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FERPI: a Napoli una giornata per riaffermare l’impegno verso una comunicazione responsabile

FERPI: a Napoli una giornata per riaffermare l’impegno verso una comunicazione responsabile

«La responsabilità di chi comunica è oggi centrale, tanto nella società quanto nei contesti professionali. Come FERPI, sentiamo il dovere di guidare il cambiamento attraverso strumenti concreti, momenti di confronto e il rafforzamento della cultura etica nella nostra comunità». Spiega così Filippo Nani, presidente della Federazione Relazioni Pubbliche Italiana, il senso della giornata che a Napoli metterà al centro la Comunicazione Responsabile. Un seminario pubblico, infatti, aperto a tutti i possibili interessati, precederà sabato prossimo, 12 luglio, i lavori della Assemblea Generale Ordinaria di FERPI, dal titolo “Comunicazione responsabile? Noi ci siamo”. Introdotto da Assia Viola (in foto), Delegata FERPI Campania e Communication Director di SMA Road Safety, si propone, appunto, di contribuire a fornire un metodo e degli strumenti per il lavoro di ogni giorno di chi comunica: «Abbiamo voluto che questa Assemblea nazionale fosse un momento di dialogo con il territorio, aperto alla città e alle sue energie. Oggi più che mai la responsabilità non è solo un principio deontologico, ma una pratica quotidiana: la scelta di essere presenti, di ascoltare, di esserci davvero». Il momento assembleare annuale delle socie e dei soci FERPI, in programma nella sede della Fondazione Banco di Napoli (Via dei Tribunali 213) diventa così anche occasione pubblica di riflessione su temi cruciali per il presente e il futuro della professione: etica, reputazione, intelligenza artificiale e sostenibilità.Il Programma della giornata, tra cultura e pratica professionale Si comincerà sabato alle ore 10.00 con una visita guidata all’Archivio Storico della Fondazione. “Siamo felici di ospitare un confronto così autorevole sui temi della comunicazione responsabile – dichiara Ciro Castaldo, Direttore della Fondazione Banco di Napoli –. La nostra Fondazione crede nel valore della memoria come motore di consapevolezza e sviluppo, e la scelta di partire dall’Archivio è un segno tangibile di questo legame tra passato e futuro».A seguire, a partire dalle ore 11.00, il seminario pubblico, moderato da Elena Salzano, Consigliere Nazionale FERPI e CEO di Incoerenze, che evidenzia: «Comunicare in modo responsabile significa restituire senso alle parole e valore alle relazioni. A Napoli vogliamo ribadire il ruolo strategico della comunicazione nella costruzione di fiducia e coesione sociale, soprattutto in un’epoca di crisi e trasformazioni». Nell’incontro, i contributi di tre esperti del settore, tutti soci FERPI di lunga esperienza. Sergio Vazzoler, Co-Founder e Direttore Strategie e Relazioni Istituzionali di Amapola, richiamerà l’importanza di recuperare autenticità nel modo di comunicare. Oggi, più che formalismi e certificazioni, serve trasmettere vicinanza e concretezza. Secondo Vazzoler, solo una comunicazione autentica può dare nuovo valore alla sostenibilità e renderla davvero trasformativa. Luca Poma, Professore in Reputation Management all’Università LUMSA e all’Università della Repubblica di San Marino, porrà l’attenzione sui nuovi rischi reputazionali nell’era digitale. Tra tecnologie pervasive e manipolazioni sempre più sofisticate, la comunicazione affronta sfide inedite. Servono, dice, non solo nuove regole, ma anche un’etica professionale più forte. Biagio Oppi, External Communications Director di Pfizer Italia e Consigliere Nazionale FERPI, presenterà il “Venice Pledge”, iniziativa globale per un uso etico dell’intelligenza artificiale nella comunicazione, evidenziandone il valore pratico per i professionisti e l’importante contributo italiano alla sua realizzazione.A conclusione della mattinata, si terranno i lavori assembleari di FERPI, con la relazione del suo presidente, Filippo Nani.




Don Chisciotte vs. Dolos: come i brand distruggono compulsivamente valore

Aziende che continuano a ignorare i fondamentali del reputation management

Il brano “Il duello con i mulini a vento” è uno dei racconti più significativi del Don Chisciotte, capolavoro di Miguel Cervantes, componimento in prosa che probabilmente segna la nascita del romanzo moderno europeo, peraltro in qualche modo ispirato dalla nostra penisola, se è vero che verso la fine del XVI secolo proprio Cervantes visitò l’Italia, e approfondì la sua conoscenza della letteratura italiana, venendo a contatto con i poemi epico-cavallereschi rinascimentali.

Ed è proprio da quella narrativa che si lascia ispirare e rapire il protagonista del libro, Alonso Quijano, un nobiluomo della regione della Mancia, in Spagna centrale, con la passione per i romanzi cavallereschi: pagine di duelli e amori che lo stravolgono nell’animo, fino a far divenire lui stesso un cavaliere errante, spinto dalla necessità di una crociata contro il male che dilaga nel mondo e contro le cose sbagliate che ne condizionando la sopravvivenza.

Lui parte e viaggia, finché – è uno degli episodi più noti del romanzo – non incrocia alcuni mulini, che scambia per dei giganti enormi con lunghe braccia e intenzioni assai cattive; e nonostante il fedele scudiero lo avvisi ripetutamente che sono in realtà mulini a vento, non c’è nulla da fare, il nobiluomo dà retta al suo cuore e si fa travolgere dalla sua immaginazione, e parte lancia in resta per abbatterli, finendo però poi rovinosamente a terra.

La consulenza direzionale nel settore del reputation management: parole al vento?

Ecco come mi sento, come ci sentiamo, da tempo ormai, coloro i quali tra noi – eterni Don Chisciotte – continuano a ripetere come un mantra quei “fondamentali” del reputation management ai quali non solo crediamo profondamente, ma che sono confortati da intere biblioteche di letteratura scientifica e da migliaia di case-study pratici, e che altrettanto ritualmente sono violati dai brand e da chi, come top manager, quelle aziende le dirige.

Sulla necessità di promuovere un business dal volto umano si pronunciò molto tempo fa l’economista italiano Antonio Genovesi, che in pieno Illuminismo predicava inascoltato sulla costruzione necessaria di una “economia civile”, ovvero finalizzata alla responsabile generazione di felicità per le persone, sostenibile in quanto capace di coniugare crescita economica ed equità sociale, all’insegna di parole chiave come reciprocità, fiducia e mutuo vantaggio. Oggi, tre secoli dopo, le sue parole paiono risuonare come una eco nel vuoto.

