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Moda sostenibile, il futuro è sempre più green

Moda sostenibile, il futuro è sempre più green

L’industria globale della moda punta sulla sostenibilità, indicata come secondo obiettivo strategico, e sottolinea il comune impegno del settore nella creazione di un futuro completamente ‘green’.

E’ quanto emerge da una ricerca è stata effettuata da Economist intelligence unit (Eiu) per lo U.S. Cotton Trust Protocol basandosi su interviste con marchi come Adidas, H&M e Puma. Il nuovo report ‘La sostenibilità è di moda?’ arriva in un momento in cui l’industria si trova di fronte ad un bivio: decidere se continuare a investire nella sostenibilità o ritornare sui propri passi in considerazione della pandemia.

Da questa ricerca, emerge in primo luogo che per i big della moda, della vendita al dettaglio e del tessile la sostenibilità è fondamentale per la sopravvivenza del business. Per i leader della moda, della vendita al dettaglio e del tessile, la sostenibilità è fondamentale per il business. A dispetto della pandemia, infatti, i dati raccolti mostrano che per molti dei più grandi marchi fashion di rilevanza mondiale la sostenibilità è diventata un fattore cruciale per l’azienda.

La maggior parte dei top manager della moda, della vendita al dettaglio e del tessile intervistati (60%), ha individuato la svolta sostenibile come uno dei due principali obiettivi strategici per la propria attività, seconda solo al miglioramento della soddisfazione dei clienti (primo classificato col 64%). Ciò contrasta nettamente con il tradizionale obiettivo di ‘premiare gli azionisti’ che risulta oggi essere indicato solo da uno su sei (15%) degli intervistati come obiettivo principale.

I top manager affermano che stanno introducendo misure di sostenibilità in tutta la filiera produttiva

Ciò prevede, a partire dall’approvvigionamento di materie prime prodotte in modo sostenibile (65%), di adottare ormai un approccio basato sull’economia circolare e sulla riduzione dei gas serra (51% ciascuno) e investire in nuove tecnologie come la stampa 3D e la blockchain (41%). Nel complesso, la maggioranza (70%) è ottimista sul fatto che il fast fashion possa essere sia accessibile che sostenibile.

I dati contano

Un elemento chiave che emerge dalla ricerca è l’importanza della disponibilità di dati per essere più sostenibili. La raccolta di dati dell’azienda e della supply chain per misurare le prestazioni è, infatti, posta in cima alla lista delle priorità dal 53% dei top manager, seconda solo allo sviluppo e all’implementazione di una strategia di sostenibilità ambientale con target misurabili, posti in cima dal 58%.

E i dati non sono importanti solo nel breve periodo: il 28% dei top manager ha affermato che la disponibilità di dati affidabili è la chiave per traguardare gli obiettivi di sostenibilità nel prossimo decennio. Inoltre, il 73% ha dichiarato di sostenere parametri di riferimento e soglie globali come mezzo efficace per misurare le performance di sostenibilità e guidare il progresso del settore.

Tuttavia, i risultati rilevano che per i maggiori marchi di moda, rivenditori e aziende tessili è difficile ottenere dati di buona qualità. Mentre i capi azienda affermano di disporre di un buon numero di dati sulle pratiche di sostenibilità dei fornitori (65%), sui diritti dei lavoratori e sulla salute e sicurezza sul lavoro nella catena di fornitura (62%). Una percentuale significativa delle imprese (45%) non tiene traccia delle emissioni di gas serra prodotte durante la produzione e distribuzione dei prodotti, mentre il 41% non tiene traccia della quantità di acqua ed energia utilizzata per produrre le materie prime di cui si rifornisce.

In prospettiva, il 29% degli intervistati ha riscontrato che la mancanza di dati disponibili e facilmente accessibili potrebbe ostacolare il processo di collaborazione verso l’obiettivo della sostenibilità in tutto il settore. Come affermato da alcuni intervistati, “raccogliere dati è difficile, ma fondamentale”.

“È chiaro che i marchi stanno affrontando una dura sfida per portare avanti il loro impegno verso la sostenibilità. Allo U.S. Cotton Trust Protocol sappiamo che dati accurati e affidabili sostengono le aziende in questo lavoro. Non solo assicurano riscontri per dimostrare l’importante lavoro fatto e i progressi raggiunti, ma offrono anche una comprensione approfondita per un ulteriore miglioramento. Noi forniamo uno dei meccanismi più strutturati di raccolta dei dati disponibili per il cotone, materiale essenziale, al fine di garantire una trasparenza unica” afferma Gary Adams, President dello U.S. Cotton Trust Protocol.

