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Moda, Giorgio Armani: “Questa crisi è una meravigliosa opportunità per ridare valore all’autenticità”

Moda, Giorgio Armani: “Questa crisi è una meravigliosa opportunità per ridare valore all’autenticità”

Il mondo della moda è, da sempre, il settore che fa da traino all’economia italiana, raccontando il valore del made in Italy nel mondo, e con l’emergenza da covid19 se ne è avuta ulteriore conferma. Il timore di compromettere la propria reputazione e, quindi, il proprio valore economico era legittimo e comune alla maggior parte delle aziende, soprattutto considerando che, allo scoppio dell’emergenza, l’industria del fashion si preparava a lanciare la collezione primaverile, con tanto di campagne già pianificate e budget già investiti.

Le aziende di moda italiane, in passato, si sono spesso rivelate solide e produttive, con un indice di ebit margin, che indica la capacità di generare profitto, in media del 9,3%, contro il 6,2% dei brand sotto il controllo di un player straniero. Un dato che è ancora migliore per quei marchi a controllo familiare, per i quali la media è del 13,4% (dati studio Mediobanca R&S)

Anche in questo caso, alcuni brand italiani non solo sono riusciti a resistere ad una crisi – sanitaria ma anche economica – di portata globale, ma hanno saputo gestire il momento, tanto da uscirne con una reputazione, e di conseguenza un valore economico, migliorata, stando a quanto emerge dall’analisi effettuata con Reputation Rating, algoritmo che pesa e misura le dimensioni della Reputazione, certificando una serie di parametri oggettivi e soggettivi, quali certificati, media intelligence e Sentiment Analysis, attraverso la tecnologia blockchain.

È importante comprendere che la reputazione non è solo “ciò che dicono ti te le altre persone” o l’andamento di parametri finanziari. Per questo, Reputation Rating valuta informazioni differenti, concependo la reputazione in termini di reti e sistemi e stabilendone il peso specifico attraverso la logica dei certificati.

Tra coloro che meglio identificano le eccellenze della moda italiana, e che dovrebbe essere preso ad esempio per la gestione dell’emergenza, c’è sicuramente Giorgio Armani, noto anche come Re Giorgio. Intervistato da Reputation Review, lo stilista ha discusso le modalità della ripartenza in questo settore così fondamentale per il nostro Paese. Un’azienda che conta oggi più di 7 mila dipendenti nel mondo, con un fatturato globale pari a 2.1 miliardi di euro. Ma ciò che maggiormente caratterizza Armani è la sua straordinaria leadership e la capacità di valorizzare in primis sempre il contributo del fattore umano.

«Questa crisi è una meravigliosa opportunità per riallineare tutto, per ridare valore all’autenticità – Racconta Re Giorgio nell’intervista pubblicata sul numero 22 della rivista – Il momento che stiamo attraversando è turbolento, ma ci offre anche la possibilità, unica davvero, di aggiustare quello che non va, di riguadagnare una dimensione più umana per dar spazio a valori come il coraggio, la solidarietà e lo spirito di sacrificio, che poi sono le caratteristiche della nostra cultura. È bello vedere che in questo senso siamo tutti uniti. L’emergenza attuale dimostra come un rallentamento attento e intelligente sia la sola via d’uscita. Il declino del sistema moda per come lo conosciamo è iniziato quando il settore del lusso ha adottato le modalità operative del fast fashion, carpendone il ciclo di consegna continua nella speranza di vendere di più, ma dimenticando che il lusso richiede tempo, per essere realizzato e per essere apprezzato. Il lusso non può e non deve essere fast.”

È nei momenti di difficoltà, in fondo, che si vede il valore di un vero leader. E Giorgio Armani lo è. In questo momento difficile, ha voluto contribuire alla rinascita economica e reputazionale di Milano, città che lo adottò anni fa e che tanto ama, e dell’Italia, decidendo di riportare nel capoluogo lombardo le sue sfilate di alta moda, dopo anni di assenza, augurandosi che i suoi colleghi facciano lo stesso.

