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Il volto ambiguo del porno creato con l’intelligenza artificiale

Il volto ambiguo del porno creato con l’intelligenza artificiale

La possibilità di creare contenuti a tinte forti con persone che non sono mai esistite genera diverse considerazioni etiche, al di là dell’apparente «progresso tecnologico»

Potrebbero sembrare le foto che si trovano su un profilo Facebook: una ragazza dai capelli rossi, con gli occhiali, un uomo con un’espressione neutra, una donna che sorride. Eppure queste persone non esistono: sono il prodotto di un algoritmo, una rete di immagini create per essere convincenti e che, secondo gli esperti, potrebbero presto sostituire le immagini delle persone reali nel porno.

«La pornografia e i videogiochi sono stati la forza trainante dei progressi tecnologici negli ultimi tre decenni», dice Hany Farid, professore di informatica a Berkeley, citato in un articolo che The Guardian ha dedicato al temaDal punto di vista dei produttori, ci sarebbero molti potenziali benefici nella pornografia generata dall’intelligenza artificiale. Ad esempio, sarebbe possibile sperimentare contenuti più innovativi e interattivi in ​​un’era in cui la disponibilità di video gratuiti ha messo in crisi un settore che, precedentemente, era redditizio. Inoltre, semplificherebbe la creazione di contenuti estremi che i consumatori potrebbero cercare, ma che alcuni attori potrebbero non essere pronti a rappresentare. Ma la possibilità di creare contenuti porno con persone che non sono mai esistite genera diverse considerazioni etiche.

Il problema del consenso

Mentre cresce il dibattito su come i contenuti pornografici possano deformare la nostra percezione del consenso, mostrando scene che presentano le donne come oggetti, l’idea di introdurre immagini realistiche di persone che possono essere piegate alla volontà dello spettatore o del produttore è alquanto preoccupante. Sugli schermi possono apparire contenuti sempre più estremi, e forse gli attori veri si sentirebbero in competizione con le controparti informatiche.

Il deepfake

Anche il deepfake (la tecnica, basata sull’intelligenza artificiale, che permette di inserire il volto di una persona qualsiasi al posto di quella della persona originariamente nel video) è un prodotto distribuito senza il consenso del soggetto. Il volto di molte star del cinema, come Scarlett Johansson, Natalie Portman, Emma Watson e Nicholas Cage, è stato utilizzato per i deepfake. «Il mondo dei deepfake è un concetto profondamente inquietante: si tratta principalmente di uomini che usano le donne per danneggiare altre donne», spiega l’attrice pornografica americana Ela Darling, che sul suo sito ha condiviso rigorose linee guida per garantire che la tecnologia dei deepfake non consensuali non venga utilizzata in nessuno dei suoi video. «Mentre andiamo verso il futuro e la nuova tecnologia si diffonde, dobbiamo assicurarci che gli artisti siano attori».

«Uno studio recente ha scoperto che il 96% di tutti i video di deepfake erano pornografici», aggiunge, parlando al quotidiano inglese The Guardian, Rachel Thomas, fondatrice del Center for Applied Data Ethics. «E in molti casi vengono utilizzati per molestare e terrorizzare le donne».




L’impegno di Ferrero per le api: la multinazionale sostiene il progetto “Pollinet the Planet”

L’impegno di Ferrero per le api: la multinazionale sostiene il progetto "Pollinet the Planet"

Il gruppo della Nutella tra i big dell’industria nazionale che aderiranno al progetto di sostenibilità ambientale sociale promosso dalla start up lombarda 3Bee

E’ quello dell’albese Ferrero uno dei due grandi nomi del food che, insieme a un primario player industriale del settore energia (l’identità delle altre aziende verrà svelata nei prossimi giorni), si è impegnato a sostenere “Pollinate the Planet“, l’iniziativa di responsabilità sociale d’impresa lanciato dalla start-up lombarda 3Bee.

Ferrero Italia ha deciso di contribuire a proteggere oltre 600.000 api, salvaguardando 10 alveari distribuiti su due apicoltori piemontesi. Un passo simbolico, che si inserisce nella ben più vasta e impegnativa serie di impegni che l’azienda albese ha da tempo assunto sul delicato fronte della sostenibilità ambientale, tra gli ultimi in ordine di tempo quello di arrivare al 100% di imballaggi riutilizzabili, riciclabili o compostabili entro il termine del 2025.

