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Quanto sono sostenibili i fondi su cui investiamo. Una inchiesta

Quanto sono sostenibili i fondi su cui investiamo. Una inchiesta

Continua il boom degli investimenti sostenibili. Sempre più italiani vogliono far fruttare i propri risparmi con un occhio di riguardo al bene di ambiente e società. Secondo i dati di Assogestioni, l’associazione italiana dei gestori del risparmio, nel terzo trimestre di quest’anno in Italia il patrimonio promosso in fondi definiti come sostenibili ha superato i 361 miliardi di euro, segnando un +31% rispetto a sei mesi prima. Una categoria che racchiude i prodotti che promuovono “caratteristiche ambientali o sociali” o quelli aventi come obiettivo “investimenti sostenibili”, secondo, rispettivamente, gli articoli 8 e 9 della SFDR.

La SFDR è il Regolamento sull’Informativa di Sostenibilità dei Servizi Finanziari, voluto dalla Commissione europea per favorire la trasparenza. La normativa obbliga le società di gestione del risparmio a classificare i propri prodotti in base al livello di integrazione dei criteri di sostenibilità nella strategia di investimento. Fornendo in questo modo una bussola che dovrebbe orientare i risparmiatori: se ben informato, il singolo investitore può decidere quali rischi, finanziari e non, prendersi.

Insieme alla domanda da parte degli investitori cresce anche il numero di prodotti Esg (Environmental, Social, Governance) offerti: dai 1.205 di marzo 2021 ai 1.456 di settembre. L’acronimo sta per Environment, Social e Governance, e racchiude i criteri che dal 2006 misurano l’impatto ambientale (E), il rispetto dei diritti sociali (S) e i principi di buona gestione (G) di un’azienda. La rapida ascesa però sta accendendo anche i fari sulle reali credenziali degli investimenti. Dietro l’angolo si nasconde il rischio di greenwashing o social washing, ovvero l’offerta di prodotti in cui il velo della presunta sostenibilità maschera una realtà ben diversa. Un pericolo su cui le autorità vogliono vederci chiaro.

In Germania e negli Usa gli enti di vigilanza dei mercati hanno aperto un’inchiesta lo scorso agosto nei confronti di Dws, società di gestione del risparmio del gruppo Deutsche Bank, con l’accusa di aver esagerato le credenziali sostenibili di alcuni prodotti. Dws ha respinto fermamente le accuse, ma il caso, primo nel suo genere, ha messo il settore del risparmio gestito sull’attenti. Il rischio è di trovare brutte sorprese all’interno dei fondi: anche il risparmiatore più responsabile, se non a conoscenza dei criteri che si usano per selezionare alcune aziende come sostenibili, finisce col mettersi in tasca i titoli di aziende petrolifere o di estrazione mineraria, o a finanziare industrie legate a tabacco e gioco d’azzardo.

Per capire meglio quanto sia veramente sostenibile l’offerta delle Sgr italiane abbiamo analizzato alcuni dei principali fondi Esg dei quattro principali operatori: Intesa Sanpaolo, Generali, Amundi e Anima.

Intesa Sanpaolo

Numero uno in Italia per patrimonio gestito, Intesa Sanpaolo è attiva nell’asset management principalmente attraverso la controllata Eurizon. Tra centinaia di prodotti offerti dalla Sgr, i risparmiatori possono optare per quelli pubblicizzati chiaramente come Esg.  Come Equity Europe Esg e Equity Usa Esg, due fondi aperti lussemburghesi partiti nel maggio 2020 e che dichiarano di investire “solo in azioni di società che soddisfano standard ambientali, sociali e di governance minimi, senza esclusioni di settore”.

Scandagliando le posizioni aperte al 30 giugno (data di ultimo aggiornamento), il fondo Esg europeo comprendeva investimenti significativi in aziende oil&gas come Shell, BP, Total, Eni e Neste; oltre ai titoli di giganti dell’industria mineraria, come Rio Tinto, Anglo American, Antofagasta e BHP Group. Figura poi un’importante società di gioco d’azzardo e scommesse sportive come Flutter Entertainment (noto per i marchi Paddy Power, Pokerstars). I bookmakers fanno parte dei cosiddetti sin stocks (ovvero titoli legati ai “vizi”) – insieme a tabacco, pornografia e armi – per il loro minor valore etico. 

Il prodotto Equity Usa Esg è il gemello americano del fondo europeo. Qui i titoli del comparto energetico rappresentano al 30 giugno il 2,71% del portafoglio. Tra di essi figurano i giganti degli idrocarburi ExxonMobil, Chevron, ConocoPhillips e Marathon Petroleum. Tra i beni di consumo, invece, compaiono due leader dell’industria del tabacco come Philip Morris e Altria.

Intesa Sanpaolo spiega a Green&Blue che i due fondi promuovono, all’interno delle scelte di investimento, caratteristiche sociali o ambientali, oltre ad una buona governance, pur essendo fondi LTE (cioè che hanno un benchmark di riferimento tradizionale a fronte di un Limited Tracking Error, cioè minimo scostamento in termini di rischio). “Eurizon adotta logiche di esclusione per gli emittenti che operano in settori ritenuti non socialmente responsabili,” dice un portavoce di Intesa. “Non sono previste esclusioni per emittenti di settori come l’Oil&Gas, un settore in transizione del quale monitoriamo le dinamiche; o mineraria, che fornisce minerali necessari sia al settore dell’ICT impegnato nella digitalizzazione, sia metalli fondamentali per lo sviluppo dell’infrastruttura dell’energia rinnovabile”.