“Dal lockdown, la Reputazione di Armani è cresciuta in particolar modo in riferimento alla Corporate Social Responsibility (CSR), non solo come diretta conseguenza della donazione a concreto supporto sul fronte Coronavirus, ma anche per il costante impegno nel sostenere l’ecosistema nazionale, riportando dopo anni le sfilate di alta moda a Milano. – Commentano Davide Ippolito e Joe Casini, fondatori di Reputation Review, l’unica rivista italiana interamente dedicata all’analisi delle reputazioni – Contestualmente, forti segnali positivi sono stati rilevati per il Driver delle Performance e, parallelamente, nei confronti degli Stakeholder Investitori e Finanziatori, proprio per la forza e stabilità che ha trasmesso Armani durante l’emergenza economico-sanitaria; non per ultima, la Leadership di Armani è stata rilevata in crescita, trascinando con sé un miglioramento della Reputazione percepita da Società e Istituzioni. Dalla ricerca, pertanto, emerge come il capitale reputazionale pregresso, basato fortemente sulla Leadership e sulla Reputazione nei confronti dei Consumatori, abbia consentito al brand di superare in modo brillante questa crisi senza precedenti.”




Ellie Goldstein è la prima modella Gucci con la sindrome di Down

Ellie Goldstein è la prima modella Gucci con la sindrome di Down

Ellie Goldstein è  la prima modella di Gucci con la sindrome di Down

La 18enne di Ilford – a nord di Londra – ce l’ha fatta a realizzare il suo sogno: dopo anni di gavetta tra pubblicità e shooting, Ellie ha sfondato. Una conquista sua e anche del mondo della moda che ha scavalvato pregiudizi e resistenze nei confronti della disabilità.

Ellie è il volto della nuova campagna beauty di Gucci

che sui social ha raccolto migliaia di like. Tre anni fa il suo primo contratto con un’agenzia che rappresenta persone con disabilità, poi le prime pubblicità con brand importanti come Vodafone e Nike. Ellie sponsorizza il mascara L’Obscur ed è la prima modella con la sindrome di Down della nota maison di lusso. Ellie Goldstein vuole anche laurearsi, è  iscritta alla facoltà di arti performative del college di Redbridge.

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Allarme deepfake, così l’intelligenza artificiale ci aiuterà (forse) a combattere i falsi creati dall’intelligenza artificiale

Allarme deepfake, così l’intelligenza artificiale ci aiuterà (forse) a combattere i falsi creati dall’intelligenza artificiale

L’ultimo esempio è quello più innocuo, ma che però ha creato più scalpore: un finto Tom Cruise, praticamente identico all’originale, che scherza e ride in una serie di video molto condivisi su TikTok. Talmente condivisi da suscitare un ampio dibattito online e da spingere il loro creatore a rimuoverli temporaneamente dal social network, dimostrazione pratica del livello raggiunto dai cosiddetti deepfake, quei falsi (immagini, video, audio) realizzati grazie all’utilizzo di algoritmi basati sull’intelligenza artificiale, che partendo da un volto è in grado di simularne un altro, anche ricreando la mimica facciale e le espressioni.

Quelle clip erano (sono) fatte per divertire e infatti su TikTok sono tornate e sono rimaste, ma il timore di molti è che siano un antipasto di quello che ci attende in futuro, quando i deepfake saranno utilizzati per imitare in maniera incredibile (anzi, molto credibile) un esponente politico, un personaggio pubblico, un vicino di casa, la maestra di nostra figlia. E farle dire qualsiasi cosa. Come faranno le persone a capire che cosa è vero e che cosa no? Come faranno i giornalisti? Facendosi aiutare dalla tecnologia, ovviamente.

Le IA usate contro le IA

Alcuni ricercatori dell’Università di Buffalo, negli Stati Uniti, hanno trovato un modo per distinguere i volti umani da quelli generati da un computer, analizzando il riflesso negli occhi. Nel documento stilato dagli scienziati (che è questo, in pdf) viene ricordato che la cornea funziona un po’ come uno specchio e riflette la luce che si trova di fronte: nel caso degli esseri umani, quello che si vede riflesso nei due occhi è pressoché uguale, perché hanno davanti gli stessi oggetti e le stesse fonti luminose; nel caso dei deepfake questo non succede, o comunque non succede quasi mai, perché (semplificando) i volti artificiali (come questo) vengono creati da database di facce che vengono combinate insieme per ottenere il risultato desiderato e gli occhi possono anche arrivare da due visi diversi. 

