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Perchè a Piazza Affari solo meno della metà delle quotate supera l’esame sostenibilità

Perchè a Piazza Affari solo meno della metà delle quotate supera l’esame sostenibilità

La trasparenza sulla sostenibilità non è più un’opzione per le società quotate: l’interesse degli investitori passa sempre più da qui. Secondo Morningstar in Europa i comparti Esg nel 2020 erano 3.196 (+52% vs 2019) e hanno raccolto 233 miliardi di flussi netti. Eppure solo il 49% delle quotate a Piazza Affari rendiconta la sostenibilità e tra le Pmi solo il 13% elabora un bilancio di sostenibilità. E’ quanto emerge dal primo Esg report sulla compliance della Materiality Map di Sasb (Sustainability Accounting Standards Board) del mercato azionario italiano realizzato da V-Finance (Gruppo IR Top Consulting) Sustainable Finance Partner di Borsa Italiana.

I temi materiali e la mappa Sasb

criteri Sasb identificano le tematiche rilevanti (temi materiali) ai fini della sostenibilità che hanno una ragionevole probabilità di avere un impatto sulle performance operative e finanziarie di una società e sul suo profilo di rischio. Questi ultimi talvolta decisi per un investitore. Un approccio se vogliamo più pratico rispetto allo standard GRI, metodologia di riferimento in Europa, che si concentra sull’impatto economico, ambientale e sociale di un’impresa, e quindi sui suoi contributi (positivi o negativi) allo sviluppo sostenibile. «L‘approccio Sasb identifica cinque dimensioni (ambiente, capitale sociale, capitale umano, business model &innovation, leadership & governance) e le declina per rilevanza in 77 sottosettori in base a 26 variabili – spiega Anna Lambiase, Ceo di V- Finance – Quindi, ad integrazione dei criteri GRI, la Sasb materiality map aiuta ad entrare nei tanti microsettori di attività presenti a Piazza Affari. Ogni tematica tende ad avere un impatto più o meno forte a seconda del contesto in cui si presenta e così ogni settore ha un profilo di sostenibilità unico».

La ricerca V-Finance e le 184 società di Borsa Italiana

La ricerca analizza i Bilanci di sostenibilità e le Dichiarazioni Non Finanziarie individuando i temi di materialità e considerando la loro compliance rispetto agli standard settoriali della Materiality Map di Sasb. Delle 184 società il 71% appartiene al mercato Mta (131 società, pari al 66% del totale Mta, di cui 57 del Segmento Star), il 58% delle quali redigono la DNF e il restante 9% un report di sostenibilità; il 22% appartiene al mercato Ftse Mib (40 società, pari al 100% del totale Mib, di cui 2 del Segmento Star), l’88% delle quali redigono la Dnf e il restante 12% un report di sostenibilità; il 7% appartiene al mercato Aim (13 società, pari al 9% del totale Aim), che realizzano report di sostenibilità (tranne una che, appartenendo ad un gruppo sottoposto ad obbligo di rendicontare la DNF, diffonde il documento della controllante). Per ognuna sono stati definiti i ranking di compliance Sasb in base alle 26 variabili Esg di Sasb raggruppate per Ambiente, Capitale Sociale, Capitale Umano, Innovazione e Business Model, Leadership e Governance, per l’analisi oggettiva della sostenibilità dell’azienda. Il macrosettore merceologico che risulta essere più “Sasb compliant” è l’estrazione e la lavorazione di minerali (53,31%) seguito dal settore trasformazione delle risorse (52,58%) e beni di consumo (48,81%). Il capital umano è il tema materiale più rendicontato e più in compliance rispetto alla Materiality Map di Sasb mentre la tematica Leadership&Governance è la meno performante soprattutto a causa di un esiguo numero di aziende che rendicontano la componente gestione rischi.

77 microsettori sotto la lente

La materiality Map di Sasb è costituita da principi specifici per ogni settore, volti a identificare gli elementi materiali in ambito sostenibile e ad applicare ad essi le metriche adeguate al settore di riferimento. Sono analizzate 11 macrocategorie di mercato che rappresentano l’industry di riferimento dell’impresa: beni di consumo, lavorazione di minerali, finanza, alimentare, sanitario, infrastrutture, energie rinnovabili, trasformazione delle risorse, servizi, tecnologia e comunicazioni, trasporto. Ciascuno di questi macrosettori è diviso a sua volta nelle specifiche attività che possono essere svolte. Ad esempio il macrosettore dei trasporti è suddiviso in 9 settori (tra cui aereo, navale, automobilistico, ferroviario,…), il macrosettore tecnologia e comunicazioni in 6 settori, per un totale di 77 micro settori merceologici analizzati.