Eurizon offre poi una serie di prodotti che promettono di avere particolare occhio di riguardo all’impronta di carbonio delle aziende presenti in portafoglio. Tra di essi spicca il fondo chiamato Low Carbon. Dall’analisi dei titoli, però, emergono alcune società altamente inquinanti. Per esempio, poco più di 8 milioni di euro erano investiti al 30 giugno in azioni e bond emessi da Rwe, multinazionale del settore energetico. Secondo un report di Greenpeace, Rwe “vanta” il più alto livello di emissioni di CO2 in Europa, nonostante i recenti investimenti in energie rinnovabili. Una dipendenza dal carbone che quest’anno ha spinto Axa, la principale azienda assicuratrice francese, a tagliare i legami con Rwe

L’azienda tedesca dice di aver dimezzato le proprie emissioni di CO2 tra il 2012 e il 2019 e di voler proseguire in questa direzione, mettendo l’energia rinnovabile al centro della propria strategia. 

Intesa Sanpaolo spiega che “l’investimento in Rwe è legato alla possibilità della progressiva uscita dal carbone” tenuto anche conto del programma del nuovo governo di coalizione tedesco che prevede un forte aumento della capacità eolica e solare. “Rwe è il soggetto perfetto per questo tema, se pensiamo che, in base ai propri piani, l’azienda potrebbe approvvigionarsi solo da fonti di energia rinnovabile ragionevolmente dal 2026”, aggiunge Intesa Sanpaolo.

Oltre ai prodotti marcati come Esg, Eurizon dispone anche di tre fondi etici – Azionario Internazionale Etico, Obbligazionario Etico, Diversificato Etico – che escludono a priori tutte le aziende coinvolte in attività come energia nucleare, armamenti e tabacco.

Generali

Il Gruppo Generali, prima compagnia assicuratrice d’Italia, opera nella gestione del risparmio attraverso la controllata Generali Investments.

Anche Generali offre un’ampia gamma di prodotti che integrano criteri Esg nelle scelte di investimento. Tra i numerosi fondi aperti gestiti dal gruppo triestino c’è il Sustainable World Equity, che investe in azioni di aziende in tutto il mondo. Questo prodotto è frutto di un rebranding, che nell’ottobre 2020 lo ha fatto rinascere in chiave “sostenibile”. Infatti, in precedenza era semplicemente chiamato World Equity.

Tra i titoli presenti in portafoglio a fine giugno (ultimo aggiornamento disponibile) compaiono numerose società attive nell’oil&gas, come BP, Total, Eni. Oltre che a Pembina Pipeline, costruttrice di oleodotti e gasdotti. Scorrendo la lista delle posizioni aperte ci si imbatte poi in produttori di armi, come Northrop Grumman e Thales e nel gigante del tabacco Philip Morris.

Generali spiega che “il processo di selezione Esg non prevede l’esclusione a priori di interi settori, ma si basa sull’approccio Best-in-Class. Tale approccio consiste nell’escludere dall’universo investibile gli emittenti più in ritardo per quanto riguarda le politiche ambientali, sociali e di governance su base settoriale”.

Nell’offerta di Generali troviamo poi un altro fondo incentrato sulle azioni di società europee, lo Sri European Equity. Qui il gruppo triestino applica criteri più stringenti nella selezione dei titoli, preferendo aziende che contribuiscono attivamente al miglioramento ambientale e sociale. Di conseguenza, il portafoglio presenta una drastica riduzione dei titoli  più “controversi”. L’unico investimento nel settore petrolifero rimane quello nelle azioni del gruppo finlandese Neste.

Generali spiega a Green&Blue che la sostenibilità è un presupposto fondante del proprio piano strategico. “Con l’obiettivo di favorire la transizione verso un’economia e una società più sostenibili, il Gruppo ha realizzato sei miliardi di euro di investimenti green e sostenibili,” dice un portavoce.

Amundi

Leader dell’asset management in Europa, Amundi gestisce una fetta consistente del risparmio italiano. Il gruppo parigino è tra i pionieri degli investimenti sostenibili attraverso una divisione dedicata nata nel 2003. Diversi sono quindi i prodotti con il bollino Esg.

Global Ecology ESG e European Equity Green Impact, due fondi più marcatamente incentrati sull’impatto ambientale, escludono qualsiasi investimento in aziende attive nel settore oil&gas, puntando invece su chi sviluppa energie rinnovabili. Strategia diversa invece nella scelta dei titoli del portafoglio European Equity Esg Improvers. In questo caso i gestori francesi dicono di selezionare aziende con solidi fondamentali ma che oggi sono all’inizio del loro percorso verso una maggiore sostenibilità. Figurano quindi investimenti in azioni di Shell, Equinor e Neste, aziende impegnate nell’estrazione di idrocarburi.

Amundi spiega che sebbene le aziende citate non operino in settori “Esg friendly”, saranno tuttavia cruciali per la transizione energetica. “Queste aziende stanno mostrando un forte potenziale di miglioramento”, dice l’asset manager.
A fianco ai fondi aperti, Amundi controlla anche una vasta gamma di Exchange-Traded Funds (Etf) con caratteristiche Esg. Per loro natura gli Etf hanno l’obiettivo di replicare fedelmente l’andamento di un indice di riferimento. Inevitabile, di conseguenza, la presenza di numerosi titoli “critici”. Nell’Etf Esg dedicato all’indice americano S&P500, per esempio, spiccano Chevron, ConocoPhillips, ExxonMobil, Marathon Oil, Occidental nel settore oil&gas.