Per trovare i falsi, i ricercatori hanno utilizzato un software che ha imparato a riconoscere gli umani dopo avere studiato decine di migliaia di occhi e i loro riflessi, cioè un’intelligenza artificiale per contrastare un’altra intelligenza artificiale. E i risultati sono piuttosto soddisfacenti, visto che sfiorano il 95% di affidabilità.

Uno dei video del falso Tom Cruise su TikTok

Una battaglia che è appena iniziata

Con qualche controindicazione, evidenziata dagli stessi ricercatori: il sistema funziona (molto) bene se davanti al viso c’è una fonte di luce abbastanza chiara ed evidente da generare un riflesso sulle cornee e soprattutto se entrambi gli occhi sono visibili, così che l’IA possa metterli a confronto; inoltre, un successivo lavoro di post-produzione sul “falso” potrebbe intervenire anche a livello di questi dettagli, così da armonizzare fra loro i riflessi su occhio destro e occhio sinistro.

Col tempo, comunque, è probabile che queste contromisure diventino ancora più efficaci (nell’aiutarci), cosa che però faranno anche i deepfake (nell’ingannarci). Insomma, è solo l’inizio dell’ennesima battaglia fra buoni e cattivi… solo che questa volta riguarda le macchine.




Tabacco, la guerra segreta di Philip Morris contro l’Oms

Tabacco, la guerra segreta di Philip Morris contro l’Oms

Philip Morris ha creato una Fondazione, la Foundation for a Smoke-Free World, a capo della quale ha messo quello che era il nemico pubblico numero uno del tabacco, Derek Yach dell’Oms, per favorire la propria attività di lobbynginfluenzare i ricercatori e soprattutto promuovere l’alternativa alla sigaretta tradizionale, la Iqos. A raccontare la “guerra segreta di Philip Morris contro l’Organizzazione della sanità” è l’inchiesta firmata da Stéphane Horel per Le Monde realizzata insieme a Ties Keyzer, Tim Luimes ed Eva Schram di “The Investigative Desk” (Paesi Bassi) e con la collaborazione di “Follow the Money” (Paesi Bassi) e “Knack” (Belgio).

Derek cambia vita

Nel lungo racconto pubblicato dal quotidiano francese un ruolo centrale lo gioca Derek Yach medico sudafricano, esperto di salute pubblica di fama mondiale che ha guidato per anni la Tobacco Free Initiative dell’Oms. Considerato una “rockstar nel controllo al tabacco” è stato uno dei principali artefici di uno storico trattato internazionale che blocca l’accesso della lobby del tabacco ai decisori pubblici, Oms in testa. Nel 2017 però la vita e il ruolo di Derek Yach cambiano radicalmente: come ricostruisce Le Monde, dopo aver avuto modo di incontrare l’amministratore delegato di Philip Morris André Calantzopoulos  Derek Yach annuncia a settembre la creazione della Foundation for a Smoke-Free World, di cui ha accettato di assumere la presidenzaCompletamente finanziata da Philip Morris per un importo di 80 milioni di dollari l’anno (67,22 milioni di euro) per dodici anni, ovvero quasi 1 miliardo di dollari (840 milioni di euro), la fondazione  mira a “porre fine al fumo in una generazione”. La dotazione economica è, scrive la Horel, in gran parte destinata a finanziare la “ricerca indipendente”.

Una valanga di proteste accoglie la nascita della fondazione. “Corruzione da 1 miliardo di dollari“, lamenta l’Unione internazionale contro la tubercolosi e le malattie polmonari, una storica organizzazione scientifica. La prestigiosa American Cancer Society mette in guardia dalla tentazione “immorale” di prendere i soldi facili della fondazione, “guadagnati con la principale causa di morte prevenibile nel mondo”. Più di 400 organizzazioni di sanità pubblica, università, istituti di ricerca e riviste scientifiche hanno da allora annunciato di aver rifiutato tutte le sovvenzioni della fondazione, che i presidi delle principali scuole di sanità pubblica del Nord America considerano “finanziamento dell’industria”.