La collaborazione apre la strada per ulteriori passi avanti

Un’altra constatazione chiave è che la moda, il commercio al dettaglio e il settore tessile non possono ovviamente guidare il cambiamento singolarmente: è necessaria la collaborazione. Tuttavia, quando si tratta di un supporto esterno che aiuti a guidare questo progresso, i top manager non percepiscono come essenziale l’introduzione di un’ulteriore regolamentazione.

Agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Sdg) delle Nazioni Unite e alla regolamentazione governativa nel guidare il cambiamento della sostenibilità è stato attribuito lo stesso peso, entrambi sono citati da un quarto degli intervistati (24% ciascuno). I requisiti normativi sono stati classificati solo un terzo dei top manager (33%) intervistati tra i primi tre fattori che governeranno il progresso della sostenibilità nel prossimo decennio.

L’impatto del Covid-19

Questa determinazione verso la sostenibilità si scontra con l’incertezza generata dal Covid-19; va comunque fatto presente che, quando è stato chiesto il loro punto di vista sulla pandemia, poco più della metà (54%) degli intervistati ha affermato di ritenere che la pandemia potrebbe rendere la sostenibilità un fattore meno prioritario all’interno del settore.




L’importanza e i benefici di una cultura aziendale positiva

L’importanza e i benefici di una cultura aziendale positiva

Le ricerche sulla psicologia organizzativa dimostrano che gli ambienti lavorativi basati sulla pressione e sulla competizione spietata sono dannosi per la produttività delle aziende. Un ambiente positivo, invece, può apportare enormi benefici sia per le persone che per i risultati del business. Nonostante sia diffusa la convinzione che la pressione e lo stress siano un buon incentivo per spingere i lavoratori a performare di più e più velocemente, le organizzazioni spesso non prendono in considerazione i costi collegati a questo tipo di cultura lavorativa. Innanzitutto, le spese sanitarie: nelle aziende ad alta competitività sono maggiori del 50% rispetto ad altre organizzazioni. Il 60%-80% degli incidenti sul lavoro, poi, sono collegati a situazioni di stress, così come l’80% delle visite mediche, dato che lo stress sul lavoro è causa di forme di sindromi metaboliche e di malattie cardiovascolari. Allo stesso modo, lo stress causato dal fatto di ricoprire posizioni gerarchiche è causa di malattie. 

In secondo luogo, bisogna considerare il costo di uno scarso livello di coinvolgimento sul lavoro: le ricerche hanno dimostrato che quando non si è coinvolti si rischia di soffrire di stress. Questo ha dei costi per l’azienda, dal momento in cui un basso livello di coinvolgimento porta a un aumento del 37% dell’assenteismo, del 49% di incidenti e del 60% di errori. 

Il terzo costo da considerare è legato alla mancanza di fidelizzazione: le ricerche dimostrano che le persone che vivono una situazione stressante sono del 50% più inclini a cambiare lavoro, declinare una promozione o licenziarsi. I costi associati a questo fattore hanno a che fare con le spese necessarie per la ricerca di una nuova risorsa, la formazione, la perdita di produttività e di esperienza. Il Center for American Progress ha stimato che sostituire un lavoratore costa quanto il 20% del suo salario. 

Per questi motivi, spesso le aziende si preoccupano di fornire ai propri dipendenti benefit di vario tipo, dal telelavoro alla palestra aziendale, ma una ricerca di Gallup ha dimostrato che i lavoratori preferiscono il benessere sul lavoro ai benefit materiali. Il benessere sul luogo di lavoro dipende esclusivamente dalla presenza o meno di una cultura aziendale positiva, che si basa su 6 caratteristiche essenziali: cura per i colleghi, supporto e compassione, saper perdonare gli errori, saper ispirare gli altri, enfatizzare i lavori significativi e trattare gli altri con rispetto, gratitudine, fiducia e integrità. Per incentivare lo sviluppo di questi elementi, i capi possono agire rinforzando le relazioni sociali positive, mostrare empatia e fare la loro parte per essere concretamente d’aiuto. Una ricerca della NYU Stern School of Business ha infatti dimostrato che i leader che si mostrano più attenti e disposti al sacrificio riescono a creare un ambiente più cooperativo e produttivo. Infine, i leader dovrebbero incoraggiare le persone ad aprirsi con loro, specialmente riguardo ai propri problemi. Nel libro Give and Take, il professore della Wharton Adam Grant ha dimostrato che la generosità e la gentilezza di un leader sono driver importanti per l’efficacia aziendale. 