Amundi spiega che “l’indice Esg è costruito per offrire un profilo di rischio/rendimento simile a quello dell’indice principale, migliorando al tempo stesso il punteggio Esg. Per far ciò, si applica un filtro all’interno di ciascun settore – compresi il settore del petrolio e del gas – per escludere il 25% delle società con i punteggi Esg più bassi e per mantenere quelle con i punteggi Esg più alti”. Amundi precisa inoltre che l’S&P 500 Esg fa parte di una gamma più ampia di Etf Esg che adottano diverse metodologie di costruzione degli indici, tra cui un’offerta di Etf Sri che esclude i combustibili fossili.

Anima

Anima, il più grande gruppo indipendente di risparmio gestito in Italia, è entrata nel mercato degli investimenti sostenibili in tempi più recenti. Risale al 2019 la nascita del Comitato Esg e la stesura della prima policy sull’integrazione dei rischi socio-ambientali.

La Sgr milanese offre, in particolare, una serie di prodotti di investimento responsabile con il marchio ESaloGo. Questi fondi includono in modo strutturato l’analisi dei fattori Esg ed escludono a priori settori controversi come tabacco, armamenti e gioco d’azzardo.

Nella composizione dei portafogli è bassa anche la presenza di titoli nel comparto petrolifero. L’unica esposizione al settore avviene attraverso le azioni del colosso americano Chevron.

Armando Carcaterra, responsabile Investment principles and Support di Anima Sgr dice che l’approccio di Anima al settore oil&gas “prevede di investire tendenzialmente nelle società sensibili alle tematiche ambientali e comunque impegnate nella transizione energetica, monitorandone i progressi attraverso l’attività di engagement”.

“Per quanto riguarda nello specifico Chevron, secondo i dati utilizzati da Anima, l’emittente ha un punteggio ESG in linea con gli altri grandi operatori del settore”, aggiunge Carcaterra.

Conclusioni

Nel creare un portafoglio sostenibile, o Esg, gli operatori di mercato, come le Sgr italiane, possono adottare una serie di azioni anche molto diverse tra loro: dall’esclusione a priori di alcuni settori – come produttori di armi, tabacco o combustibili fossili – alla scelta dei titoli best-in-class, ovvero valutando il profilo di sostenibilità rispetto al benchmark dell’industria di riferimento.

Per esempio, Norges Bank, il fondo sovrano norvegese e uno dei più grandi investitori istituzionali al mondo, tiene sotto stretto controllo i rischi ambientali e quelli relativi alle condizioni lavorative delle società in cui investe. Dal 2012 Norges Bank ha ritirato i propri investimenti in 366 aziende che, secondo il fondo norvegese, non hanno un modello di business sostenibile. Nelle lista delle esclusioni compilata da Norge Bank compaiono diverse aziende, come Rwe, British American Tobacco e Philip Morris, i cui titoli sono invece in pancia ad alcuni fondi Esg italiani.

I gestori possono inoltre adottare un atteggiamento di azionariato attivo, provando a guidare dall’interno un’azienda poco “pulita” verso la sostenibilità socio-ambientale.

Così, senza criteri oggettivi, diventa complicato per gli investitori orientarsi in un mondo costellato da sigle e diciture la cui interpretazione varia da un gestore all’altro.

Per questo la Commissione Europea ha iniziato a mettere dei paletti al mercato. Dallo scorso marzo gli operatori finanziari sono obbligati a comunicare in modo trasparente le politiche intraprese per integrare i rischi di sostenibilità nei propri processi decisionali. Un primo passo per segnare dei confini più netti tra una pratica potenzialmente ingannevole e una lecita strategia d’investimento.




Nasce l’Orto della SME: un progetto di rigenerazione urbana presso la Scuola di Management ed Economia dell’Università di Torino

Nasce l’Orto della SME: un progetto di rigenerazione urbana presso la Scuola di Management ed Economia dell’Università di Torino

Torino – Venerdì 17 dicembre alle 15.30 presso la Scuola di Management ed Economia si inaugurerà il progetto Orto della SME, una zona dedicata ad orto urbano in cassone per la comunità studentesca e per la cittadinanza con lo scopo di incentivare la produzione e il consumo di alimenti sani in aree urbane come strumento di sensibilizzazione verso una maggiore sostenibilità dei consumi. Il progetto è finanziato grazie ad EIT Food, all’interno di un asse progettuale dedicato al concetto di New European Bauhaus. All’interno degli orti si potranno produrre frutta e vegetali a disposizione per una variegata comunità di stakeholder: studenti, studentesse, personale tecnico-amministrativo, docenti, ma anche associazioni e scuole del territorio, cittadini e cittadine. Dopo i saluti istituzionali, sarà possibile visitare l’area e con l’occasione sarà possibile portare in dono all’orto un regalo, anche di natura simbolica e verrà effettuata una posa della prima “pianta”. A seguire si festeggerà con vin brulè, cioccolata e the caldo.

Lo scopo del progetto è quello di creare uno spazio multifunzionale valorizzando un’area fino ad oggi poco utilizzata, incrementando il valore sociale, culturale, ambientale ed estetico. Il gruppo di ricerca che ha portato avanti l’iniziativa si è ispirato al Nuovo Bauhaus Europeo, definito dalla Commissione Europea come quell’insieme di principi per rendere il Green Deal un’esperienza culturale concreta per tutta l’Europa, specie nel processo di ripresa rispetto alla crisi indotta dalla pandemia.

L’iniziativa si è infatti concentrata sulla realizzazione di un progetto che rispondesse ai tre principi del nuovo Bauhaus e cioè qualità dell’esperienza, sostenibilità e inclusione. Ispirandosi quindi a questi principi il progetto è stato realizzato organizzando diversi momenti di scambio che hanno visto la partecipazione attiva di diversi stakeholder, interni ed esterni all’Università. Le attività che hanno portato alla realizzazione dell’orto sono iniziate nel mese di agosto e hanno visto, in questi mesi, il coinvolgimento attivo di più di 60 persone.

