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Circular economy: arriva il primo collant nato dal riciclo delle bottiglie di plastica

Circular economy: arriva il primo collant nato dal riciclo delle bottiglie di plastica

Indossare un collant nato dal riciclo delle bottiglie in plastica? Quella che potrebbe sembrare una frontiera eco-avveniristica oggi è nient’altro che realtà: merito del lavoro di RadiciGroup – realtà italiana nata a Bergamo leader nella produzione di poliammidi, fibre sintetiche e tecnopolimeri destinati ad applicazioni in diversi ambiti, principalmente nel settore tessile/moda – e Oroblù – marchio di calze di alta gamma di proprietà di CSP International, gruppo che opera nel settore della produzione e distribuzione delle calze, intimo uomo e donna e costumi da bagno situato nella zona di Mantova.

La collaborazione fra le due aziende ha infatti dato vita – come loro stesse spiegano – “a un prodotto tessile di qualità, alla moda e sostenibile grazie a un limitato impatto sull’ambiente”: il risultato prende il nome di “Oroblù save the oceans” ed è il primo collant italiano realizzato con filati ottenuti dal riciclo del Pet delle bottiglie e come ulteriore contributo alle prospettive del sustainable fashion.

Zero consumo di nuova materia prima e tintura in massa

“Oroblù Save the Oceans” è un collant nero, 50 denari, realizzato con Repetable, il nuovo filato di poliestere prodotto da RadiciGroup, ottenuto mediante un processo di riciclo post-consumer delle bottiglie di plastica, che consente di abbattere le emissioni di CO2 e ridurre i consumi di acqua ed energia. Repetable è stato scelto da Oroblù, dopo un’attenta fase di studio e valutazione, per le sue caratteristiche uniche e per le prestazioni tecniche elevate, che rispondono pienamente alle esigenze del progetto Save the Oceans. Oltre a non consumare nuova materia prima vergine, Repetable viene anche tinto in massa, consentendo un ulteriore risparmio di acqua ed energia elettrica impiegate nella lavorazione.

Filiera Made in Italy trasparente, tacciabile e a km zero

“La nostra azienda ha da sempre sviluppato collezioni che offrono prodotti di qualità, in cui l’attenta mano stilistica, in concerto con il team di sviluppo prodotto, ha sempre curato la costante attenzione all’eco-innovazione” spiega Carlo Bertoni, amministratore delegato di Csp International Fashion Group. “Abbiamo sviluppato il concetto di sostenibilità integrandolo al nostro metodo di lavoro, attraverso la selezione di materie prime riciclate e riciclabili, garantendone l’intero percorso di tracciabilità, forti, anche del fatto, che il ciclo produttivo è basato prevalentemente in Italia nel territorio mantovano.
Da anni lavoriamo con RadiciGroup con il quale abbiamo concretizzato l’importante progetto “Save the Oceans”, realizzando collant che vestono le gambe delle donne e che di pari passo fanno bene all’ambiente”.
Grazie a questa collaborazione tra due aziende familiari, fortemente radicate sul territorio, ma con una dimensione internazionale, nasce così una filiera di produzione Made in Italy totalmente trasparente, tracciabile e a km zero, compresa nell’area tra Bergamo e Mantova”.

“La nostra strategia di prodotto – sottolinea Angelo Radici, presidente di RadiciGroup – è sempre più orientata a incrementare l’uso di materia prima da recupero, senza però rinunciare alle performance delle soluzioni che proponiamo ai nostri clienti. Abbiamo lavorato fianco a fianco con Oroblù per mettere sul mercato un collant di qualità, bello e sostenibile che potesse soddisfare le esigenze anche delle consumatrici più attente e sensibili a queste tematiche. Ed è per noi motivo di orgoglio poter lavorare con realtà di eccellenza del nostro territorio”.

Sarà possibile acquistare i collant “Oroblù Save the Oceans” presso le boutique di intimo e grandi magazzini premium selezionati a partire da agosto 2021, con l’arrivo nei punti vendita della collezione autunno-inverno 2021.




Deliveroo crolla al debutto in Borsa, fondi e investitori stanno con i rider

Deliveroo crolla al debutto in Borsa, fondi e investitori stanno con i rider

Era stata annunciata come la più grande quotazione degli ultimi anni in arrivo sul listino di Londra ma alla fine si è rivelata un clamoroso flop: ieri i titoli azionari di Deliveroo, big britannica delle consegne di pasti a casa, hanno esordito sul mercato con una perdita di oltre il 30%. Nelle ore successive il trend è un po’ migliorato ma le azioni hanno chiuso la loro prima giornata con un tonfo del 26,3% a 2,87 sterline. Si tratta di un fiasco che non si vedeva da tempo e che segnerà una brutta battuta d’arresto negli sforzi della Londra post-Brexit di diventare una piazza attraente per le quotazioni dei gruppi tecnologici internazionali. È però anche la prima volta che una società della gig economy riceve una sonora sberla dai mercati e potrebbe segnare un nuovo inizio per i diritti dei lavoratori di questo settore.

Il sentore che il debutto di Deliveroo si sarebbe potuto trasformare in un clamoroso disastro era nell’aria. Nei giorni scorsi la società aveva rivisto al ribasso la forchetta, vale a dire il range di proposta del primo prezzo. Questa era stato abbassata da 3,90 – 4,60 sterline a 3,90 – 4,10 sterline ad azione e il valore di avvio era stato fissato sul margine più basso a 3,90 sterline. In genere questo tipo di decisioni nascondono la paura di una cattiva accoglienza da parte degli investitori. E così è stato. La mossa di «scontare» l’offerta non è bastata e gli investitori hanno voltato in massa le spalle all’Ipo.

