1

La cyber-guerra fredda, i russi e la propaganda occidentale

In questi mesi di cyber-guerra fredda, la Russia è tornata di moda in Occidente come nemico pubblico numero uno, il capro espiatorio di tutti i mali. La Brexit? Colpa dei russi. Trump vince le elezioni? Ingerenza russa. La Catalogna vuole l’indipendenza? Dannati russi! Elezioni in Italia? Complotto russo in arrivo.
Come accadeva prima della caduta del muro, anche le analisi più accurate vengono confezionate con la carta della propaganda prima di essere consegnate all’opinione pubblica: bot, hacker, troll, un esercito di cosacchi che minaccia la nostra libertà usando i social network.
Intervistato da Valigia Blu, il giornalista investigativo russo Andrei Soldatov, autore del libro “The Red Web: The Kremlin’s Wars on the Internet” e cofondatore e direttore di Agentura.ru, sito che monitora le attività dei servizi segreti russi, commenta la situazione in questo modo: «Sai, è sempre meglio avere un nemico comune, che sia un paese (la Russia in questi giorni) o una tecnologia (i social media con i loro meccanismi non trasparenti di promozione e distribuzione delle notizie e dei post). Credo che ogni caso dovrebbe essere studiato con molta attenzione e bisognerebbe distinguere tra i tentativi documentati di influenzare i risultati elettorali e l’impatto che questi hanno realmente avuto».
Eppure, un discorso serio e documentato sull’impatto del caos informativo online non sembra interessare ai governi o ai partiti. E nemmeno ai giornali. Sui media si fa largo, piuttosto, la narrazione di un piano orchestrato dallo Stato russo per destabilizzare le democrazie occidentali e una sorta di chiamata alle armi contro Internet e contro il populismo. Soldatov ci mette in guardia: «Abbiamo a che fare con due problemi: il primo è il tentativo del Cremlino di manipolare i social media in Occidente, che è ben documentato; il secondo è l’impatto reale di queste attività, su questo io sono un po’ più scettico. Sono convinto, per esempio, che Donald Trump si trovi nella Casa Bianca per alcune ragioni molto serie che hanno origine negli Stati Uniti, non all’estero. Quello che Mosca ha provato a fare è sfruttare problemi propri della società Occidentale, come la profonda perdita di fiducia nelle istituzioni».
La vittoria della propaganda russa, per certi versi, sta proprio nell’aver fatto credere che con una campagna su Facebook di soli 100mila dollari sia stata in grado di influenzare il risultato delle elezioni americane – dice Patrick Ruffini, co-fondatore di Echelon Insights, al Washington Post – ma non è così. Chi cerca spiegazioni a quello che è successo in America non dovrebbe cedere alla tentazione di attribuire ai russi un potere che non hanno.
«L’immagine della Russia di Putin costruita dell’Occidente e, soprattutto, dai media americani negli ultimi 18 mesi sciocca persino il lettore più anti-Putin qui da noi», scrive Oleg V. Kashin, un giornalista russo critico con il Cremlino, sul sito di notizie Republic. I media hanno creato una rappresentazione distorta della Russia, presentando imprese opportuniste e affaristi privati che non hanno niente a che fare con il Governo come agenti segreti agli ordini di Putin. In molti casi si tratta semplicemente di imprese russe che vendono servizi di propaganda e caos informativo online al miglior offerente, in qualsiasi parte del mondo.
Intervistato dal direttore di Repubblica Mario Calabresi, il Presidente spagnolo Mariano Rajoy ha affermato che il 55% del traffico sui social network sulla questione catalana proveniva dalla Russia, il 30% dal Venezuela e che solo il 3% dei profili che hanno partecipato alla conversazione online su questo argomento corrispondono a persone reali. Un dato allarmante, che comunque non ci dice nulla sull’impatto di queste azioni, e che per fortuna non trova alcun riscontro nella realtà. E alla fine risulta essere propaganda governativa old school a mezzo stampa.
Rajoy non è l’unico ad aver colto la palla al balzo, anche in Italia c’è chi sembra voler impostare tutta la campagna elettorale sulle famigerate “fake news”, sfruttando la cassa di risonanza acritica offerta dai media mainstream, con tanto di “fake-legge” sbandierata sui palchi (e poi parzialmente smentita).
Introdurre nei nostri ordinamenti giuridici uno strumento di controllo e censura allo scopo di stabilire la veridicità delle informazioni (conosciuto anche come: “proteggere i cittadini dalle fake news”) e, allo stesso tempo, tutelare la libertà di espressione e di informazione è un controsenso. Una strada molto rischiosa per una democrazia. «È una forma di pensare molto russa – commenta Soldatov – stiamo iniziando a parlare il linguaggio del Cremlino, che tratta l’informazione come un’arma. Come giornalista, non posso sentirmi a mio agio con questa deriva».
La propaganda estera russa esiste (basta pensare alla pervasività di canali come Russia Today o Sputnik), ma non è una novità, né tantomeno uno spettro che si aggira tra gli account anonimi di Facebook. «Ci sono stati tentativi di influenzare i processi elettorali in Europa già prima del 2016, ma usando metodi diversi, più tradizionali», precisa Soldatov.
Come scrive Fabio Chiusi su L’Espresso: «Non è solo un problema russo, oggi, o cinese, domani; per i 100 mila dollari spesi su Facebook dai troll del Cremlino, ci sono gli 81 milioni investiti da Clinton e Trump». Nello stesso articolo è riportata una dichiarazione di Cristian Vaccari, docente alla Royal Holloway di Londra, che ricorda che buona parte della propaganda non giunge dai social network: «La quantità di messaggi di disinformazione e propaganda che ha raggiunto la popolazione americana nel 2016, ancorché elevata in valore assoluto, è molto bassa se confrontata con la mole enorme di contenuti generati dai mass media e dai candidati stessi».