Esperienza

Grazie alla collaborazione con Città di Torino, i partecipanti al progetto hanno avuto modo di visitare Orti Generali e VOV 102 (luoghi cittadini già inclusi nei progetti europei ProGiReg e Fusilli). “Inoltre, sono stati organizzati alcuni momenti di co-progettazione che hanno permesso di raccogliere idee, spunti e per creare uno spazio capace di raccogliere diversi punti di vista e diverse esigenze, ispirato dalla creatività e dell’immaginazione dei singoli, ma con una visione corale” spiega la responsabile del progetto la Prof.ssa Laura Corazza (Dipartimento di Management). Durante i diversi incontri con anziani che frequentano abitualmente l’area e che sono cresciuti in questo quartiere, si è ricostruita la storia del sito, anche dal punto di vista delle specie arboricole che erano presenti. La scelta delle piante è stata ispirata dai racconti che abbiamo ascoltato e dalle diverse testimonianze di chi è cresciuto in questi spazi. Riprendere le radici storiche nella scelta delle piante è servito a dare un senso di continuità con il passato, riscoprendo una memoria storica importante.

Nel mese di Ottobre, una quarantina di persone, sia interne che esterne all’ateneo torinese hanno partecipato ad un workshop durante il quale si sono definite le migliori soluzioni gestionali per lo spazio e per la garanzia dell’accessibilità, le specie vegetali da coltivare e le strategie per favorire lo sviluppo di una comunità attiva e inclusiva. Nel mese di novembre è invece stato organizzato, grazie al supporto tecnico di Amiat Gruppo Iren, un momento di pulizia degli spazi con il coinvolgimento degli studenti e delle studentesse e il personale docente, con lo scopo di avviare simbolicamente il progetto di transizione. L’attività di pulizia ha permesso di raccogliere, in poche ore, 860 chilogrammi di rifiuti che grazie al supporto di Amiat sono stati avviati a trattamento e recupero.

Sostenibilità ed economia circolare

In aggiunta, come applicazione pratica alla vocazione scientifica del Dipartimento di Management, si è deciso di adottare una filosofia di economia circolare lungo l’intero progetto di design. Per la realizzazione tecnica delle infrastrutture e degli arredi si sono recuperate traversine dei treni (opportunamente trattate), legno di scarto da segherie locali e da cantieri edili che operano in bioedilizia che altrimenti sarebbero diventati rifiuti. Il legno che è stato utilizzato per creare il camminamento che attraversa gli orti è stato realizzato grazie al recupero di 22 quintali (3 metri cubi), pari a 28 traversine, di traversine ferroviarie in rovere. Le assi per la realizzazione dei cassoni sono composte da legno che è stato recuperato da cantieri edili e da falegnamerie di Torino. Questo ha permesso di recuperare 15 quintali di legno pari a 2 metri cubi in maggioranza corteccia di larici ed abeti. La casetta degli attrezzi, il tavolo e le panchine sono stati realizzati recuperando e riassemblando componenti esistenti da scarti di cantieri edili ed invenduti. Si è stimato che questo progetto abbia permesso di risparmiare circa 52/60 quintali di legno vergine e allungare il ciclo di vita di diversi prodotti e materie prime. La stima è avvenuta considerando la percentuale di materia prima che si perderebbe durante la gestione del bosco, e le diverse fasi di taglio, trasporto e macchinaggio.

Inclusione ed estetica

L’area in questione era stata dismessa e non accessibile alla comunità universitaria. Tramite questo progetto si è valorizzato il capitale naturale presente, anche attraverso la collaborazione con qualificati esperti di architettura del paesaggio che hanno offerto consigli sul miglioramento del senso estetico del luogo. Per migliorare l’accessibilità dell’area e consentire alla popolazione disabile una migliore fruibilità, si sono progettati dei camminamenti e dei cassoni disegnati per essere percorsi ed usufruiti da una popolazione con disabilità motorie. Cassoni più bassi e stretti, sono stati progettati per coinvolgere bambini e bambine delle scuole limitrofe. La storia dell’orto e le sue regole sono anche disponibili in formato audio, per la popolazione non vedente e ipovedente, accessibile con smartphone.

Il progetto è stato realizzato grazie al sostegno di EIT Food, all’interno del progetto Cross-KIC New European Bauhaus della Commissione Europea. La sua ideazione nasce dalla stretta collaborazione della Scuola di Management ed Economia, il Dipartimento di Management e il Dipartimento di Scienze economico-sociali e matematico-statistiche dell’Università degli Studi di Torino, con Obiettivo Studenti e AIESEC, e il prezioso contributo di Città di Torino. Hanno collaborato anche il Dipartimento di Cultura, Politiche e Società e il Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari del nostro ateneo. Oltre ai cittadini e alle cittadine, durante gli eventi sono intervenuti: la Consulta per le Persone in Difficoltà, l’asilo nido Il Micino, REAR, Assiste SCS. Gli sviluppi del progetto in lingua inglese sono disponibili su: L’orto della SME @UniTo – Chiara Certomà (crowdusg.net). Per chi fosse interessato a collaborare al progetto e rimanere aggiornato è disponibile un canale Telegram: https://t.me/+V39i4MwGEZBiMTI8




Hostile media effect. I media tra ragioni, torti e pregiudizi

Hostile media effect. I media tra ragioni, torti e pregiudizi

PERSONE CHE SI ACCUSANO A VICENDA. Insomma: sto per offrirvi un piccolo grimaldello che vi apre molte porte. Le quali conducono a innumerevoli stanze, enormi o minuscole, dove c’è un sacco di gente che si accusa a vicenda di essere fuorviata da pregiudizi. È uno spettacolo interessante. È ancora più interessante perché, almeno in parte, le accuse reciproche sono espresse in buona fede.