Mentre un clima lavorativo più rigido porta a un minor livello di salute generale tra i lavoratori, un ambiente di lavoro positivo contribuisce a migliorare diversi aspetti legati alla salute dei lavoratori, come ad esempio la frequenza cardiaca, la pressione sanguigna e il sistema immunitario. Quando i lavoratori sono più felici, questo si riflette anche sul servizio che viene offerto all’esterno. Di conseguenza, una cultura lavorativa positiva non migliora solo la salute dei singoli ma contribuisce a migliorare gli outcome legati ai clienti in termini di salute e soddisfazione.

Leggi l’articolo completo di Emma Seppälä e Kim Cameron su www.hbr-org.cdn.ampproject.org




Banche e sostenibilità: Millennials già superati, si punta sulla Generazione Greta

Banche e sostenibilità: Millennials già superati, si punta sulla Generazione Greta

I giovanissimi e il loro interesse per il climate change, stanno obbligando gli istituti a studiare nuovi business model. Gli esempi di Flowe (Mediolanum) e Hype (Sella)

Sono nativi digitali, seguono influencer e youtuber. Sono scesi in piazza per i Fridays for Future, consapevoli del fatto che la sostenibilità rappresenti l’unica strada per salvare il pianeta. La Generazione Greta sta contribuendo alla trasformazione dei business model di diverse attività, chiamate a ripensarsi e innovarsi in chiave green. Le banche sono tra le prime a rispondere alla sfida, perché per i più giovani anche il rapporto con la gestione del denaro è destinato a cambiare.

I numeri di Flowe

Oltre 23.000 app scaricate e 4.500 alberi piantati: in poco meno di due mesi dal lancio, Flowe, la banca digitale targata Mediolanum pensata proprio a misura di Generazione Greta, si dimostra un progetto capace di convincere grazie alla sua impronta verde. «Per la Next-Gen – spiega Ivan Mazzoleni, ceo & cultural energy orchestrator di Flowe – la sostenibilità non è un’opzione. Ha ben chiaro che non esiste un Pianeta B. Partendo da questa consapevolezza abbiamo realizzato la prima banca digitale al 100%, fruibile tramite app, che si propone di essere al tempo stesso uno strumento di educazione all’ambiente e all’innovazione».

Flowe è una società benefit del Gruppo Bancario Mediolanum, certificata carbon neutral, attenta ai consumi energetici: le auto aziendali sono ibride o elettriche. L’attenzione alla sostenibilità è il filo conduttore che lega gli utenti di un nuovo modello di banca, in prima fila nella costruzione di una comunità unita da valori green. «Il legame diretto con la natura è espresso anche attraverso la nostra carta in legno di foresta certificata. Un prodotto nuovo ed ecologico, al quale però abbiamo scelto di attribuire un costo di 15 euro per disincentivarne l’uso indiscriminato – racconta Mazzoleni –. La nostra carta è carbon free footprint, per ogni emissione, infatti, Flowe si impegna a piantare un albero, grazie alla collaborazione con la startup ZeroCo2».

Una app per tracciare l’impatto sul clima

Il percorso di educazione e sensibilizzazione degli utenti passa per l’intesa con la fintech Doconomy, che consente l’uso dell’indice Åland, con l’obiettivo di tracciare e calcolare l’impatto sul clima dei consumi del singolo cliente. Flowe è il quarto istituto finanziario dopo Bank of Åland, Nordea e Bank of the West, e il primo Imel italiano, ad adottarlo. La app è disponibile in due versioni: Fan, gratuita, e Friend, con un canone mensile di 10 euro che consente di accedere a contenuti extra come videolezioni su temi ambientali e la possibilità di bilanciare il consumo di CO2 legato alle proprie transazioni, piantando un albero grazie alla collaborazione con ZeroCO2.