Capisco che quello di Genovesi potrebbe suonare alle orecchie dei più un approccio troppo distante ed astratto, ma per attualizzare questi concetti ai tempi moderni ci è venuto in soccorso già da tempo Robert Eccless, ad Harvard, dimostrando che introdurre preoccupazioni etiche nel business fa guadagnare più soldi: la sua bella ricerca – durata 18 lunghissimi anni e terminata nell’ormai lontano 2012 – ha generato risultati inequivoci, spostando il focus sulla sostenibilità e sul modo corretto di fare le cose da una dimensione “morale” a una dimensione legata al maggior profitto, conseguenza diretta dell’etica. Un profitto dal volto umano che dovrebbe mettere d’accordo una volta per tutte gli interessi degli azionisti con il futuro del Pianeta, perché se facendo le cose per bene si aumentano i dividendi, il perché si continui a farle in “malo modo” resta un mistero insondabile, un comportamento disfunzionale e inefficace, che restringe la licenza di operare delle aziende, riduce i guadagni, distrugge valore, e quindi grida vendetta.

E dopo di lui, sono seguite altre numerosissime evidenze, riflessioni, prove, e discorsi continui, ad esempio, sulla necessità di mitigazione del rischio e di gestione dell’impatto delle crisi, a difesa di quel bene preziosissimo che è la reputazione, universalmente riconosciuto come il primo e più prezioso degli asset intangibili di qualunque organizzazione economica. Ultimo in ordine di tempo il bellissimo lavoro[1] pubblicato dall’Ordine dei Dottori Commercialisti e dei Revisori Contabili di Torino, e per essere più precisi dalla Commissione di Studio Governance e Finanza, coordinata dal dott. Paolo Vernero, documento accurato e ponderoso, modernissimo per contenuto e anche per stile, presentato, nella sua seconda edizione ampliata, pochi giorni fa a Torino presso l’aulica sede dell’Ordine, con prolusione del Presidente Dott. Luca Asvisio, che una volta di più ha intelligentemente ricordato – con il conforto di un’imponente mole di dati e riferimenti legislativi e bibliografici – che porre attenzione alla sostenibilità non significa far contenta Greta Thunberg, bensì, casomai, porre le condizioni per rendere il business più redditizio e resiliente nel tempo, se è vero che – come ricorda spesso Vernero – “un’azienda non sostenibile al tempo t, avrà maggiori probabilità di perdere la continuità aziendale al tempo t+1”[2].

Sempre il mondo della rendicontazione contabile si è interrogato a più riprese sulle modalità di computazione e riporto in bilancio dei cosiddetti intangible, tra i quali la reputazione e in generale i fattori ESG sono certamente, insieme ai brevetti, la voce più rilevante sotto il profilo finanziario. Ormai la letteratura, e gli standard internazionali, sono totalmente concordi sul punto, come conferma un recente lavoro sempre di Vernero e altri: “le risorse immateriali essenziali – ovvero quelle che, ancorché prive di consistenza fisica, condizionano il modello dell’impresa e costituiscono una fonte di valore per essa – (…) integrano i presupposti per l’iscrizione in bilancio”[3]. D’altra parte, il valore di un brand – ad esempio il prezzo che si manifesta nel caso di operazioni di fusione e acquisizione – si allontana sempre più spesso, aggiungono gli esperti commercialisti, dal suo valore contabile, ed è opinione consolidata tra gli addetti ai lavori che la differenza sia in larga parte imputabile, appunto, agli intangibili, il cui peso è concretamente condizionato dalle strategie di sostenibilità dell’azienda, non certo solamente sotto il profilo ambientale, ma anche sotto quello sociale e di governance.

Ma a nulla – o a pochissimo – sono servite tutte queste riflessioni e avanzamenti nella dottrina: così tanti sono gli esempi di ottusità diffusa da gettarci sconsolati nella disperazione più nera. Vediamone qualcuno, come al solito senza fare nomi…

Mundys – Atlantia: alti dirigenti in carcere, diciamolo

Per evitare che il rebranding ottenga il suo scopo, è bene ricordare che una volta si chiamava Autostrade S.p.a., e che fa riferimento alla famiglia Benetton, la stessa che esattamente 24 ore dopo il crollo del Ponte Morandi (43 morti e centinaia di feriti) era a festeggiare ferragosto a Cortina con gli amici. Non un post di condoglianze alle famiglie distrutte nel primo giorno del disastro, perché – dicono i ben informati – il loro avvocato gli consigliò di non fare nessuna dichiarazione pubblica in quanto avrebbe potuto nuocere alla linea di difesa in Tribunale (!). Neanche il bottegaio sotto casa mia avrebbe violato così tante regole di crisis management (e meno male che erano seguiti da un agenzia di consulenti di Milano), ma tant’è, io non sono nessuno, e loro sono una delle famiglie più ricche d’Italia, e quindi certamente non carenti, potenzialmente, di strumenti professionali atti a gestire al meglio una devastante crisi di reputazione. Potenzialmente, appunto.

Per la cronaca, il ponte crollò per gli stessi motivi per i quali qualche anno prima venne sfondato un altro viadotto, sempre sotto la loro responsabilità, quello di Acqualonga, vicino ad Avellino, dove la sera del 28 luglio 2013 sull’autostrada A16 un pullman con l’impianto frenante guasto si schiantò, poi precipitando, sul guardrail autostradale, mal tenuto proprio da Società Autostrade (altri 40 morti, se ben ricordo): manutenzione del tutto inadeguata da parte di un’azienda non certo “in ristrettezze”, ma anzi con ampia disponibilità di budget per fare – avesse voluto! – le cose a regola d’arte.

Per questi motivi, il loro Amministratore Delegato di allora, Giovanni Castellucci, è in prigione a Bollate: carcerazione che ha goduto di poca copertura stampa (mai disturbare troppo il manovratore); e con lui l’ex numero due di ASPI, Paolo Berti, condannato a 5 anni di reclusione, l’ex direttore generale Riccardo Mollo, che dovrà scontare 6 anni, e Michele Renzi, direttore di tronco, condannato a 5 anni. Ma che bella reputazione, madama Dorè: avanti verso nuove fusioni, acquisizioni e nuovi rebranding, e voltiamo pagina.

Sarebbe interessante sapere cosa pensa di tutto ciò Alessandro Benetton – Presidente della holding di famiglia Edizioni e Vice Presidente di Mundys ex Atlantia – molto attivo sui Social anche sui temi dell’etica nel mondo del business: chissà se considera “sostenibile” un’azienda che barattava cadaveri per dividendi e denaro.