Un’analisi oggettiva e indipendente

«Il risultato è un’analisi oggettiva e indipendente, inclusiva per ogni quotata, a prescindere dal mercato e dalla dimensione – aggiunge Lambiase – e grazie alla «Sasb Compliance» sono confrontabili le performance di sostenibilità di ogni azienda; infine indica linee guida utili a chi deve iniziare il suo cammino verso la sostenibilità». Per le cinque dimensioni della sostenibilità sono stati individuati tre best in class, azienda benchmark settoriale di riferimento.

Sasb o GRI?

Se guardiamo alla composizione dell’indice Dow Jones Sustainability World, delle 11 italiane incluse (Generali, Hera, Intesa, Leonardo, Moncler,Pirelli, Poste, Telecom, Prysmian, Saipen e Terna) ben 7, a vari livelli, accanto al GRI usano la mappa di materialità Sasb, in particolare Prysmian nel 2020 ha elaborato il suo Sasb Report. «Questo accade perché in Usa – conclude Lambiase – sono molti investitori ad averlo come principale standard di riferimento». In realtà, anche in Europa ha i suoi seguaci ma sopratutto da mesi Sabs e GRI hanno annunciato una partership per rendere compatibili i loro standard. «Questa convergenza – sottolinea Isabelle Reuss, Head of Sustainability Research di Allianz G.I.– è la cosa più importante, segno dell’impegno a promuovere una maggiore divulgazione Esg finanziaria; un monito per le imprese ad impegnarsi nel rendere disponibili i propri dati a seconda dello standard usato. In questo senso la strada che devono fare le piccole di Piazza Affari è ancora molta».

La scelta di Nordea Asset Management

NAM è un membro fondatore e attuale presidente del SASB Investor Advisory Group (IAG), che comprende asset manager e asset owner impegnati a migliorare la qualità e la comparabilità delle informazioni relative alla sostenibilità. «Il nostro team di Investimento Responsabile (RI) ha incorporato il framework settoriale di Sasb come parte della propria analisi sulle aziende – sottolinea Fabio Caiani, head of South East Europe di ‎Nordea A.M. – Il team RI guida l’attività di engagement con molte delle società in cui investiamo, dimostrando come gli standard SASB vengono utilizzati per identificare e analizzare le principali questioni in materia di sostenibilità». In primo luogo, è valutato l’allineamento (o il disallineamento) dei modelli di business in relazione agli obiettivi di sostenibilità globale come la stabilità climatica, la gestione sostenibile delle risorse, gli ecosistemi sani, i bisogni fondamentali, il benessere o le condizioni di lavoro. In secondo luogo, si valuta la capacità di un’azienda di gestire concretamente le questioni Esg in relazione agli stakeholder, come dipendenti, fornitori, clienti, comunità, regolatori o ambiente. «L’incorporazione degli standard Sasb nella nostra analisi Esg ha permesso non solo di valutare e identificare meglio la rilevanza finanziaria delle questioni Esg – aggiunge Caiani – ma anche di identificare gli indicatori rilevanti o i dati che potrebbero riflettere il posizionamento di un’azienda su tali questioni.L’utilizzo degli standard settoriali Sasb, assieme agli indicatori di rischio Esg nazionali, ci fornisce ulteriori dettagli sui rischi materiali». Nordea ha allineato i report pubblici e le politiche alle metriche applicate negli standard di settore del Sasb per: asset manager e attività di custodia, banche commerciali, credito al consumo, investment banking & brokerage e finanziamenti ipotecari. Report predisposti in conformità con gli standard GRI: opzione Core e parti inerenti al G4 Financial Services Sector Disclosures.

La lotta per gli standard Esg tra Europa e States

Nella lettera di Larry Fink, il numero uno di BlackRock, che scrive ogni inizio anno ai manager delle aziende che il gruppo di asset management Usa ha in portafoglio, per il secondo anno di seguito, Fink fa sapere che lo standard da lui preferito è il californiano Sasb (Sustainability Accounting Standards Board) . Perché Fink ha tenuto a ribadire ancora una volta la sua predilezione per il Sasb? Non entriamo nel dettaglio delle differenze tra questo tipo di rendicontazione e le altre. C’è però da ribadire, come fa il fondatore di BlackRock, che i tempi sono maturi per uno standard unico sulla sostenibilità che consenta di mettere a confronto le aziende quotate senza perdersi nei meandri dei dati e del greenwashing. Che sia poi il Sasb il metodo da applicare in tutto il mondo è un legittimo desiderio di Fink ma non sembra la strada più realistica. Gli standard sponsorizzati da BlackRock al momento non sono quelli più usati fra le grandi società quotate: a ricordarlo è stata una delle quattro Big Four della rendicontazione, Kpmg, nel corso del recente convegno dell’Organismo Italiano di Business Reporting (Oibr). In quell’occasione, è stato ricordato che il 73% delle 250 maggiori società al mondo utilizza il Global Reporting Initiative (Gri), ente senza scopo di lucro fondato a Boston nel 1997 ma oggi con sede ad Amsterdam. In Italia, poi, il Gri è utilizzato dalla quasi totalità delle 204 aziende quotate.

