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Bambine e motori. L’amarezza di Letizia Battaglia per il caso Lamborghini

Bambine e motori. L'amarezza di Letizia Battaglia per il caso Lamborghini

“Non ti parlo! Non vi parlo più, a nessuno, giornalisti, fotografi, a nessuno!”. Letizia Battaglia risponde al telefono dopo la decima o ventesima chiamata, per dire che non vuole rispondere.

Amareggiata. Infuriata. Ferita. “Da quattro giorni la mia vita è cambiata. A Palermo ora mi sento un’estranea. Forse lascerò il Centro internazionale di fotografia ai Cantieri cuturali della Zisa”.

Cosa è successo, le cronache lo hanno raccontato. Lamborghini, quella delle auto di lusso, le ha chiesto un servizio pubblicitario. Lei ha accettato. Il servizio è uscito martedì scorso in anticipazione su Facebook.

Ed è stato travolto da uno shitstorm sui social network. Violentissimo, feroce. Perché Letizia ha messo, in quelle foto, le “sue” bambine.

La campagna Lamborghini si intitola “With Italy, For Italy” ed è iniziata a luglio. Venti fotografi sono stati ingaggiati dall’art director Stefano Guindani, uno per ogni regione d’Italia, con il compito di incastonare le carrozzerie negli scenari del Bel Paese esaltandone, nel linguaggio un po’ prevedibile del marketing, “l’unicità e la bellezza, l’eccellenza, l’innovazione” eccetera eccetera.

Tra le firme ne spuntano alcune conosciute, Gabriele Micalizzi, Gabriele Galimberti, Fulvio Bugani, Simone Bramante… Ma la perla della collana è lei, la grande madre del reportage italiano, la cronista degli anni di sangue della mafia e della lotta alla mafia, la fotografa degli splendori e delle miserie di Palermo.

Ma anche la scrittrice visuale di un desiderio di riscatto e bellezza che per lei ha sempre avuto il volto delle sue bambine, fotografate con costanza, ruvido amore, e una empatia che ha risonanze profonde nella su stessa biografia, di Letizia. E là dove altri hanno svolto il compito in modo calligrafico (macchina colorata su scenari di bellezza), lei ha ci ha messo il suo mondo.

“Io gliel’ho detto a quelli di Lamborghini: io non faccio still life. Questa cosa la faccio con le mie bambine”. Le sue modelle hanno l’età liminare fra infanzia e adolescenza, vestono come le ragazzine che si vedono per strada. Negli spazi di una Palermo luminosa, entrano nell’inquadratura assieme alle auto.

E la polemica esplode. Scomposta, disordinata. Traboccante di attacchi personali, maldicenze, ingiurie sulla persona, la storia, il lavoro di Letizia Battaglia. Alimentata, in molti casi, da fotografi.

Alcuni punti di attacco sono del tutto ridicoli: la verginità dell’autore di reportage civili compromessa dal mercato (come se decine di grandi autori nella storia della fotografia non avessero mai fatto commissionati pubblicitari), la qualità estetica o tecnica delle immagini… “E chi lo dice? Una massa di ignoranti che non sanno andare oltre Photoshop”.

Ma una accusa è particolarmente bruciante: aver ceduto al cliché sessista “donne e motori”, e anzi, aver usato modelle minorenni. “Lolite! Hanno detto lolite!”, esplode Battaglia dall’altro capo del telefono, “Ma è lo sguardo degli uomini! Voi maschi… Ma le avete guardate, le mie fotografie? Le avete capite? No, caro, non le hai capite neanche tu! Bambine sì, le mie bambine, sono lì in primo piano, la macchina resta dietro, messa lì quasi senza significato. Le bambine guardano me, guardano il mare, non guardano l’automobile, lo capisci questo? Non sculettano davanti alla macchina, guardano me, sono con me…!”.

Lo aveva spiegato fin dall’inizio: “Palermo per me un è bambina” che “sogna e vuole crescere in un mondo sincero e rispettoso”. Non è bastato. Il sindaco Leoluca Orlando, nella cui giunta della “primavera di Palermo” Battaglia fu assessore alla vivibilità, ha chiesto il ritiro della campagna (pur ribadendo, in un secondo tempo, la sua stima per l’autrice). Lamborghini ha rimosso per ora le immagini dal suo profilo social. Ma “non voglio parlare di Orlando”, taglia corto Battaglia.