Poste Italiane: il tormentone dell’estate 2025

Giovani precari costretti a lavorare 10-12 ore al giorno per circa metà della paga che avrebbero meritato, con potenziale compromissione del loro stato di salute in nome del profitto aziendale: e fin qui sarebbe (purtroppo) la norma per molte aziende.

Ma dal punto di vista reputazionale si infrange il muro del ridicolo quando qualche “genio” del management aziendale pensa bene di far circolare un foglio da far firmare ai postini, nel quale essi dovrebbero “spontaneamente” dichiarare – no, non è una barzelletta! – che l’eventuale straordinario dell’ultimo periodo è stata “una loro idea, per amor di precisione e per rispetto del cliente, per non lasciare del lavoro inevaso e terminare le consegne nelle buche delle lettere”.

Iniziativa “creativa” del tutto ininfluente dal punto di vista giuridico, dal momento che i patti contro la legge quando si parla di diritto del lavoro sono nulli, ma assai rilevante sotto il profilo reputazionale, come giustamente denunciato da una graffiante inchiesta di Report (qui un video).

La più grande azienda pubblica del Paese dichiara quindi nei propri Codici etici di promuovere uno “sviluppo sostenibile orientato al benessere dei dipendenti” (!), però poi ogni anno assume migliaia di giovani precari “usa e getta” da destinare alle attività di smistamento e consegna della posta, che tratta in modo quantomeno discutibile.

E questo è niente, rispetto alle direttive che piovono, sempre in Poste Italiane, in testa ai “consulenti delle Filiali” (promotori finanziari), i quali sono impegnati “a cottimo” con quote di vendita per ogni specifico prodotto da raggiungere ogni settimana. E se i correntisti delle poste non hanno bisogno di quei prodotti/servizi…? “Cosa c’entra il bisogno?”, è la dichiarazione di una persona intervistata da Report, con voce camuffata per evitare l’altrimenti sicuro e vendicativo licenziamento: “L’importante è fare telefonate una via l’altra e raggiungere quelle quote di vendite di polizze d’investimento, quelle quote di piazzamento di titoli di Stato, etc, anche se il correntista avrebbe bisogno di altri prodotti”, è il senso della risposta del collaboratore dell’azienda.

Il Cliente al centro, dicono tutti i corsi di customer care, e mi raccomando, sempre quarto tipo di scambio[4] con gli stakeholder. Voi di Poste Italiane sì che sapete costruire fiducia e manutenere al meglio il vostro Lovemark[5].

Kering: il gigante del lusso (e delle frodi fiscali)

Nel cuore della moda internazionale, un settore spesso accusato di opacità, impatti ambientali devastanti e pratiche scorrette lungo le filiere, Kering si è distinta come l’eccezione che riscrive la regola. Non più solo alta gamma, esclusività e margini stellari: Kering avrebbe dimostrato che sarebbe possibile “coniugare l’eccellenza estetica con l’eccellenza etica”. Ed è per questo che — tra le grandi multinazionali del lusso — pare essere diventata un modello.

Sotto la guida visionaria di François-Henri Pinault, il gruppo ha costruito un’identità in cui etica e business si rinforzano a vicenda. Il risultato? Un’equazione (apparentemente) perfetta: più sostenibilità, più reputazione, più valore, per dimostrare che un altro modo di fare impresa — più giusto, più trasparente, più umano — non solo è possibile, ma è già realtà (prendete appunti, mi raccomando!).

Verrebbe da pensare che funzioni tutto: è il lusso che fa bene al mondo. Kering, aggiungo, si distingue per aver costruito un’intera architettura organizzativa attorno a tre pilastri fondamentali: integrità, responsabilità, trasparenza. Nel Codice Etico del Gruppo, disponibile in quattordici lingue, il messaggio d’altra parte è chiaro sin dalle prime righe: “Dobbiamo agire con integrità, lealtà e senso di responsabilità”.

Salvo poi rendersi direttamente responsabili della più imponente elusione fiscale mai registrata nella storia in Italia, come denunciato dall’ex top manager del gruppo Avv. Carmine Rotondaro, professionista che ha contribuito a portare alla luce l’esterovestizione di Gucci e Bottega Veneta in Svizzera, sede solo fittizia, istituita ai fini di risparmio fiscale, con un danno erariale enorme per le casse del fisco in Italia, quindi di tutti noi.

Una storia davvero brutta, della quale – sulla base della documentazione prodotta in giudizio dall’Avv. Rotondaro e dal suo legale di fiducia Avv. Salvatore Pino – il patron Pinault era ben al corrente, e dove l’avidità ha avuto la meglio, per oltre 15 anni, sia sull’etica aziendale che sugli interessi di non pochi dipendenti di Kering, impropriamente coinvolti e travolti in uno scandalo fiscale che ha poi generato sanzioni complessive all’azienda per oltre 1,5 miliardi di euro, ma che – oltre che danneggiare gli azionisti – ha danneggiato anche i collaboratori stessi, coinvolti dall’accertamento dell’Agenzia delle Entrate e sanzionati per il solo fatto di aver obbedito agli ordini dei vertici dell’azienda. Se ne parlerà in un libro di imminente pubblicazione, contenente documentazione assai intrigante, e molto probabilmente anche in una mini-serie TV. Una bella gatta da pelare per il neo-nominato AD Luca De Meo

Un evergreen: Autogrill S.p.A.

Di Autogrill avevo già scritto a più riprese in passato, sia per la forte attenzione ai temi ESG a fronte di una qualità quanto meno discutibile (il primo pilastro per la costruzione di buona reputazione è, ricordiamolo, proprio la qualità del prodotto/servizio), sia per una serie di non conformità sulla sicurezza alimentare, denunciate da un whistleblower, con prodotti scongelati e non più idonei al consumo venduti come  freschi e a caro prezzo, e altre delizie del genere.

Vari influencer e creator hanno dedicato attenzione alla politica di prezzi e di customer care di Autogrill (qui un breve e simpatico video Instagram che prende spunto dal prezzo di oltre 8 euro di un panino al prosciutto crudo…). La cosa più intrigante sono però sempre i commenti degli utenti, mai gestiti dall’azienda (il che equivale a dimostrare: “non ci interessa nulla di ciò che dite”). Si va dal “La cosa buffa è che in autostrada la logistica dei trasporti raggiunge l’apice della convenienza e della facilità, in nessun posto al di fuori dell’autostrada è così facile consegnare la merce, dovrebbe costare tutto molto meno!” (dagli torto) a “Anche Mcdonald’s c’è in autostrada, e i prezzi sono gli stessi dei negozi in città”, ad altri meno carini e assai indicativi della (non eccellente) reputazione del semi-monopolista della ristorazione autostradale.