La propaganda “innocua” che piace a noi

Come ha fatto notare eldiario.es in un reportage pubblicato la scorsa settimana, la maggior parte della propaganda russa avviene alla luce del sole. La gazzetta ufficiale del Governo russo, Rossijskaja Gazeta, sede della pubblicazione di tutte le leggi e decreti emessi dalle istituzioni statali, finanzia da anni un inserto cartaceo e online di propaganda economica, commerciale, politica e culturale, pubblicato in 26 paesi, tradotto in 16 lingue, grazie ad accordi con molti dei quotidiani internazionali che oggi seminano allarmismo rispetto alla famigerata ingerenza russa negli Stati Uniti e in Europa.
In Italia l’inserto di Rossijskaja Gazeta è stato distribuito dal 2010 al 2015 da Repubblica, inizialmente con il nome “Russia Oggi” e successivamente come “Russia Beyond the Headlines” (RBHT).
Il supplemento, che nel resto del mondo è conosciuto come Russia Beyond the Headlines, è stato pubblicato negli ultimi anni da giornali del calibro di: New York Times, Washington Post, Wall Street Journal, La Repubblica, Le Figaro, Süddeutsche Zeitung o El Pais (fino al 2016, come precisa eldiario.es nel suo articolo).
Si tratta a tutti gli effetti di un contenuto sponsorizzato, pubblicato senza alcun controllo da parte della redazione del giornale, che include informazioni economiche, politiche, culturali e sociali sulla Russia e la sua relazione con il resto del mondo. Per la pubblicazione e distribuzione, la testata ospitante riceve una compensazione dallo Stato russo.
Come possiamo leggere in una nota al margine pubblicata nel 2014, La Repubblica declina qualunque responsabilità rispetto ai contenuti:

Russia Beyond the Headlines è finanziato dal quotidiano russo Rossijskaja Gazeta. Questo inserto è stato realizzato senza la partecipazione dei giornalisti e dei redattori de La Repubblica. ‘Russia Beyond the Headlines’ è finanziato dai proventi dell’attività pubblicitaria e dagli sponsor commerciali, così come da mezzi di enti russi.

