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Lucchetto Kriptonite: Il primo e uno dei più famosi "epic fail" della storia dei social media

Siamo nel 2005, Kryptonite è un famoso produttore americano di lucchetti, leader del mercato di riferimento grazie a prodotti sicuri e inviolabili. Almeno fino ad allora.

Un giorno un ciclista amatoriale decide di comprare un lucchetto per proteggere la propria bici, scegliendo ovviamente Kryptonite. Essendo anche molto curioso e probabilmente meticoloso, decide di testare la sicurezza del suo nuovo acquisto.
In questa sperimentazione scopre un fatto sconcertante: i lucchetti più sicuri del mondo si possono aprire con una semplice Bic. Non contento della scoperta, filma la procedura necessaria ad aprire il lucchetto con la penna e posta il video nel forum su cui dialoga con i suoi amici cicloamatori.
Il video fa scoppiare un putiferio. La notizia si propaga all’istante, prima nella rete di amicizie del forum, e poi piano piano anche al di fuori. Lo stagista addetto alla comunicazione digitale di Kryptonite, intercetta video e conversazioni, e percependo la gravità della situazione, allerta la dirigenza. Ma non gli viene dato ascolto.
Come un virus il video “infetta” tutta la rete, mentre l’azienda continua a non rispondere. I danni d’immagine e commerciali si possono immaginare facilmente.
Dopo un paio di settimane, accortosi della reale entità del passaparola negativo, il responsabile della comunicazione di Kryptonite decide di intervenire. Scrive un comunicato sul sito istituzionale dell’azienda, in cui spiega in maniera autoreferenziale le qualità dei prodotti e del brand. Ovviamente è troppo tardi e un’azione così sterile non sortisce alcun effetto.
A seguito di questo episodio l’azienda è entrata in crisi a causa del calo di reputazione e non si è mai totalmente risollevata. A testimonianza del fatto che Internet (e soprattutto Google) non dimentica, è sufficiente dire che ancora oggi molte persone postano video divertendosi a mostrare come aprire un lucchetto Kryptonite nei modi più disparati. Se non ci credete, provate voi stessi a cercare su You Tube: “Kryptonite lock”.
Ed ecco palesarsi la prima grande regola del Web 2.0: ascoltate e rispondete in maniera tempestiva.




Perché Madrid ha un problema di comunicazione sulla questione catalana

Non sempre le immagini ci dicono la verità, ma in questa èra bisogna saperle usare

Comunica di più l’immagine o la parola? E’ più ingannevole l’immagine o la parola? La scorsa settimana Giuliano Ferrara, commentando le immagini iper-mediatiche e in alcuni casi taroccate delle violenze della polizia spagnola a Barcellona, le accusava di fornire una narrazione falsata e suggeriva di poggiare scelte e convinzioni sulla più completa e ricca narrazione legata alle parole, come da tradizione di questo giornale.
C’è molto di vero in tutto ciò, ma occorre qualche precisazione. Le parole sono simboli, croce e delizia dell’umanità. Sono il segno più specializzato e più duttile: con i simboli possiamo spostarci nello spazio e nel tempo parlando di epoche antiche e luoghi lontani, possiamo inventare mondi come quelli degli elfi, fabbricare concetti, costruire le sofisticate architetture giuridiche che, come nel caso menzionato, fanno stare in piedi o cadere interi paesi. Se poi intendiamo la parola come parola detta o scritta da qualcuno, essa mette in gioco un complesso insieme di capacità che ci fanno fidare o meno della persona che pronuncia o scrive. Non a caso le culture semitiche per indicare la verità preferivano utilizzare la metafora della roccia del testimone piuttosto che quella della luce che è condizione del vedere individuale. La parola è dunque all’origine di una comunicazione più forte, più incidente perché coinvolge la fiducia dell’ascoltatore o del lettore, più precisa e sofisticata. D’altro canto, l’inganno perpetrato attraverso la parola è più cruento, più stabile e più profondo. Le parole delle tremende ideologie del XX secolo e quelle più sofisticate del politicamente corretto di oggi dovrebbero esserne un monito.