Idem a Fiumicino, anche quest’anno premiato come migliore aeroporto d’Europa, ma forse non per la ristorazione. Stupiscono infatti le recensioni estremamente negative del ristorante a marchio Eataly, sia per qualità che per rapidità (si fa per dire) del servizio, ma tutto acquista una logica quando si legge l’intestazione dello scontrino: la gestione della ristorazione infatti è di Autogrill, e a poco serve cambiare punto di ristoro in Fiumicino, così è per la quasi totalità dei ristoranti dell’aeroporto.

Anche qui, buona reputazione questa sconosciuta, in barba a tutto quello che ripetiamo fino all’ossessione circa il fatto che costruire una solida reputazione genera maggior valore nel medio-lungo periodo, concetti che le aziende – Autogrill non fa eccezione – fanno (apparentemente) propri nelle loro value proposition[6], ma solo a parole.

Curiosità a margine, sarà un caso, ma il principale azionista di Autogrill è sempre la famiglia Benetton, quelli del disastro del Ponte Morandi ed episodi correlati: quando hai capito tutto di sostenibilità del business e di buona reputazione, e non perdi occasione di dimostrarlo…

Max Mara: dove trattar male i dipendenti è un must

Gwyneth Paltrow che balla al ristorante “Bersagliera”, Sharon Stone che regala sorrisi ai flash dei fotografi, brindisi in riva al mare, tarantelle sulle note di Volare o Bella Ciao, crociere a Positano e una visita privata al Museo Archeologico di Napoli: un articolo di stampa denuncia che mentre Max Mara, colosso da 1,8 miliardi di fatturato con quasi 2.500 negozi in 90 nazioni, celebrava i suoi 75 anni con i propri testimonial e con una sfilata monumentale alla Reggia di Caserta, tra discorsi sull’“eccellenza della sartoria italiana” e sulle “donne forti e iconiche a cui si ispira il brand”, le sarte della Manifattura San Maurizio di Reggio Emilia – che producono proprio quei capi – denunciavano di venir chiamate “obese” e “mucche da mungere” sul posto di lavoro, e di essere costrette a lavorare praticamente a cottimo per 1.300 euro al mese; anche il Viceministro del Lavoro, Maria Teresa Bellucci, ha confermato che l’Ispettorato nazionale del lavoro ha ricevuto negli ultimi mesi “alcune segnalazioni che hanno posto l’attenzione su situazioni problematiche all’interno del contesto aziendale, in particolare riguardo al trattamento delle lavoratrici”. Senza parole.

Già molti anni fa, un’indagine promossa dalla CGIL sulle dipendenti di Max Mara fece emergere che il 30% aveva un esaurimento nervoso e il 70% soffriva di disturbi psicosomatici, ma la risposta del fondatore, Achille Maramotti, fu: “Donne, il padrone sono io” (!); da allora, evidentemente, non è cambiato molto.

E niente, dopo aver letto le convinte dichiarazioni del gruppo sull’importanza della sostenibilità e contro lo sfruttamento del lavoro, io davvero vorrei prendere un caffè con i vertici dell’azienda: qualcuno della famiglia Maramotti, l’AD dott. Eugenio Sidoli, e il suo capo della comunicazione…fate voi, scrivetemi su Linkedin.

Sparare sulla Croce Rossa: da Chiara Ferragni a Glaxo, da Armani a Dior, un elenco di non conformità senza fine

Oltre ai cinque “gioielli” di good reputation dei quali abbiamo discusso sopra, potremmo citare, più in sintesi, molti altri brand alle cui dichiarazioni ESG[7] non corrisponde minimamente la realtà.

Ad esempio, Chiara Ferragni, che per carenze del proprio management (che lei però ha inizialmente protetto) è stata coinvolta in una crisi reputazionale che sarebbe stata risolvibile applicando i corretti principi di crisis communication, ma che lei – mal consigliata – ha deciso di non affrontare di petto, distruggendo in pochi mesi un “impero” da decine di milioni di euro.

Poi Armani & Dior, finiti sorprendentemente commissariati dal Tribunale di Milano per sfruttamento di lavoratori e mancato rispetto dei diritti sindacali lungo la propria filiera di fornitura. Loro, che tanto decantano attenzione al rispetto dei diritti e alla sostenibilità nel proprio ecosistema…

Come non citare anche Glaxo, azienda farmaceutica con una spettacolare DNF[8] e una narrazione centrata sulla costruzione di salute per intere popolazioni, che poi però mette in commercio uno psicofarmaco antidepressivo per bambini e adolescenti che ha come effetto collaterale niente meno che l’induzione al suicidio, non pubblicando due studi scientifici che dimostravano che il loro settore di ricerca scientifica era perfettamente al corrente del problema. La stessa azienda ha anche intralciato la giustizia nella fase di indagine, finendo multata con una cifra astronomica (nuovamente gli azionisti ringraziano!), e ovviamente – dal momento che la trasparenza e l’autenticità solo di casa a parole, come strumento di marketing e comunicazione – senza raccontare nulla di tutto ciò nella propria rendicontazione sociale e integrata.

E che dire di Volkwagen – qui siamo all’assurdo! – che da un lato ritirava un premio dietro l’altro sul tema della sostenibilità e del basso impatto ambientale, e dall’altro lato truccava scientemente le emissioni dei propri motori diesel per farli apparire meno ecologicamente impattanti (e – aggiungo – che è arrivata completamente impreparata alla deflagrazione di una crisi annunciata con oltre un anno di anticipo grazie all’avvio dell’ispezione da parte delle autorità UE).

Storie – alcune recenti e altre meno – tratte da un lunghissimo elenco che si arricchisce letteralmente ogni settimana di nuovi spunti riguardo queste tematiche, tanto che a questo genere di disastri reputazionali ho dedicato il mio ultimo volume, “Crash Reputation”.

Tutti sono brand noti, medie e grandi aziende, alcune anche molto strutturate, accomunate da almeno due gravi non conformità: in primo luogo, un approccio inautentico alla gestione della reputazione, con un’immagine pubblica in tutto o in parte disallineata dalla propria vera identità (ad esempio roboanti dichiarazioni sull’importanza dell’etica illustrate nei propri codici etici e nel proprio impianto ESG, poi in larga parte disattese nella pratica); e in secondo luogo, una pressoché totale incapacità di prevedere il rischio e mitigare l’impatto delle crisi reputazionali, nonostante gli strumenti per farlo esistano da tempo, e a costi accessibilissimi.

Perché a volte i manager e gli imprenditori si impegnano a distruggere valore?