Alla base della fuga da Deliveroo ci sarebbe il rischio che la società possa finire in una «lista nera» delle aziende che non si attivano per i propri lavoratori. Su questo hanno influito le proteste dei rider, i fattorini che materialmente effettuano le consegne dei pasti e che chiedono maggiori tutele e salari più congrui.

Proprio per questo aspetto, secondo quanto riferiva Bloomberg qualche giorno fa, alcuni dei maggiori asset manager della City avrebbero sollevato preoccupazioni sul fatto che Deliveroo potrebbe non rientrare negli schemi previsti per gli investimenti socialmente sostenibili. Questo punto escluderebbe infatti i titoli della società dai fondi delle grandi case di investimento. Su questo tema si sono espressi alcuni grandi gestori britannici, come Aberdeen, Aviva e Legal & General, che si sono rifiutati di mettere nei propri panieri una società i cui standard nel trattamento dei lavoratori non sono considerati in linea con i criteri di investimento Esg, vala a dire a favore dell’ambiente, del sociale e di governance corrette. «I diritti dei lavoratori sono importanti» ha recentemente spiegato Andrew Millington, capo degli investimenti azionari Uk di Aberdeen mentre i rider cercavano di attirare i riflettori sulle proprie condizioni proclamando, come ha fatto il sindacato Iwgb, scioperi delle consegne durante l’Ipo.

«Gli investitori non guardano più soltanto ai libri contabili quando decidono dove indirizzare i propri capitali. Le questioni ambientali, sociali e di governance (Esg) sono ora di primaria importanza. La recente sentenza della Corte Suprema del Regno Unito sullo status degli autisti di Uber è stata un momento spartiacque, segnando l’inizio di una nuova era nella gig economy – ha commentato ieri Laura Petrone, Senior Thematic Research Analyst di GlobalData -. In questa nuova fase, gli investitori saranno sempre più preoccupati per i diritti di base dei lavoratori e per i potenziali rischi normativi man mano che i governi di tutto il mondo si attiveranno per regolamentare questo modello di business».




“CRISIS” SUPERLEGA, I CLUB TRAVOLTI DALLE POLEMICHE: SULL’INADEGUATEZZA DI ANDREA AGNELLI, E ALTRE STORIE

Crisis management Superlega

Superlega: un caso da manuale di pessimo crisis management, con le inevitabili ricadute sulla reputazione dei protagonisti

Ieri sera, dietro la sede della FIGC a Roma, in via Giulio Caccini, è stato realizzato un murales che raffigura Andrea Agnelli, con un coltello che buca un pallone: il Presidente della Juventus è ritenuto responsabile – assieme a Florentino Perez del Real Madrid – del lancio del criticatissimo progetto “Superlega”, assurto in questi giorni agli onori delle cronache nazionali e internazionali. Il murales in questione è stato realizzato dalla street artist Laika MCMLIV, che ha chiamato l’opera “La morte del calcio”, aggiungendo peraltro:

“Il tentativo di creare una competizione a invito riservata ai club più ricchi è la morte dei sogni dei tifosi di tutto il mondo. Lo sport dovrebbe insegnare che con la fantasia, il talento e l’allenamento tutti possono provare a vincere. La Superlega, in nome di un business sempre più monopolizzato, sconfessa definitivamente questo sogno. L’idea che sia stato pensato fa paura perché tutto ciò non riguarda solo il calcio”.

Crisis Superlega: una breve cronistoria

Riepilogando quanto accaduto, per i pochi che non avessero seguito la polemica, si tratta del progetto di avvio di una competizione a cadenza annuale per una decina di Club calcistici alternativa alla Champions League, che avrebbe riunito alcune tra le migliori squadre europee in una sorta di campionato di super élite, organizzato autonomamente dai Club promotori. L’UEFA, in risposta, ha minacciato una causa milionaria contro tutti i club che avessero aderito al progetto, nonché esclusione degli stessi dalle competizioni ufficiali (Champions ed Europa League) come anche dei loro giocatori dalle Nazionali e da tutte le competizioni UEFA e FIFA, generando una rapida escalation a colpi di comunicati stampa che ha portato il tema Super Lega ad essere negli ultimi 3 giorni trend-topic oltre che su mass-media tradizionali anche e soprattutto su tutte le più importanti piattaforme digitali.

Un progetto, quella della Super League, durato il tempo di un respiro: a mezzanotte di domenica scorsa venne diffuso il comunicato che ne annunciava la costituzione, stanotte (il martedì successivo) alle 2 i promotori hanno ufficializzato la sospensione del piano a tempo indeterminato, di fatto prendendo atto del naufragio dello stesso.

Naufragio – un’ennesima volta – attribuibile in larga parte dall’ignoranza, da parte dei protagonisti della contesa, dei più elementari principi di reputation management e di crisis communication, ampiamente documentati in letteratura; a dimostrazione, una volta di più, che il “dimensionamento” dell’organizzazione (in questo caso alcuni dei più noti e prestigiosi Club calcistici del mondo) non va necessariamente d’accordo con l’efficacia e l’efficienza nella gestione di scenari critici, in grado di pregiudicare tangibilmente il valore per gli azionisti – confermato anche dal crollo in borsa delle azioni Juventus, arrivate a toccare il -13% in un’unica giornata – e in generale per tutti gli altri stakeholder.

Cattiva comunicazione e tono di voce arrogante: la tempesta perfetta

Criticità, quelle sopra richiamate, emerse peraltro fin dal primo momento, con una comunicazione dal tone of voice tendenzialmente arrogante: Agnelli ha provato fino all’ultimo a difendere la Super Lega, dichiarando in un’intervista pubblicata ieri mattina su Repubblica e Corriere dello Sport “Andiamo avanti, c’è un patto di sangue tra noi”, per poi ammettere poche ore dopo – con evidente carenza di coerenza – che non vi erano più le condizioni per proseguire nel progetto.