OPINIONI RADICATE. Ecco di che si tratta: a chiunque abbia un’opinione radicata piacerebbe che l’intero mondo concordasse con lui. Anzi: più l’opinione, quale essa sia, è radicata, più al soggetto che la coltiva sembra giusto, necessario e doveroso che tutti condividano quella opinione. Anche quando dati e fatti non sono incontrovertibili come appare a lui.

TORTI E TRAME. Quando questo non succede, la prima reazione del (chiamiamolo così) soggetto opinionato, cioè connotato dall’avere una forte opinione,è immaginare che sia il mondo, a essere in torto. 
La seconda reazione è ipotizzare che il mondo trami consapevolmente per sostenere e favorire i nemici, gli antagonisti. Insomma, coloro che promuovono la tesi avversa. E per sostenerne la causa.
Ed ecco che ci imbattiamo nell’hostile media effect, o phenomenon: l’effetto, o fenomeno, dei media ostili. Questa sindrome è stata messa a fuoco nel 1985 da Vallone, Ross e Lepper, psicologi sociali dell’università di Stanford (qui l’articolo originale).

DATI POCO CHIARI. Vallone e soci partono da una constatazione in apparenza ingenua: ogni giorno abbiamo occasioni per meravigliarci per la capacità di chi è schierato per una parte politica, sociale e perfino scientifica di trovare forte sostegno alla propria opinione in dati che ad osservatori più spassionati e neutrali trovano contraddittori, poco chiari e per niente discriminanti.
Così, la meraviglia si trasforma in esperimento.
I ricercatori mostrano i medesimi spezzoni di cronaca televisiva, riguardanti un fatto storico cruento e divisivo, a esponenti dei due gruppi antagonisti coinvolti in quel fatto. 
Si tratta di spezzoni che gli osservatori neutrali considerano equilibrati e obiettivi.

DUE COSE SORPRENDENTI. Succedono due cose sorprendenti: in primo luogo, entrambi i gruppi giudicano che la presentazione del fatto sia parziale (e, implicitamente, troppo favorevole alla parte avversa). 
In secondo luogo, ciascun gruppo nota di più le parti di cronaca che sostengono la posizione della parte avversa di quelle che sostengono la propria. Deducendone che quella cronaca, nel suo complesso, è anche tale da aumentare il dissenso e l’ostilità dell’opinione pubblica nei confronti della propria parte. 

I CONFLITTI PIÙ DIVERSI. A partire dal 1985 altri ricercatori riproducono l’esperimento molte e molte volte. Impiegano cronache riguardanti le situazioni conflittuali più diverse. Per esempio, contrasti tra stati o etnie, sfide elettorali, scelte legislative controverse, dilemmi etici, scioperi e conflitti sindacali, grandi sfide epocali come il cambiamento climatico, e perfino partite di football (in questo caso, ciascuna fazione sostiene che i falli degli avversari vengono regolarmente sottostimati). Qui una bibliografia sul tema.

EFFETTO CONTROINTUITIVO. In realtà, l’hostile media effect è per certi versi controintuitivo perché, poste di fronte a serie di dati controversi, di norma le persone tendono, per via del bias di conferma, a dar retta alle evidenze che si accordano alle loro opinioni, rafforzandole. E a ignorare del tutto le evidenze discordanti. 

MASS MEDIA ACCREDITATI. Perché nel caso dell’hostile media effect succede esattamente il contrario? E perché le persone, quando si parla di mass media, sono più attente alle parti di comunicazione che contrastano con le loro convinzioni?
Lo si capisce considerando due elementi ulteriori. A parità di contenuti, la (distorta) percezione di ostilità cresce e peggiora quanto più il medium ritenuto “ostile” è accreditato e gode di un pubblico ampio. Quindi, quanto più la presunta ostilità appare pericolosa, perché tale da influenzare un gran numero di persone. 

PERCEZIONE DISTORTA. Il focus, dunque, non è tanto su ciò che il medium afferma, quanto sulla capacità del medium di veicolare informazioni partigiane e fuorviate, potenzialmente convincendo (anzi, manipolando!) la massa degli osservatori neutrali.
Inoltre, la (distorta) percezione di ostilità cresce e peggiora quanto più ciascuna parte considera che il medium, o i media, siano già a priori favorevoli alla parte avversa.

NELLA MISURA IN CUI. Infine: posta di fronte a una cronaca palesemente squilibrata a favore di una sola fra due parti in conflitto, la parte favorita tenderà invece a considerare quella cronaca “equilibrata e oggettiva”, nella misura in cui conferma le sue opinioni pregresse e condanna la parte avversa. 
Con questo oltretutto contribuendo, la cronaca faziosa, a rafforzare, ed eventualmente a radicalizzare, le posizioni della parte favorita.