Nella favola “Prometeo e l’Inganno”, Dolus, allievo di Prometeo, maestro nell’arte dell’ipocrisia e del mascherare le intenzioni separando le parole dai fatti, modella una statua della menzogna (Mendacium) accanto a quella della Verità (Aletheia). Poiché gli manca l’argilla per i piedi, la prima statua rimane immobile, simboleggiando che la menzogna non dura nel tempo: è proprio da questa favola che deriva l’antitesi tra “verità che cammina” e “bugia senza piedi”, o – per dirla con l’adagio popolare – l’affermazione che “le bugie hanno le gambe corte”, il che riflette esattamente la situazione delle aziende specializzate in narrazioni basate sul greenwashing o comunque inautentiche, smentite dai fatti, le cui performance vengono a causa di ciò compromesse, a volte irrimediabilmente.

Per Dolos, la parola è vuota, ed è strumento di frode, piuttosto che di espressione genuina, e ci è utile ricordare in questo contesto quanto sia pericolosa la perdita di coerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa, perché – come dimostra la narrativa classica, ma anche la letteratura scientifica relativa al reputation & crisis management – l’inganno si ritorce quasi sempre contro chi lo ha generato.

Ebbene, la capacità degli esseri umani di costruire narrazioni artefatte per migliorare il grado di accettazione da parte della propria rete sociale è semplicemente incredibile: e in quest’ottica va intesa e analizzata anche la ricerca ESG – finanziata dal Parlamento Europeo e presentata a Bruxelles e al Senato della Repubblica a Roma – dalla quale è emerso che il 70% circa dei rating ESG assegnati in Italia vengono rilasciati solo sulla base delle dichiarazioni fornite dalle stesse aziende sotto esame, senza alcuna verifica o audit da parte di “certificatori” terzi indipendenti; e il problema non è solo delle aziende a caccia di certificazioni facili (e a poco prezzo) ma anche dei consulenti stessi, alcuni notissimi a livello internazionale, che spacciano per “certificazioni” rating che – in base ai relativi regolamenti UE – certificazioni non sono.

L’irritazione è enorme, da parte di chi si impegna, urlando nel deserto, per cercar di dimostrare l’importanza di rispettare le regole, incluse le aziende – e ce ne sono – che si impegnano per fare bene.

Contro chi indirizzare la rabbia? Un grande professore di economia, Stefano Zamagni, dell’Alma Mater, rispose a modo suo, fustigando i marketer, e affermando provocatoriamente in una bella intervista per l’Harvard Business Review:

“Il manager – an­che se dico una cosa che a qualcuno darà fastidio – è una specie molto raffinata di ‘mercenario’. Nel Me­dioevo i mercenari combattevano per chi pagava me­glio. Ebbene, se qualcuno fa a un manager un’offerta vantaggiosa, questo abbandona quell’azienda e passa a un’altra. Perché quindi a un manager interessa poco l’inserimento di preoccupazioni etiche nell’impresa? Perché il vantaggio competitivo che ciò conferisce è un vantaggio di medio-lungo termine. È chiaro che lo short-termism porta a una sottovalutazione: chi pratica Corporate Social Responsibility guadagna in repu­tazione, e ha quel 20% in più di utili, ma a me manager questo non interessa, io intanto ho il mio contratto, è già definito ex ante, ho già il golden parachute, e quindi cambio azienda e vado avanti”.

Sarà questo il motivo di tanta superficialità da parte dei brand sul fronte del reputation management?

Matteo 12,33: “L’albero si riconosce dal frutto.”

Mi è difficile comprendere – sarà un limite mio – come sia possibile commettere errori così marchiani in presenza di un sistema di regole da tempo completamente e chiaramente codificate.

Forse ha ragione Zamagni, siamo dinnanzi a un’ossessiva attenzione al denaro, con disponibilità a “truccare le carte” pur di raggiungere – quanto meno sulla carta – certe performance; o forse è disinteresse; o ancora ignoranza; oppure è colpa dell’esistenza di false credenze dure a morire sul fatto che l’unica cosa importante è “il risultato, a qualunque costo”. Fatto sta che – evangelicamente parlando – l’albero si riconosce dal frutto: ciò significa (anche) che gli effetti che generi ti qualificano, e i comportamenti dovrebbero essere valutati innanzitutto per la loro efficacia, dai risultati che sono in grado di produrre, ovviamente non solo nel breve periodo. Per questo, l’etica è parte dell’equazione nella vita d’impresa; non è più complicato di così.

Val la pena allora impegnarsi professionalmente, e faticare, per cercare di affermare un modello differente?

Per dar senso alla domanda, devo tornare al nobile hidalgo: combattere contro i mulini a vento è un atto che si rivela sempre del tutto inutile, generando quindi frustrazione…? Oppure è un’attitudine la cui pratica va inquadrata e valutata in un’analisi di opportunità, un bilanciamento sempre in bilico tra la naturale pulsione di un essere umano a cambiare le cose, possibilmente migliorandole, e la ragionevole possibilità di ottenere un effetto concreto, anche se minimo…? O ancora, come ho letto da qualche parte, è un “atto di resistenza” che ha un valore di per sé, a prescindere dal risultato, perché chiama in causa la nostra dignità, la forza con la quale ci contrapponiamo, senza mai stancarci, a qualcosa che sentiamo intimamente come sbagliato?

La verità è che non ho precise risposte a questi interrogativi, ma la speranza – e sono certo che accade comunque tutti i giorni, anche se le cattive prassi fanno sempre più rumore delle buone – è che qualche persona di responsabilità ai piani alti in qualche brand, per una volta, come scriveva Mark Twain, “possa stupirmi, facendo, semplicemente, la cosa giusta”.


[1] Rapporto su Sostenibilità, Governance e Finanza dell’impresa: l’impatto degli ESG – Evoluzione degli scenari. Business continuity, nuove opportunità e creazione di valore: oltre la compliance – CNDCEC, 2^ edizione, aprile 2025.

[2] Vernero, P; Chiappero, G; Intangible e fattori ESG: riflessi sul bilancio, report di sostenibilità e generazione del valore d’impresa, Modulo24Bilancio, febb 2025

[3] Vernero, P; Chiappero, G; op. cit.

[4] È un tipo di relazione (detta “scambio abbondante”) tra l’organizzazione è i suoi pubblici che prevede che l’azienda dia al cliente sempre qualcosa in più di ciò che riceve e che il cliente stesso si aspetta, generando un effetto passaparola positivo. Gli altri tipo di scambio sono nullo (l’azienda prende e non da niente in cambio, frodando il cliente), insufficiente (l’azienda prende a dà meno di ciò che ci si sarebbe aspettato) ed equo (cliente e azienda sono in perfetto equilibrio di scambio). Il 4° tipo di scambio è quello di maggiore interesse per un Reputation manager

[5] Il termine, coniato da Kevin Roberts, CEO Worldwide di Saatchi & Saatchi, definisce un marchio che ha costruito un legame emotivo così forte con i suoi clienti da superare la semplice lealtà di marca, diventando amato, difeso con passione e consigliato senza esitazione. I lovemark non si limitano a vendere prodotti o servizi, ma creano un rapporto profondo basato sull’affetto e sull’identificazione con i valori del brand.