Però qualcosa si è spezzato, e adesso anche quello spazio di cultura fotografica che Letizia ha inventato dal nulla e gestisce da tre anni ai Cantieri culturali della Zisa è a rischio. “Il centro internazionale di fotografia… Fatica, impegno, preoccupazioni, spese, tre anni avanti indietro col mio mal di schiena, io a maggio faccio 86 anni, perché dovrei continuare a questo punto? Ti sembra una cosa decente quella che mi stanno facendo? Una volta noi donne ci lapidavano coi sassi, adesso coi social. E i colleghi? Proprio loro? Ho visto perfino un fotomontaggio con una Lamborghini al posto della macchina nella mia foto dell’assassinio di Piersanti Mattarella, ma è possibile questo? Basta, non voglio parlare più”.

No, non dovrebbe essere possibile questo. Non dovrebbe essere possibile, in una comunità civile, che l’attacco alla persona, la demolizione frustrata dell’autore celebre, sostituiscano qualsiasi altra possibile discussione, anche critica.

Era possibile e perfino auspicabile discutere su queste immagini. Chiederci ad esempio cosa accade quando una poetica d’autore, in questo caso le bambine-metafora, viene traslocata in un altro contesto discorsivo, quello della pubblicità, dove esistono potenti cliché che rischiano di cambiarne non le intenzioni, ma la lettura pubblica.

O di quali sono i rapporti di forza tra un committente e un autore, a chi appartengono veramente le scelte (Letizia aveva prodotto due serie, una in bianco e nero e una a colori, Lamborghini ha scelto il colore, ma se provate a convertirle in monocromo, qualcuno l’ha fatto, qualcosa cambia: i linguaggi visuali esistono…).

No, di questo ovviamente ora non si può più discutere serenamente, è stata fatta terra bruciata attorno alla ragione, e forse è stato bruciato anche il rispetto umano e civile per una grande interprete dell’immaginario dell’Italia contemporanea.




La tecnologia ci sta atrofizzando: gli esseri umani sono meno intelligenti di un secolo fa

La tecnologia ci sta atrofizzando: gli esseri umani sono meno intelligenti di un secolo fa

Stiamo diventando sempre meno intelligenti: dal secolo scorso il nostro coefficiente intellettuale sta peggiorando drasticamente. Ad esserne responsabile è, seppur in parte, la tecnologia, che ci ha reso sempre meno in grado di concentrarci su un singolo compito e in maniera efficace.

Una vera e propria involuzione acclamata ormai da diversi studi, che dimostrano come il progresso intellettuale sia durato fino alla fine del 20esimo secolo, poi il buio: da allora il QI non ha smesso di precipitare.

Una delle cause, secondo varie ricerche, è l’uso massiccio della tecnologia e i compiti che il nostro cervello delega ad essa. Ad esempio, il nostro cellulare è in grado di ricordarci un appuntamento o come raggiungere un posto. Tutte cose che impigriscono le nostre capacità intellettive.

La tecnologia intelligente, insomma, ci sta effettivamente rendendo meno produttivi (o più stupidi). Proprio così e alcuni scienziati battono su questo punto: la tecnologia è davvero brava a renderci più occupati, vero, ma occupato non è la stessa cosa di produttivo. All’aumentare della nostra dipendenza dalla tecnologia, la nostra produttività effettiva diminuisce.

È l’assunto da cui partono svariate indagini: per tecnologia intelligente si intende qualsiasi dispositivo con cui interagiamo che rimodula una qualsiasi forma di pensiero al posto nostro. Per molti modi è fantastico, ma eccome se ci atrofizza il cervello…

Insomma, occhi puntati su qualsiasi tipo di notifica delle mille app che abbiamo sugli smartphone, orologi intelligenti, una preoccupante e fittizia iperconnessione con il mondo che ci slega dalla realtà di tutti i giorni. Il cervello umano è così costretto a trovare un nuovo assetto su una realtà differente da quella che l’evoluzione gli ha concesso fino a quando internet non ha preso il sopravvento su tutto, lasciando per la strada facoltà fondamentali.

Abbiamo cercato di delineare i diversi studi e riflessioni di scienziati secondo cui la tecnologia degli ultimi decenni non ha fatto altro che modificare la conformazione del cervello umano.

Addio pensiero lento

È Lamberto Maffei, professore emerito di Neuroscienze alla Normale di Pisa, Presidente dell’Accademia dei Lincei, a consegnarci un quadro tanto preciso quanto tragico di quello è da sempre considerato un organo “lento”: il nostro cervello. Secondo i suoi studi, la dipendenza dalla tecnologia sta modificando la struttura neuronale del cervello ora costretto a misurarsi con la super velocità del digitale.

Il risultato è che il pensiero lento, quello che si dedica alla riflessione profonda, all’apprendimento e all’educazione, va via via deperendosi: si tratta di un cambiamento fisiologico, a causa del quale i neuroni del pensiero lento si spengono dando spazio al mondo super veloce di smartphone, Pc, tablet e social media.