“Grazie al network di oltre 2mila apicoltori che in tutta Italia utilizzano i nostri sistemi di monitoraggio – ha spiegato all’agenzia Ansa il ceo di 3Bee Niccolò Calandri -, abbiamo deciso di avviare un progetto di corporate social responsibility. Attraverso il progetto ‘Impolliniamo il mondo’ le aziende attente alla sostenibilità ambientale, possono dare il proprio contributo per la protezione delle api e di conseguenza del pianeta, con un impatto concreto, forte e importante sulla preservazione della biodiversità e degli ecosistemi”.




La sfilata segreta di Bottega Veneta per la stagione SS21

La sfilata segreta di Bottega Veneta per la stagione SS21

Una presentazione più cross-temporale che cross-settoriale

In un mondo della moda in cui la creatività è diventata frenesia di espansione e in cui si guarda con ansia al futuro sperando di anticiparlo, lo show “a scoppio ritardato” che Daniel Lee ha organizzato per Bottega Veneta ha l’aria di una novità, se non rivoluzionaria, almeno estremamente fantasiosa.

La sfilata vera e propria si è infatti tenuta a porte chiuse lo scorso 9 ottobre a Londra con una lista di invitati di primo livello: Kanye West e la piccola North, Roberto Bolle, Skepta, Stormzy, Rosie Huntington-Whiteley e Salma Hayek. In seguito, stampa e buyer hanno ricevuto una scatola contenente una tote bag verde, tre libri e un disco che raccontavano la collezione. Il primo libro era un moodboard che seguiva le ispirazioni di Daniel Lee, il secondo, di nome The Importance of Wearing Clothes, è stato creato dall’artista Rosemarie Trockel ed esplora il making-of degli abiti; mentre il terzo è, più che un lookbook, un album fotografico della sfilata di Londra, scattato da Tyrone Lebon

La scelta comunicativa che Daniel Lee ha fatto, affine per certi versi allo show-in-a-box di Jonathan Anderson per Loewe, ha il pregio di essere, oltre che cross-settoriale, cross-temporale nel suo mettersi all’incrocio di coordinate che sono visive, materiali, culturali e psicologiche tenendole sospese e pronte per la fruizione continua di quello che in realtà è stato un evento fisso nel tempo – quasi isolato nel tempo, se si considera come sia stato tenuto nascosto fino all’ultimo. La collezione può essere “percepita” in tutta la sua profondità (anche sonora, grazie al disco incluso) ma senza la linearità temporale che un video o la vita reale impongono: i look appaiono esplorabili con la mente e non soltanto sul piano visivo.

La presentazione appare così perché è legata non a un concetto astratto ma alla realtà – realtà e concretezza sembrano essere stati i vettori dell’immaginazione di Lee che ha voluto un evento reale, una presentazione che è tutta materiale composta com’è da libri, foto e vinili; e con un lookbook che trascende la sua stessa natura. Le foto di Lebon, infatti, sono la documentazione di un evento unico: una rara presentazione in real life, tenuta segretissima fra una ristretta cerchia di iniziati che include star e cultural pioneers. La definizione stessa di lusso esperienziale con tutto il fascino di una società segreta. L’ironia sta nel fatto che questo tipo di presentazione rappresenta un modello non futuristico ma anzi centenario: quello delle primissime sfilate fra le donne dell’alta società ai primi del ‘900 ma anche quello degli show underground di Raf Simons e Margiela. Lo stesso Daniel Lee ha dichiarato a Vogue:

È stato come tornare indietro nel tempo e pensare all’alba delle sfilate. L’idea del defilé privato mi è sembrata molto intima e personale. 

