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Il paradosso Twitter in Iran spiega perché i mullah sono così detestati

Le più vaste proteste dal 1979 avvolte dall’incertezza causa blocco internet. Ma il regime è tutto sui social proibiti. L’appello a Trump


Le proteste più ampie in Iran dal 1979, anno della rivoluzione khomeinista, sono arrivate all’ottavo giorno e non è chiaro se la loro forza è ormai scemata e si spegneranno in pochi giorni oppure se andranno avanti – a dispetto del fatto che il capo dei pasdaran, Ali Jafari, le abbia dichiarate “finite” due giorni fa.
Ieri circolavano ancora video molto freschi di proteste nelle strade e notizie in diretta di scontri con morti, ma è molto difficile avere un’immagine fedele di cosa sta succedendo davvero. In parte perché i reporter stranieri sono per ora concentrati nella capitale Teheran, molto risparmiata dai disordini, e non nelle piccole città molto religiose dove le rivolte sono scoppiate con più forza. Ma soprattutto perché le mille informazioni frammentarie rilanciate dai manifestanti circolano poco da quando il governo ha ristretto con successo internet nei primi giorni di proteste.
Whatsapp, Telegram e Instagram sono bloccati, e in più c’è la derisione amara di un servizio sulla tv di stato che intervistava iraniani felici di avere più tempo libero per fare altro ora che non sono più distratti da quei servizi. E’ possibile ancora accedere a social media e messaggi se si entra in internet attraverso una Vpn, quindi attraverso un programma che trucca l’indirizzo IP del computer e lo fa apparire come se fosse all’estero (e quindi non soggetto alle restrizioni), ma spesso il governo ordina di rallentare in modo deliberato la velocità di internet e quindi anche questo stratagemma delle Vpn funziona poco.
Gli iraniani da tempo non hanno Twitter, che fu bloccato durante le proteste dell’Onda verde del 2009, quasi dieci anni fa, dal governo dell’allora presidente Mahmoud Ahmadinejad, molto falco e conservatore. C’è dell’ironia, considerato che a marzo lo stesso Ahmadinejad ha aperto un proprio account su Twitter, come pure hanno fatto la Guida suprema Ali Khamenei, che ha quasi mezzo milione di follower e account in diversi linguaggi, e anche il presidente Hassan Rohani e il ministro degli Esteri Javad Zarif. Questi ultimi due su Twitter hanno anche la spunta blu, vale a dire un segno concesso dalla casa madre di San Francisco che certifica che sono proprio loro. La spunta blu negli anni è cominciata a essere considerata come l’equivalente di un endorsement da parte di Twitter, come se il sito riconoscesse l’importanza e il rango dell’account. In questo modo, Twitter concede un attestato di legittimità ai leader di un governo che in teoria impedisce a tutti gli ottanta milioni di iraniani ordinari di usare Twitter. L’apparato di repressione iraniano è consapevole che il blocco può essere aggirato, al punto che Tasnim, il sito del giornale delle Guardie della rivoluzione, sta chiedendo a tutti i suoi lettori di identificare i manifestanti per arrestarli – e lo sta chiedendo anche mostrando le loro foto via Twitter, come riporta la giornalista Golnaz Esfandiari. Da strumento di libertà a facilitatore della reazione governativa.
Il paradosso di Twitter è una rappresentazione interessante della crisi iraniana: gli iraniani protestano perché non hanno gli stessi privilegi dei leader, e si tratta di privilegi in stile occidentale. Il 2 gennaio un bella testimonianza del romanziere e giornalista iraniano Amir Ahmadi Arian sul New York Times spiegava che a gonfiare l’ira del ceto meno abbiente c’è il cambio di stile della classe più fortunata del paese, che un tempo si riparava dietro a una facciata di sobrietà pubblica e che oggi invece lascia che i suoi rampolli viziati girino in auto di lusso e mettano su internet foto di spiagge lontane dove si beve birra senza problemi.
Ieri su alcuni canali Telegram creati dagli arrabbiati iraniani circolava un appello all’Amministrazione Trump perché in qualche modo desse accesso libero a internet a tutti gli iraniani. Si tratta di una boutade, perché il governo americano non ha i mezzi tecnici per liberare l’accesso a internet e scavalcare il controllo di Teheran, ma è anche un punto centrale di queste proteste che, anche in caso di fallimento, hanno già cambiato il paese.