Le notifiche sono come una droga

Ogni app sul telefono vuole inviarci delle notifiche, col risultato che tutto quello che facciamo durante il giorno è toccare icone con punti rossi. Una ricerca della Harvard University ha dimostrato che questa costante stimolazione da parte dei nostri dispositivi aumenta la dopamina nel cervello, il che significa sostanzialmente che le notifiche vanno considerate al pari delle droghe.

E il problema con la dipendenza dalle droghe è che, proprio come le notifiche, è davvero difficile da debellare.dopamina cervello

©Harvard University

Farà stare bene per un momento, ma rende anche ansiosi: ecco perché una persona in media controlla il proprio smartphone 80-150 volte al giorno secondo una recente ricerca. E va da sé che è difficile essere produttivi quando ti fermi a guardare il telefono ogni 10-12 minuti.

Siamo iperconnessi

La pensa esattamente così il professor Michael Merzenich, che in una puntata speciale di PresaDiretta ha spiegato le conseguenze neurologiche dell’utilizzo delle tecnologie.

Nella media di quaranta secondi appena saltiamo da una chat a una foto Instagram, da un post all’altro di Facebook, da un link all’altro e siamo in una parola iperconnessi.

Tutto si può cliccare, tutto si può scaricare, e in un mondo sempre più connesso l’attenzione va scemando.

Fino a 40 anni fa noi scienziati pensavamo che il cervello fosse plastico nelle primissime fasi dell’infanzia ma una volta adulto diventasse esattamente come il computer che hai sulla scrivania: una macchina cablata in modo permanente, che non poteva più essere alterata. Poteva solo deteriorarsi – ha a Presadiretta. Oggi sappiamo che è sbagliato il cervello è progettato per essere continuamente e profondamente modificabile. Finché sei in vita, hai la possibilità di cambiarlo. In meglio, o in peggio, naturalmente”.

notifiche smartphone

©Morrowind/Shutterstock

Nell’intervista il professor Merzenich invita a riflettere su quello che stiamo facendo al nostro cervello:

Noi tendiamo a pensare che qualsiasi cosa accada qui dentro vada bene e che il cervello sia sano finché ne abbiamo uno. Ma sappiamo talmente poco della correlazione tra la salute di questa macchina e quello che le provochiamo con le nostre azioni, che pensiamo che qualsiasi invenzione tecnologica le buttiamo addosso sia innocua, purché non ci uccida. È falso. La tecnologia ci sta cambiando, e ci sta cambiando proprio nella testa”.

Multitasking, che guaio

Sapevamo già che usare più dispositivi contemporaneamente fa restringere il cervelloma nel suo libro “The Organized Mind: Thinking Straight in the Age of Information Overload”, il neuroscienziato Daniel J Levitin ha messo in luce che quando cerchiamo di concentrarci su più di un compito, da un e-mail non letta agli sms, dallo smartphone al collega che ci chiama, il nostro QI si abbassa notevolmente.

E non solo: anche uno studio condotto dall’Università del Sussex pubblicato su Plos One, che ha coinvolto un campione di 75 persone di circa 25 anni di età, è arrivato allo stesso risultato. Ai partecipanti è stato somministrato un questionario sulle abitudini di utilizzo di diversi strumenti: giornali, televisione, streaming tramite PC, SMS, e-mail, app. Su 40 di essi è stata poi eseguita una risonanza magnetica che ha evidenziato come nelle persone più multitasking vi fosse una quantità minore di materia grigia nella corteccia cingolata anteriore, l’area del cervello umano che controlla le funzionalità emotivo-cognitive.

Ricordiamoci che ci connettiamo con la tecnologia, non con le persone

In un ristorante vi siete mai guardati intorno? Spesso altro non è che una stanza piena di persone, tutte sedute ai tavoli con presumibilmente altre persone che conoscono e hanno un certo livello di affetto, che fissano uno schermo illuminato.

La tecnologia ha reso il mondo più piccolo in molti modi, dandoci accesso a tutto, anche alla Biblioteca di Alessandria di Egitto. Ma ha anche aumentato lo spazio nelle nostre relazioni al punto in cui non parliamo più.

Forse il primo passo è semplicemente riconoscere che più ci circondiamo di tecnologia, più ne diventiamo dipendenti. Le conversazioni digitali sono molto diverse da quelle del mondo reale. Quando la tecnologia intelligente aiuta a rimuovere gli ostacoli alla comunicazione, è una buona cosa; ma quando sostituiamo la tecnologia con relazioni e conversazioni reali, ciò può avere conseguenze devastanti nel mondo vero.