In realtà, la mancanza di compattezza granitica dei pool di Club coinvolti è emersa con estrema chiarezza non solo con il disimpegno rumorosissimo delle squadre inglesi, ma – non meno rilevante – anche con la mancata adesione di Amazon all’ipotesi Super League, con il gigante dell’intrattenimento dell’home-video che ha dichiarato di comprendere e condividere le preoccupazioni dei tifosi sul progetto Super Lega:

Crediamo che il dramma e la bellezza del calcio europeo arrivino dall’abilità di ogni club di raggiungere i successi tramite le performances sul campo

hanno commentato sollecitamente dal quartier generale di Seattle, dando quindi una prima inequivoca indicazione sotto il profilo della potenziale mancata monetizzazione dei diritti TV che le squadre coinvolte avrebbero voluto incassare.

La domanda che affolla le cronache è principalmente una: ha avuto senso per i Club promotori del progetto Super Lega dichiarare guerra in modo sprezzante ai tifosi, da un lato, e alle istituzioni calcistiche dall’altro?

Superlega: crisis management, questo sconosciuto

Un’evidente trascuratezza dei delicati meccanismi sottesi alla costruzione e gestione della reputazione, in quest’epoca liquida quanto mai da intendersi in chiave multi-stakeholder, nonché, come abbiamo già evidenziato, delle più elementari regole afferenti al mondo del crisis management, che vede nella simulazione preventiva degli scenari di crisi secondo il modello del whorst-case-scenario (immaginare a tavolino, in tempo di pace, il peggior scenario possibile, e attrezzarsi per gestirlo al meglio dal punto di vista della comunicazione) un proprio irrinunciabile pilastro, specie in un mondo dove il digitale, facendola da padrone, determina le caratteristiche Glocal (globali e locali assieme, ovvero tutto ciò che accade qui, accade ovunque…) di ogni crisi reputazionale.

La comunicazione dei leader dei Club promotori del progetto è apparsa invece inopportuna nei toni e nei tempi (era dall’epoca della confusa gestione dell’emergenza pandemica da parte del Governo Conte che non assistevamo a comunicati stampa diramati in piena notte, indici di pressapochismo e, appunto, di carenza di efficace programmazione) nonché caratterizzata da un apparente quanto evidente fuga in avanti nelle prime fasi del lancio, a fronte di una solo apparente compattezza d’intenti, sgretolata in poche ore dinnanzi alla presa di posizione – quella sì pressoché granitica – da parte della quasi totalità delle tifoserie nel mondo, sia di piccoli come di grandi Club.

La reputazione di Andrea Agnelli e di altri protagonisti dello sfortunato progetto pare non venir adeguatamente tutelata da loro stessi neppure in extremis, a posteriori, né – ad oggi – essi sembrano aver pronto un sollecito recovery plan: per contro, dopo la netta presa di distanza da parte dell’Arsenal, è intervenuto magistralmente il proprietario del Liverpool, l’americano John W. Henry, che ha pubblicato un vero e proprio video di scuse rinunciando a far parte della Super Lega, e rivolgendosi ai tifosi con una dichiarazione senza mezzi termini:

“Nelle ultime 48 ore abbiamo causato un disagio, ma va detto che il progetto presentato non sarebbe mai durato senza il supporto dei tifosi. In queste 48 ore siete stati molto chiari sul fatto che non avrebbe funzionato. E voglio scusarmi con i giocatori e tutti coloro che lavorano così duramente al LFC per rendere orgogliosi i nostri tifosi (…). Mi dispiace, e solo io sono responsabile della negatività inutile portata avanti negli ultimi due giorni. È qualcosa che non dimenticherò, e mostra il potere che i fan hanno oggi e che giustamente continueranno ad avere (…). È importante che la famiglia calcistica del Liverpool rimanga intatta, vitale e impegnata in ciò che abbiamo visto da voi a livello globale, con gesti locali di gentilezza e sostegno. Posso promettervi che farò tutto il possibile per promuoverlo”.

Una dichiarazione – quella del patron dei Reds – perfettamente in linea con le best practics del crisis management, che prevedono nella presentazione delle scuse incondizionate agli stakeholder il primo e irrinunciabile passo di un’efficace gestione di crisi.

In casa Juve, invece, ancora una volta arroganza e vanità, peccati peraltro assai gravi: Vanitas vanitatum et omnia vanitas”, come ci ricorda il bellissimo libro dell’Ecclesiaste, che – fossimo a scuola – la Maestra condannerebbe Andrea Agnelli a rileggere ad alta voce almeno 50 volte; meglio in ginocchio sui ceci, dietro la lavagna.




Covid-19: alla ricerca di un vaccino per la cacofonia

Abbiamo imparato a difenderci dal nuovo Coronavirus, ma non da tutto il "rumore" mediatico che accompagna la pandemia

Insieme a quante persone stiamo trascorrendo questo – ahimè, ennesimo – lockdown? La risposta parrebbe in prima battuta, semplice: una, due, oppure quattro, per chi ha anche figli in casa.

Invece, a ben contare, decine, centinaia, per qualcuno migliaia di persone, se contiamo colleghi, studenti, clienti e quant’altri imperversano su Zoom per ragioni professionali; parenti e amici che intasano la messaggistica di Whatsapp; influencer e perfetti sconosciuti che pontificano sui nostri wall Social; per non parlare di opinionisti e giornalisti che dicono la loro dagli schermi televisivi e sulle frequenze radiofoniche. Un vero buzz costante, ma con il volume – purtroppo – sempre al massimo, una babele di voci, dati, opinioni, ipotesi e allarmi.

Vien da chiedersi come sia possibile non uscirne pazzi, e infatti i dati confermano un’impennata delle diagnosi di depressione e dell’uso (e abuso) di psicofarmaci: di fatto, tutti i nostri sensi hanno trascorso gli ultimi 13 mesi a correre come criceti in gabbia. Una gabbia, però, davvero troppo affollata. Una cacofonia che non lascia indenne neppure l’apparentemente asettico dominio della scienza: come farsi mancare, ad esempio, le recenti accese polemiche sulla sicurezza del vaccino AstraZeneca, o “Oxford Vaccine”, come lo chiama – autarchicamente – il Premier inglese Boris Johnson?