PRIMA DEI SOCIAL MEDIA. Dicevo che l’hostile media effect è stato intercettato e descritto per la prima volta a metà degli anni Ottanta, quando i social media non esistevano ancora. 
Ora, provate a cortocircuitare questa consistente distorsione percettiva con l’emotività, la velocità, la superficialità, la faziosità e, ahimè, l’aggressività che sono tipiche dei social media. E con l’attestata difficoltà di dibattere in modo articolato, e di  distinguere, in quella sede, notizie vere e fake news

INFORMAZIONE EQUILIBRATA?? MA VA’ LÀ! Il risultato è questo: la produzione di crescenti dosi di astio, diffidenza e accuse di partigianeria quando i mass media accreditati e autorevoli tentano (ehi, ho scritto tentano. Non è detto che sempre ci riescano) di fornire un’informazione completa ed equilibrata su argomenti divisivi. E, come si diceva prima, astio eccetera crescono quanto più i media appaiono accreditati e autorevoli.

OSTEGGIATA. Il risultato ulteriore è che la produzione di informazione completa, equilibrata ed equidistante su argomenti controversi viene osteggiata e scoraggiata. 
Chi offre un’informazione di parte, infatti, avrà almeno il sostegno e il consenso della fazione favorita. Chi cerca faticosamente l’equilibrio e la completezza rischia di ritrovarsi, invece, sotto attacco a opera di entrambe le fazioni.

L’immagine che illustra questo articolo è del giovane e bravissimo fotografo americano (vive a Los Angeles) Alex Stoddard. Qui la sua pagina su Flickr.




Il biologo inesistente. Meta svela l’operazione dei bot cinesi

Il biologo inesistente. Meta svela l’operazione dei bot cinesi

Meta, la holding dietro a Facebook, ha annunciato di aver rimosso oltre 500 profili collegati a una vasta rete di disinformazione riconducibile alla Cina. Gli account erano dediti ad amplificare i contenuti di un sedicente biologo svizzero, tale Wilson Edwards, il quale sosteneva che gli Stati Uniti stessero influenzando la ricerca dell’Organizzazione mondiale della sanità sull’origine del Covid-19.

“Edwards” ha creato il proprio profilo e iniziato a pubblicare contenuti il 24 luglio 2021, due giorni dopo che la Cina ha bloccato un piano dell’Oms per approfondire la ricerca. Il 10 agosto l’ambasciata svizzera a Pechino ha segnalato che il biologo non esisteva. Intanto le principali testate del Partito comunista cinese (tra cui Global Times e People’s Daily) avevano già diffuso le sue tesi. Anche diversi funzionari del governo cinese “hanno iniziato a interagire con il contenuto dell’operazione meno di un’ora dopo la prima pubblicazione e fino a 12 ore prima che i gruppi di amplificazione cominciassero a mettere like e a condividerlo”.

Meta ha investigato e rimosso il profilo di Edwards lo stesso giorno della segnalazione da parte delle autorità svizzere, classificandolo come falso. Poi i ricercatori della società si sono messi a seguire la propagazione dei contenuti basati sul suo contenuto, scoprendo “una sala degli specchi che rifletteva all’infinito un unico personaggio falso”. I risultati sono stati pubblicati dall’azienda nel rapporto di novembre sul comportamento inautentico coordinato (leggi: campagne di disinformazione) che riguarda le proprie piattaforme.

Gli account rimossi dall’azienda di Mark Zuckerberg – 524 account Facebook, 20 pagine, quattro gruppi e 86 account Instagram – sono stati il condotto principale di tre ondate di diffusione massiccia. I ricercatori hanno notato come i fake fossero stati creati “in lotti” nei primi mesi del 2021 e sono risaliti a Sichuan Silence Information Technology, un’azienda cinese di cibersicurezza che lavora con il Ministero di Sicurezza pubblica e la squadra di risposta ai ciberattacchi del governo cinese, Cncert.

L’operazione, continuano i ricercatori, si rivolgeva a un pubblico anglofono negli Stati Uniti e nel Regno Unito e al pubblico in lingua cinese di Taiwan, Hong Kong e Tibet. Ma la campagna non ha avuto particolare successo all’infuori della rete di fake (che si fingevano occidentali). Le uniche persone reali che ne hanno poi ricondiviso i contenuti erano tutti impiegati presso compagnie statali cinesi di infrastrutture sparse in 20 Paesi.

Le persone dietro all’account di Edwards hanno preso misure per evitare di farsi identificare, scrive Meta: i creatori hanno fatto uso di vpn (network privati virtuali) per oscurare la propria provenienza, la sua foto profilo è realistica ma generata dall’intelligenza artificiale, il profilo ha postato un paio di contenuti non inerenti al Covid prima di lanciarsi nella campagna antiamericana di cui sopra. Come rilevava l’azienda a maggio, gli operatori cinesi stanno affinando le loro tecniche di disinformazione – ma il loro legame con il Partito-stato rimane evidente.

Nell’ultimo rapporto Meta ha comunicato di aver smantellato altre tre operazioni simili, ma più piccole. Una era condotta da Hamas in Palestina, più Egitto e Israele in minor misura. Un’altra proveniva dalla Polonia e mirava alla Bielorussa e all’Iraq, mentre una terza partiva dalla Bielorussia per raggiungere una platea in Europa e Medioriente; questa è stata ricondotta da Meta al Kgb, i servizi segreti di Minsk.




Apple contro NSO, e le sue ricadute sull’industria della sorveglianza

Apple contro NSO, e le sue ricadute sull’industria della sorveglianza

Apple ha fatto causa a NSO Group, l’azienda israeliana produttrice dello spyware Pegasus al centro di una serie di inchieste giornalistiche che hanno denunciato come questo strumento (ufficialmente venduto ai governi per indagare criminalità e terrorismo) fosse usato anche per spiare gli smartphone di giornalisti, funzionari governativi e attivisti. L’azione legale ritiene l’azienda israeliana responsabile di aver attaccato e sorvegliato utenti Apple e si aggiunge a quella intentata da Facebook nel 2019 dopo che lo spyware Pegasus era stato usato contro utenti Whatsapp. E, per prevenire ulteriori abusi, la società di Cupertino cerca anche un’ingiunzione permanente per impedire a NSO Group di utilizzare qualsiasi software, servizio o device Apple in futuro.