Fonti: Lamberto Maffei, Elogio della lentezza / Harvard University / Daniel J Levitin, The Organized Mind: Thinking Straight in the Age of Information Overload  / Rai Play Presa Diretta / Plos One




Che si dice dell’impresa?

Che si dice dell’impresa?

Una tesi discussa alla LUMSA affronta il tema della reputazione aziendale

Buona impresa, anche nell’immaginario di chi le sta attorno. Certo, sempre che l’immagine dell’azienda corrisponda al contenuto e alla sostanza del suo agire. Condizione che vale da sempre. E ancora di più oggi. La reputazione d’impresa è importante, va curata e coltivata, ma prima ancora va compresa. Èerchè sulla reputazione di un’organizzazione della produzione, si può costruire lo sviluppo di un’azienda ma anche la sua rovinosa caduta.

Leggere “Comunicazione reputazionale: metodologie e strumenti di valutazione della reputazione aziendale”, lavoro di tesi di laurea di Davide Emanuele Nappi, può essere un buon modo per capire di più di un aspetto fondamentale della reputazione aziendale: la comunicazione.

Nappi spiega che l’”economia della reputazione”, fondata sul credito attribuito vicendevolmente agli attori protagonisti delle interazioni di mercato, si propone come modello economico e finanziario altro, pienamente rispondente alle attenzioni riservate alle nuove modalità relazionali. Reputazione e risultati vanno quindi di pari passo. E per reputazione di una azienda si intende sempre di più qualcosa che è in grado di diventare un certificato di garanzia del suo saper e voler fare bene, nel rispetto delle aspettative di tutti i soggetti che si interfacciano, a vari livelli e con tassi di interesse diversificati, con il sistema imprenditoriale, gli stakeholders.

La ricerca di Nappi ha l’obiettivo di fare il punto sullo stato dell’arte della letteratura più interessante sul tema, avvalendosi però di contributi multidisciplinari mutuati da studi di matrice psicologica, sociologica, economica, finanziaria, comunicativa pura, di marketing e organizzazione e gestione aziendale. Perché, in effetti, la reputazione d’impresa è proprio così: il risultato di un insieme di elementi diversi tra loro eppure fortemente interagenti. Il lavoro inizia quindi con la precisazione della definizione di reputazione aziendale per poi passare alle relazioni tra reputazione aziendale e stakeholders e quindi al tema della sua misurazione e valutazione. Nappi, poi, prova la teoria su un caso pratico: quello di Uber.

Scrive l’autore nelle conclusioni: “La reputazione aziendale ha ben poco di aziendale. È riferita all’azienda, ma non gli appartiene: l’impresa non ha il potere di modificarla hic et nunc a piacimento. È un asset che presuppone condivisione perché è (anche) utentgenerated. Non è appannaggio dell’impresa, ma alla sua determinazione concorrono, assieme a tante altre variabili, comportamenti, azioni e decisioni prese in seno all’impresa”.

Comunicazione reputazionale: metodologie e strumenti di valutazione della reputazione aziendale

Davide Emanuele Nappi

Tesi. Corso di laurea magistrale in Comunicazione d’impresa, marketing e nuovi media –Relazioni pubbliche e comunicazione digitale d’impresa, LUMSA, 2019




DALL’ARTE SITUAZIONISTA ALLA GESTIONE DELLA REPUTAZIONE

DALL’ARTE SITUAZIONISTA ALLA GESTIONE DELLA REPUTAZIONE

Nel mio ultimo volume, “Apri la tua mente”, stimolo il lettore a riflettere sull’importanza di saper unire i punti, facendo tesoro delle lezioni di Edward De Bono sul pensiero laterale, irrinunciabili – ancorché troppo spesso trascurate – per chiunque abbia interesse per il dominio delle relazioni pubbliche e del governo della reputazione.

Da anni, a tal proposito, riservo una delle mie lezioni in università a quelle che i miei collaboratori etichettano come “contaminazioni di saperi”: cos’hanno a che fare le leggi della termodinamica e l’entropia con la comunicazione di crisi? Perché la conoscenza della disciplina matematica della Teoria dei giochi di John Von Neumann potrebbe tornare utile a un relatore pubblico? L’epigenetica ha – o può avere – ha che fare con la produttività delle aziende e con la loro capacità di raggiungere i propri obiettivi di business? La letteratura del ‘900 può avere punti di tangenza con la moderna comunicazione digitale?