Newsbrand: Reputazione, Community & la “Facebook Apocalypse”

A pochi giorni dall’annuncio dell’aggiornamento del news feed del social più popoloso del pianeta che fa tremare newsbrand, e brand, di tutto il mondo arriva la seconda mazzata ed è, se possibile, ancor peggio della prima, anche se in questo caso vede coinvolti solamente i publisher.
«La scorsa settimana ho annunciato un cambiamento importante nel news feed», ha scritto Zuckerberg il 19 Gennaio in un post pubblicato sulla sua pagina Facebook e poi ripreso da Adam Mosseri, Head of News Feed, che successivamente ha twittato alcune precisazioni, spiegando che «Ogni utente vedrà meno contenuti pubblici, tra cui notizie, video e post pubblicati dalle aziende.
Dopo questo cambiamento, prevediamo che le notizie rappresenteranno circa il 4% dei contenuti, rispetto a circa il 5% di oggi». Proseguendo, «Tra i sondaggi sulla qualità del nostro servizio, chiederemo alle persone se conoscono una certa fonte giornalistica [un sito, un giornale, una tv] e  se si fidano di quel media. Crediamo infatti che alcune testate giornalistiche abbiano fiducia soprattutto dai propri lettori, mentre altre siano invece riconosciute come testate autorevoli anche da chi non le segue direttamente».
Incrociando le risposte degli utenti quindi, il social deciderà quali testate avranno priorità nel feed, quali no. Dando così priorità alla diffusione della fiducia che ha un media, piuttosto che alla sola credibilità dei suoi fan. Zuckerberg quindi in buona sostanza ha deciso di affidare ad ognuno dei circa due miliardi di utenti mensili del suo social di stilare la propria personale classifica su quali siano le fonti attendibili dell’informazione, quelle a cui credere, quelle che hanno sufficiente autorevolezza per comparire sulle bacheche.
Al riguardo Massimo Russo, Managing Director, Digital Division GEDI e Ceo HuffPostItalia, ha scritto: «Vi prego, qualcuno dica a Mark che la folla è quella che, messa di fronte alla scelta da Ponzio Pilato, decise compatta di liberare Barabba #nonimpariamonulla?», e le reazioni a livello internazionale non si sono fatte attendere, dalle più “colorite” di Gizmodo agli interrogativi di The Atlantic, passando per  i richiami al grande fratello di Forbes, i dubbi, diciamo, di Slate e molto altro ancora, con Emily Bell che solleva il dubbio, non peregrino, anche se smentito, che ci sia anche un fine commerciale dietro la mossa di Facebook, e fornisce tre buoni suggerimenti all’Head of News Feed Mosseri su trasparenza e autorevolezza.

 
La questione è estremamente complessa ed articolata e coinvolge più aspetti che vale la pena di esaminare in dettaglio.
Se infatti teoricamente sarebbe meraviglioso concettualmente affidare direttamente alle persone la valutazione dell’affidabilità dei media, compiendo così finalmente un percorso di “democrazia dal basso”, non è per nulla certa la capacità di giudizio e di discernere sull’affidabilità delle fonti, sia per il ben noto fenomeno del “confirmation bias” che per limiti culturali, diciamo, che del resto sono proprio quelli che contribuiscono alla diffusione delle “fake news”.
Se a questo di aggiunge che i criteri relativi ai valori della sezione notizie di Facebook sono ampiamente discutibili a cominciare dal fatto che «la sezione notizie deve essere divertente» secondo Facebook. Aspetto che, a prescindere da tutte le altre considerazioni possibili al riguardo, è talmente soggettivo da non renderlo un parametro di valore. Si capisce come vi sia una profonda distanza tra quelli che sono, o dovrebbero essere, i criteri giornalistici e l’interpretazione che Facebook ne fa nel suo dorato walled garden.
È chiaro che Facebook è nel panico, terrorizzato da accuse e sanzioni per la diffusione di “fake news” e reagisce in maniera assolutamente inadeguata con un sistema che sembra «terribilmente semplicistico e ingenuo» ma questa è solo una parte della questione.
timori e le accuse a Facebook da parte dei media all’annuncio di Facebook sono da inquadrarsi in un utilizzo dei social, ed in particolare di Facebook, come “discarica di link”, come abbiamo evidenziato a più riprese nel tempo in questi spazi, utilizzando il social più popoloso del pianeta come canale di distribuzione con il solo obiettivo di dragare traffico da questo. Non vi è stata praticamente nessuna attenzione alla gestione della reputazione e dell’immagine dei newsbrand. Altrettanto non vi è stata nel complesso nessuna attenzione alla creazione ed alla gestione delle community come con grande onestà intellettuale finalmente qualcuno inizia ad ammettere a fronte della “facebook apocalypse”. Non a caso dopo l’annuncio di Facebook le quotazioni in borsa del NYTimes sono “schizzate” verso l’alto proprio per la superiorità del quotidiano statunitense in quest’ambito.
Il Trust Barometer di Edelman nell’edizione 2018, appena pubblicato, dedica ampio spazio alla questione della fiducia e dell’autorevolezza dei media con approfondimenti specifici anche al tema delle “fake news”,