Hype e il banking digitale

Che si tratti di una generazione destinata a cambiare modelli aziendali e di consumo emerge con forza anche da uno studio, di inizio anno, promosso dall’ufficio studi di Hype (gruppo Sella), soluzione di banking digitale per una gestione semplice ed efficiente del denaro che funziona attraverso una app. L’analisi ha messo a confronto l’approccio ai consumi di Millennials e Generazione Z (o Generazione Greta), partendo dai dati relativi all’utilizzo di Hype nella gestione del denaro e negli acquisti di beni e servizi relativamente ai due cluster di clienti appartenenti all’oltre milione di clienti attivi.

Primo dato significativo è la frequenza giornaliera di accesso all’app: 0,68 volte al giorno per i giovanissimi della Generazione Z e 0,57 volte per i Millennials: una differenza che rappresenta un chiaro indicatore di come i giovanissimi ricorrano con maggiore naturalezza alla propria mobile bank.

Risparmiare per Obiettivi

Le principali voci di utilizzo di Hype mostrano come entrambe le generazioni abbiano comportamenti simili, con una spiccata propensione all’utilizzo della soluzione come abituale strumento di pagamento. Una delle funzioni più utilizzate di Hype è quella degli Obiettivi, che consente l’accantonamento progressivo di cifre destinate ad una finalità preimpostata.

Per la Generazione Z, il principale obiettivo di risparmio riguarda l’acquisto di prodotti elettronici o software, i Millennials sono orientati verso il consumo “analogico”, presentando come principale voce di risparmio la categoria “Veicoli e trasporti”, con un peso relativamente significativo anche della voce “Viaggi e Vacanze”.




L’ornitorinco, ovvero come l’architettura dell’informazione influenza la User Experience

L’ornitorinco, ovvero come l’architettura dell’informazione influenza la User Experience

I primi esemplari arrivarono imbalsamati dall’Australia. E molti credettero a un fake. Abili imbalsamatori cinesi avevano infatti la capacità di creare animali immaginari assemblando parti di animali diversi. Becco d’anatra, corpo di talpa, zampe palmate… c’è voluto quasi un secolo perché gli etologi si accordassero sulla collocazione da dare all’ornitorinco – sì stiamo parlando proprio di questo simpatico animale. Che sembra effettivamente un puzzle di altri animali. Scoperto in Australia sul finire del Settecento, l’ornitorinco ha rappresentato per più di ottant’anni un vero e proprio rompicapo per gli studiosi di mezzo mondo.

Oggetti ornitorinchidi

L’ornitorinco è una specie di mascotte per chi si occupa di organizzazione dell’informazione. Anche molti prodotti, servizi, documenti con cui abbiamo a che fare quotidianamente si comportano come l’ornitorinco, anche se il loro aspetto appare meno bizzarro. Difficile trovare una collocazione univoca che metta tutti d’accordo. Vuoi per l’intrinseca complessità dell’oggetto da classificare, vuoi per la molteplicità dei punti di vista da cui si può considerare l’oggetto stesso. 

Come dire che l’ornitorinco è negli occhi di chi guarda. E così ciascuno tenderà a privilegiare un aspetto anziché un altro: chi vedrà più l’anatra chi più la talpa. Questo perché i nostri diversi bisogni e modelli mentali determinano modalità altrettanto diverse di ricercare l’informazione.

Quando usare cosa

Per questo non esistono classificazioni giuste o sbagliate, ma solo più o meno appropriate agli obiettivi, al contenuto, al pubblico. Sono questi che dovrebbero guidarci nella scelta del criterio di organizzazione. Tuttavia, anche in assenza di regole assolute, possiamo individuare alcune linee guida di massima.

Le tassonomie

Se c’è un bisogno prevalente (o pochi bisogni prevalenti), le tassonomie possono funzionare bene. Le tassonomie sono alberi gerarchici formati da classi che si ramificano progressivamente a partire da una classe principale. In questi sistemi, ogni oggetto ha una collocazione univoca, appartiene a una classe soltanto: ciò rende le tassonomie molto rigorose, ma anche molto rigide.

Esempi: ne sono un esempio la classificazione di Linneo usata in scienze naturali; la classificazione decimale Dewey adottata da gran parte delle biblioteche e degli OPAC europei; il file system del computer a cartelle e sottocartelle.