A seguito delle due tristi morti per trombosi registrate in Italia, le pagine Social dell’autorevole (sic!) “BustoArsizioToday” hanno pubblicano strilli e articoli sul mal di testa della Sciura Brambilla dopo la prima inoculazione del vaccino, domandando in grassetto ai lettori “E voi: vi fidate di questo vaccino…?”; le cronache di mezza Italia ci hanno tenuti impegnati per giorni sul tema “AstraZeneca si, AstraZeneca no”: come se a decidere sulla sicurezza di un vaccino dovessero essere i giornalisti, o peggio ancora, per plebiscito, i cittadini laureati all’Università della strada.

Più precisamente, sono stati registrati – purtroppo – due decessi nel nostro Paese, tra i vaccinati con AstraZeneca, su 3 milioni di dosi (leggasi: uno ogni 1,5 milioni), per una causa di morte – la trombosi cerebrale – che uccideva comunque, prima del lancio del vaccino, 30 italiani al giorno (uno ogni 2 milioni). Possiamo immaginare che questi due tristi decessi, avvenuti in concomitanza con la somministrazione del vaccino, siano accaduti del tutto a prescindere dall’inoculazione del prodotto? È quanto meno ragionevole ipotizzarlo. Qualora invece si trattasse di una correlazione diretta tra somministrazione del vaccino ed effetto collaterale, è giustissimo evidenziarlo: come scrive Roberto Colombo in un bell’articolo su Avvenire, “Inutile negare o sminuire i possibili eventi avversi rari ma seri riscontrati nella somministrazione dei vaccini (come avviene anche per altri farmaci), o nasconderli in qualche modo agli occhi dei cittadini, nella speranza di evitare timori sproporzionati o rifiuti irrazionali. Come la storia del rapporto tra paziente e medico insegna, la fiducia del primo il secondo se la conquista con la correttezza professionale, la trasparenza e il dialogo“. Ma senza panico, please, e senza per questo mettere in dubbio ad ampio raggio l’utilità dell’uso di uno strumento terapeutico fondamentale quale quello dei vaccini, che nel corso dell’ultimo secolo hanno salvato milioni di vite, pur presentando – tendiamo a dimenticarlo: come qualunque farmaco che utilizziamo ogni giorno – alcuni, rarissimi, effetti collaterali: dati alla mano, i vaccini Moderna e Pfizer insieme hanno causato alla data di pubblicazione di questo articolo segnalazioni per reazioni avverse gravi (meritevoli di ricovero, ma non mortali, per fortuna) in 138 casi, e quello AstraZeneca 36; numericamente ridicoli i primi, e praticamente inesistenti i secondi, se paragonati al numero complessivo di persone vaccinate.

Per non parlare poi delle polemiche sollevate – sempre dalla sciatta stampa nostrana – sull’efficacia del vaccino Astrazeneca per gli over 65. I produttori anglo-svedesi avevano consegnato all’EMA, l’agenzia europea per i medicinali, dati di trials ancora insufficienti a garantire la totale efficacia del prodotto per quella fascia d’età; ebbene, il rilievo relativo al fatto che la sperimentazione fosse stata inizialmente condotta su un numero di soggetti over 65 insufficiente per costituire una base statistica affidabile si è cabarettisticamente trasformato sui nostri giornali in titoli ad effetto di centinaia di organi di stampa: “AstraZeneca, vaccino pericoloso per gli anziani!”, generando un tanto diffuso quanto inutile allarmismo.

Ma non basta. Oggi, in Europa e quasi tutto il mondo, con poche felici eccezioni, i produttori di vaccini sono – purtroppo – in ritardo sulla produzione delle dosi che si sono impegnate a consegnare. Ecco allora i titoli sui più diffusi mass-media: “Big Farma ci ha truffati, promettendo centinaia di milioni di dosi, che poi in realtà va a vendere altrove” (chissà dove, poi).

Aggiungiamo magari anche le polemiche nostrane sulle lungaggini e disorganizzazioni nel piano vaccinale (certamente, si poteva – e si dovrà – far meglio), e tra titoli sensazionalistici e teorie complottiste l’ennesimo effetto distorsivo della realtà è garantito.

In un recente articolo pubblicato su The Atlantic a firma di Zeynep Tufekci, poi tradotto da Internazionale, l’apprezzata docente alla North Carolina University e al Berkman Klain Center di Harvard ha ricordato come quando fu approvato il vaccino contro la Poliomelite la notizia venne accolta con enormi manifestazioni di esultanza, con le campane delle chiese che suonarono a festa in tutti gli Stati Uniti, e i giornali che titolarono “Una vittoria monumentale”, bambini che uscirono prima da scuola per festeggiare e adulti per strada a ballare dalla gioia; per il Covid, curiosamente, non è accaduto nulla di tutto questo.

Vero, “big pharma” in passato ci ha male abituati: disease mongering (variazione dei criteri diagnostici di una malattia per vendere più farmaci, tecnica di marketing ampiamente documentata in letteratura), comparaggio (impegno assunto da un medico di agevolare a scopo di lucro la diffusione di prodotti farmaceutici di una determinata azienda), corruzione vera e propria, e anche occultamento doloso di studi scientifici che dimostravano che propri prodotti farmaceutici erano non solo inutili ma anche pericolosi… Pare insomma che l’industria farmaceutica si sia davvero impegnata, negli ultimi decenni, per pregiudicare la propria stessa reputazione e incrinare il rapporto di fiducia con i pazienti e la cittadinanza in generale, tanto che a seguito di questi deprecabili comportamenti la quasi totalità delle aziende farmaceutiche multinazionali è stata oggetto di sanzioni assai elevate, in alcuni casi vere e proprie multe monstre da miliardi di dollari.