Siamo in un’era iconica, soprattutto in politica, con vantaggi e svantaggi annessi e nonostante l’ammirevole resistenza dei lettori del Foglio. Si prende facilmente partito, irritandosi a seconda delle immagini che ci influenzano, ma si cambia più facilmente opinione. Per questo si fanno sondaggi tutti i momenti, nessun partito può essere certo del proprio elettorato. Si è più fragili e individualisti, ma gli inganni sono meno profondi. Più sentimentali, ma meno pronti ad accettare violenze in nome di cause astratte.

Il ruolo dei comunicazionisti

Inutile dire, poi, che da sempre l’utilizzo congiunto di tutti i tipi di segno (ce ne sono anche altri), è ancora più convincente dei segni singoli come dimostrano “gesti” comunicativi come manifestazioni, parate, liturgie, eventi. Sia le ère simboliche sia quelle iconiche della politica cercano questa completezza, con accenti diversi.
Quanto alla Catalogna, a prescindere dalla valutazione politica, il governo spagnolo ha sottovalutato la velocità dell’èra iconica della politica. L’intervento della polizia in alcuni seggi catalani ha mostrato iconicamente la faccia truce del potere, permettendo agli indipendentisti di completare la loro narrazione simbolica con immagini, trasformando la giornata in un “gesto” comunicativo. Ora, qualunque decisione Madrid prenda, deve trovare in fretta icone che trasformino in gesto la loro narrazione, adeguandosi alla civiltà iconica che stiamo attraversando, nel bene e nel male. Re Felipe aveva una grande occasione, potendo sfruttare il valore iconico che è sempre connesso alle monarchie. Ha buttato via una chance, sedendosi opacamente dietro una scrivania come qualsiasi primo ministro e attenendosi alla narrazione standard del governo. La manifestazione unionista di domenica scorsa è stata un inizio di ripresa ma non è sufficiente. Tuttavia, fossi nel re e nel suo governo, prima di quello dell’esercito, radunerei lo stato maggiore dei comunicazionisti.




Chi c’è dietro il fenomeno Gianluca Vacchi

Soldi, algoritmi e like sui social: “Così ho inventato mister Enjoy”, si vanta Mirko Scarcella, ex guru di Gianluca Vacchi, che ha lanciato molti vip in rete e sui social. Il problema non è solo che se ne vanta. Ma è la deficienza… di valori.

30 anni appena compiuti, fattura 4 milioni di euro all’anno costruendo identità digitali dal suo studio alle isole Canarie, in Spagna, e ha un tatuaggio sul petto con scritto “I am the chosen one”, io sono il prescelto. Mirko Scarcella è colui che ha decisamente contribuito a “creare” il fenomeno Gianluca Vacchi, personaggio che spopola su Instagram tra feste mondane, Rolls-Royce e balletti semi-nudo con accanto giovani ragazze e bottiglie di Dom Pérignon.
Dopo una delle ultime interviste rilasciate dall’ex guru di Vacchi in cui parla di Trump come di un idolo, abbiamo deciso di puntargli addosso i raggi x di Luca Poma, editorialista di punta di LifeGate, docente universitario, affilatissimo comunicatore d’impresa, fondatore del blog Creatori di Futuro e autore, tra i molti libri, del recente Il sex appeal dei corpi digitali, molto sul tema.
Luca, cosa pensi del fenomeno di cui parliamo?
Ci sono persone che non possono che essere definite deficienti. Lui però è benestante, visto il suo giro d’affari.
Scadiamo addirittura nell’insulto?
Ci mancherebbe, non è assolutamente nel mio stile. Mi riferivo alla parola scaturita dal participio presente del latino deficere, nel significato di mancante. In molte cose: innanzitutto il basso profilo, che in questo tipo di professione è indispensabile. Quando vengo chiamato a prestare consulenza a presidenti e Ad di aziende o a personaggi pubblici, sto sempre un passo indietro, non compaio mai, e così fanno tutti i colleghi che con passione e dedizione si dedicano a questa appassionante professione. Il “prescelto” dovrebbe essere sempre e solo il cliente.
A tuo avviso, di cos’altro “defice” Mirko Scarcella?
Non certamente di fatturato, questo bisogna ammetterlo, e riconoscerlo. Ricordo però una sua frase: “Posso realizzare grandi sogni attraverso il web in un solo giorno”. Personalmente, al di là dell’enfasi autocelebrativa e “pubblicitaria”, credo fermamente che i grandi progetti di costruzione della reputazione possano durare alla prova del tempo solo in ragione di quanto vengono costruiti su fondamenta realmente solide. E il web è uno strumento prezioso, ma non certamente l’unico, perché l’offline ha comunque un peso determinante. Ve lo vedete Gianluca Vacchi a una mostra d’arte, o che esprime un parere dal proprio punto di vista su qualche scelta di rilievo politico, o che interviene a un congresso in un’università?