Il gancio degli ID Apple e i termini di servizio

La denuncia rivela anche nuovi dettagli su come l’azienda di spyware infetti i device delle vittime. Sappiamo infatti che NSO Group ha utilizzato un exploit, dei codici di attacco che sfruttano una vulnerabilità, noto come FORCEDENTRY, per violare i device Apple delle vittime e installare il software spia. La vulnerabilità è stata chiusa da Apple. Che però ora dice qualcosa in più: per usare l’exploit sugli apparecchi della Mela morsicata, “gli attaccanti hanno creato degli ID Apple per inviare dati malevoli ai dispositivi delle vittime, permettendo a NSO Group o i suoi clienti di inviare e installare Pegasus all’insaputa della vittima. Sebbene abusati per inviare FORCEDENTRY, i server Apple non sono stati hackerati o compromessi”, ci tiene a specificare l’azienda californiana (qui il suo comunicato). Su questa parte ci torniamo più sotto.

Secondo la denuncia, gli ingegneri di NSO hanno creato oltre 100 Apple ID per eseguire gli attacchi. Nel creare questi account hanno però dovuto sottoscrivere i termini di servizio e le condizioni di iCloud, che pongono la relazione degli utenti con Apple sotto il cappello delle leggi della California. È proprio questo aspetto, scrive il New York Times, che avrebbe permesso all’azienda di iPhone di fare causa a NSO nel distretto settentrionale della California. “È stata una palese violazione dei nostri termini di servizio e della privacy dei nostri clienti”, ha dichiarato Heather Grenier, direttrice senior dei contenziosi commerciali di Apple.  

La denuncia di Apple in dettaglio

Guerre di Rete ha letto la denuncia. Notevole come esordisce. “Gli accusati sono famigerati hacker – amorali cyber mercenari del 21esimo secolo che hanno creato un sofisticato apparato di cyber sorveglianza che invita a palesi e continui abusi. Progettano, sviluppano, vendono, distribuiscono, operano, e mantengono un malware offensivo e distruttivo e prodotti e servizi spyware che sono stati usati per prendere di mira, attaccare e danneggiare utenti Apple, prodotti Apple e Apple. Per il loro guadagno commerciale, mettono i clienti nelle condizioni di poter abusare dei loro prodotti e servizi per colpire singoli individui, inclusi funzionari governativi, giornalisti, imprenditori, attivisti, accademici e anche cittadini americani.”

La denuncia prosegue spiegando come Apple abbia investito e puntato su privacy e sicurezza per i propri servizi e utenti. Si toglie anche qualche sassolino dalle scarpe, dicendo che i suoi prodotti sarebbero ancora più sicuri della concorrenza, citando uno studio secondo il quale il 98 per cento dei malware per apparecchi mobile colpirebbero dispositivi Android. 

“NSO è l’antitesi di quello che Apple rappresenta in termini di sicurezza e privacy”,

scrivono gli avvocati della Mela morsicata.

La denuncia ricorda un dato importante: questo genere di malware sofisticati interessano ancora un numero limitato di persone (persone che sono indagate nell’ambito di un’inchiesta della magistratura, e questo sarebbe l’uso legittimo e ufficiale, ma anche persone che sono nel mirino di governi per ragioni politiche). 
La denuncia prosegue ricordando alcuni dei maggiori casi di cronaca che hanno riguardato l’uso e abuso di Pegasus: dal Pegasus Project, le inchieste coordinate dal consorzio giornalistico Forbidden Stories con altre 17 testate insieme al supporto tecnico del Security Lab di Amnesty International, fino al recente caso del ritrovamento dello spyware sui dispositivi di sei attivisti palestinesi (di cui ho scritto due settimane fa, facendo notare come uno di questi avesse cittadinanza americana, un dato che viene sottolineato anche da Apple).

Infine si addentra nell’attacco che ha utilizzato il già citato exploit FORCEDENTRY. Cerco di mantenere la traduzione fedele, quindi il linguaggio risente del gergo legale. “Gli accusati hanno eseguito l’exploit prima usando i loro computer per contattare i server Apple negli Stati Uniti e all’estero in modo da identificare altri apparecchi Apple. Gli accusati hanno contattato i server Apple usando i loro ID Apple per confermare che il target stesse usando un device Apple. Poi avrebbero inviato dati malevoli creati dagli accusati per questo attacco attraverso i server Apple negli Usa e altrove. I dati malevoli sono stati inviati al telefono della vittima attraverso il servizio  iMessage di Apple, disabilitando il logging sul device preso di mira così da poter mandare di nascosto il payload (il codice malevolo vero e proprio, ndr) di Pegasus attraverso un file più grande. Tale file era temporaneamente salvato in forma cifrata e illeggibile ad Apple su uno dei server iCloud di Apple negli Usa o altrove per la consegna (delivery) al target”.

Apple prosegue sottolineando anche i costi che avrebbe dovuto sostenere per identificare e investigare l’attacco e sviluppare le relative protezioni e correzioni (patches). E aggiunge di non aver individuato attacchi contro iOS 15, invitando gli utenti ad aggiornare i propri iPhone.