Sul piano degli abiti, la presenza di un’artista come Trockel, famosa per le sue raffigurazioni sulla lana, lascia già intendere che il knitwear è il cuore della collezione – e questo per la sua qualità tattile che emerge anche in foto, quando non si può toccare la stoffa. La purezza e pulizia dei tagli e delle costruzioni, insieme alla vivacità e alla texture dei materiali, evidenziano come per Lee l’aspetto più importante (oltre che il focus della collezione) sia proprio il concreto, il reale, ciò che si può toccare e, soprattutto, che si può narrare non solo attraverso il realismo ma anche tramite la suggestione e la visione creative. 




#primaibambini, lo spot choc di Telefono Azzurro fa infuriare gli animalisti: “Diseducativo e discriminatorio”

#primaibambini, lo spot choc di Telefono Azzurro fa infuriare gli animalisti: “Diseducativo e discriminatorio”

Il 20 novembre celebra il 31* anniversario dell’adozione della Convenzione Onu sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza. In occasione di questa ricorrenza Telefono Azzurro ha deciso di lanciare una campagna multicanale di sensibilizzazione sull’attenzione che i minori meritano da parte delle istituzioni, soprattutto in un periodo così complesso come quello dell’attuale pandemia. E per farlo ha diffuso uno spot accompagnato dall’hashtag #primaibambini. per la condivisione sui social.

Il video, “Incendio, #primaibambini”, racconta una situazione d’emergenza, un incendio divampato in un palazzo, in cui gli abitanti sono in fuga. Ma un uomo corre nel senso contrario per cercare qualcuno in difficoltà. Si fa largo con difficoltà tra le fiamme che aumentano, fino a sfondare una porta dietro cui trova due bambini rimasti intrappolati e un cane. L’uomo però sembra ignorare i due bambini terrorizzati e prende in braccio l’animale portandolo in salvo e lasciando lì i bambini. Il filmato si conclude con la frase: «Sembra impossibile? Eppure sta accadendo oggi».

#Primaibambini, la campagna choc di Telefono Azzurro fa infuriare gli animalisti

«Abbiamo scelto immagini forti perché riteniamo che non sia più possibile rimandare: le istituzioni devono riportare i minori al centro dei programmi per il Paese, adesso. L’emergenza sanitaria richiede a tutti sacrifici e rinunce doverose per arginare i contagi ma siamo sicuri che si sia pensato abbastanza ai minori? I giovani rappresentano il futuro dell’Italia e del mondo e come tali vanno tutelati e incentivati con maggior attenzione», ha dichiarato il professor Ernesto Caffo, presidente di Telefono Azzurro – Con queste iniziative – ha proseguito – contiamo non solo di sensibilizzare più persone possibile sui diritti dei minori ma anche di porre il tema al centro dell’agenda mediatica, un passaggio indispensabile per portare la tutela dei bambini e degli adolescenti all’attenzione dell’opinione pubblica».

La rabbia degli animalisti: “Un video diseducativo e discriminatorio”

Immediata la reazioni degli animalisti: sulla pagina Facebook di Telefono Azzurro fioccano i commenti di protesta di tantissime persone: «Ma che razza di spot è ??? Non poteva portar fuori un computer, un vaso, una qualsiasi cosa ma NON un animale??? Ma state messi proprio male! Se non avete fondi per un creativo all’altezza (e non credo), ditelo! Ve lo troviamo noi chi ve li fa gratis gli spot, basta che non spariate certe… stupidaggini!!» scrive Annalisa. «Sono decisamente basita e non mi spiego cone abbiate potuto fare uno spot di così pessimo gusto. Giusto per farvelo sapere avete scelto di usare due categorie di esseri bistrattati allo stesso modo dall’uomo, bambini e animali» arringa Sonia. «Vergogna, questo messaggio è profondamente sbagliato in un mondo malato che conosce solo la violenza. Sono una mamma, una maestra e un’animalista, amo gli anziani e il mondo. Chi non rispetta i più deboli, chi non ha nemmeno la parola per chiedere aiuto dopo questo pessimo filmetto starà ancora peggio. Peccato potreste fare meglio e di più…» accusa Lucia. E così via tanti commenti negativi a cui Telefono Azzurro risponde «Nello spot abbiamo voluto utilizzare una metafora forte: l’uomo salva il cane non perché lo preferisca ai bambini: lo fa perché in quei terribili momenti concitati, è la sola cosa che vede. Proprio ciò che sta succedendo oggi, quando l’attenzione si concentra su singoli macro-temi legati all’emergenza, tralasciando un tema altrettanto fondamentale: la sicurezza di bambini e adolescenti, che risultano vittime invisibili della situazione attuale».