Si può dire che la finanza sostenibile è diventata terreno di confronto fra Usa ed Europa? Alcuni osservatori ritengono di sì benché fra i vertici degli enti di Sasb e Gri sia stata siglata una partnership. Vedremo i risultati. Oggi però è da registrare il braccio di ferro fra l’European Financial Reporting Advisory Group (Efrag) e l’Ifrs Foundation, organismo che redige i principi contabili internazionali. Sul tavolo ci sono appunto gli standard non finanziari. Non è ancora chiaro chi riuscirà a imporsi. È un dato di fatto però che Bruxelles è più avanti di Washington nella classificazione delle attività economiche sostenibili nota come tassonomia, che entrerà a regime a inizio 2022. I gruppi di asset management dovranno giocoforza utilizzare quella classificazione per valutare se un’azienda è green, almeno quelli che intendono distribuire prodotti finanziari in Europa.




Circular economy: arriva il primo collant nato dal riciclo delle bottiglie di plastica

Circular economy: arriva il primo collant nato dal riciclo delle bottiglie di plastica

Indossare un collant nato dal riciclo delle bottiglie in plastica? Quella che potrebbe sembrare una frontiera eco-avveniristica oggi è nient’altro che realtà: merito del lavoro di RadiciGroup – realtà italiana nata a Bergamo leader nella produzione di poliammidi, fibre sintetiche e tecnopolimeri destinati ad applicazioni in diversi ambiti, principalmente nel settore tessile/moda – e Oroblù – marchio di calze di alta gamma di proprietà di CSP International, gruppo che opera nel settore della produzione e distribuzione delle calze, intimo uomo e donna e costumi da bagno situato nella zona di Mantova.

La collaborazione fra le due aziende ha infatti dato vita – come loro stesse spiegano – “a un prodotto tessile di qualità, alla moda e sostenibile grazie a un limitato impatto sull’ambiente”: il risultato prende il nome di “Oroblù save the oceans” ed è il primo collant italiano realizzato con filati ottenuti dal riciclo del Pet delle bottiglie e come ulteriore contributo alle prospettive del sustainable fashion.

Zero consumo di nuova materia prima e tintura in massa

“Oroblù Save the Oceans” è un collant nero, 50 denari, realizzato con Repetable, il nuovo filato di poliestere prodotto da RadiciGroup, ottenuto mediante un processo di riciclo post-consumer delle bottiglie di plastica, che consente di abbattere le emissioni di CO2 e ridurre i consumi di acqua ed energia. Repetable è stato scelto da Oroblù, dopo un’attenta fase di studio e valutazione, per le sue caratteristiche uniche e per le prestazioni tecniche elevate, che rispondono pienamente alle esigenze del progetto Save the Oceans. Oltre a non consumare nuova materia prima vergine, Repetable viene anche tinto in massa, consentendo un ulteriore risparmio di acqua ed energia elettrica impiegate nella lavorazione.

Filiera Made in Italy trasparente, tacciabile e a km zero

“La nostra azienda ha da sempre sviluppato collezioni che offrono prodotti di qualità, in cui l’attenta mano stilistica, in concerto con il team di sviluppo prodotto, ha sempre curato la costante attenzione all’eco-innovazione” spiega Carlo Bertoni, amministratore delegato di Csp International Fashion Group. “Abbiamo sviluppato il concetto di sostenibilità integrandolo al nostro metodo di lavoro, attraverso la selezione di materie prime riciclate e riciclabili, garantendone l’intero percorso di tracciabilità, forti, anche del fatto, che il ciclo produttivo è basato prevalentemente in Italia nel territorio mantovano.
Da anni lavoriamo con RadiciGroup con il quale abbiamo concretizzato l’importante progetto “Save the Oceans”, realizzando collant che vestono le gambe delle donne e che di pari passo fanno bene all’ambiente”.
Grazie a questa collaborazione tra due aziende familiari, fortemente radicate sul territorio, ma con una dimensione internazionale, nasce così una filiera di produzione Made in Italy totalmente trasparente, tracciabile e a km zero, compresa nell’area tra Bergamo e Mantova”.

“La nostra strategia di prodotto – sottolinea Angelo Radici, presidente di RadiciGroup – è sempre più orientata a incrementare l’uso di materia prima da recupero, senza però rinunciare alle performance delle soluzioni che proponiamo ai nostri clienti. Abbiamo lavorato fianco a fianco con Oroblù per mettere sul mercato un collant di qualità, bello e sostenibile che potesse soddisfare le esigenze anche delle consumatrici più attente e sensibili a queste tematiche. Ed è per noi motivo di orgoglio poter lavorare con realtà di eccellenza del nostro territorio”.

Sarà possibile acquistare i collant “Oroblù Save the Oceans” presso le boutique di intimo e grandi magazzini premium selezionati a partire da agosto 2021, con l’arrivo nei punti vendita della collezione autunno-inverno 2021.