Per non parlare poi della pessima gestione dell’emergenza socio-sanitaria causata dal Covid-19, da parte del Governo dell’allora Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che pare abbia a sua volta fatto di tutto per incrinare la fiducia tra istituzioni e cittadini: altro che Italia come modello virtuoso nella gestione della pandemia, sono stati ben altri i Paesi che sono stati in grado di fare la differenza nel numero di decessi.

Ma ragioniamo, e una volta per tutte circostanziamo razionalmente l’analisi a quanto realmente accaduto negli ultimi mesi. Quindici mesi fa si veniva a conoscenza dell’esistenza di un nuovo coronavirus in Cina, il Covid-19; quattordici mesi fa si otteneva il completo sequenziamento del genoma di questo virus, sequenziamento che gli scienziati di tutto il mondo hanno avuto disponibile nelle successive 24 ore; oggi, a distanza di poco più di un anno dal “paziente zero”, disponiamo di una dozzina di vaccini già iniettati in centinaia di milioni di braccia, e altri stanno venendo approvati dalle autorità regolatorie.

Ben pochi, tuttavia, i titoli sui mass-media tali da segnalare in modo incisivo una delle notizie – francamente la più interessante ini questa pandemia – ovvero quella relativa al vero e proprio miracolo della scienza e della ricerca farmaceutica costituito dall’assoluta rapidità di risposta a questa crisi di dimensioni mondiali, che – direttamente o come concausa – ha lasciato per strada quasi 3 milioni di morti, con buona pace di Fragolina81, professione estetista, che su Facebook si straccia le vesti postando a gran voce, in grassetto e con sintassi dadaista: “Complotto! I vaccini li fanno con i feti morti e ci mettono dentro il microchip per il 5G di Bilgheitz”.

Probabilmente, non sarebbe azzardato scrivere che “Mai nella storia dell’uomo si è stati capaci di rispondere così rapidamente ed efficacemente a una nuova malattia”, con uno strumento efficace come il vaccino per il Covid-19, come dimostrano i dati straordinari della campagna vaccinale in Israele, segnalati a più riprese anche con tagliente ironia dal virologo Roberto Burioni. Ecco, questa sarebbe la vera notizia da enfatizzare a gran voce, risultato del quale giustamente godranno anche no-vax, complottisti, teorici del “potere di big pharma”, critici del metodo scientifico, e via discorrendo.

E a dimostrazione che la scienza non è perfetta ma perfettibile, vorremmo prima di concludere ricordare il lavoro di Katarina Kariko, per anni snobbata da tutti i consigli di facoltà e dai principali atenei, che ha fatto carte false per portare avanti la propria ricerca sull’RNA Messaggero, trascurata da ogni possibile finanziatore e anche boicottata da non pochi suoi colleghi, scienziata che – nonostante il vento avverso – ha tenacemente costruito anno dopo anno il know-how che oggi costituisce l’infrastruttura scientifica su cui poggiano buona parte dei vaccini anti-Covid. A questa scienziata straordinariamente lungimirante forse – anche in ambito accademico – qualcuno dovrebbe chiedere scusa, qualcun altro dedicare magari una targa, e tutti noi un minuto di riconoscenza. In silenzio, magari, così da bilanciare il pessimo spettacolo dato da non pochi uomini di scienza, che – caduti nella trappola del nostro dequalificato giornalismo – si sono scatenati a litigare h 24 in diretta TV: un epidemiologo che dibatte con un immunologo, un direttore sanitario che si prende a pesci in faccia con un medico di base, un virologo insultato da un fisico, e via discorrendo.

Per i mass-media, e relativi Social, tutto ciò si é sostanziato in accesi scontri, ovvero audience e click sulle notizie, quindi in definitiva, in soldi; per la scienza, è stato invece un pessimo spettacolo, perché gli scienziati dovrebbero dibattere in modo anche acceso nei congressi scientifici, e non in televisione, e dai congressi fare sintesi – possibilmente con un approccio multidisciplinare – per poi spiegare a noi cittadini il senso delle cose, con una sola versione, chiara, condivisa, per quanto possibile semplice, e comunque facilmente declinabile, in modo comprensibile, ai non addetti ai lavori. Diversamente, rischia di passare – come purtroppo a tratti è invece passato – il pericoloso messaggio che “neppure la scienza ha le idee chiare”, e allora per qualcuno ben venga il ciarlatano venditore di comode verità pret-a-porter spacciate come soluzioni alternative, o gli allarmismi in salsa pseudo-scientifica. Come ricordato dalla Tufekci sulle colonne del mensile americano, “La lotta alla pandemia è stata anche ostacolata da una comunicazione paternalistica che ha preferito imporre divieti, invece di fare corretta informazione. È necessario cambiare strategia, e soprattutto essere più ottimisti sui vaccini”

Sarebbe davvero il caso, allora, di dare tregua alle nostre menti confuse e disorientate, e concederci un po’ di tranquillità, magari spegnendo per un tempo ragionevole i nostri Device, e prendendo le distanze da tutta questa ridondante cacofonia, per la quale, purtroppo, non esiste ancora alcun efficace vaccino.




L’importanza della reputazione per gli Stati e l’urgenza di tutelare l’Italia

L’importanza della reputazione per gli Stati e l’urgenza di tutelare l’Italia

Alla luce della crescente concorrenza tra i paesi non solo su scala continentale ma anche su quella locale, governi e istituzioni pubbliche negli ultimi anni, hanno intrapreso diverse iniziative per aumentare il livello di competitività del proprio Paese, per migliorare la propria innovatività e risultati macroeconomici.