La grande ironia di tutto questo è che, presi dalla smania di scovare propaganda russa sui social media, molti giornali si sono scordati di essere stati essi stessi organi di propaganda pagati dal Governo russo. Russia Beyond the Headlines, infatti, condivide la stessa fonte di finanziazione di siti come Russia Today o Sputnik: il Cremlino, che finanzia una rete informativa nazionale e internazionale attraverso il suo organo ufficiale Rossíyskaya Gazeta, fondata nel 1990 dal Soviet Supremo, che funziona sia come gazzetta ufficiale dello Stato che come organo di stampa governativo.
Certo, non si tratta di un inserto nato con lo scopo di diffondere notizie false, i suoi contenuti sono più simili a comunicati stampa di tipo politico-economico con un orientamento filo-russo. Niente di scandaloso. Abbiamo chiesto ad Andrei Soldatov se un inserto di questo tipo possa essere considerato propaganda. «È un discorso molto delicato. C’è chi parte dal presupposto che Russia Today stia producendo “fake news” aggressive, mentre il supplemento a cui fai riferimento produce contenuti tradizionali, quindi è visto come innocuo. Ma ragionando in questo modo ci stiamo limitando a giudicare la pubblicazione in base al contenuto che pubblica, ed è un approccio molto discutibile. Se invece parliamo dei finanziatori, ovviamente l’inserto Russia Beyond the Headlines è la stessa propaganda di Russia Today, perché è finanziato dal Governo russo».
La sfida più grande per la nostra società sarà capire come affrontare il disordine informativo senza rinunciare a valori fondamentali come la libertà di espressione e la libera circolazione dell’informazione stessa. Non abbiamo bisogno di un capro espiatorio. Non ci servono crociate populiste contro Internet. Seminare allarmismo ogni volta che viene scoperta una manciata di account falsi o che viene pubblicato un meme diffamatorio può essere funzionale alla propaganda nostrana, ma di certo non aiuta a migliorare l’ecosistema informativo.




TESI DI LAUREA: Effetti della crisi sulla reputazione del brand: il caso Monte Paschi di Siena

Università degli studi di Udine
Corso di Laurea magistrale in Comunicazione integrata per le Imprese e le Organizzazioni. Anno Accademico 2016/17

Effetti della crisi sulla reputazione del brand: il caso Monte Paschi di Siena

Tesi di Yvette Nina e Yowo Enomana – Relatore Prof. Renata Kodilja

A questo link, il testo integrale della Tesi (163 pagine), qui di seguito, il testo dell’Introduzione della tesi:


INTRODUZIONE

Il tema della reputazione aziendale ha suscitato negli ultimi anni un notevole e crescente interesse da parte delle imprese, degli istituti di ricerca, delle società di consulenza e dei mass media, in concomitanza con una generalizzata tendenza alla perdita di fiducia da parte dei cittadini (ancor prima che dei consumatori) e alla corrispondente crisi di credibilità delle imprese e delle istituzioni, resa particolarmente intensa con il sorgere e il perdurare della crisi economica.

La corporate reputation è diventata pertanto oggetto di attente analisi, ma l’ampia diffusione del dibattito che ne è scaturito ha talvolta condotto a perdere di vista il rigoroso fondamento economico sottostante al concetto di reputazione, con il rischio di tradurlo in un luogo comune stereotipato e lontano dal suo reale significato. Una reputazione aziendale credibile e sostenibile – quella che farà guadagnare a un’organizzazione di profitti la fiducia e il sostegno degli stakeholder – è quindi determinata, più dalle attività di creazione della reputazione come attività di relazioni pubbliche e identità visive per presentarsi favorevolmente agli stakeholder. Il punto chiave, tuttavia, è che non è solo l’autenticità e la coerenza nel comportamento e nell’imagine che è importante, ma piuttosto le caratteristiche intrinseche dell’identità dell’organizzazione, basate su valori etici e regole normative (Argandoña, 2008: 438) nelle quali gli stakeholder si possono identificare (Casson & Della Giusta, 2006: 346; Li & Betts, 2004: 7; McEvily et al., 2008: 559).