La verità è che ho sempre fortemente creduto a un approccio “circolare” e non binario-sequenziale alla nostra professione: solo mantenendo, appunto, la mente aperta a stimoli esterni afferenti a discipline apparentemente lontane dal dominio delle relazioni pubbliche, è possibile acquisire quell’attitudine alla creatività, alla flessibilità e alla resilienza che sono, a mio avviso, caratteristiche imprescindibili del lavoro di chi ha la pretesa di voler e saper costruire il perimetro reputazionale di un’organizzazione o di un individuo.

Nel campo di ricerca della filosofia e della sociologia, ad esempio, da sempre mi stimola il corpo di conoscenze sviluppato dal movimento Situazionista.

L’Internazionale Situazionista fu un fenomeno cultuale con radici nelle avanguardie artistiche del secolo scorso, connotato a tratti come movimento anarchico di sinistra, il quale tuttavia – è bene sottolinearlo – attaccò e criticò a più riprese i regimi totalitari come quelli sovietico e maoista. Figure di spicco del movimento, furono il francese Guy Debord, il danese Asger Jorn, il belga Raoul Vaneigem e l’italiano Giuseppe Pinot-Gallizio.

Il Situazionismo nacque il 28 luglio del 1957, proprio in Italia, in provincia di Imperia, dalla fusione di movimenti culturali preesistenti come la Bauhaus Immaginista e il Comitato psicogeografico di Londra, con una missione – apparentemente – semplice e insieme provocatoria: creare situazioni nella vita reale costruite mediante l’organizzazione collettiva di un “gioco di eventi”, cercando di valorizzare al massimo la parte non-mediocre della vita, e diminuendone, per quanto possibile, i momenti creativamente improduttivi e non fecondi, mantenendo centralissima l’idea del potenziale rivoluzionario del tempo libero.

Ho trovato alcuni punti di contatto tra questi stimoli e il considerare che alcune delle più innovative idee produttive e feconde per la messa a terra dei miei progetti di reputation management siano state da me elaborate non già durante ingessati meeting in ufficio, bensì nel tempo libero: durante lunghe camminate in mezzo al deserto durante un viaggio in nord-Africa, in un giardino, riflettendo dinnanzi a un tramonto al mare, stimolando i neuroni mentre leggevo non già corposi saggi tecnici di settore, pur indispensabili per l’aggiornamento professionale, ma magari banali riviste divulgative.

Tonando ai situazionisti, una delle strategie cognitive proposte dal movimento era la “psicogeografia”, ovvero l’esplorazione pratica del territorio attraverso le cosiddette “derive”. Partendo dallo studio degli effetti precisi dell’ambiente geografico su noi esseri umani, in grado di agire direttamente sul comportamento anche affettivo degli individui, i situazionisti proponevano – tra le altre cose – un preciso esercizio consistente nel cosiddetto Détournement, che si articolava in varie pratiche artistiche: partendo dal presupposto che potrebbe essere l’ambiente a modellare l’individuo, la Deriva situazionista si configura come pratica di liberazione dai dispositivi ambientali tipici del vivere moderno, percepiti come “dispotici”, liberazione da raggiungersi grazie a un volontario smarrimento dell’orientamento.

In poche parole, un vagare senza meta e scopo all’interno di un ambiente: sia esso di tipo cultuale, modificando oggetti estetici noti tramite l’innesto di linguaggi diversi e inusuali, solo apparentemente incompatibili tra loro e fuori contesto, mescolando citazioni dotte con elementi della cultura popolare, come ad esempio personaggi dei fumetti nel cui balloon vengono riportate citazioni afferenti la lotta di classe contro il consumismo, con un effetto finale inatteso e generatore di nuovi significati, allo scopo – in definitiva – di scuotere le certezze dell’acritica comunicazione di massa e generare un vero e proprio scarto di senso; sia, perché no, di tipo geografico e fisico, “perdendosi”, ad esempio, nell’esplorazione di un ambiente urbano e facendone propri tutti gli stimoli, senza un progetto di movimento precostituito.

Come ci ricorda la sempre pratica enciclopedia online divulgativa Wikipedia, “Il senso di questa perdita dell’orientamento, da parte di chi la pratica, è quello di abituare il soggetto a un’apertura mentale verso nuovi, inattesi e magari anche estranianti aspetti della realtà, tecnica questa che si rivela efficace soprattutto se effettuata nei luoghi geografici che abitualmente si abitano”.

Un vero e proprio continuo training sensoriale, che apre a nuove percezioni ed esperienze estetiche, attraverso le quali i soggetti si arricchiscono, riconfigurando il proprio mind-setting e aumentando la propria consapevolezza di se stessi e di ciò che li circonda.