Oggi, nell’era dell’informazione contemporanea, le fonti di maggiore vantaggio competitivo si riscontrano sempre più frequentemente nel dominio degli asset intangibili, e attualmente uno degli asset più preziosi che aiuta a costruire il valore e vantaggio competitivo di un paese è – com’è noto – la sua reputazione.

Come abbiamo illustrato con maggiore dettaglio nel recente rapporto “Lo Stato in crisi. Pandemia, caos e domande per il futuro, edito da Franco Angeli, al quale hanno collaborato 35 firme eccellenti del mondo accademico, professionale e istituzionale, una buona reputazione nazionale infatti consente di attrarre nuovi investimenti esterni, trovare di nuove fonti di finanziamento per progetti, allettare lavoratori qualificati, turisti e nuovi residenti. Inoltre diversi studi hanno registrato un legame tra la reputazione del paese e quelle aziendali. Secondo Newburry (2012), la relazione tra la reputazione del paese e la reputazione aziendale è infatti una delle questioni contemporanee di maggiore rilievo per gli studiosi di reputazione ed economia internazionale: è stato dimostrato come società che prosperano in un Paese con una buona reputazione (ad esempio, le aziende automobilistiche tedesche) possono avere vantaggi competitivi nel mercato globale nonostante la loro scarsa reputazione aziendale.

Per raggiungere questi obiettivi, vengono applicati dagli stati gli strumenti tradizionalmente utilizzati nel mondo del business. Si tratta dell’attività di soft power, in chiave per lo più economica, che prende il nome di Nation Branding definita da Pauline Kerr e Geoffry Wisemsn nel loro libro “Diplomacy in a Globalizing World: Theories and Practice”, Oxford University Press (2013), come: «l’applicazione di concetti e tecniche di marketing aziendale, alle nazioni, con l’intento di supportare con la reputazione le relazioni internazionali».

Negli ultimi due decenni, è stata prestata una crescente attenzione al Nation Branding sia dagli studiosi di marketing (come Anholt, 2002; Fan, 2006) che da studiosi di pubbliche relazioni (ad esempio, Wang, 2006): il Nation Branding infatti è tutt’oggi un campo in via di sviluppo in cui gli studiosi continuano la loro ricerca di un quadro teorico unificato al fine di implementare ed affinare le strategie volte alla gestione e all’accrescimento della reputazione di uno stato.

Attualmente, a mettere a rischio la già critica reputazione italiana – calata di due posizioni nell’ultima indagine del repTrak Index, anche a causa delle pessime performance sul fronte della corruzione, della complessità burocratica, della lentezza dei processi giudiziari, etc – si configura la negativa gestione del Paese rispetto l’emergenza sanitaria da Covid-19, che non ha di certo contribuito a rafforzare la visione, su scala globale, del nostro paese. Di seguito s’illustrerà la ricerca di un importante consorzio europeo sulla gestione degli stati colpiti dall’attuale emergenza sanitaria, ricerca che non vede l’Italia posizionarsi in modo positivo tra le statistiche internazionali.

Il DKG e la gestione Covid-19 in Italia

Deep Knowledge Group è un consorzio misto profit-no profit, che – anche grazie a un accordo di collaborazione scientifica con il King’s College di Londra – si occupa di ricerca e sviluppo e di investimenti nei campi dell’Intelligenza artificiale, dell’analisi di Big-data e delle soluzioni di tecnologia avanzata per i Governi.

In un interessante ed approfondito articolo su Forbes, curiosamente non ripreso dalla stampa italiana, si evidenzia come – nonostante il continuo release di un enorme quantità di dati sulla pandemia Covid-19 rilasciati da organizzazioni come OMS, CDC, Johns Hopkins University e Worldometers – tali dati assai raramente vengano analizzati in modo efficiente e sistematico per fornire indicazioni realmente utili alla gestione dell’emergenza sanitaria, che interessa materie assai differenti tra loro – ma complementari – come medicina, biologia, epidemiologia, psicologia studio dei comportamenti umani, ed altre aree di interesse scientifico.

Un team di esperti DKG ha quindi raccolto e analizzato i dati generati per 200 paesi in tutto il mondo, e ha sviluppato alcuni quadri analitici avanzati per analizzare lo scenario dell’epidemia di Coronavirus, presentando poi l’output sotto forma di dettagliate classifiche che dovrebbero essere utili alle istituzioni pubbliche per inquadrare meglio le strategie realmente vincenti nel contenimento dei danni da Covid-19 e per la gestione efficace dell’impatto economico della pandemia.

L’analisi di DKG – che ha valutato i dati in modo imparziale tramite una metodologia basata su metriche proprietarie e accessibile in modalità open-source – è stata progettata per valutare rapidamente la situazione in continua evoluzione nei vari paesi, che muta mentre le autorità si sforzano di mitigare le conseguenze sanitarie ed economiche della diffusione del virus, e ha dimostrato che alcuni paesi sono stati assai efficaci nella lotta contro COVID-19 fin dall’inizio, mentre altri – al di la delle roboanti dichiarazioni utili per la propaganda politica interna – assai meno.

I paesi virtuosi si sono concentrati sulla prevenzione anticipata della pandemia, implementando misure di quarantena prima che il numero di casi confermati superasse numeri ingestibili per il servizio sanitario pubblico, e utilizzando metodi efficienti per la mappatura del contagio e per il trattamento dei pazienti ospedalizzati, utilizzando anche tecnologie come l’intelligenza artificiale, la robotica e l’analisi dei big data, in combinazione con le tecniche di trattamento medico e di gestione dell’assistenza sanitaria strutturate in modo sofisticato.