Deliveroo crolla al debutto in Borsa, fondi e investitori stanno con i rider

Deliveroo crolla al debutto in Borsa, fondi e investitori stanno con i rider

Era stata annunciata come la più grande quotazione degli ultimi anni in arrivo sul listino di Londra ma alla fine si è rivelata un clamoroso flop: ieri i titoli azionari di Deliveroo, big britannica delle consegne di pasti a casa, hanno esordito sul mercato con una perdita di oltre il 30%. Nelle ore successive il trend è un po’ migliorato ma le azioni hanno chiuso la loro prima giornata con un tonfo del 26,3% a 2,87 sterline. Si tratta di un fiasco che non si vedeva da tempo e che segnerà una brutta battuta d’arresto negli sforzi della Londra post-Brexit di diventare una piazza attraente per le quotazioni dei gruppi tecnologici internazionali. È però anche la prima volta che una società della gig economy riceve una sonora sberla dai mercati e potrebbe segnare un nuovo inizio per i diritti dei lavoratori di questo settore.

Il sentore che il debutto di Deliveroo si sarebbe potuto trasformare in un clamoroso disastro era nell’aria. Nei giorni scorsi la società aveva rivisto al ribasso la forchetta, vale a dire il range di proposta del primo prezzo. Questa era stato abbassata da 3,90 – 4,60 sterline a 3,90 – 4,10 sterline ad azione e il valore di avvio era stato fissato sul margine più basso a 3,90 sterline. In genere questo tipo di decisioni nascondono la paura di una cattiva accoglienza da parte degli investitori. E così è stato. La mossa di «scontare» l’offerta non è bastata e gli investitori hanno voltato in massa le spalle all’Ipo.

Alla base della fuga da Deliveroo ci sarebbe il rischio che la società possa finire in una «lista nera» delle aziende che non si attivano per i propri lavoratori. Su questo hanno influito le proteste dei rider, i fattorini che materialmente effettuano le consegne dei pasti e che chiedono maggiori tutele e salari più congrui.

Proprio per questo aspetto, secondo quanto riferiva Bloomberg qualche giorno fa, alcuni dei maggiori asset manager della City avrebbero sollevato preoccupazioni sul fatto che Deliveroo potrebbe non rientrare negli schemi previsti per gli investimenti socialmente sostenibili. Questo punto escluderebbe infatti i titoli della società dai fondi delle grandi case di investimento. Su questo tema si sono espressi alcuni grandi gestori britannici, come Aberdeen, Aviva e Legal & General, che si sono rifiutati di mettere nei propri panieri una società i cui standard nel trattamento dei lavoratori non sono considerati in linea con i criteri di investimento Esg, vala a dire a favore dell’ambiente, del sociale e di governance corrette. «I diritti dei lavoratori sono importanti» ha recentemente spiegato Andrew Millington, capo degli investimenti azionari Uk di Aberdeen mentre i rider cercavano di attirare i riflettori sulle proprie condizioni proclamando, come ha fatto il sindacato Iwgb, scioperi delle consegne durante l’Ipo.

«Gli investitori non guardano più soltanto ai libri contabili quando decidono dove indirizzare i propri capitali. Le questioni ambientali, sociali e di governance (Esg) sono ora di primaria importanza. La recente sentenza della Corte Suprema del Regno Unito sullo status degli autisti di Uber è stata un momento spartiacque, segnando l’inizio di una nuova era nella gig economy – ha commentato ieri Laura Petrone, Senior Thematic Research Analyst di GlobalData -. In questa nuova fase, gli investitori saranno sempre più preoccupati per i diritti di base dei lavoratori e per i potenziali rischi normativi man mano che i governi di tutto il mondo si attiveranno per regolamentare questo modello di business».




“CRISIS” SUPERLEGA, I CLUB TRAVOLTI DALLE POLEMICHE: SULL’INADEGUATEZZA DI ANDREA AGNELLI, E ALTRE STORIE

Crisis management Superlega

Superlega: un caso da manuale di pessimo crisis management, con le inevitabili ricadute sulla reputazione dei protagonisti

Ieri sera, dietro la sede della FIGC a Roma, in via Giulio Caccini, è stato realizzato un murales che raffigura Andrea Agnelli, con un coltello che buca un pallone: il Presidente della Juventus è ritenuto responsabile – assieme a Florentino Perez del Real Madrid – del lancio del criticatissimo progetto “Superlega”, assurto in questi giorni agli onori delle cronache nazionali e internazionali. Il murales in questione è stato realizzato dalla street artist Laika MCMLIV, che ha chiamato l’opera “La morte del calcio”, aggiungendo peraltro:

“Il tentativo di creare una competizione a invito riservata ai club più ricchi è la morte dei sogni dei tifosi di tutto il mondo. Lo sport dovrebbe insegnare che con la fantasia, il talento e l’allenamento tutti possono provare a vincere. La Superlega, in nome di un business sempre più monopolizzato, sconfessa definitivamente questo sogno. L’idea che sia stato pensato fa paura perché tutto ciò non riguarda solo il calcio”.

