso il crowdsourcing, consentono ai cittadini di collaborare alla creazione di un database. Alcuni sperano che questo stimolerà l’emergere di un nuovo tipo di cittadinanza urbana: il cosiddetto smart citizen, un membro della comunità che, anche se non disabile, aiuta ad annotare e documentare gli ostacoli presenti nell’ambiente, aumentando al contempo la propria consapevolezza sul tema. L’intelligenza artificiale può poi venire incontro alle persone sorde nel trascrivere istantaneamente le conversazione di un gruppo, aggiungendo la punteggiatura e il nome di chi parla. Nella metro di New York e Marsiglia e al Museo Luma ad Arles si sta invece testando un’applicazione che, attraverso un’attenta analisi del luogo e delle capacità della persona, dà indicazioni live sulle azioni da compiere o permette di visionare gli itinerari migliori per evitare ostacoli.

Anche se capaci di contribuire allo sviluppo di una società più efficiente, veloce e globalizzata, bisogna però tener conto di come le tecnologie possano costituire anche un elemento di emarginazione. Pensiamo alle generazioni più anziane, meno pratiche con determinati strumenti o processi di innovazione, o alla scarsa alfabetizzazione digitale riscontrata nel nostro Paese, nonostante nel 2018 il Consiglio dell’Unione europea l’abbia qualificata come una competenza base. Inoltre, nonostante le buone intenzioni, spesso le iniziative che si basano sull’apporto di tutta la comunità danno per scontato che chiunque possa notare o misurare l’accessibilità dell’ambiente circostante, ma in molti casi si rischia di considerare solo le barriere legate alle disabilità motorie – se non quando anche queste vengono sottostimate, per esempio non conoscendo le reali dimensioni delle diverse sedie a rotelle –, ignorando quelle cognitive o relative a vista, udito e malattie croniche. “Serve investire nella formazione e nell’aumentare la consapevolezza che se un luogo è accessibile, lo è per tutti. Ma per gli altri è una maggiore comodità, per noi un diritto che non sempre viene rispettato”, racconta a The Vision Valentina Tomirotti, scrittrice e attivista disabile. “La politica deve guardare a un processo di co-creazione, in cui la pianificazione, l’aggiornamento delle normative e la loro attuazione sia svolta includendo le associazioni, per saper integrare al meglio i vari bisogni in termini di mobilità e accessibilità che coinvolgono le persone con disabilità”. Nel 1985, l’architetto americano Ronald Mace coniò il termine Universal Design, descrivendolo come “la progettazione di prodotti e ambienti utilizzabili da tutti, nella maggior estensione possibile, senza necessità di adattamenti o ausili speciali”. A distanza di quasi quarant’anni, è una rivoluzione di come concepire il rapporto tra le persone, l’ambiente e il territorio che si fa sempre più rilevante per costruire e adeguare le città del futuro.


Questo articolo è realizzato da THE VISION in collaborazione con Telepass, tech company all’avanguardia nella rivoluzione della mobilità in ambito urbano ed extraurbano in un’ottica sempre più innovativa e sostenibile. Grazie a un’unica app che tiene insieme un esclusivo metodo di pagamento e una pluralità di servizi legati alla smart mobility, come le strisce blu, il carburante o la ricarica dell’auto elettrica, l’uso di monopattini, bici e scooter in sharing, l’acquisto di biglietti per treni e pullman, il noleggio di auto, il pagamento del bollo o a favore della Pubblica Amministrazione, Telepass trasforma ogni spostamento in un’esperienza senza confini.




Ford sta entrando nel Metaverso, ecco tutte le novità in cantiere

Ford sta entrando nel Metaverso, ecco tutte le novità in cantiere

Dopo Renault, ora è il turno di Ford. La nota casa automobilistica statunitense il 2 settembre ha depositato 19 domande di marchio presso l’Ufficio Brevetti e Commercio degli Stati Uniti d’America. Una notizia che sta facendo il giro del mondo.

A rivelare questa novità è stato Mike Kondoudis, avvocato specializzato in marchi che ormai conosciamo bene per i suoi leaks interessanti. Attraverso un tweet ha specificato che le domande sono tutte legate a Metaverso e Token Non Fungibili. In particolare si tratta dei suoi marchi Mustang, Bronco, Explorer, F-150 Fulmine, Lincoln e altri.

Kondoudis non ci ha pensato due volte a rivelare il progetto di Ford. L’obiettivo è quello di entrare nel Metaverso e nel mondo degli NFT. Lo farà attraverso applicazioni virtuali creando auto, veicoli industriali, SUV e abbigliamento. Il tutto supportato anche da un mercato online di collezionabili.

FORD sta facendo un grande passo avanti nel Metaverso!
La società ha depositato 19 domande di marchio per tutti i suoi principali marchi.

Ford si prepara per Metaverso e NFT

Come Renault, anche Ford si è decisa a prepararsi per un prossimo debutto nel Metaverso depositando domande di marchio relative a veicoli virtuali e abbigliamento autenticabili con NFT. Nel documento depositato presso l’Ufficio Brevetti e Commercio degli Stati Uniti d’America si legge:

File multimediali scaricabili contenenti grafica, testo, audio e video di automobili, SUV, camion e furgoni autenticati da token non fungibili (NFT); prodotti virtuali scaricabili, ovvero programmi per computer riguardanti automobili, SUV, camion e furgoni, parti e accessori per veicoli terrestri e abbigliamento da utilizzare in mondi virtuali online.

A questo si aggiungono anche la promozione di opere d’arte digitali di terzi mediante la fornitura di portafogli digitali online attraverso un sito Web ad hoc e negozi al dettaglio online con Token Non Fungibili e oggetti da collezione digitali.

Sembra proprio che Ford, da quanto si evince nel documento ufficiale, sta lavorando sodo per realizzare servizi di intrattenimento virtuali. In altre parole, la fornitura di automobili virtuali non scaricabili online compresi SUV, camion e furgoni. Non mancheranno anche accessori per veicoli e abbigliamento.

Tutto potrà essere fruito attraverso ambienti virtuali realizzati ad arte per scopi di intrattenimento. In questo senso, saranno anche create fiere ed eventi specifici online dove sarà possibile agli utenti parteciparvi in realtà aumentata.

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