Per poter interpretare correttamente i risultati delle ricerche e partecipare consapevolmente al dibattito che si è ampiamente esteso, arrivando a coinvolgere tematiche quali l’impatto dei mass media (media reputation) e, più recentemente, dei social media (social media reputation) occorre fare una pausa di riflessione e ritornare ai fondamentali.

Il primo capitolo del nostro elaborato è dedicato alla definizione della marca, proseguendo attraverso il suo ruolo e le sue funzioni. In seguito vengono analizzate le dinamiche che sottostanno alla formazione del valore della marca.

Il capitolo successivo tratta in maniera approfondita il concetto di brand equity. Inizialmente si parte esponendo il punto di vista della letteratura sul valore della marca, attraverso un approfondimento dei temi legati alla qualità percepita, la notorietà del nome, la fedeltà alla marca, le risorse della marca e altri valori associati a essa. Poi viene presentato il valore della marca dal punto di vista del consumatore e il legame di marca attraverso il modello Customer Based Brand Equity elaborato da Keller (1993). Si analizzano successivamente i vari livelli della piramide della fedeltà alla marca di Keller, che sono la prominenza del brand, la performance, i giudizi, le sensazioni sul brand e la risonanza.

Il terzo capitolo si concentra sull’immagine della marca presentando le associazioni di marca e le dimensioni dell’immagine di marca che trattano i concetti di marca come prodotto, marca come organizzazione, marca come persona e marca come simbolo.

Nel quarto capitolo iniziamo a parlare di reputazione. Abbiamo scelto di dividere questo capitolo in due parti.

La prima parte è riservata alla corporate reputation che abbiamo studiato attraverso gli aspetti sociali della reputazione, i fondamenti teorici che ci hanno dato una lettura della reputazione secondo la letteratura, partendo dalla definizione del Reputation Institute. Partendo da qui abbiamo introdotto approcci di varie discipline sociali che però convergono nella loro enfasi sulla reputazione aziendale. Lo studio dei concetti d’identità, immagine e reputazione si svilupperà attraverso le teorie di Fombrun e Van Riel (1997), che hanno infatti riassunto l’immagine e l’identità all’interno della reputazione. In seguito viene analizzato la reputazione nelle organizzazioni, poi le dimensioni della reputazione che sono i prodotti e servizi, l’innovazione, l’ambiente di lavoro, la governance, il paese di origine, la leadership e la performance. La gestione della reputazione appare allora un punto fondamentale e lo dimostriamo esponendo i vantaggi di una buona reputazione, il rischio reputazionale e il concetto di crisi aziendale che verrà approfondito in un secondo momento. Qui introduciamo l’importanza della reputazione per le organizzazioni in generale e per gli istituti bancari in particolare, che sono più esposti al rischio reputazionale.

La seconda parte si concentrerà sulla gestione della crisi. Partendo dalla definizione del concetto di crisi, ci si arriva alla relazione che esiste tra essa, la fiducia e la reputazione. Si conclude con la gestione della crisi e la tutela della reputazione. Il quinto capitolo tratta di reputazione nel settore bancario in generale e in quello italiano in particolare, attraverso un’analisi dei risultati del RepTrak® 2016 per il settore bancario e finanziario. Proseguiremo con i giudizi degli italiani sulle banche e la perdita di fiducia in queste.

L’ultimo capitolo del nostro elaborato si concentrerà sulla crisi della banca Monte dei Paschi di Siena e i suoi effetti sulla sua reputazione. Inizieremo il capitolo con la storia e l’evoluzione della banca, e lo scandalo che ha portato alla crisi la banca più antica del mondo.

Concluderemo il nostro elaborato con la presentazione dei risultati della nostra ricerca empirica sullo stato della banca oggi, dal punto di vista di esperti del mondo della finanza, e di dinamiche di corporate reputation.