Sulla campagna interviene anche dell’Organizzazione internazionale protezione animali (Oipa) che sottolinea come la campagna sia «ispirata a luoghi comuni e lo stesso hashtag non è proprio originale. Un messaggio che invece di educare all’amore, all’azione, alla solidarietà, risulta diseducativo e permeato di una retorica antropocentrica di bassa lega». 

«Riteniamo questa campagna diseducativa e lontana da ogni principio etico che vuole l’inclusione e non l’esclusione», commenta il presidente di Oipa Italia, Massimo Comparotto. «Sul piano sociale genera divisioni e fratture fondate su false suggestioni del tipo “chi aiuta gli animali non ama i bambini”. In conseguenza di questa campagna Telefono Azzurro perderà qualche sostenitore amante degli animali. Perché chi ama gli animali ama anche gli umani e chi fa donazioni a favore degli animali di solito le fa anche a favore degli umani in difficoltà».




FACEBOOK INC. E CINA: QUANDO L’APPAESEMENT DIVENTA POLICY

FACEBOOK INC. E CINA: QUANDO L’APPAESEMENT DIVENTA POLICY

Il termine appaesement (sost. ingl. ëpìi∫mënt, pacificazione, sinonimo di “accomodamento”) definisce un accordo ottenuto “a qualunque costo”, ovvero a prezzo di gravi concessioni. Non a caso, in quest’accezione del termine, affonda le sue radici nel periodo nero del nazional-socialismo tedesco: indica la politica adottata dal Regno Unito negli anni ‘30 del secolo scorso, avente lo scopo di tentare di placare le mire espansionistiche di Hitler e conseguentemente scongiurare un intervento militare contro la Germania. Strategia che si rivelò del tutto inutile: ma – si sa – la storia insegna poco, specie alle aziende della Silicon Valley. Comunque, mai definizione fu più adatta a definire le politiche del colosso di Menlo Park verso il regime comunista e totalitarista di Pechino.

Andiamo con ordine, e inquadriamo il contesto, prendendo spunto da un magistrale articolo di John Lanchester dal titolo Document Number Nine, pubblicato sulla London Review of Books.

Il noto giornalista e scrittore britannico ci spiega come la Repubblica Popolare Cinese, che ha compiuto 70 anni lo scorso mese di ottobre, sia un sistema con peculiarità per certi versi uniche: è il mercato per i beni di lusso più grande del mondo, al secondo posto per numero di miliardari, con la classe media più consumistica del pianeta, e nel contempo ha statistiche sulla diseguaglianza peggiori dei tanto criticati Stati Uniti. Per contro, mentre in tutto il mondo occidentale i tassi di crescita sono stati inesistenti o bassi, la Cina nell’ultimo decennio ha continuato a incrementare il proprio PIL di oltre il 6% all’anno. Qual è quindi il prezzo della prosperità?

Non è solo il controllo militare e statale sulle aziende a destare preoccupazioni. Il soffocante governo di Pechino, ad esempio, al concetto di internet come “dono di Dio alla democrazia” (parole di Liu Xiaobo, non a caso primo Premio Nobel a morire in carcere , in Cina, dopo Ossietzky nella Germania nazista), preferisce il concetto di “sovranità cibernetica”, ed esercita quindi una soffocante supervisione sul web, tramite plateali strumenti di censura, che il regime – eufemisticamente – definisce “armonizzazioni”.

Purificare l’ambiente su internet

Nel 2013 venne alla luce – grazie al giornalista Gao Yu, sollecitamente condannato niente meno che a 7 anni di carcere – un inquietante documento a firma dei vertici del Partito Comunista Cinese dal titolo “Comunicato sullo stato attuale della sfera ideologica”, noto anche come Documento numero nove (di qui il titolo del pezzo di Lanchester). Il paper metteva in guardia sulle false tendenze ideologiche occidentali, come ad esempio “promuovere la democrazia costituzionale, promuovere i valori universali, promuovere la società civile, promuovere un’idea di giornalismo in contrasto con la disciplina del Partito, o mettere in discussione la natura del socialismo con caratteristiche cinesi”. Il documento nelle sue conclusioni sottolineava inoltre “la necessità di rafforzare coscienziosamente la gestione del campo di battaglia ideologico, tramite il controllo dell’opinione pubblica e la purificazione dell’ambiente su internet”.