Il riferimento alla entity list e alle inchieste giornalistiche

Uno degli aspetti che colpiscono della denuncia sono i riferimenti agli ultimi fatti di cronaca. È chiaro che il testo è stato aggiornato nelle ultime ore prima di essere depositato, e che alcuni di questi fatti costituiscono, quanto meno agli occhi dei legali Apple, un volano. Come se fosse da tempo tutto pronto ma si aspettasse che succedessero alcune cose. Ad esempio, ed è un dato fondamentale, l’inclusione di NSO nella entity list del Dipartimento del Commercio americano (di cui avevo scritto qua), citata più volte. “Come conseguenza della sanzione del governo – scrive la denuncia – alle aziende Usa è fatto divieto di esportare certi prodotti e servizi a NSO senza una speciale licenza (su cui il governo Usa applicherà una presunzione di rifiuto per qualsiasi richiesta da parte di aziende americane [significa che la richiesta è automaticamente negata a meno di dimostrare specifiche circostanze da parte di chi la presenta, ndr]).

10 milioni per i ricercatori anti-malware governativi

Nel comunicato stampa, Apple dice anche un’altra cosa importante. Dopo aver lodato il lavoro di Citizen Lab e Amnesty Tech (i due gruppi di ricercatori che più di altri hanno fatto emergere l’uso e abuso di spyware governativi contro giornalisti e attivisti), dice che donerà 10 milioni di dollari alle organizzazioni che si occupano di questo genere di ricerca, oltre ai risarcimenti ottenuti con l’azione legale. E che sosterrà anche gli altri ricercatori su questi temi con assistenza tecnica e threat intelligence pro-bono (va detto che su Twitter alcuni noti ricercatori di sicurezza hanno mostrato una certa dose di incredulità rispetto alla promessa di collaborazione di Apple).

Nondimeno, un giorno dopo l’annuncio, Apple ha anche inviato delle notifiche ad alcuni suoi utenti, in quanto presi di mira da “attaccanti sponsorizzati da Stati, che avrebbero cercato di compromettere da remoto gli iPhone associati al tuo Apple ID”. Tra questi utenti ci sono sei attivisti e ricercatori thailandesi; dodici dipendenti salvadoregni della testata online El Faro, critica del governo, oltre a due leader della società civile e due politici dell’opposizione in Salvador; e il presidente del partito democratico in Uganda, Norbert Mao. 

Che succede ora a NSO?

Nel giro di pochi mesi l’azienda di spyware si è trovata al centro delle rivelazioni del Progetto Pegasus, con 17 testate che hanno mostrato casi in cui lo spwyare era usato contro giornalisti e attivisti (anche in Europa). Il governo Usa l’ha messa nella sua entity list. Ha due cause legali mosse da due delle più grandi aziende tech, Facebook (Whatsapp) e Apple. E a tal proposito, a novembre, un tribunale americano (nella causa Whatsapp contro NSO Group) ha stabilito che NSO e Q Cyber (società madre menzionata e accusata anche nella denuncia di Apple) non godono di “immunità sovrana” per il fatto di vendere spyware ai governi. Inoltre Moody ha appena declassato NSO di due livelli. E, a detta di alcuni osservatori, l’azienda rischierebbe il default su un prestito da 500 milioni di dollari. Inoltre la Francia, ha rivelato giorni fa la MIT Technology Review, avrebbe cancellato una commessa che aveva in ballo con NSO dopo le rivelazioni del Pegasus Project che hanno raccontato come perfino dei politici francesi, e lo stesso presidente Macron, fossero tra i target di chi usava Pegasus (i sospetti in questo caso ricadono sul Marocco). Il morale fra i dipendenti dell’azienda israeliana è basso, rivela sempre MIT Technology Review. E il nuovo CEO ha subito mollato poco dopo essersi insediato.

La mossa (tardiva?) di Israele

Non solo. In questi giorni è emerso che a novembre Israele avrebbe ridotto da 102 a 37 il numero di Paesi a cui è permesso esportare strumenti di cybersicurezza da parte delle aziende locali. In pratica la nuova lista di Stati a cui è possibile vendere da parte di società israeliane include perlopiù nazioni europee, Stati Uniti, Canada, UK, India, Giappone, Corea del Sud, Australia, Nuova Zelanda. Non è menzionata l‘Ungheria, dove Pegasus è stato trovato sui dispositivi di giornalisti. L’Italia è nella lista. Probabilmente la mossa è stata presa per convincere il governo americano a indietreggiare sull’inclusione di NSO e Candiru nella sua lista nera sull’export, l’entity list. Il settore della cybersicurezza in Israele produce 10 miliardi di dollari di ricavi annuali, con il comparto offensivo che copre il 10 per cento delle vendite, scrive Calcalistech.

n punto di svolta nell’industria degli spyware?

Dunque per la prima volta dopo anni, l’industria degli spyware – che è cresciuta senza limiti nell’ultimo decennio, come ho raccontato a settembre in questo lungo approfondimento in 3 parti – sembra essere arrivata a un punto di svolta. Le mancanze della politica in questo settore, l’assenza di trasparenza e accountability sono state colmate dalle iniziative sparse della società civile (i ricercatori che hanno lavorato sui malware governativi, primi fra tutti Citizen Lab e Amnesty Tech, ma non solo loro, e poi i giornalisti che se ne sono occupati), dagli interessi e dalla discesa in campo di colossi tech, dalla nuova amministrazione americana che ha deciso di includere NSO nella sua entity list.
Il clima sta cambiando per tutto il settore. Anche se ancora manca un quadro regolatorio certo e anche se latitano i dati dettagliati sulle esportazioni di questi prodotti (l’Ue ci sta provando, ma col freno a mano tirato da alcuni Stati membri), esportare strumenti di sorveglianza in qualsiasi Paese senza controlli e remore è una scelta che alla lunga può diventare un boomerang, anche per le aziende che li producono.