Un’altra delle importanti prese di posizione del movimento Situazionista è stata – non a caso – la riflessione sul diritto d’autore: su ogni loro opera (libro, video, volantino etc.) era ben specificato che essa poteva essere fotocopiata in parte o per intero, modificata e distribuita, sempre a patto che ciò non venisse fatto a scopo commerciale; una forma di valorizzazione dell’opera creativa ripresa solo decenni dopo dal modello Creative Commons, caro a chiunque si occupi professionalmente di comunicazione e di Reputation management.

Il movimento Situazionista terminò per auto-scioglimento, nel 1972 a Parigi, ma la sua eredità sotto il profilo dei contenuti, delle riflessioni e delle provocazioni, è a mio avviso assai attuale tutt’ora, per i motivi che vado ad esporre.

Come ho scritto nella precitata monografia, lo psichiatra Cloude Robert Cloninger, direttore del Centro di psicologia della personalità della Washington University di St. Louis, ha apportato contributi rilevanti per lo studio dei meccanismi cerebrali coinvolti nel funzionamento e nello sviluppo della personalità: sul suo lavoro, denominato “teoria biosociale”, esiste tra gli altri una breve ma significativa tesi di ricerca, quella di Giorgia Grandoni, giovane e valida laureata del Dipartimento di Scienze Cliniche Applicate e Biotecnologie dell’Università del L’Aquila.

Cloninger ha definito la “personalità” come un complesso sistema dinamico composto da sistemi psicobiologici individuali i quali modulano l’adattamento ai cambiamenti ambientali. Egli distingue due componenti della personalità, una a carattere biologico, il temperamento, e una cognitiva e relazionale, il carattere. Il temperamento è definito come la componente della personalità ereditabile, che si basa sulle risposte emotive automatiche di tipo stimolo-risposta, ed è una componente stabile per tutta la vita dell’ individuo; il carattere, riguarda invece l’ azione individuale intenzionale, e risulta modificabile e modulabile nel tempo da esperienze rielaborate e interiorizzate, e in questo processo il tema del rapporto tra essere umano e ambiente – come ci insegna l’epigenetica – ha un peso enorme.

È bene anche ricordare un importante citazione di Cloninger: un limite evidente dell’approccio riduzionistico alla salute mentale delle persone, che ha imperato per tutto il secolo scorso, è dato da un grave errore, ovvero il mancato tentativo da parte delle scienze di studiare il bisogno naturale di felicità che alberga in ogni uomo e le varie tappe che portano a una vita felice.

L’idea di Cloninger è quindi quella di mirare a una scienza del benessere che studi nel complesso come l’uomo può raggiungere una vita soddisfacente, piena e serena: la salute non è infatti solo assenza di malattia, bensì è uno stato di benessere fisico, mentale e sociale complessivo. Il lavoro è certamente per gli esseri umani parte di questa equazione, e la disciplina della responsabilità sociale delle imprese, parte del più ampio corpo di conoscenza del reputation management, si inserisce certamente in modo armonico e congruente in questa visione evoluta del rapporto tra l’Uomo e l’ambiente che lo circonda.

Inoltre, Emilia Costa, professore di Psichiatria dell’ Università “La Sapienza” di Roma, per molti anni titolare della 1^ Cattedra di Psichiatria di quell’università, nel suo saggio “Il cervello e la mente: dal neurone al comportamento”, conferma che il sistema nervoso simpatico e vegetativo – un tempo ritenuto “passivo esecutore” del sistema nervoso centrale, e successivamente invece riqualificato come un sistema interconnesso con il cervello e funzionalmente interdipendente, in grado di operare entro certi limiti anche in autonomia – raccoglie impulsi sensitivi dagli organi del corpo umano a contatto con l’ ambiente, inclusi quegli stimoli che non raggiungono il livello discriminativo di coscienza. Questo sistema nervoso esprime in termini somatici la nostra condizione psico-emotiva, garantendo un controllo sulla risposta allo stimolo, mediante un feedback basato sul rilascio e metabolismo di ormoni, neurotrasmettitori, endorfine e altri mediatori chimici.

Gli studi più recenti hanno recuperato, grazie a un modello di casualità circolare, un messaggio di  integrazione tra i più importanti apparati che regolano gli equilibri all’ interno dell’organismo e le sue relazioni con l’ esterno: un’ intensa e continua “immersione” in un ambiente ricco di stimoli positivi e costantemente proiettato a immaginare scenari futuri – nell’ interesse della migliore sopravvivenza del maggior numero di stakeholder e quindi dell’ intero pianeta – influenzerà quasi certamente le memorie semantiche dell’ individuo, il mantenimento in buono stato delle quali è un efficace indice di controllo dell’ invecchiamento di ogni persona.