[6] È la dichiarazione ufficiale dell’azienda che comunica chiaramente i vantaggi che essa offre ai propri clienti, spiegando perché dovrebbero scegliere il proprio prodotto o servizio rispetto a quelli dei concorrenti.

[7] ESG è l’acronimo di Environmental, Social, and Governance (Ambientale, Sociale, e di Governance), ed è un insieme di criteri utilizzati per valutare la sostenibilità e l’impatto etico di un’azienda o di un investimento. 

[8] La Dichiarazione Non Finanziaria (DNF), in inglese Non-Financial Disclosure, è un documento che le aziende redigono per comunicare le loro performance e il loro impatto su questioni non finanziarie, e che permette di rendere trasparenti le attività aziendali che vanno oltre gli aspetti puramente economici, contribuendo alla sostenibilità e fornendo così maggiori informazioni utili agli investitori.




L’Arte come Strategia: Come i Brand Seducono i Consumatori nel Terreno della Cultura

L’Arte come Strategia: Come i Brand Seducono i Consumatori nel Terreno della Cultura

Da semplice mecenatismo a sofisticata leva di marketing, l’arte contemporanea è diventata un asset fondamentale nella cassetta degli attrezzi dei brand più influenti. Ma cosa si nasconde dietro questa tendenza? Un’analisi delle motivazioni strategiche e dei meccanismi cognitivi che trasformano un’opera d’arte in un potente strumento di comunicazione.
Le recenti, e ormai iconiche, collaborazioni tra Louis Vuitton e artisti come Yayoi Kusama o Jeff Koons, le “Art Car” di BMW che da decenni vedono la luce grazie a geni creativi come Alexander Calder e Jenny Holzer, o le tazzine d’autore di Illycaffè. Questi non sono episodi isolati, ma la punta di un iceberg che rivela una delle strategie di branding più affascinanti e complesse del nostro tempo: la fusione tra mondo aziendale e arte contemporanea.
Se in passato il rapporto si limitava a un mecenatismo più o meno disinteressato, oggi si è evoluto in una simbiosi strategica che agisce su leve psicologiche profonde, costruendo valore, identità e una connessione emotiva con il consumatore.

Un Legame Storico: Le Radici del Fenomeno

Sebbene il fenomeno appaia prettamente attuale, le sue radici affondano nel XX secolo. Un precursore illuminato fu Adriano Olivetti, che negli anni Cinquanta concepì l’azienda come una comunità in cui la cultura, l’architettura e il design erano parte integrante del processo industriale e del benessere dei lavoratori.
Tuttavia, è con la Pop Art che il confine tra arte e commercio si assottiglia in modo irreversibile. Andy Warhol, con le sue serigrafie della zuppa Campbell’s o le bottiglie di Coca-Cola, non solo elevò l’oggetto di consumo a soggetto artistico, ma dimostrò che i due mondi potevano parlare lo stesso linguaggio. Negli anni Ottanta, fu Absolut Vodka a istituzionalizzare la collaborazione artistica con la sua celebre campagna “Absolut Warhol”, dando il via a una serie di partnership che hanno fatto la storia della pubblicità.

L’Art Infusion Effect: La Scienza Dietro la Strategia

Il vero cuore della strategia non risiede nella semplice apposizione di un nome famoso su un prodotto. Il successo di queste operazioni si basa su un fenomeno scientifico preciso chiamato “Art Infusion Effect“: la mera presenza di arte in un contesto commerciale migliora automaticamente la valutazione del prodotto da parte del consumatore, indipendentemente dal contenuto specifico dell’opera o dalla sua qualità artistica.
Questo effetto, documentato dalla ricerca accademica, è automatico e non conscio. Il consumatore non deve necessariamente apprezzare l’arte o essere un intenditore: il semplice contatto visivo tra prodotto e opera d’arte crea un “contagio simbolico” che trasferisce attributi positivi in modo duraturo.

Perché Proprio l’Arte Visiva?

Non è casuale che i brand prediligano l’arte visiva rispetto ad altre forme artistiche come teatro, cinema o musica. La ragione risiede in una caratteristica unica dell’arte visiva: la capacità di creare avanguardie senza capitali.
Come evidenziato dalla ricerca di Tyler Cowen e Alexander Tabarrok in An Economic Theory of Avant-Garde and Popular Art (2000), esiste una correlazione diretta tra il capitale necessario per produrre un’opera e la libertà espressiva dell’artista. Un’opera d’arte visiva richiede risorse finanziarie quasi nulle – si pensi all’”Orinatoio” di Marcel Duchamp del 1917 o alla recente Comedian di Maurizio Cattelan (la banana attaccata al muro con il nastro adesivo venduta per 120.000 dollari). Al contrario, una rappresentazione teatrale necessita di maggiori investimenti, mentre un film richiede capitali ingenti.
Questa inversione della catena del valore – dove il prodotto nasce prima del mercato e non viceversa – permette agli artisti visivi di esprimere libertà creativa assoluta, sperimentazione e contemporaneità senza vincoli commerciali immediati. È proprio questa indipendenza ideologica che i brand desiderano acquisire per associazione: l’artista visivo incarna perfettamente i concetti di libertà di espressione, avanguardia e autenticità creativa che le aziende faticano a costruire autonomamente.
Il “ridicolo costo manifatturiero dell’arte visiva”, come lo definisce la ricerca di Victoria L. Rodner e Elaine Thomson in The art machine: dynamics of a value generating mechanism for contemporary art, consente agli artisti di essere percepiti come puri innovatori, liberi da compromessi commerciali. Questa purezza creativa diventa un asset preziosissimo per i brand che vogliono comunicare innovazione e autenticità.
Il successo dell’Art Infusion si manifesta attraverso meccanismi cognitivi ed emozionali precisi che modificano la percezione del brand nella mente del consumatore:

  1. L’Effetto Alone (Halo Effect): È il meccanismo psicologico centrale. L’associazione di un brand con un artista o un’istituzione culturale prestigiosa genera un “effetto alone”. Le qualità positive associate all’arte – creatività, esclusività, raffinatezza, intelletto, avanguardia – vengono trasferite per osmosi al brand e ai suoi prodotti. Una borsa non è più solo una borsa se porta la firma di un’artista concettuale; diventa un oggetto carico di nuovi significati.
  2. Luxury Perception Enhancement: L’arte non solo trasferisce attributi positivi generici, ma specificamente aumenta la percezione di lusso anche in prodotti non-luxury. Questo meccanismo giustifica automaticamente un premium pricing: i consumatori sono disposti a pagare di più per prodotti associati all’arte, percependoli come più preziosi e esclusivi.
  3. Il Transfert di Valori e lo Storytelling: Ogni artista porta con sé un universo di valori: ribellione, lusso, minimalismo, critica sociale. Il brand, collaborando, “prende in prestito” questi valori, arricchendo la propria narrazione. Questo permette di costruire uno storytelling potente e autentico. L’acquisto non è più motivato solo dalla funzione dell’oggetto, ma dalla storia che racconta e dall’identità che permette di esprimere.
  4. Creazione di Esclusività e Capitale Culturale: Possedere un prodotto nato da una collaborazione artistica non è solo una dimostrazione di potere d’acquisto, ma anche di “capitale culturale”. Segnala l’appartenenza a una nicchia di consumatori informati, colti e dotati di gusto. Questo senso di esclusività è una leva potentissima, specialmente nel settore del lusso, dove il desiderio è alimentato dalla rarità e dalla distinzione.

Le motivazioni strategiche dei brand

Se questi sono gli effetti sulla mente del consumatore, le ragioni che spingono un’azienda a investire in arte sono puramente strategiche e mirano a obiettivi di business concreti.

Differenziazione e Posizionamento Premium: In mercati saturi, dove i prodotti sono tecnicamente simili, l’arte offre un linguaggio unico per differenziarsi in modo radicale dalla concorrenza. Questa unicità giustifica e sostiene un posizionamento di prezzo premium, supportato dalla enhanced luxury perception generata dall’Art Infusion Effect.

Targeting di nicchie qualificate: Le iniziative artistiche permettono di raggiungere e dialogare con un pubblico specifico, spesso altospendente, istruito e influente, che è tipicamente difficile da intercettare con la pubblicità tradizionale.

Generazione di contenuti e risonanza mediatica (PR): Una collaborazione artistica è una notizia per definizione. Genera un’enorme quantità di contenuti organici per la stampa, i social media e il passaparola, garantendo una visibilità che sarebbe molto costosa da acquistare con mezzi classici.

Mecenatismo 2.0 e Legacy: Attraverso la creazione di fondazioni aziendali (come Fondazione Prada a Milano e Venezia, Pirelli HangarBicocca o la Fondation Louis Vuitton a Parigi), i brand trascendono la logica del profitto a breve termine. Si posizionano come attori culturali, contribuendo attivamente al patrimonio della società. Questo “mecenatismo moderno” costruisce una legacy duratura, rafforzando la reputazione e l’immagine del marchio su un piano quasi istituzionale.

Il rischio dell’”Art-Washing”

Naturalmente, esiste un rovescio della medaglia. La critica più frequente è quella di “art-washing”: l’accusa mossa ai brand di utilizzare l’arte come una patina di rispettabilità per distogliere l’attenzione da pratiche commerciali o etiche discutibili.
Il meccanismo del contagio simbolico che rende potente l’Art Infusion Effect può ritorcersi contro il brand quando l’associazione non è percepita come autentica. Quando l’operazione appare cinica, slegata dai valori reali dell’azienda e priva di un genuino supporto al mondo dell’arte, il rischio di un boomerang reputazionale è molto alto. L’autenticità e la coerenza della partnership sono, quindi, cruciali per il suo successo.

Un Futuro Sempre Più Ibrido

Il legame tra brand e arte contemporanea è destinato a diventare sempre più profondo e strutturato. In un’epoca post-pubblicitaria, dove i consumatori sono sempre più immuni ai messaggi promozionali diretti, l’arte offre una via per costruire relazioni basate sull’emozione, sul significato e sulla cultura.
L’Art Infusion Effect dimostra scientificamente che non si tratta più di vendere un prodotto, ma di offrire un’esperienza che trasforma automaticamente la percezione di valore. Non più di costruire un’immagine, ma di forgiare un’identità che si basa su meccanismi cognitivi profondi e non consci. Per i brand, l’arte non è più solo una decorazione, ma una dichiarazione strategica di chi sono e, soprattutto, di cosa vogliono rappresentare nel mondo.

Concludo con una citazione che amo particolarmente di Witold Marian Gombrowicz: La Forma è opposta al Caos, come la Superiorità è opposta all’Inferiorità. Gombrowicz scopre amaramente che lottiamo incessantemente per la Forma e la Superiorità, ma siamo attratti costantemente dal Caos e dall’Inferiorità, perché ci sembra che in essi si possa essere più liberi. In realtà l’unica possibile, seppur parziale, libertà risiede nella creatività artistica. L’artista, seppur impossibilitato a sfuggire alla Forma o a raggiungere la Forma perfetta, può almeno sentirsi libero di “giocare” con lei. Può rendere “visibili”, invece di occultarle, sia la maturità della convenzione artistica sia la propria Immaturità e così, stabilendo una salutare distanza da entrambe, liberarsi in una certa misura dalla loro oppressione. L’Arte è, per Gombrowicz, l’unico mezzo che gli uomini hanno nel caos dell’Esistenza per far valere un po’ la propria forma.

Bibliografia

  1. Hagtvedt, H., & Patrick, V. M. (2008). Art Infusion: The Influence of Visual Art on the Perception and Evaluation of Consumer Products. Journal of Marketing Research, 45(3), 379-389.
  2. Cowen, T., & Tabarrok, A. (2000). An Economic Theory of Avant-Garde and Popular Art, or High and Low Culture.
  3. Rodner, V. L., & Thomson, E. The art machine: dynamics of a value generating mechanism for contemporary art.
  4. Rodner, V. L., & Kerrigan, F. (2014). The art of branding − lessons from visual artists.
  5. Schroeder, J. (2005). The artist and the brand.
  6. Meyer, J.-A., & Even, R. Marketing and the Fine Arts – Inventory of a Controversial Relationship.
  7. Hirschman, E. (1983). Aesthetics, ideologies and the limits of the marketing concept. Journal of Marketing, vol 47.
  8. Bricco, P. (2008) Adriano Olivetti. Un italiano del Novecento, Rizzoli
  9. Gombrowicz, W. (2011). Corso di filosofia in sei ore e un quarto. SE Editore

Fonti web consultate:




“Intangible” e fattori Esg: riflessi su bilancio, report di sostenibilità e generazione del valore

"Intangible" e fattori Esg: riflessi su bilancio, report di sostenibilità e generazione del valore