Ogni paese analizzato è stato classificato con un punteggio numerico costruito utilizzando una metodologia ben definita: a ogni aspetto viene assegnato un peso specifico, o fattore di importanza, che viene utilizzato come input nelle equazioni utilizzate nello studio per generare vari quadri di classificazione matematica dei fenomeni e comportamenti analizzati, e tutti i quattro quadri di classificazione (primo quadro con informazioni sul grado di sicurezza in senso assoluto nei vari Paesi, secondo quadro sul rischio Covid nelle nazioni analizzate, terzo quadro sull’efficienza specifica con la quale sta venendo trattato il virus COVID-19, e infine quarto quadro di classificazione che misura il grado di sicurezza potenziale all’interno dei Paesi dell’Eurozona), la classificazione riservata all’Italia è – in varia misura – impietosa). Completa l’analisi un set di interessanti infografiche, dalle quali risulta chiaro una volta di più lo spazio di miglioramento del sistema Italia in questa (e in future) gestioni di emergenze sanitarie e pandemiche.

Le non conformità critiche

Queste, in estrema sintesi, le scelte critiche che fin dall’inizio della gestione dell’emergenza hanno contribuito a pregiudicare la reputazione dell’Italia nella gestione Covid-19:

  • disomogeneità delle strategie di comunicazione e visibilità sui canali informativi ufficiali, con molti enti presenti online, attraverso una pluralità di siti (Governo, Ministero della Salute, Protezione Civile, Istituto Superiore di Sanità, etc.) riportanti messaggi non sempre allineati;
  • assenza – specie nella prima fase della gestione dell’emergenza – di una voce unica che parli a nome di tutte le istituzioni pubbliche, facilmente riconoscibile, e che sia ritenuta autorevole dalla cittadinanza. La mancanza di coordinamento nel merito dei messaggi ha evidenziato una gestione della crisi per certi versi improvvisata: Presidente del Consiglio, Ministro della Salute, Commissario all’emergenza Borrelli, Presidenti delle Regioni coinvolte, Protezione Civile… tutti hanno parlato, con il risultato di ridurre l’efficacia del messaggio e aumentare i fattori confondenti (fino all’epic fail del 3 marzo, con le fonti governative che alle 14:00 confermavano la chiusura delle scuole in tutta Italia, e la Ministra dell’Istruzione che la smentiva alle 14:15 per poi confermarla in conferenza stampa alle 18:00);
  • assenza nei siti istituzionali di una sezione informativa specifica sulle bufale relative al Coronavirus (ne circolano di ogni tipo), utile per garantire una comunicazione il più possibile priva di contenuti confondenti per la popolazione;
  • presenza del Presidente Giuseppe Conte, nella prima agitata fase dell’epidemia, in ospitate TV – da “Live Non è la D’Urso” a “Che tempo che fa” di Fazio – più adatte a una soubrette o a un opinionista qualsiasi, che non al Presidente del Consiglio di una delle prime dieci potenze industrializzate del mondo, con un approccio scientificamente poco affidabile tale da non riuscire affatto a rasserenare i concittadini alla prese con un emergenza tanto inedita quanto preoccupante;
  • indicizzazione dei siti web nazionali ufficiali sui principali motori di ricerca affidata al caso (organica, ovvero sulla base delle ricerche degli utenti, e non governata dalle istituzioni). Sarebbe stato sufficiente accordarsi (possibilmente in anticipo rispetto allo scoppio dell’epidemia) con Google Italia, prevedendo l’attivazione di un box apposito in testa alla prima pagina di qualunque ricerca online, per far trovare in evidenza il rimando all’hub informativo principale;
  • informazioni online non aggiornate in tempo reale (ad esempio, per giorni nelle FAQ del Ministero Salute non è stato riportato l’elenco delle Regioni interessate da decreti di restrizione dei servizi, ma si parlava solo delle delibere di Lombardia e Veneto);
  • a parte i video informativi con protagonisti il giornalista RAI Michele Mirabella, ben fatti e con alcuni consigli utili di comportamento e prevenzione, lanciati il 7 febbraio (ma che – oltre che spiegare, assai discutibilmente, che il contagio non sarebbe stato affatto facile – neppure riportavano il numero verde del Ministero della Salute), non sono stati programmati nelle prime tre settimane di epidemia specifici spot informativi in TV, che potevano esser realizzati precedentemente, in un’ottica di corretta previsione della crisi, e a costi assai contenuti (i video con Amadeus o i cartelli con le norme di buon comportamento appariranno circa un mese dopo la deflagrazione dell’epidemia);
  • a distanza di un mese dalla dichiarazione di emergenza, i canali social Facebook, Twitter, Instagram e Youtube del Ministero della Salute risultavano ingaggiati nella gestione dell’emergenza solo sotto il profilo della pubblicazione di informazioni e aggiornamenti, ma le molte domande – soprattutto su Facebook – poste dai cittadini non ottenevano alcuna risposta, situazione decisamente anomala rispetto alle best practices in materia di comunicazione digitale (anomalia che peraltro permane a tutt’oggi);
  • numeri verdi d’informazione andati in tilt per giorni: sempre occupati, nessuna risposta, cadeva la linea. Uno dei più eclatanti pessimi indicatori di scostamento dalle buone prassi internazionali in materia: non si è fatta un’adeguata simulazione di scenario, e quindi i canali di comunicazione più immediati (le linee telefoniche, oltre ai Social) non sono stati presidiati con risorse professionali numericamente sufficienti per resistere alla (prevedibile da tempo) onda d’urto delle chiamate della popolazione;
  • azione di contenimento promossa a macchia di leopardo, dando l’immagine di un Governo centrale quasi in reciproca competizione con le Regioni, e in particolare con alcune di esse, che hanno preso iniziative in ordine sparso. La tutela della salute chiaramente viene al primo posto: ma occorre anche qui non improvvisare, e poter contare su un crisis plan (un piano di gestione della crisi) preparato con cura in precedenza, così da prevedere accuratamente ogni scenario e gli adeguati strumenti di risposta e di gestione;
  • assenza di un piano per la sollecita riconversione dei piccoli ospedali dismessi, in aree per la terapia intensiva;
  • tardivo coordinamento con gli specialisti medici delle Forze Armate, che avrebbero fin da subito potuto garantire professionalità e spazi (mentre pubblichiamo questo articolo, l’ospedale da campo degli Alpini a Bergamo è ancora in fase di allestimento, anche questo avviato, poi bloccato a e poi ripartito);
  • ritardo inspiegabile nella requisizione, in accordo con le proprietà, di strutture alberghiere per la creazione di hospice per la quarantena Coronavirus (il primo fu l’hotel Michelangelo a Milano il 21 marzo 2020, oltre un mese dopo lo scoppio dell’epidemia nel nostro Paese);
  • in generale, inefficace coordinamento tra le istituzioni nazionali e quelle locali, come successivamente ribadito anche da autorevoli giuristi come il Prof. Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale, che ha sollecitato a ridisegnare il perimetro delle reciproche competenze, lamentando anche in un suo intervento la mancata applicazione dell’articolo 117 della Costituzione, che riserva allo Stato i compiti in materia di profilassi internazionale, l’articolo 120 della Costituzione che consente al Governo di sostituirsi alle Regioni in casi di pericolo grave per l’incolumità, e la legge 833 del 1978 che assegna al Ministro della salute il compito di intervenire in caso di epidemie;
  • per l’intera durata dell’emergenza, perlomeno fino alla data di pubblicazione di questo articolo e dei successivi aggiornamenti assenza del Commander-in-chief (il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte) sui luoghi del disastro, ovvero, con riguardo a questo particolare tipo di crisi, sul territorio delle regioni più colpite dalla pandemia, Lombardia e Veneto in primis. Nel processo di costruzione di senso il tentativo dev’essere quello di ridurre l’incertezza dei vari pubblici coinvolti nella crisi e ispirare fiducia nei leader che devono gestirla: l’assenza del PdC Conte dal territorio non ha certamente aiutato a raggiungere questo obiettivo.