Crisis Superlega: una breve cronistoria

Riepilogando quanto accaduto, per i pochi che non avessero seguito la polemica, si tratta del progetto di avvio di una competizione a cadenza annuale per una decina di Club calcistici alternativa alla Champions League, che avrebbe riunito alcune tra le migliori squadre europee in una sorta di campionato di super élite, organizzato autonomamente dai Club promotori. L’UEFA, in risposta, ha minacciato una causa milionaria contro tutti i club che avessero aderito al progetto, nonché esclusione degli stessi dalle competizioni ufficiali (Champions ed Europa League) come anche dei loro giocatori dalle Nazionali e da tutte le competizioni UEFA e FIFA, generando una rapida escalation a colpi di comunicati stampa che ha portato il tema Super Lega ad essere negli ultimi 3 giorni trend-topic oltre che su mass-media tradizionali anche e soprattutto su tutte le più importanti piattaforme digitali.

Un progetto, quella della Super League, durato il tempo di un respiro: a mezzanotte di domenica scorsa venne diffuso il comunicato che ne annunciava la costituzione, stanotte (il martedì successivo) alle 2 i promotori hanno ufficializzato la sospensione del piano a tempo indeterminato, di fatto prendendo atto del naufragio dello stesso.

Naufragio – un’ennesima volta – attribuibile in larga parte dall’ignoranza, da parte dei protagonisti della contesa, dei più elementari principi di reputation management e di crisis communication, ampiamente documentati in letteratura; a dimostrazione, una volta di più, che il “dimensionamento” dell’organizzazione (in questo caso alcuni dei più noti e prestigiosi Club calcistici del mondo) non va necessariamente d’accordo con l’efficacia e l’efficienza nella gestione di scenari critici, in grado di pregiudicare tangibilmente il valore per gli azionisti – confermato anche dal crollo in borsa delle azioni Juventus, arrivate a toccare il -13% in un’unica giornata – e in generale per tutti gli altri stakeholder.

Cattiva comunicazione e tono di voce arrogante: la tempesta perfetta

Criticità, quelle sopra richiamate, emerse peraltro fin dal primo momento, con una comunicazione dal tone of voice tendenzialmente arrogante: Agnelli ha provato fino all’ultimo a difendere la Super Lega, dichiarando in un’intervista pubblicata ieri mattina su Repubblica e Corriere dello Sport “Andiamo avanti, c’è un patto di sangue tra noi”, per poi ammettere poche ore dopo – con evidente carenza di coerenza – che non vi erano più le condizioni per proseguire nel progetto.

In realtà, la mancanza di compattezza granitica dei pool di Club coinvolti è emersa con estrema chiarezza non solo con il disimpegno rumorosissimo delle squadre inglesi, ma – non meno rilevante – anche con la mancata adesione di Amazon all’ipotesi Super League, con il gigante dell’intrattenimento dell’home-video che ha dichiarato di comprendere e condividere le preoccupazioni dei tifosi sul progetto Super Lega:

Crediamo che il dramma e la bellezza del calcio europeo arrivino dall’abilità di ogni club di raggiungere i successi tramite le performances sul campo

hanno commentato sollecitamente dal quartier generale di Seattle, dando quindi una prima inequivoca indicazione sotto il profilo della potenziale mancata monetizzazione dei diritti TV che le squadre coinvolte avrebbero voluto incassare.

La domanda che affolla le cronache è principalmente una: ha avuto senso per i Club promotori del progetto Super Lega dichiarare guerra in modo sprezzante ai tifosi, da un lato, e alle istituzioni calcistiche dall’altro?

Superlega: crisis management, questo sconosciuto

Un’evidente trascuratezza dei delicati meccanismi sottesi alla costruzione e gestione della reputazione, in quest’epoca liquida quanto mai da intendersi in chiave multi-stakeholder, nonché, come abbiamo già evidenziato, delle più elementari regole afferenti al mondo del crisis management, che vede nella simulazione preventiva degli scenari di crisi secondo il modello del whorst-case-scenario (immaginare a tavolino, in tempo di pace, il peggior scenario possibile, e attrezzarsi per gestirlo al meglio dal punto di vista della comunicazione) un proprio irrinunciabile pilastro, specie in un mondo dove il digitale, facendola da padrone, determina le caratteristiche Glocal (globali e locali assieme, ovvero tutto ciò che accade qui, accade ovunque…) di ogni crisi reputazionale.

La comunicazione dei leader dei Club promotori del progetto è apparsa invece inopportuna nei toni e nei tempi (era dall’epoca della confusa gestione dell’emergenza pandemica da parte del Governo Conte che non assistevamo a comunicati stampa diramati in piena notte, indici di pressapochismo e, appunto, di carenza di efficace programmazione) nonché caratterizzata da un apparente quanto evidente fuga in avanti nelle prime fasi del lancio, a fronte di una solo apparente compattezza d’intenti, sgretolata in poche ore dinnanzi alla presa di posizione – quella sì pressoché granitica – da parte della quasi totalità delle tifoserie nel mondo, sia di piccoli come di grandi Club.