Dal rapporto emerge come vi sia una una generale polarizzazione della fiducia, con l’Italia tra le nazioni in cui maggiore è il calo di fiducia. Fiducia che per quanto riguarda in maniera specifica i media, seppur maggiore rispetto a quella riposta nelle piattaforme social, è ai minimi termini con la popolazione di 22 delle 28 nazioni oggetto dell’indagine, italia inclusa ancora una volta, che mette i media tra le organizzazioni nelle quali meno fiducia ripone.
Soprattutto, emerge come sia il concetto di media ad essere mutato completamente, con l’ecosistema dell’informazione che è fatto sempre più non solo dai legacy media ma anche dalle piattaforme social, dagli “influencer”, e da molto altro ancora.
Inoltre, si evidenzia come la metà degli intervistati siano “disingaged”, non coinvolti, rispetto alle news con un consumo informativo inferiore ad una volta alla settimana, e due terzi che ritengono che i publisher siano maggiormente interessati ad attrarre a loro la maggior porzione possibile di audience piuttosto che a svolgere una corretta informazione, sacrificando l’accuratezza in nome della velocità e/o per favorire una determinata tesi politica.
Ed ancora, il report evidenzia come il 63% delle persone non sia in grado di distinguere il “buon giornalismo” da falsità e cattiva informazione, e per il 59% degli individui è sempre più difficile dire se se l’informazione è prodotta da un media degno di rispetto. Elemento che smonta definitivamente, in caso di dubbi, l’ipotesi di lavoro di Facebook.

È insomma evidente che il lavoro svolto, sia in termini prettamente giornalistici che in specifico riferimento alla [non] gestione dei social da parte dei publisher è fallimentare.
Sta a loro, a noi, cambiare rotta e invertire, hic et nunc, la tendenza cambiando diametralmente l’approccio sia a livello di contenuti che, soprattutto, di coinvolgimento delle persone. Le fanpage perderanno sempre più di rilevanza e questo, per quanto preoccupante nel breve periodo, è un bene. Cessiamo una volta per tutte l’attuale approccio basato sui click e mettiamo al centro le persone. Usciamo dalle nostre “paginette” ed entriamo in relazione veramente con le persone. Qualunque community vive di informazioni senza le quali implode, svanisce. Entriamo nelle communities, nei gruppi [non solo su Facebook, eh!] e forniamo loro notizie, informazioni, argomenti di loro interesse. Stabiliamo veramente una volta per tutte una relazione e creiamo spazi di confronto e discussione nei siti web per valorizzarla. Credo davvero non ci sia altra scelta.

 




La Fabbrica dei Follower — AKA Influencer Marketing de Noantri

Una società americana di nome Devumi ha raccolto milioni di dollari in un oscuro mercato globale per frodi sui social media. Devumi vende seguaci di Twitter e retweet a celebrità, aziende e chiunque desideri apparire più popolare o esercitare un’influenza online.