Qual è allora la ricetta di Scarcella, posto che i risultati li ottiene comunque?
Qualcuno parla di “scorciatoie”: si sospetta l’acquisto di like in Russia per ingrossare la fanbase dei suoi clienti in modo surrettizio, l’acquisto – per sua stessa ammissione – di migliaia di domini web che fanno azioni di redirect sul profilo del cliente, canalizzando traffico per scardinare in modo artificiale i restrittivi algoritmi dei social, e – probabilmente – una gestione intelligente delle “reti di collusione”, ovvero profili social – veri o falsi è indifferente – che riuniti insieme collaborano tra loro. Una rete del genere, forte di migliaia di pagine, può facilmente e rapidamente falsare la popolarità di qualunque personaggio o contenuto, ottenendo un numero spropositato di ‘Mi piace’ e guadagnando di conseguenza molta attenzione all’interno dei social network. C’è un’interessante ricerca su queste tecniche, dell’università dell’Iowa e della Lahore University of Management Sciences, uscita proprio recentemente (la Cbs ne parla qui). Ma sicuramente sono solo affermazioni di malelingue… sarà tutta invidia.
Quindi secondo te è così che questo personaggio potrebbe essere diventato un “guru del web” come qualche collega giornalista l’ha definito?
Questo bisognerebbe chiederlo a lui. Di sicuro costruire reputazione è qualcosa di diverso che non (solo) garantire a una persona come Gianluca Vacchi milioni di follower. Il reputation management non può e non deve prescindere dalla qualità delle conversazioni, non è certo solo una questione di quantità. La nostra è una società sempre più avida di apparenze, bulimica di glamour fine a se stesso.
Il lavoro di Mirko Scarcella si può inserire in questo filone?
Probabilmente si, Gianluca Vacchi d’altra parte “è famoso per essere famoso”, non c’è alcun motivo preciso alla base della sua notorietà: ciò che ha, l’ha in buona parte ereditato. Nulla di male in questo, s’intende, ma da qui a crearne un’“icona” ce ne corre. Purtroppo in un periodo di crisi come questo, che forse solo ora stiamo molto lentamente lasciandoci alle spalle – non solo crisi economico-finanziaria, forse anche crisi morale, visti alcuni pessimi esempi che ci sono arrivati negli anni dal mondo della politica e dell’amministrazione pubblica – le persone hanno voglia sempre più di staccare la spina dal quotidiano e di rifugiarsi nel “banale che non impegna”. In questo, i balletti idioti di Vacchi in mutande sul suo yacht in qualche modo rispondono a un’esigenza diffusa, e non lo si può criminalizzare nel momento in cui lui dà a una parte degli utenti social esattamente quello che essi cercano. Ci si potrebbe interrogare se questo possa e debba essere un modello, come loro vorrebbero proporsi specie per le giovani generazioni: ma questo è un altro discorso, e ci porterebbe troppo lontano.