La reputazione di Andrea Agnelli e di altri protagonisti dello sfortunato progetto pare non venir adeguatamente tutelata da loro stessi neppure in extremis, a posteriori, né – ad oggi – essi sembrano aver pronto un sollecito recovery plan: per contro, dopo la netta presa di distanza da parte dell’Arsenal, è intervenuto magistralmente il proprietario del Liverpool, l’americano John W. Henry, che ha pubblicato un vero e proprio video di scuse rinunciando a far parte della Super Lega, e rivolgendosi ai tifosi con una dichiarazione senza mezzi termini:

“Nelle ultime 48 ore abbiamo causato un disagio, ma va detto che il progetto presentato non sarebbe mai durato senza il supporto dei tifosi. In queste 48 ore siete stati molto chiari sul fatto che non avrebbe funzionato. E voglio scusarmi con i giocatori e tutti coloro che lavorano così duramente al LFC per rendere orgogliosi i nostri tifosi (…). Mi dispiace, e solo io sono responsabile della negatività inutile portata avanti negli ultimi due giorni. È qualcosa che non dimenticherò, e mostra il potere che i fan hanno oggi e che giustamente continueranno ad avere (…). È importante che la famiglia calcistica del Liverpool rimanga intatta, vitale e impegnata in ciò che abbiamo visto da voi a livello globale, con gesti locali di gentilezza e sostegno. Posso promettervi che farò tutto il possibile per promuoverlo”.

Una dichiarazione – quella del patron dei Reds – perfettamente in linea con le best practics del crisis management, che prevedono nella presentazione delle scuse incondizionate agli stakeholder il primo e irrinunciabile passo di un’efficace gestione di crisi.

In casa Juve, invece, ancora una volta arroganza e vanità, peccati peraltro assai gravi: Vanitas vanitatum et omnia vanitas”, come ci ricorda il bellissimo libro dell’Ecclesiaste, che – fossimo a scuola – la Maestra condannerebbe Andrea Agnelli a rileggere ad alta voce almeno 50 volte; meglio in ginocchio sui ceci, dietro la lavagna.




Covid-19: alla ricerca di un vaccino per la cacofonia

Abbiamo imparato a difenderci dal nuovo Coronavirus, ma non da tutto il "rumore" mediatico che accompagna la pandemia

Insieme a quante persone stiamo trascorrendo questo – ahimè, ennesimo – lockdown? La risposta parrebbe in prima battuta, semplice: una, due, oppure quattro, per chi ha anche figli in casa.

Invece, a ben contare, decine, centinaia, per qualcuno migliaia di persone, se contiamo colleghi, studenti, clienti e quant’altri imperversano su Zoom per ragioni professionali; parenti e amici che intasano la messaggistica di Whatsapp; influencer e perfetti sconosciuti che pontificano sui nostri wall Social; per non parlare di opinionisti e giornalisti che dicono la loro dagli schermi televisivi e sulle frequenze radiofoniche. Un vero buzz costante, ma con il volume – purtroppo – sempre al massimo, una babele di voci, dati, opinioni, ipotesi e allarmi.

Vien da chiedersi come sia possibile non uscirne pazzi, e infatti i dati confermano un’impennata delle diagnosi di depressione e dell’uso (e abuso) di psicofarmaci: di fatto, tutti i nostri sensi hanno trascorso gli ultimi 13 mesi a correre come criceti in gabbia. Una gabbia, però, davvero troppo affollata. Una cacofonia che non lascia indenne neppure l’apparentemente asettico dominio della scienza: come farsi mancare, ad esempio, le recenti accese polemiche sulla sicurezza del vaccino AstraZeneca, o “Oxford Vaccine”, come lo chiama – autarchicamente – il Premier inglese Boris Johnson?

A seguito delle due tristi morti per trombosi registrate in Italia, le pagine Social dell’autorevole (sic!) “BustoArsizioToday” hanno pubblicano strilli e articoli sul mal di testa della Sciura Brambilla dopo la prima inoculazione del vaccino, domandando in grassetto ai lettori “E voi: vi fidate di questo vaccino…?”; le cronache di mezza Italia ci hanno tenuti impegnati per giorni sul tema “AstraZeneca si, AstraZeneca no”: come se a decidere sulla sicurezza di un vaccino dovessero essere i giornalisti, o peggio ancora, per plebiscito, i cittadini laureati all’Università della strada.