(dall’Introduzione:) I beni immateriali («intangible») di un’azienda sono una particolare categoria di bene economico caratterizzata dalla mancanza di materialità. Questa caratteristica li rende non facilmente rilevabili nel bilancio delle imprese, dove, ricorrendone i requisiti, assumono la natura di immobilizzazioni immateriali. Le immobilizzazioni immateriali sono un sottoinsieme dei beni (anche “risorse”) immateriali e ai fini della loro iscrizione a bilancio soccorrono i principi contabili predisposti, in sede nazionale, dall’Organismo Italiano di Contabilità (OIC) e, in sede europea, tramite un articolato processo di recepimento e adozione nell’ordinamento giuridico dell’Unione…

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L’indagine su Delivery Hero e Glovo ha svelato per la prima volta un cartello nel mercato del lavoro

L'indagine su Delivery Hero e Glovo ha svelato per la prima volta un cartello nel mercato del lavoro

Come dimostra il caso Delivery Hero-Glovo, i primati del food delivery non finiscono mai. Le multinazionali del settore hanno reso un mercato mondiale un’economia che, fino a 15 anni fa, era considerata sommersa. Sono riuscite a creare flotte di lavoratori senza diritti, che sfrecciano quotidianamente nella precarietà di un finto lavoro da freelance guidati da un algoritmo. In Italia, come in altri paesi europei, hanno assoldato migliaia di migranti con permesso di soggiorno, sfruttando la mancanza di alternative alla quali le carenti politiche migratorie del nostro paese li mettono davanti. Poi, lo scorso novembre è entrata in vigore una direttiva sul lavoro di piattaforma, primo spiraglio di luce in questo abisso oscuro del “nuovo lavoro” guidato dagli algoritmi, ma capirne gli effetti è ancora troppo presto.

A un certo punto però, come dice un detto fin troppo azzeccato in questo caso, la ruota gira. Lo scorso 2 giugno la Commissione europea ha inflitto una sanzione complessiva di 329 milioni di euro alle due aziende di food delivery Delivery Hero e Glovo, con l’accusa di aver partecipato a un cartello nel settore della consegna di cibo online.

È la prima volta che le multinazionali sono sotto i riflettori per questa ragione in Europa, a dieci anni e più dalla loro nascita. “L’Antitrust spagnola – commenta a Wired il professor Antonio Aloisi, docente di Diritto del lavoro europeo e comparato alla IE University Law School di Madrid – aveva indagato su possibili clausole di esclusiva tra piattaforme e ristoranti (che coinvolgevano Just Eat, Deliveroo, Uber Eats e Glovo) ipotizzando restrizioni verticali alla concorrenza. Tuttavia, a inizio 2022 ha deciso di archiviare l’indagine senza aprire un procedimento formale”.

Le due aziende hanno ammesso alla Commissione le proprie responsabilità, e hanno accettato una procedura di transazione. Una sorta di “patteggiamento antitrust”, per cui hanno riconosciuto di aver partecipato a un cartello, accettano la loro responsabilità legale e si impegnano a non contestare la decisione della Commissione. In cambio, ricevono una riduzione della sanzione (fino al 10%). “Il caso della sanzione a Delivery Hero e Glovo funge da deterrente e da monito per tutto il settore. La multa elevata e la pubblicità data alla vicenda segnalano che qualsiasi intesa segreta tra concorrenti sarà oggetto di attenzione e potenziali sanzioni severe”, continua Aloisi.

Tre le pratiche anti-concorrenziali accertate

L’indagine della Commissione è iniziata a seguito di un’attività di monitoraggio del mercato stimolata da segnalazioni anonime e da un’autorità nazionale garante della concorrenza europea. È durata dal luglio 2018 allo stesso mese del 2022. Delivery Hero negli anni ha comprato molte società di delivery del settore, tra cui nel 2021 anche la stessa Glovo (aveva iniziato ad acquisirne partecipazioni minoritarie già nel 2018). Questione che non è sfuggita alla Commissione, che ha sottolineato come la partecipazione di minoranza di Delivery Hero in Glovo abbia facilitato una coordinazione anticoncorrenziale multilivello. Non è di per sé illegale possedere quote in un concorrente, ma l’Antitrust ha fatto luce su una serie di pratiche che comunque si sono rivelate illecite.

Le due società hanno concordato di non reclutare attivamente i lavoratori dell’altra, limitando per esempio la mobilità dei lavoratori nel settore. “Parliamo in particolare di dipendenti con ruoli dirigenziali o impiegatizi, non rider”, precisa Aloisi. Le compagnie hanno messo in piedi un do ut des che riguardava non solo le informazioni su prezzi, capacità aziendali e costi, ma anche dati sulle strategie commerciali, allineando così le politiche aziendali. Infine si sono spartite la torta di mercato senza pestarsi i piedi, coordinando l’ingresso del servizio di delivery in nuove aree geografiche. Quest’ultima può aver condizionato anche il lavoro dei rider. Dice Aloisi: “il cartello implicava che una sola piattaforma operasse in certi Paesi/zone. Il che può aver significato che, con un solo operatore in città, i rider non avessero alternative, perdessero potere negoziale e potenzialmente vedessero compensi e condizioni peggiori rispetto a uno scenario di concorrenza”.

E, tenuto conto che la Commissione esplicita chiaramente la possibilità a chiunque di “richiedere il risarcimento nei tribunali nazionali” in quanto “una decisione della Commissione rappresenta una prova vincolante della condotta illecite, anche i fattorini potrebbero attivarsi. Come chiarisce Aloisi, “con un unico datore di lavoro disponibile, quel rider non poteva “cambiare piattaforma” per ottenere condizioni migliori. Se si dimostra che i compensi o le condizioni dei rider in quella situazione sono stati più sfavorevoli rispetto a un mercato contendibile, anche i rider (tramite le loro associazioni o sindacati) potrebbero avanzare richieste di risarcimento”.

Sanzioni che incidono sui bilanci delle aziende

Con questa sanzione, comunque, da ora in poi le regole del gioco cambiano dice Aloisi: “L’eliminazione di queste pratiche dovrebbe giovare al mercato: in assenza di accordi occulti, le aziende dovranno competere sul serio. In altri termini, invece di “adagiarsi” su un patto di non concorrenza, le piattaforme saranno spinte a investire in nuove soluzioni per guadagnare o difendere quote di mercato”. Aspettiamo di vedere in che modo le multinazionali del delivery si reinventeranno. Anche perché, guardando agli utili annuali prodotti dalle più famose aziende di delivery, non c’è trippa per gatti come ci si aspetterebbe. E sanzioni simili peserebbero non poco sui loro bilanci.