Le faccette

Se invece i bisogni o i modelli mentali da soddisfare sono molteplici, allora occorre guardare a sistemi di organizzazione a faccette. Le tassonomie considerano l’oggetto da classificare come un tutt’uno indivisibile, e come tale lo collocano all’interno di un’unica classe-contenitore. Viceversa, la classificazione a faccette scompone l’oggetto da classificare in molteplici proprietà, ciascuna delle quali riflette un aspetto/faccia dell’oggetto. In tal modo le chiavi di accesso all’informazione sono plurime, capaci di soddisfare altrettanti modelli mentali.

Esempi: Gran parte dei cataloghi e-commerce è strutturata a faccette, proprio per l’estrema versatilità di questo sistema.

Le poligerarchie e i sistemi misti

Tassonomie e faccette sono i due estremi di uno spettro che comprende altre forme di organizzazione. Come le poligerarchie o i sistemi misti. Le poligerarchie condividono le stesse caratteristiche delle tassonomie salvo che qui l’oggetto classificato può appartenere a più di una classe. Le poligerarchie correggono così l’eccessiva rigidità delle tassonomie assicurando anche maggiore elasticità.

Esempi: sono poligerarchici i primi livelli dei cataloghi Amazon, eBay, Yoox e molti altri. Ma i primi livelli soltanto. Perché la struttura di questi siti di e-commerce è mista: poligerarchica nei livelli superiori, a faccette in quelli inferiori (una volta che si è selezionata una categoria merceologica relativamente omogenea). Nel caso di cataloghi molto ampi, le tassonomie aiutano a fare una prima scrematura di massima, le faccette a raffinare la ricerca all’interno del comparto selezionato.

Organizzare l’informazione è stabilire una “visione del mondo”

Non esistono classificazioni giuste o sbagliate, ma soltanto più o meno aderenti a un certo scopo. Molti studi confermano che l’idea di una classificazione scientifica, definita come tale sulla base di una serie di regole a-priori è un’utopia. Viceversa ogni classificazione è sempre inevitabilmente una commistione di razionale ed empirico. Più che a una coerenza aprioristica essa risponde alla salienza: cioè alla capacità di essere funzionale allo scopo per cui è stata concepita.

Ne consegue che nessuna organizzazione dell’informazione è neutra. Organizzare in un certo modo uno spazio informativo significa dare forma a quello spazio, attribuirgli un’identità e un senso. Significa modellare l’esperienza di chi attraversa quello spazio. Così ogni architettura dell’informazione crea una visione del mondo, influenza la nostra percezione della realtà, e plasma inevitabilmente la nostra esperienza.




Orientarsi ai tempi del Coronavirus: come i leader di 6 agenzie stanno ridefinendo la strategia di brand

Orientarsi ai tempi del Coronavirus: come i leader di 6 agenzie stanno ridefinendo la strategia di brand

Raccogliere i dati in tempo reale, scoprire nuovi comportamenti, ridefinire obiettivi e successi e creare nuove prospettive veicolate dai dati

Le agenzie pubblicitarie non sono nuove ai cambiamenti radicali. Sono loro gli esperti cui si affidano i brand per avere una guida attraverso i mutamenti culturali, economici e tecnologici. In questo periodo, sono in molti a vantarsi di essere disruptor, in quanto mettono in discussione lo status quo e sanno orientarsi in questa nuova situazione.

Mentre l’epidemia da Coronavirus si evolve come la forza più dirompente mai vista in tempi moderni, le agenzie stanno aiutando i brand ad affrontare una nuova realtà senza precedenti. In mezzo a tanti rapidi cambiamenti, ora è più importante che mai restare al passo. Per chi si occupa di strategia, questo significa raccogliere i dati in tempo reale, scoprire nuovi comportamenti, ridefinire obiettivi e successi e trovare e creare nuove prospettive veicolate dai dati.

Sei esperti di strategia e leader di agenzie hanno spiegato quali sono le differenze nei modi di affrontare la pianificazione tattica e gli approfondimenti sui dati in questo momento, offrendo alcuni utili consigli per i brand.

Ecco che cosa hanno raccontato a Think with Google.