L’intenzione di ribaltare la funzione di internet quale strumento di interconnessione, apertura e libero flusso di informazioni, è quindi chiara. Come attuarla? Con il più poderoso sistema di controllo e censura digitale – o meglio, di “armonizzazione” – mai concepito dall’Uomo.

La Cina è approdata su internet con forte ritardo rispetto al resto dell’occidente, ma ha rapidamente recuperato terreno: a metà anni ’80 del secolo scorso al web erano connessi in Cina 1.500 accademici, oggi sono online oltre 850 milioni di cinesi, la maggior parte tramite Smartphone.

I più importanti siti d’informazione esteri però sono censurati e inaccessibili, dal New York Times alla BBC, passando per Google e Twitter, e – ovviamente, perlomeno ora – Facebook.

Gli account politicamente più critici presenti su Weiboo – la piattaforma di messaggistica che i cinesi utilizzano per connettersi, comunicare e pubblicare le proprie foto – già anni fa sono stati “armonizzati” (leggasi: bloccati e cancellati) da un giorno all’altro.

I titolari degli account più popolari sui Social network cinesi, con il maggior seguito in termini di follower, sono stati convocati dalla neo-costituita Amministrazione Cinese del Cyberspazio, controllata ovviamente dal Partito Comunista, che ha ricordato ai suddetti “la loro responsabilità sociale nei confronti dell’interesse dello Stato e dei valori del socialismo”. Il noto attivista di Weiboo Charles Xue, inizialmente forse non abbastanza convinto dalla richiesta del Partito, ha rilasciato due settimane dopo un’intervista alla TV di Stato, piangendo e scusandosi, dalla sua nuova residenza: una cella di prigione.

Inoltre, chiunque diffonda una notizia in grado di “turbare l’ordine sociale” (qualora cosa ciò possa voler dire…) che venga condivisa online più di 500 volte, rischia fino a 3 anni di carcere.

I manovali dell’armonizzazione

Oltre al vero e proprio firewall – il muro della censura elettronica che blocca l’accesso non solo ai siti stranieri, ma perfino a tutti i singoli thread riguardanti argomenti “sensibili” sui siti autorizzati – anche la propaganda interna è molto attiva: si tratta del Wumao, il cosiddetto “esercito del 50 centesimi”, ovvero blogger e troll coinvolti a pagamento (50 centesimi per ogni post, appunto) per “cambiare discorso” ogni qual volta una conversazione online prende una deriva critica verso il regime, e per pubblicare nuovi contenuti “innocui”. Uno studio accademico ha dimostrato la pubblicazione di quasi 500 milioni di post falsi in un anno. Il reporter James Griffiths, autore del libro The Great Firewall of China, ha dichiarato a riguardo:

“Questi troll non scendono in campo per difendere il Governo dalle critiche: la maggior parte dei loro post riguarda argomenti positivi e condivisi. Si rileva inoltre un elevato livello di coordinamento dei tempi e dei contenuti di questi post: una teoria coerente con questi modelli di comportamento è quella che evidenzia come l’obiettivo strategico del regime sia quello di distrarre e spostare l’attenzione pubblica da eventi e discussioni che potrebbero stimolare un’azione collettiva”

Un altro sistema di concreto controllo è costituito dalla App WeChat, simile alla nostra WhatsApp, ma che i cinesi utilizzano anche per moltissimi pagamenti online: operazioni bancarie, taxi, film, consegna di cibo a casa, e via discorrendo. Pagamenti ovviamente meticolosamente tracciati e all’occorrenza monitorati dal governo Cinese, che ha accesso a qualunque transazione di privati, dagli acquisti di beni e servizi alle cartelle cliniche, dall’accumulo di punti fedeltà del supermercato ai biglietti aerei e del treno, dalle coordinate di movimento (tramite il GPS dei cellulari) alla frequentazione di edifici di culto, e via discorrendo.