Tornando a chi su questa “icona” ci ha guadagnato: il modello di costruzione della reputazione digitale “un tanto al chilo” si rivela comunque vincente? Qualunque cosa, pur di raggiungere il risultato? È questo il senso della vostra professione?
A mio avviso, assolutamente no, e non solo per una ragione di “etica”. Vedi, nel lavoro del reputation manager si pone costantemente un tema, quello della distanza tra identità e immagine: quando questa distanza diverta eccessiva – push forte sull’immagine percepita, a prescindere dall’identità della persona – l’impalcatura scricchiola e rischia di crollare trascinando con se l’intero palazzo.
Non conosco personalmente Gianluca Vacchi, e non posso certamente valutare se, banalizzando, “ci fa e ci è”: però non possiamo non interrogarci su cosa rappresenta il mondo che lui porta in scena, quali valori richiama, e – infine – qual è l’obbiettivo che lui vuole raggiungere.
Se l’obiettivo è la notorietà fine a se stessa o l’accarezzamento dell’ego, la strategia di Scarcella è certamente vincente. Peccato che nessuno dei due elementi citati entri ad alcun titolo nell’equazione che determina la reputazione, che è altra cosa rispetto alla notorietà, alquanto più effimera. Sarà interessante in poche parole vedere cosa resterà di Vacchi tra cinque anni, se non saprà reinventarsi di basi ben più solide. Anche se detto tra noi il suo “posizionamento” è ormai abbastanza chiaro, e non sarà facile invertire la tendenza ed aggiungere contenuti in grado di qualificarlo e resistere all’usura del tempo.
Scarcella ha recentemente dichiarato che vorrebbe lavorare per Donald Trump, pare sia uno dei suoi idoli, insieme a Sylvester Stallone.
Non mi risulta difficile crederlo. Uno dei miei idoli invece, se posso dirlo, è José Pepe Mujica, l’ex presidente dell’Uruguay, che ha dato lezioni al mondo sulla necessità di ritrovare un modello di vita “sostenibile” e rispettoso dell’ambiente. Ha una reputazione globale semplicemente straordinaria, e neanche un follower, in quanto da ciò che mi risulta non è presente – personalmente – sulle piattaforme Social, salvo per qualche fan-page a Lui dedicata. Anche se tutto ciò per Scarcella risulterà, immagino, incomprensibile, questa è una storia di reputation pazzesca. Ecco, per lui si che mi piacerebbe lavorare: anche gratis.




Monsanto papers, lo scandalo degli scienziati pagati per assolvere il glifosato

Il termine tecnico è ghostwriting. Ovvero scrivere un testo per qualcun altro che mette in calce la sua firma. Solo che quando un scienziato affermato firma un articolo preparato da una multinazionale come la Monsanto in cui si assolve il glifosato dall’accusa, sostenuta Iacr dell’Oms, di essere “probabile cancerogeno”, è difficile non parlare di “scienza comprata” per difendere, oltre l’evidenza, una sostanza capace di provocare tumori. E di scienziati e ricercatori a libro paga della Monsanto il quotidiano francese Le Monde ne ha “scovati” molto come testimonia il secondo capitolo dello scandalo Monsanto papers pubblicato a metà ottobre in Francia e al quale il settimanale Internazionale dedica la nuova copertina.

Henry Miller e gli editoriali “suggeriti” su Forbes

La lista dei “prestanomi” della Monsanto è lunga e, secondo le carte emerse, è nell’inverno 2015 che si intensifica la pressione del colosso biotech per “coinvolgere” scienziati e ricercatori. A febbraio i vertici della Monsanto sanno che la Iarc sta per concludere il suo studio sul glifosato e il 20 marzo l’Agenzia dell’Oms per la ricerca sul cancro definisce il principio attivo dell’erbicida più diffuso al mondo, il RoundUpgenotossico , cancerogeno per gli animali e “probabile cancerogeno” per l’uomo.
Per i vertici della multinazionale è il momento di reagire, intervenendo sull’opinione pubblica attraverso articoli confezionati e fatti firmare da esperti. La lista dei prestanome sarebbe davvero lunga.
Succede, secondo quanto ricostruito da Le Monde, Henry Miller biologo associato alla Hoover Institution, editorialista del New York Times, del Wall Street Journal e della prestigiosa rivista Forbes, avrebbe firmato testi preparati dalla Monsanto e pubblicati su Forbes che, resasi conto del ghostwriting, ha ritirato tutti gli articoli del biologo statunitensi dal proprio sito e interrotto la pubblicazione.
Né Miller né la Hoover hanno voluto rispondere alle domande de Le Monde mentre la Monsanto ha minimizzato sostenendo “che alcuni suoi scienziati hanno fornito la versione iniziale (…) ma le opionioni espresse nell’articolo sono dell’autore”.