Sfrutta le opportunità di un totale cambiamento di mentalità

“Molti dei brand che stanno registrando sell-through da record devono passare rapidamente da una mentalità che predilige ‘l’aumento delle vendite dalla sera alla mattina’ a una che si concentra sullo ‘sviluppo del brand nel tempo’. Non si tratta di una sfida nuova, ma la situazione corrente richiede un cambio di prospettiva“, spiega Aki Spicer, Chief Strategy Officer di Leo Burnett.

Trovo che siano i brand con fondamenta solide, vale a dire una forte motivazione e un punto di vista definito, a poter superare questa transizione con facilità. È giunto il momento di dimostrare la nostra motivazione ai nuovi clienti, che forse interagiscono con noi per la prima volta dopo tanto tempo”.

Analytics Marketing B2B

Adatta la tabella di marcia interna in modo che misuri il successo

“Oltre a trovare le parole giuste, aiutiamo i clienti a capire che cosa è meglio fare, esplorando modi significativi di offrire valore concreto.

In questo momento tutti desideriamo ottenere un impatto che richieda il superamento delle misure tradizionali del patrimonio di marca e rifletta il feedback dei clienti, a indicare che abbiamo fatto realmente la differenza. Le misure del successo devono riflettere questo obiettivo”, indica Jonathan Lee, Chief Strategy Officer di Grey.

Investi in “conversazioni autentiche” con persone reali

Christine Chen, Partner, Head of Communication Strategy di Goodby Silverstein & Partners, aggiunge: “Siamo sommersi da dati strutturati riguardanti argomenti seri quali perdita del lavoro e diffusione della malattia. Gli approfondimenti più interessanti, che vertono sulle speranze e sulle emozioni personali, sono più difficili da misurare e spesso ci pervengono sotto forma di ‘focus group di una sola persona’.

Abbiamo bisogno di un maggior numero di dati come questi, ma la loro acquisizione richiede colloqui con i consumatori a scadenza regolare. Le domande da porre devono poi essere simili a quelle che gli intervistati si aspetterebbero da parte di amici o familiari, non da ricercatori di tipo tradizionale”.

Marketing B2B emozioni

Utilizza la strategia di marketing per creare valore là dove è maggiormente necessario

“La triste verità è che la pandemia ha messo in luce le differenze sociali. Ci sono intere comunità e parti della forza lavoro che vivono un’esperienza molto diversa da quella di chi, come noi, ‘lavora da casa’.

Concentrarci su questi gruppi e cercare di entrare in sintonia con i loro sentimenti e il loro modo di esprimersi è forse la cosa più importante che possiamo fare per capire che cosa succede. Una profonda comprensione dei segmenti di pubblico consentirà ai nostri partner di adottare misure che abbiano un vero impatto e apportino un reale valore”, racconta Kelsey Hodgkin, Head of Strategy di Deutsch LA.

I test sulla creatività ci aiutano a orientarci tra le sfide poste dalla scelta dei messaggi

“Capire come parlare ai consumatori durante un periodo di panico senza precedenti dà la sensazione di camminare sulle uova, ma restare in silenzio è ugualmente rischioso”, spiega Stephanie Bohn, Chief Brand Officer di VidMob.

“È difficile prevedere le reazioni dei consumatori anche in situazioni normali, figuriamoci durante una pandemia. È fondamentale, quindi, affidarsi ai test sulle creatività. I brand hanno bisogno di indicatori in tempo reale per capire che cosa ha maggiore risonanza, in modo da dare forma alle strategie creative e convalidarle oppure, se necessario, aggiustare il tiro”.

Osserva gli indicatori del pubblico per scoprire la nuova normalità

“Ci affidiamo massicciamente ai dati di ricerca come fonte di approfondimento. Di solito possiamo affidarci ai trend anno su anno o al comportamento di ricerca più recente per avere buone indicazioni sul futuro. Purtroppo quando sopraggiunge una crisi dobbiamo reagire in tempo reale alle variazioni del comportamento di ricerca.

La corsa agli acquisti dettata dal panico, ad esempio, causa massicce fluttuazioni e irregolarità. La natura di questa crisi protratta sul lungo periodo rende difficile prevedere l’aspetto della nuova ‘normalità’.

Per aiutarci, cerchiamo di impostare una soglia per queste fluttuazioni e definire in base a questo standard la ‘nuova normalità’, o almeno la ‘prossima normalità’, una volta che le irregolarità tornino a essere considerate alla stregua di anomalie”, conclude Aaron Levy, Group Director, SEM di Tinuiti.