La difesa: “Philip Morris non incide sulla Fondazione”

Le parole più dure vengono proprio dall’Oms dove Yach aveva costruito la sua carriera. Qualsiasi collaborazione con la fondazione, afferma il segretariato della Convenzione quadro  per il controllo del tabacco, “costituirebbe una palese violazione dell’articolo 5.3” che stabilisce come “Funzionari della sanità pubblica e difensori della salute concordano sul fatto che l’industria del tabacco non debba avere voce in capitolo per quanto concerne la definizione delle politiche per la salute”.

In base a quell’articolo è difficile per le compagnie del tabacco fare pressioni se vengono bandite dal tavolo di discussione. La Convenzione quadro è stata firmata da 182 paesi, quasi l’intero pianeta.

Ma l’Oms riserva parole molto dure anche per Derek Yach. Tramite posta elettronica, infatti sollecita il suo ex direttore esecutivo a rimuovere dal sito web della fondazione ogni menzione del suo precedente ruolo.

Sentito da Le Monde, Derek Yach “assicura che lo statuto della fondazione, la sua organizzazione no-profit e le regole per l’assegnazione delle sovvenzioni vietano a Philip Morris di partecipare alla sua governance, decisioni, strategie o attività”. Sarà proprio così?

Chi è stato finanziato

L’inchiesta condotta da Le Monde e The Investigative Desk sulla base di documenti interni, moduli fiscali, procedimenti giudiziari e analisi dei ricercatori delle università di Bath (Regno Unito) e California (Stati Uniti) dimostra per la prima volta che la fondazione serve soprattutto gli interessi dell’azienda.

Nel mese di maggio 2019 è cessata la pubblicazione on line dei verbali delle riunioni del consiglio della Fondazione for a Smoke-Free World. “L’identità dei membri del suo consiglio scientifico, sciolto in data ignota, non è mai stata resa nota“, precisa Le Monde. Per quanto riguarda i 40 milioni di euro di contributi concessi dalla fondazione in più di tre anni di esistenza e i 96 milioni promessi, non solo gli importi e i nomi dei beneficiari non sono pubblici, ma i criteri di aggiudicazione sono sconosciuti.

In totale, circa 100 entità in tutto il mondo hanno ricevuto finanziamenti. Il gruppo di ricerca sul controllo del tabacco dell’Università di Bath ha estratto i dati dalle dichiarazioni della fondazione alle autorità fiscali statunitensi. Scrive la Horel: “La sua analisi sul sito web di riferimento di Tobacco Tactics mostra che i beneficiari più dotati sono tre ricercatori incaricati di creare ‘centri di eccellenza’ attorno alla questione della riduzione del danno. Negli Stati Uniti quello guidato da Jed Rose, inventore del cerotto alla nicotina, ha ricevuto 4 milioni di euro. Il Centro neozelandese di Marewa Glover sulla ‘sovranità degli indigeni e il fumo’ ha ricevuto poco più di 6 milioni di dollari per promuovere la riduzione del danno tra le popolazioni indigene”.

Poi c’è l’Università di Catania e in particolar modo il “Centro di eccellenza per l’accelerazione della riduzione dei rischi, che ha ricevuto 6,8 milioni di euro dalla Fondazione, che si è impegnata a versarle ulteriori 18 milioni, secondo i documenti fiscali del 2019″. Nel 2017, poi Philip Morris, prosegue l’inchiesta de Le Monde “ha affidato a Riccardo Polosa quasi 1 milione di euro per valutare la sigaretta elettronica e Iqos”. Il professor Polosa, è personaggio noto nel mondo del tabacco. Scrive di lui TobaccoTactics: “È un sostenitore della riduzione del danno da tabacco ed è stato descritto come uno degli autori accademici ‘più prolifici’ nel settore delle sigarette elettroniche. Ha fatto pressioni sui governi a favore di una regolamentazione meno restrittiva per i prodotti a rischio potenzialmente ridotto e ha una storica collaborazione con le aziende del tabacco”.

Siamo indipendenti dal nostro finanziatore. Questa non è un’affermazione, è un fatto legale, etico e non negoziabile “, ha tuttavia assicurato Derek Yach sulla rivista  The Lancet nel 2019.

Gli interessi sul tabacco high-tech

Facciamo una pausa e cerchiamo di capire cosa succede sul mercato e quali sono le strategie di Big Tobacco. In una decina d’anni, le vendite complessive di sigarette sono diminuite del 20% nei paesi ad alto reddito, il loro mercato principale. Quindi, senza rinunciare alla propria attività, le principali aziende hanno investito nella nicotina high-tech, sigarette elettroniche e sistemi a tabacco riscaldato come l’Iqos.