Le “collaborazioni”? Costano 250mila dollari

Sempre nel febbraio 2015 il resoponsabile Monsanto per la sicurezza dei prodotti William Heydensscrive ai colleghi per “coinvolgere esperti dei principali settori” in difesa del glifosato e stanzia 250mila dollari per “questa operazione” La Monsanto riesce, tramite uno studio di consulenza la Intertek, a coinvolgere 15 esperti, anche europei, che dovranno redigere degli articoli smentendo la tesi della Iarc. Alcune di queste posizioni vengono pubblicate nel settembre 2016 sulla rivista Critical Reviews in Toxicology e il tenore è univoco: nessun legame tra glifosato e tumore.

Il copia/incolla dell’Efsa

In tutto questo l’accusa più pesante è quella rivolta all’Efsa, l’Autorità per la sicurezza alimentare, “rea” di aver copiato di sana pianta dai documenti della Monsanto circa un centinario di pagine nelle quali si dimostra che il glifosato non è pericoloso per la salute umana. Ricordiamo che l’Efsa, contrariamente alla Iarc, non ha accertato rischi per la salute umana legati al discusso erbicida.
Dalle carte rivelate da Le Monde emerge però un altro episodio che vede di nuovo protagonista l’Authority con sede a Parma. L’Efsa, secondo Peter Clausing tossicologo tedesco legato all’ong Pan(Pesticide action network) avrebbe tenuto nascosto uno studio realizzato dalle aziende agrochimiche sui topi che confermava l’insorgenza di linfomi maligni nei ratti. Da parte sua l’Efsa si è difesa con il quotidiano francese: lo studio non è stato tenuto in considerazione perché i risultati, secondo quanto comunicato dall’Epa (l’Agenzia per l’ambiente Usa) alla stessa Efsa e da essa verificato, sarebbero stati condizionati da un infezione virale nei topi. Tuttavia, secondo Le Monde, non vi è traccia negli archiviEfsa della verifica da parte dell’Authority sulla segnalazione Epa.




A Londra c’è un negozio dove si paga con i dati personali

C’è un negozio che non accetta nessuna valuta o criptovaluta. Qui, potrete pagare solo cedendo i vostri dati personali. The Data Dollar Store è un negozio decisamente fuori dal comune, che ha aperto questa settimana nel cuore di Londra. Lo store è stato ideato e promosso dalla Kaspersky Lab, società di cybersecurity, che ha voluto lanciare una provocazione: ogni giorno, utenti più o meno ignari cedono i propri dati mentre consultano pagine web o guardano un video online; perché non permettergli di usare i propri dati per acquistare una t-shirt del loro cantante preferito?

La lunga fila di clienti che si è formata nella storica Old Street di Londra ha pazientemente ascoltato le regole curiose imposte dallo store per l’acquisto dei gadget disponibili: volete una tazza? Dateci tre screenshot delle vostre conversazioni Whatsapp o degli sms. Una maglietta invece è costata agli utenti le ultime tre foto scattate dalla videocamera del proprio smartphone. Per una stampa originale, i clienti hanno dovuto consegnare direttamente il proprio cellulare al negozio.

L’idea vuol essere una via di mezzo tra la provocazione e l’iniziativa originale, ma senz’altro permette di riflettere. Del resto, un’inchiesta pubblicata nel 2013 dal Financial Times permetteva di stabilire con esattezza il valore dei dati personali (potete calcolarli anche voi, cliccando qui): mediamente, nome, età, etnia, cap e livello di istruzione di 10mila persone diverse valgono 5.139 euro.

Il Data Dollar Store impedisce agli utenti di poter filtrare i dati che vengono offerti in cambio di uno dei gadget venduti (ossia, per esempio, l’utente deve cedere le ultime foto scattate dal proprio smartphone, a prescindere dal soggetto o dalla situazione contingente), ma ci sono progetti – anche italiani- che stanno puntando alla monetizzazione dei dati personali dell’utente, con un processo più flessibile e customizzato.
Tra i molti, figura anche la prima smart city che verrà realizzata a Segrate, per cui è stata progettata una piattaforma di gestione dei dati che, grazie alle revenues, permetterà di azzerare eventuali costi accessori per gli abitanti. L’obiettivo sarà accumulare quanti più dati possibili e sfruttare il loro crescente valore economico, perché questa resa sia poi a vantaggio dei produttori dei dati stessi: le persone potranno decidere quali dati personali eventualmente vendere (un esempio: sull’utilizzo dell’energia), in modo da poter far fronte a eventuali costi, come le spese condominiali.