Skynet: non è fantascienza

Sempre nel precitato documento de partito si scrive: “Le tecnologie d’intelligenza artificiale permettono di prevedere e segnalare in modo puntuale, preventivo e tempestivo ogni situazione sociale rilevante: tutto questo accrescerà in modo significativo la capacità di controllo sociale, così da garantire la stabilità”. Che i vertici del Partito Comunista credano veramente nel valore della stabilità, sul cui altare immolare quello della libertà personale, o che tutta questa retorica sia finalizzata solo a giustificare quello che appare come un sofisticato sistema repressivo del dissenso, resta un mistero a oggi insondabile.

Un’applicazione già realizzata di intelligenza artificiale finalizzata al controllo sociale è quello del riconoscimento facciale, utile per facilitare il check-in negli aeroporti, ma anche, bizzarramente, per reprimere l’uso eccessivo di carta igienica nei bagni di alcuni siti monumentali (una telecamera identifica il cittadino e rilascia massimo 60 cm. di carta a persona), o, più preoccupante, per individuare e segnalare gli alunni “annoiati e distratti a scuola”: il sistema capillare di telecamere sparse per tutto il Paese, ci ricorda Lanchester, permette di identificare uno qualunque del miliardo e mezzo di cittadini cinesi in circa un secondo. La rete si chiama, con un richiamo abbastanza inquietante, Skynet, come il malefico sistema informatico del film apocalittico Terminator.

Punta di diamante di questo complesso sistema è il noto Social Credit, un apparato di controllo digitale basato sull’accumulo e la detrazione di punti (i “punti fragola” della censura governativa Cinese) levati dal “conto” della persona sulla base del rispetto o meno di comportamenti “socialmente appropriati”, ovviamente nel rispetto di una definizione e classificazione stabilita dal Partito Comunista Cinese, fino a interdire la possibilità di spostamento in treno o aereo in caso di punteggi bassi nel proprio social account. Il sistema è entrato in funzione, sperimentalmente, proprio quest’anno, e lo scopo dichiarato è quello di “interiorizzare il senso dello Stato, mettendolo in pratica attraverso auto-censura e auto-supervisione”.

Business is business?

A fronte di questo scenario inquietante e surreale, più degno di una fiction basata sul romanzo 1984 di George Orwell che non sulla realtà contemporanea, Facebook tenta in ogni modo di promuovere le sue sciatte politiche di appaesement, nel maldestro tentativo di blandire il gigante cinese: Mark Zurkerberg ha annunciato in modo plateale di stare studiando il Mandarino, ha chiesto al Presidente cinese Xi-Jinping di scegliere il nome di sua figlia (il Presidente peraltro ha rifiutato), si è fatto fotografare mentre faceva jogging immerso nello smog tossico di Pechino, tiene – segnala Lanchester – “una copia del noiosissimo volume ‘Governare la Cina’ di Xi-Jinping sulla scrivania ogni qual volta riceve in azienda una delegazione di giornalisti cinesi”, e pare che – ancora non contento della sfacciata quanto ridicola piaggeria – ne abbia anche regalate delle copie ai suoi colleghi a Menlo Park, con lo scopo di far loro meglio comprendere “il socialismo con caratteristiche cinesi”.

E noi, in definitiva, sopravviviamo stretti tra il modello occidentale centrato sull’accumulo e sfruttamento di dati personali e individuali da parte di grandi corporations americane, a scopo di marketing e di profitto, e il modello cinese, un rigido regime tecno-totalitario che basa il suo potere sulla sorveglianza e il controllo, mentre l’Europa – politicamente debole, miope, e frammentata tra decine di singoli interessi nazionali spesso divergenti – annaspando tra una GDPR e un nuovo ambizioso programma di finanziamento per il supercalcolo, l’intelligenza artificiale, la cibersicurezza e le competenze digitali avanzate, si interroga su una possibile terza via, che ponga al centro il rispetto dei diritti dei cittadini.

Prima che sia troppo tardi.