Basandosi su uno stock stimato di almeno 3.5 milioni di account automatizzati, ciascuno venduto più volte, la società ha fornito ai clienti più di 200 milioni di follower su Twitter, secondo quanto rilevato da un’indagine del New York Times, che bisogna assolutamente leggere sia per il contenuto che per vedere cosa e come produrre contenuti di elevatissima qualità.
Almeno 55.000 account utilizzano nomi, immagini del profilo, città d’origine e altri dettagli personali dei veri utenti di Twitter, compresi i minori, secondo l’analisi dei dati da parte del Times. Secondo alcuni calcoli, ben 48 milioni di utenti attivi segnalati da Twitter — circa il 15% — sono account automatici progettati per simulare persone reali, sebbene la società sostenga che il numero è molto più basso.
A novembre 2017, Facebook ha rivelato agli investitori di avere almeno il doppio degli utenti falsi rispetto a quelli stimati in precedenza, indicando che fino a 60 milioni di account automatici possono effettuare il roaming sulla più grande piattaforma di social media del mondo.
Questi account falsi, noti come bot, possono aiutare a influenzare il pubblico della pubblicità e rimodellare i dibattiti politici. Possono frodare le imprese e rovinare la reputazione. Eppure la loro creazione e vendita cadono in una zona grigia legale. Il Times ha esaminato gli archivi aziendali e giudiziari che mostrano che Devumi ha più di 200.000 clienti, tra cui star della televisione, atleti professionisti, comici, oratori TED, e persino pastori, sacerdoti, e modelle.
Nella maggior parte dei casi, i documenti mostrano che molte “celebrities” hanno acquistato i propri follower e fan. In altri, i loro dipendenti, agenti, società di pubbliche relazioni, familiari o amici hanno effettuato l’acquisto. Per pochi centesimi ciascuno — a volte anche di meno — Devumi offre follower di Twitter, visualizzazioni su YouTube, riproduzioni su SoundCloud, il sito di hosting musicale e convalide su LinkedIn.
Ed ancora, secondo i dati raccolti da Captiv8, una società che collega influencer ai brand, un influencer con 100mila follower potrebbe guadagnare in media $ 2.000 per un tweet promozionale, mentre un influencer con un milione di follower potrebbe guadagnare 20mila dollari.
«Allineandosi agli influencer, i marchi ricevono una forma di validazione peer-to-peer e riuscire là dove il marketing tradizionale spesso fallisce», spiega Brian Solis, tra le massime autorità a livello internazionale sul tema. Frase che già  la dice lunga sull’inutilità delle celebrities al riguardo. Adesso abbiamo le prove di quanto questo sia vero e a breve pubblicheremo un’analisi ad hoc sull’Italia certi che anche in questo caso non mancheranno le sorprese.
Per evitare l’influencer marketing de noantri valutate, valutiamo, sempre la qualità e non solo la quantità, come avviene prevalentemente, di follower e fan.




L’immobiliare Gabetti sfotte Giorgia Meloni: sulla pubblicità una coppia lesbica!

Il franchising pubblica su Facebook il confronto con “la famiglia tradizionale”


La campagna elettorale in corso per le Politiche del prossimo marzo non smette di regalarci riso amaro, ma meno male che Gabetti c’è.
Avevamo già espresso disappunto verso la quasi totale assenza di temi LGBT nei programmi dei partiti, poi i manifesti di Giorgia Meloni ci hanno ricordato che per il centrodestra l’unica famiglia è quella tradizionale. Ebbene sì, a difendere la famiglia tradizionale con la leader di Fratelli d’Italia ci saranno Matteo Salvini e Silvio Berlusconi.
Berlusconi, Meloni e Salvini
A scanso di equivoci, chi fra loro rappresenta meglio la famiglia tradizionale?

      • convivente, una figlia fuori dal matrimonio;
      • divorziato, un figlio dalla prima moglie e una da un’ex-convivente, attualmente convivente
      • due divorzi (due figli dalla prima, tre dalla seconda), rapporti con una prostituta minorenne, protagonista delle “cene eleganti”.

Che cosa fantastica la coerenza fra pubblico e privato nella politica italiana. A regalarci una gioia è però giunta l’immobiliare Gabetti.