A tutto ciò, è bene aggiungere altro, con riguardo agli ultimi sviluppi delle ricerche scientifiche: il nostro destino non è inciso solo nel genoma, ma muta grazie alle buone o cattive abitudini. Ciò potrebbe significare che una elevata propensione al relazionarci positivamente con l’ambiente, all’ etica e al prendersi cura costruttivamente di ciò che ci circonda può entrare anche a far parte del nostro patrimonio genetico ereditario, e quindi essere trasmesso ai nostri figli.

Il team guidato dallo svedese Lars Olov Bygren, specialista di medicina preventiva al Karolinska Institute, ha studiato ad esempio l’ influenza degli stili di vita sul cervello in un campione di 12.000 individui, scoprendo che i comportamenti influiscono sulle istruzioni dei geni e, addirittura, su come questi possano essere ereditati. Il professore infatti spiega che:

“Gli stili di vita influenzano l’espressione genica, il destino non è del tutto scritto nei geni, ma dipende anche dalla “modulazione” dell’azione dei geni stessi. Pur possedendo solo circa 25.000 geni, il nostro genoma è in grado di produrre centinaia di migliaia di proteine: ogni gene può in una certa misura “scegliere” quale proteina sintetizzare, e la scelta dipende anche dai segnali chimici che il gene riceve dall’esterno, indotti proprio dagli stili di vita individuali”.

Gli imprenditori, i manager e i consulenti realmente interessati al futuro della società della quale la loro organizzazione è parte integrante, è più facile che sviluppino strategie cognitive che consentono loro di padroneggiare “da protagonisti” con estrema disinvoltura gli scenari futuri, aggiornando continuamente i propri schemi mentali, e questo – dai dati scientifici in nostro possesso – ha un ruolo nella loro capacità di risolvere problemi complessi e – possiamo affermarlo con ragionevole certezza, sulla base delle evidenze scientifiche disponibili – di influenzare anche dimensioni, plasticità e funzionalità della loro mappa cerebrale, in un continuo stimolo virtuoso del rapporto esistente tra interazioni sociali, estensione dello spazio di controllo dell’ individuo, intensità delle afferenze ambientali e strutturazione anatomico-biochimico-cerebrale.

Come ci ricorda la già citata Emilia Costa, infatti, “un ambiente ricco di stimolazioni positive fa aumentare lo spessore corticale delle cellule, migliora l’attività modulatrice degli impulsi nervosi e conseguentemente le prestazioni comportamentali”.

In definitiva, “sintonizzarci” più armonicamente, più efficacemente, con questa ampia “rete neurale” costituita dall’ambiente che ci circonda, mentre operiamo per creare scenari futuri positivi, non potrà che migliorare il grado di benessere e sanità mentale nostro, del nostro team lavorativo, della comunità alla quale apparteniamo, e quindi – come pezzi di un enorme puzzle – del pianeta intero.

Concludendo, quindi, l’approccio culturale Situazionista, a mio avviso, può avere piena dignità in questo discorso centrato sulle ultime scoperte dell’epigenetica e sul possibile ruolo virtuoso tra individuo e ambiente – culturale e fisico – che lo circonda, e dovrebbe essere riscoperto, apprezzato e fatto proprio da qualunque comunicatore e relatore pubblico, nell’interesse di se stesso, della propria rete di relazioni sociali e – non ultime – delle aziende e istituzioni pubbliche che esso eventualmente assiste con il proprio contributo di pensiero.

Breve bibliografia:

  • Asor Rosa, A; Stile Calvino, Torino, Einaudi, 2001, cap. IV, pp. 63-134
  • Ciarrochi, J., Forgas, J.P. Mayer, J.D., “Emotional intelligence in everyday life, Psychology Press, Taylor & Francis Group, 2001
  • Costa, E; “Il cervello e la mente: dal neurone al comportamento”, in “La Formazione in Psichiatria e Psicologia Clinica”, di Emilia Costa e Maria Di Giusto – CIC Edizioni Internazionali, Roma 2004;
  • Debord, G; La società dello spettacolo, Milano, Baldini Castoldi Dalai editore, 2008
  • Debord, Vaneigem e altri; Situazionismo. Materiali per un’economia politica dell’immaginario, Massari, 1998.
  • Poma, L; Apri la tua mente, Libreria Universitaria, Padova, 2019
  • Poma, L; Epigenetica e aziende: una correlazione possibile?, EticaNews, Milano, 2015
  • Vaneigem, R., Trattato del saper vivere ad uso delle giovani generazioni, 1967;
  • Vaneigem, R.; Noi che desideriamo senza fine, Bollati Boringhieri, 1999, trad. e presentazione di S.Ghirardi