Più precisamente, sono stati registrati – purtroppo – due decessi nel nostro Paese, tra i vaccinati con AstraZeneca, su 3 milioni di dosi (leggasi: uno ogni 1,5 milioni), per una causa di morte – la trombosi cerebrale – che uccideva comunque, prima del lancio del vaccino, 30 italiani al giorno (uno ogni 2 milioni). Possiamo immaginare che questi due tristi decessi, avvenuti in concomitanza con la somministrazione del vaccino, siano accaduti del tutto a prescindere dall’inoculazione del prodotto? È quanto meno ragionevole ipotizzarlo. Qualora invece si trattasse di una correlazione diretta tra somministrazione del vaccino ed effetto collaterale, è giustissimo evidenziarlo: come scrive Roberto Colombo in un bell’articolo su Avvenire, “Inutile negare o sminuire i possibili eventi avversi rari ma seri riscontrati nella somministrazione dei vaccini (come avviene anche per altri farmaci), o nasconderli in qualche modo agli occhi dei cittadini, nella speranza di evitare timori sproporzionati o rifiuti irrazionali. Come la storia del rapporto tra paziente e medico insegna, la fiducia del primo il secondo se la conquista con la correttezza professionale, la trasparenza e il dialogo“. Ma senza panico, please, e senza per questo mettere in dubbio ad ampio raggio l’utilità dell’uso di uno strumento terapeutico fondamentale quale quello dei vaccini, che nel corso dell’ultimo secolo hanno salvato milioni di vite, pur presentando – tendiamo a dimenticarlo: come qualunque farmaco che utilizziamo ogni giorno – alcuni, rarissimi, effetti collaterali: dati alla mano, i vaccini Moderna e Pfizer insieme hanno causato alla data di pubblicazione di questo articolo segnalazioni per reazioni avverse gravi (meritevoli di ricovero, ma non mortali, per fortuna) in 138 casi, e quello AstraZeneca 36; numericamente ridicoli i primi, e praticamente inesistenti i secondi, se paragonati al numero complessivo di persone vaccinate.

Per non parlare poi delle polemiche sollevate – sempre dalla sciatta stampa nostrana – sull’efficacia del vaccino Astrazeneca per gli over 65. I produttori anglo-svedesi avevano consegnato all’EMA, l’agenzia europea per i medicinali, dati di trials ancora insufficienti a garantire la totale efficacia del prodotto per quella fascia d’età; ebbene, il rilievo relativo al fatto che la sperimentazione fosse stata inizialmente condotta su un numero di soggetti over 65 insufficiente per costituire una base statistica affidabile si è cabarettisticamente trasformato sui nostri giornali in titoli ad effetto di centinaia di organi di stampa: “AstraZeneca, vaccino pericoloso per gli anziani!”, generando un tanto diffuso quanto inutile allarmismo.

Ma non basta. Oggi, in Europa e quasi tutto il mondo, con poche felici eccezioni, i produttori di vaccini sono – purtroppo – in ritardo sulla produzione delle dosi che si sono impegnate a consegnare. Ecco allora i titoli sui più diffusi mass-media: “Big Farma ci ha truffati, promettendo centinaia di milioni di dosi, che poi in realtà va a vendere altrove” (chissà dove, poi).

Aggiungiamo magari anche le polemiche nostrane sulle lungaggini e disorganizzazioni nel piano vaccinale (certamente, si poteva – e si dovrà – far meglio), e tra titoli sensazionalistici e teorie complottiste l’ennesimo effetto distorsivo della realtà è garantito.

In un recente articolo pubblicato su The Atlantic a firma di Zeynep Tufekci, poi tradotto da Internazionale, l’apprezzata docente alla North Carolina University e al Berkman Klain Center di Harvard ha ricordato come quando fu approvato il vaccino contro la Poliomelite la notizia venne accolta con enormi manifestazioni di esultanza, con le campane delle chiese che suonarono a festa in tutti gli Stati Uniti, e i giornali che titolarono “Una vittoria monumentale”, bambini che uscirono prima da scuola per festeggiare e adulti per strada a ballare dalla gioia; per il Covid, curiosamente, non è accaduto nulla di tutto questo.

Vero, “big pharma” in passato ci ha male abituati: disease mongering (variazione dei criteri diagnostici di una malattia per vendere più farmaci, tecnica di marketing ampiamente documentata in letteratura), comparaggio (impegno assunto da un medico di agevolare a scopo di lucro la diffusione di prodotti farmaceutici di una determinata azienda), corruzione vera e propria, e anche occultamento doloso di studi scientifici che dimostravano che propri prodotti farmaceutici erano non solo inutili ma anche pericolosi… Pare insomma che l’industria farmaceutica si sia davvero impegnata, negli ultimi decenni, per pregiudicare la propria stessa reputazione e incrinare il rapporto di fiducia con i pazienti e la cittadinanza in generale, tanto che a seguito di questi deprecabili comportamenti la quasi totalità delle aziende farmaceutiche multinazionali è stata oggetto di sanzioni assai elevate, in alcuni casi vere e proprie multe monstre da miliardi di dollari.