Il business delle sigarette elettroniche, apparso nel 2009, è dominato, scrive ancora Le Monde, dalle aziende del tabacco che hanno gradualmente acquisito piccoli produttori. La casa madre di Philip Morris Usa, Altria, ha così acquisito il 35% di Juul Labs, leader negli Stati Uniti, “che le autorità americane accusano di aver creato una “epidemia” di vaping tra i giovani attraverso un marketing aggressivo”. Dal 2014 il produttore di Marlboro si è affidato principalmente al suo Iqos, un dispositivo che utilizza la tecnologia heat not burn: riscaldati senza arrivare alla combustione, Heets, mini sigarette di tabacco, emettono tra il 90% e il 95% di componenti nocivi in ​​meno rispetto al fumo di sigaretta, assicura Philip Morris con i propri studi. Le vendite del dispositivo generano quasi 6 miliardi di euro all’anno, ovvero quasi un quarto del fatturato della multinazionale.

La posizione dell’Oms sulle “alternative” alla sigarette tradizionali è molto netta: “Ci sono ancora molte domande senza risposta sulle alternative al fumo. Ma la ricerca necessaria per rispondere non dovrebbe essere finanziata dalle compagnie del tabacco“. Tuttavia la Convenzione quadro dell’Organizzazione mondiale della sanità è contraria ai prodotti del tabacco elettronici. Dunque, prosegue l’inchiesta di Le Monde “anche se la Fda negli Usa ha concesso lo status di ‘tabacco a rischio modificato‘ nel 2020, Iqos deve essere monitorato. Quanto all’Oms, che dà l’indirizzo al resto del mondo, disapprova l’uso di prodotti alternativi”.

Dividere i ricercatori

Per far passare la linea del “rischio ridotto” e della “riduzione del danno”, Big Tobacco ha intrapreso in questi anni varie strategie: innanzitutto ha amplificato le posizioni dei sostenitori della “riduzione del danno” contro quella dei proibizionisti cercando di far passare “il concetto di riduzione del danno come legittima politica pubblica nella regolamentazione del tabacco”.

Inoltre, spiega ancora Le Monde, si è cercato di “stabilire la legittimità dei produttori di tabacco a partecipare al dibattito normativo sui ‘prodotti a rischio ridotto’”. L’obiettivo dichiarato? Cancellare l’articolo 5.3 della Convenzione. Ruth Malone, ricercatore accreditato del settore, ha spiegato a Le Monde: “Accedere alla Convenzione quadro e sbarazzarsi dell’articolo 5.3 che ostacola la loro capacità di influenzare i decisori politici: questo è il vero obiettivo di Philip Morris“.

Nel maggio 2020 ci pensa ancora una volta Derek Yach a dare il suo contributo: “descrive la Convenzione quadro come ‘congelata nel tempo’ e bisognosa di ‘modernizzazione‘. ‘Essendo diventato un ostacolo al cambiamento‘, l’articolo 5.3 ‘perpetua lo status quo’, e i governi  – insiste – ‘devono impegnarsi in un dialogo sostenuto con le compagnie del tabacco per accelerare la loro trasformazione’”.

L’accusa dell’ex capo della comunicazione

L’accusa più imbarazzante di “connivenza” tra la Fondazione e la multinazionale viene dall’interno. Scrive Le Monde: “In un contenzioso per licenziamento ingiusto, l’ex direttore dei media digitali e social della Fondazione accusa l’organizzazione di ‘riferire a Philip Morris e Altria’, società madre di Philip Morris USA. La Fondazione, afferma Lourdes Liz nella sua denuncia, datata gennaio 2021, ‘dirotta il suo status di organizzazione no-profit esentasse per agire come organizzazione di facciata per l’industria del tabacco e promuovere un messaggio a favore dello svapo tra i giovani e gli adolescenti, dannoso per la salute pubblica’”.