Conclusioni: le lezioni da imparare

Dal punto di vista del crisis management, il modello di gestione che tra tutti sembra aver operato nella giusta direzione, nel complesso, resta quello di Taiwan, anche per l’esiguo numero di vittime imputabili al Coronavirus, grazie alla messa in opera di un efficiente e completo crisis-plan preventivamente elaborato e testato.

È bene ricordare come le regole internazionalmente riconosciute valide nella gestione degli scenari di crisi, specie sotto il profilo della comunicazione, sono – ribadisco – note. In sintesi: autorevolezza, rapidità, trasparenza, coerenza, affidabilità, frequenza di aggiornamento, robustezza delle infrastrutture dedicate a erogare le informazioni; c’è poco o nulla da inventare, e proprio l’Italia, tra l’altro, ha dato parecchio sotto il profilo della costruzione di percorsi e prassi d’eccellenza in materia.

Pur con molta buona volontà da parte delle istituzioni, e ferma restando la dedizione e abnegazione assoluta dei nostri operatori sanitari, che sta realmente facendo la differenza, l’impressione è che il Governo – nonostante i molti segnali (neppur troppo deboli) di crisi – sia arrivato ampiamente impreparato al grave appuntamento con questa epidemia, sottostimando la più importante delle regole auree del crisis management e della crisis communication, che è un po’ il minimo comune denominatore di tutti i punti sopra elencati: è umanamente impossibile reagire con efficacia a crisi di ampia portata se il sistema di comunicazione e di relazione con il grande pubblico non è costruito (e testato con appositi stress-test) ben prima dell’evento critico, ad esempio, in estrema sintesi:

  • attrezzandosi con professionalità adeguate (sia per qualità che per numero) per poter garantire comunicazioni e istruzioni dettagliate alla cittadinanza in casi di emergenza, con indicazioni specifiche per essere preparati in casa, sul luogo del lavoro o a scuola;
  • organizzando iniziative off-line come il reclutamento di volontari in caso di allarme;
  • disponendo vere e proprie esercitazioni, così da valorizzare un lavoro preventivo letteralmente vitale in caso di emergenza;
  • avviando in tempo di pace l’indispensabile processo di informazione, preparazione ed educazione dei cittadini;
  • elaborando e progettando, ben prima della deflagrazione della crisi, una narrativa convincente, così da poter poi allo scoppio dell’emergenza assemblare un messaggio  autorevole, che fornisca speranza, mostri empatia per le vittime e assicuri che le autorità stanno facendo il massimo per ridurre e controllare le conseguenze dell’emergenza.

A smentire ulteriormente le voci che lodano il modello Italiano, non mancano i dati e le informazioni di cui il web si fa prodigo portatore e che al momento stanno contribuendo a causare un danno reputazionale non indifferente all’Italia, in quanto, come è noto, quando l’immagine che si cerca offrire risulta incoerente e distonica rispetto ciò che invece si è, la perdita in termini reputazionali è semplicemente inevitabile.

Occorrerebbe piuttosto, invece che esaltare un modello assai lacunoso, operare in direzione critica, riconoscendo gli errori che lo Stato italiano – assieme ad altri stati, ma per questo non meno responsabile – ha compiuto negli ultimi mesi nel gestire una crisi, quella relativa alla pandemia da Coronavirus che ci ha trovati largamente impreparati nonostante l’esistenza – completamente ignorata – di un piano di prevenzione di crisi pandemica nazionale.

Quello che oggi è opportuno fare, cercando di imparare dagli errori è dirigersi verso un attento studio di quella che è la già ricca e articolata letteratura delle discipline di crisis management e crisis communication, al fine di preservare la preziosa reputazione dello Stato italiano, funzionale a sostenere il sistema Paese, e quindi le imprese e i cittadini che in questa nazione vivono e lavorano.

*Luca Poma è 
Professore di Reputation management all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino, specialista in Crisis management e Crisis communication