Gabetti vs. Giorgia Meloni

Gabetti. E sei già a casa” recita lo slogan pubblicitario. Sui manifesti campeggia una coppia di donne innamorate. Il caso vuole che qualcuno passi davanti ad un cartellone dell’agenzia immobiliare posizionato in modo involontariamente strategico. Sullo sfondo si nota infatti il manifesto elettorale di Giorgia Meloni. “Difendi la famiglia tradizionale“. Verrebbe da commentare: difendete sul serio la famiglia tradizionale, ma da chi la strumentalizza per diffondere odio e ignoranza.
Giorgia Meloni vs immobiliare Gabetti
Lo scatto fotografico è stato inviato all’agenzia, che non ha resistito alla tentazione di pubblicare un commento sulla propria pagina Facebook.

Casa è trovarsi con la persona giusta (chiunque essa sia) quando pianifichi la tua vita o nei piccoli gesti di quotidianità.

Non troviamo per nulla scontato, in un Paese come il nostro, che un franchising nazionale decida di esporsi in favore di *tutte* le famiglieTanti applausi a tutte quelle aziende che decidono di schierarsi pubblicamente sul lato giusto della storia!

Vladimir Luxuria e Giorgia Meloni, scoppia la pace su Facebook




Shike, il bike sharing senza stazioni cerca finanziatori per il “lucchetto smart”

Al giorno d’oggi, nonostante la vastità della proposta, le alternative all’uso dell’automobile per muoversi all’interno di città di dimensioni medio-grandi spesso sono ancora un po’”macchinose” e quindi poco accessibili da parte dei fruitori, alla ricerca di mezzi puntuali, rapidi, ecologici e facilmente accessibili (in termine di prenotazione, utilizzo e diffusione).
Shike, progetto lanciato da Mug Studio di Parma, intende promuovere nuove forme di mobilità sostenibile e facilitare l’accesso ai servizi di bike sharing, permettendo la condivisione della propria bicicletta senza stazioni o infrastrutture.
Nonostante l’assenza del servizio in molti comuni italiani, i dati del 2016 dimostrano infatti che esiste un mercato florido, con oltre 200 città nelle quali è attivo un servizio di bike sharing e dove vivono circa 13 milioni di italiani, il 18% del totale.
“Shike” si inserisce in questo mercato e ne crea uno nuovo, rivoluzionando i classici servizi di bike sharing: grazie ad un innovativo lucchetto “smart”con GPS e sensori ambientali integrati, Shike elimina le stazioni di parcheggio permettendo nuovi modelli di condivisione del proprio veicolo e gettando le premesse per la creazione del più esteso servizio di bike sharing sul mercato. I sensori integrati nel sistema permettono inoltre di raccogliere dati ambientali e valutare la CO2​ ​ risparmiata, incentivando così comportamenti virtuosi.
I beneficiari del servizio sono i privati cittadini, sia quelli che utilizzano la bicicletta per spostamenti quotidiani (come ad esempio studenti, lavoratori, ecc.) sia quelli che la utilizzano solo in modo saltuario. Parallelamente la startup intende avviare collaborazioni con enti pubblici e società private (quali, ad esempio, realtà che si occupano di turismo sostenibile e territoriale).
Attualmente la startup sta attivando partnership con diversi produttori di biciclette italiani con i quali far partire un progetto pilota in almeno una città di media popolazione italiana. Al contempo sta contattando diverse realtà del territorio, sia in campo elettronico che in campo meccanico, per cercare di sviluppare e brevettare il lucchetto “smart” proprietario.
Mug Studio è una realtà giovanissima che nasce a Parma a novembre 2016 dalla volontà di due neo-laureati di concretizzare e portare in vita le diverse idee concepite e perfezionate durante gli anni universitari. Andrea Tommei, background di studi economico, e Andrea Cantore, informatico, fondano uno Startup Studiouna sorta di “incubatore di sogni e di idee” che prova a trasformare i diversi progetti in realtà. Il primo di questi loro progetti è anche quello che gli sta più a cuore: un servizio di mobilità condivisa e sostenibile, che possa permettere a ogni cittadino del mondo di spostarsi in bicicletta nel modo più semplice e comodo possibile.
A metà settembre 2017 il progetto Shike approda sulla piattaforma italiana di crowdfunding Eppela e viene selezionato dalla call di Nastro Azzurro: se il progetto raggiungerà il traguardo, ovvero riceverà i 5.000 euro di finanziamento richiesti dai suoi due creatori, Nastro Azzurro finanzierà il progetto andando ad aggiungere a sua volta altri 5.000 euro