Per non parlare poi della pessima gestione dell’emergenza socio-sanitaria causata dal Covid-19, da parte del Governo dell’allora Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che pare abbia a sua volta fatto di tutto per incrinare la fiducia tra istituzioni e cittadini: altro che Italia come modello virtuoso nella gestione della pandemia, sono stati ben altri i Paesi che sono stati in grado di fare la differenza nel numero di decessi.

Ma ragioniamo, e una volta per tutte circostanziamo razionalmente l’analisi a quanto realmente accaduto negli ultimi mesi. Quindici mesi fa si veniva a conoscenza dell’esistenza di un nuovo coronavirus in Cina, il Covid-19; quattordici mesi fa si otteneva il completo sequenziamento del genoma di questo virus, sequenziamento che gli scienziati di tutto il mondo hanno avuto disponibile nelle successive 24 ore; oggi, a distanza di poco più di un anno dal “paziente zero”, disponiamo di una dozzina di vaccini già iniettati in centinaia di milioni di braccia, e altri stanno venendo approvati dalle autorità regolatorie.

Ben pochi, tuttavia, i titoli sui mass-media tali da segnalare in modo incisivo una delle notizie – francamente la più interessante ini questa pandemia – ovvero quella relativa al vero e proprio miracolo della scienza e della ricerca farmaceutica costituito dall’assoluta rapidità di risposta a questa crisi di dimensioni mondiali, che – direttamente o come concausa – ha lasciato per strada quasi 3 milioni di morti, con buona pace di Fragolina81, professione estetista, che su Facebook si straccia le vesti postando a gran voce, in grassetto e con sintassi dadaista: “Complotto! I vaccini li fanno con i feti morti e ci mettono dentro il microchip per il 5G di Bilgheitz”.

Probabilmente, non sarebbe azzardato scrivere che “Mai nella storia dell’uomo si è stati capaci di rispondere così rapidamente ed efficacemente a una nuova malattia”, con uno strumento efficace come il vaccino per il Covid-19, come dimostrano i dati straordinari della campagna vaccinale in Israele, segnalati a più riprese anche con tagliente ironia dal virologo Roberto Burioni. Ecco, questa sarebbe la vera notizia da enfatizzare a gran voce, risultato del quale giustamente godranno anche no-vax, complottisti, teorici del “potere di big pharma”, critici del metodo scientifico, e via discorrendo.

E a dimostrazione che la scienza non è perfetta ma perfettibile, vorremmo prima di concludere ricordare il lavoro di Katarina Kariko, per anni snobbata da tutti i consigli di facoltà e dai principali atenei, che ha fatto carte false per portare avanti la propria ricerca sull’RNA Messaggero, trascurata da ogni possibile finanziatore e anche boicottata da non pochi suoi colleghi, scienziata che – nonostante il vento avverso – ha tenacemente costruito anno dopo anno il know-how che oggi costituisce l’infrastruttura scientifica su cui poggiano buona parte dei vaccini anti-Covid. A questa scienziata straordinariamente lungimirante forse – anche in ambito accademico – qualcuno dovrebbe chiedere scusa, qualcun altro dedicare magari una targa, e tutti noi un minuto di riconoscenza. In silenzio, magari, così da bilanciare il pessimo spettacolo dato da non pochi uomini di scienza, che – caduti nella trappola del nostro dequalificato giornalismo – si sono scatenati a litigare h 24 in diretta TV: un epidemiologo che dibatte con un immunologo, un direttore sanitario che si prende a pesci in faccia con un medico di base, un virologo insultato da un fisico, e via discorrendo.

Per i mass-media, e relativi Social, tutto ciò si é sostanziato in accesi scontri, ovvero audience e click sulle notizie, quindi in definitiva, in soldi; per la scienza, è stato invece un pessimo spettacolo, perché gli scienziati dovrebbero dibattere in modo anche acceso nei congressi scientifici, e non in televisione, e dai congressi fare sintesi – possibilmente con un approccio multidisciplinare – per poi spiegare a noi cittadini il senso delle cose, con una sola versione, chiara, condivisa, per quanto possibile semplice, e comunque facilmente declinabile, in modo comprensibile, ai non addetti ai lavori. Diversamente, rischia di passare – come purtroppo a tratti è invece passato – il pericoloso messaggio che “neppure la scienza ha le idee chiare”, e allora per qualcuno ben venga il ciarlatano venditore di comode verità pret-a-porter spacciate come soluzioni alternative, o gli allarmismi in salsa pseudo-scientifica. Come ricordato dalla Tufekci sulle colonne del mensile americano, “La lotta alla pandemia è stata anche ostacolata da una comunicazione paternalistica che ha preferito imporre divieti, invece di fare corretta informazione. È necessario cambiare strategia, e soprattutto essere più ottimisti sui vaccini”

Sarebbe davvero il caso, allora, di dare tregua alle nostre menti confuse e disorientate, e concederci un po’ di tranquillità, magari spegnendo per un tempo ragionevole i nostri Device, e prendendo le distanze da tutta questa ridondante cacofonia, per la quale, purtroppo, non esiste ancora alcun efficace vaccino.