“Durante l’estate del 2018 – prosegue –  Derek Yach ha incontrato rappresentanti di Altria e ha voluto inserire elementi del linguaggio dell’azienda nella comunicazione della Fondazione. Pochi mesi dopo la partenza del dipendente, a settembre 2020, l’accordo è stato aggiornato e si è aggiunta una frase: ora la fondazione è libera di ‘scambiare informazioni o interagire con terzi’… Come Altria o Philip Morris”, aggiunge maliziosamente la giornalista del quotidiano parigino.

Il piano Sunrise: “Rompere il fronte dei ricercatori”

giugno 2020 l’autorevole rivista scientifica American Journal of Public Health pubblica un numero speciale sulle sigarette elettroniche. Il movimento antifumo scopre con stupore un articolo a difesa degli aromi degli e-liquidi firmato da Derek Yach, Patricia Kovacevic, ex dipendente di Philip Morris, e Brian Erkkila, vicepresidente della fondazione responsabile salute, scienza e tecnologia (che diventerà – scrive Le Monde – direttore degli affari normativi presso Swedish Match, un produttore di tabacco svedese, nel marzo 2021). Mentre i direttori in capo della rivista si sono giustificati sostenendo che “le imprese e i loro interessi hanno voce in capitolo nel processo di regolamentazione”, dozzine di scienziati hanno protestato contro il “pericoloso precedente” rappresentato da questa “legittimazione” dell’industria del tabacco in una rivista dedicata alla promozione della salute pubblica.

Ma la causa viene portata avanti da molti anni e l’articolo sull’American Journal of Public Health è solo l’ultimo tassello di una strategia decennale. Documenti interni analizzati da Ruth Malone “descrivono un piano che Philip Morris stava promuovendo nel 1995 per ‘dividere e conquistare meglio’: il progetto Sunrise. Per rompere l’unità all’interno del movimento anti-tabacco ‘sfruttando le differenze di opinione’ tra moderati e ‘proibizionisti’, l’azienda ha quindi progettato di ‘creare una scissione tra i diversi gruppi anti-tabacco’ e ‘promuovere un dibattito che divide gli antiproibizionisti’”.

Più di vent’anni dopo Philip Morris è riuscita nell’intento: le divisioni all’interno del movimento antifumo sono evidenti e  sul tema dei nuovi prodotti i sostenitori della riduzione del rischio hanno superato i “proibizionisti”.




Facebook vuole cambiare l’algoritmo del News Feed per farci arrabbiare di meno

Facebook vuole cambiare l'algoritmo del News Feed per farci arrabbiare di meno

Facebook ha annunciato l’intenzione di cambiare il modo con cui il suo algoritmo mostrerà i post agli utenti sui loro News Feed. L’intenzione del colosso di Menlo Park è semplice, e solo apparentemente scontata: mostrare agli utenti solo post dai contenuti dal contenuto positivo, lasciando nascosti alla vista quelli divisivi o contrari al proprio credo.

Verso la fine di marzo, il social network ha battezzato nuovi filtri per consentire agli utenti di personalizzare il loro feed. Ora è interessato a far sì che l’algoritmo impari a distinguere ciò che un utente apprezza e ciò che non gli piace o ne scatena reazioni negative, mettendo da parte i contenuti politici che pure hanno – col loro tasso di engagement – fatto la fortuna di Facebook e prediligendo ciò che Menlo Park definisce “post d’ispirazione” di carattere più pratico o legato agli hobby e interessi personali.

Per addestrare al meglio l’algoritmo, Facebook sfrutterà i feedback degli utenti e una serie di sondaggi che misurano il peso e le influenze di amici, pagine e gruppi preferiti dall’utenza. “Se le persone dicono che un post vale il loro tempo, mireremo a mostrare post come quello più in alto nel feed di notizie; e se non vale il loro tempo, li metteremo in coda, in fondo al News Feed”, ha scritto Aastha Gupta, Product Management Director di Facebook sul blog della società.

Facebook afferma anche che chiederà agli utenti quali argomenti non sono interessanti, in modo da poter mostrare loro altri post più pertinenti ai loro interessi, migliorando il sentiment medio della piattaforma.

Tra le novità annunciate, è importante sottolineare la scelta di Facebook di dare meno importanza ai post politici. Questa decisione è arrivata dopo l’ultima convocazione in udienza che i vertici della società hanno avuto a marzo al Congresso degli Stati Uniti, per discutere del ruolo che il social network ha avuto nell’aumentare la divisione politica negli Stati Uniti.