“Smascheriamo la Bestia di Matteo Salvini: una falsità dopo l’altra”

"Smascheriamo la Bestia di Matteo Salvini: una falsità dopo l'altra"

Si chiama Smask.online, ed è un progetto creato da un gruppo di volontari per “smontare” la propaganda digitale del leghista. Svelandone menzogne, meccanismi e parole chiave

Matteo Salvini ha quattro milioni di fan su Facebook, oltre due milioni su Instagram. E un numero di interazioni con i contenuti pubblicati che nessun politico può neanche lontanamente eguagliare: 16 milioni tra like, commenti e click nell’ultimo mese solo su Facebook, quasi 10 milioni su Instagram. Le sue pagine ufficiali sui social network sono lo strumento di propaganda più potente che l’ex ministro dell’Interno ha a disposizione: una macchina del consenso a cui lavorano decine di suoi collaboratori (guidati da Luca Morisi) e chiamata in gergo “La Bestia”.

Una macchina ben oliata che per accumulare like e diffondere il suo verbo martella su immigrazione, sovranismo, complotti e tutto ciò che può essere utile per aumentare il consenso intorno a Salvini. Ma anche contro questo Golia, non mancano i Davide che provano a resistere alla sua potenza. E a proporre qualcosa per togliergli forza.

A provare a smontare la Bestia post dopo post, ci prova una nuova iniziativa dal basso, realizzata da volontari senza supporti politici. Si chiama Smask.online e ogni giorno cerca di rispondere ai post di Salvini proponendo una contro-narrazione argomentata con fonti e contesti.

«Abbiamo deciso di lanciare la nostra piattaforma per fare un’operazione di pedagogia digitale. È importante fare comprendere che dietro “Salvini”, che è solo il simbolo di un metodo, c’è un progetto professionale che utilizza un lessico studiato per ottenere successo» spiega all’Espresso uno dei promotori della piattaforma (che preferiscono firmarsi come Smask, senza usare i propri nomi).

«Ci abbiamo messo quasi un anno per ricostruire il lessico della Bestia. Perché il nostro bersaglio non è Salvini: è solo un personaggio che recita un copione». Un copione fatto di 150 parole chiave riunite in dieci grandi filoni tematici: l’ossessione per l’immigrazione, il sovranismo, l’epica del “capitano”, i complotti e bufale. L’immagine usata da Smask per identificare la Bestia è quella di una piovra i cui tentacoli sono appunto questi temi al centro della sua propaganda costante.

Per capire come funziona Smask basta andare sul sito o sui canali social di questo progetto partito da poco. I volontari prendono un post recente delle pagine di Salvini e lo “smontano”: smentiscono le falsità affermate, pongono le dichiarazioni all’interno di un contesto, forniscono fonti e dati precisi, svelano cosa non torna nelle frasi o nelle foto di Salvini. Un lavoro che utilizza anche gli strumenti del fact-checking, ma che punta non solo allo “sbufalamento”, quanto alla spiegazione delle dinamiche e dei tic comunicativi della Bestia. Ad esempio si prende il post con cui Salvini cita papa Giovanni Paolo II e si mette a confronto con le parole del pontefice sull’accoglienza ai migranti , oppure si sottolinea l’ossessione per il tema dell’immigrazione, usato in combinazione con la pandemia al solo scopo di fomentare i fan sui social ma senza che i due fenomeni abbiano alcun collegamento reale.

«La Bestia propone una narrativa e, per contrastarla, serve una contro-narrativa. Per questo ogni giorno proponiamo dei contro-post argomentati, con fonti, in risposta alla propaganda di Salvini. Il nostro obiettivo è quello di inoculare in Rete delle risposte giorno per giorno, post dopo post», spiegano i promotori di Smask.online. A comporre la squadra sono circa cinquanta persone che comprendono ricercatori di mercato, economisti, giovani che si occupano di comunicazione digitale, docenti, designer, studenti e ingegneri. Residenti in ogni parte d’Italia e anche all’estero. Il progetto non è finanziato e non accetta fondi da partiti o personaggi politici.

«Vogliamo costruire una comunità capace di contrastare sul terreno digitale operazioni come quelle della Bestia che, ne siamo certi, saranno ancora preponderanti nelle prossime elezioni politiche in Italia. Sappiamo che rischiamo in realtà di dare ancora più risalto alla comunicazione di Salvini ed è un problema che ci siamo posti da subito. Ci siamo dati come obiettivo quello di parlare a coloro che sottovalutano questa comunicazione e non la prendono sul serio e anche a quell’area di mezzo di persone che colgono il fatto di essere state utilizzate da questa comunicazione». E vogliono ribellarsi alla Bestia.