La nuova tv. Già a tre anni i bambini pazzi per YouTube. Ecco i rischi

Tablet e cellulare spopolano fra i bambini per guardare cartoni e clip musicali. L’80% dei ragazzini usa YouTube già a tre anni. Per i colossi del web è un business. L’allarme dei pediatri

A tre o quattro anni lo schermo che li attrae non ha soltanto la forma del televisore. Ben più pratico e seducente è quello del cellulare dei genitori o del comodo tablet. Non serve neppure conoscere i numeri che compaiono sul telecomando per trovare il canale giusto, in cui vanno in onda i programmi preferiti. Basta sfiorare con le dita il touchscreen e il gioco è fatto: cartoni animati a getto continuo, giocattoli presentati meglio che in un grande magazzino, canzoncine da ascoltare nel salotto di casa. È già una realtà anche in Italia la “generazione YouTube”. La formano i bambini con meno dieci anni, racchiusi nella fascia d’età che va dall’asilo alla scuola primaria, fra cui spopola la nota piattaforma di video via Internet. Vedere un cartoon o un format sul tablet e sul telefonico fa ormai parte del loro quotidiano e hanno una familiarità straordinaria con i device e le App. Certo non hanno abbandonato la vecchia, cara televisione. Continuano a guardarla (i canali per ragazzi non hanno avuto flessioni di ascolti) ma la affiancano ai dispositivi collegati in Rete.

I numeri parlano da soli. I video in italiano per i più piccoli furoreggiano su YouTube. Gli episodi di Peppa Pig hanno una media di visualizzazioni fra i 3,1 e i 4,5 milioni e si arriva al picco di 21 milioni per la puntata sul Natale e di 14 milioni per quella intitolata “Dipingere”. Anche Masha e Orso è un termometro: l’episodio sul nascondino è stato visto 8,1 milioni di volte.

Un cartone nostrano che conquista il web è quello dei Mini cuccioli co-prodotto dalla Rai: le singole puntate hanno fra 3,4 e 4,6 milioni di visualizzazioni. Un ulteriore titolo che piace al baby pubblico di YouTube èSam il pompiere: ci sono episodi visti anche 7 milioni di volte. Caso di scuola è il classico Disney dei Tre Porcellini: la versione in italiano ha registrato oltre 47 milioni di visualizzazioni.

Ma il palinsesto online degli spettatori junior non è soltanto serie animate. I brani musicali sono un altro collettore di clic: il Coccodrillo come fa,famosa canzone dello Zecchino d’oro, ha raggiunto 81 milioni di visualizzazioni e Se sei felice tu lo sai batti le mani cantata da Masha e Orso 45 milioni. Altrettanto popolare è la serie TuTiTu sui “giocattoli che prendono vita”: il video sul telefono è stato cliccato 29 milioni di volte.

I ragazzini impazziscono poi per le dimostrazioni dei giocattoli con gli adulti o gli adolescenti che ne spiegano i segreti. Inoltre appassionano i filmati amatoriali che raccontano il quotidiano. E gli “web pargoli” cercano anche sequenze di quanto stimola la loro fantasia: auto, navi, aerei, se si è maschi; balletti, marionette, abiti, se si è femmine.

La rivoluzione YouTube è tutta merito dei bimbi? Non proprio. Se in passato erano i genitori ad accendere la tv per farne una babysitter, oggi sono sempre mamma e papà a mettere in mano ai nativi digitali tavoletta e cellulare che spesso diventano le “bambinaie 2.0”. Lo sanno bene i colossi del web che hanno inserito anche i più piccoli fra gli utenti da fidelizzare. Pochi sono gli studi che finora hanno passato al vaglio il fenomeno. Una delle rare ricerche in Italia è stata condotta del Centro per la salute del bambino di Trieste con l’Associazione culturale pediatri ma è limita all’uso dei dispositivi. Intervistando più di 1.300 genitori emerge che gli apparecchi prediletti dai ragazzi della Penisola sono lo smarphone (35,5%) e il tablet (25,2%) che «viene utilizzato dai tre anni in poi», scrivono gli studiosi. «I genitori – aggiungono nell’indagine – sono i mediatori principali del rapporto dei più piccoli con le tecnologie digitali ». Ma gli strumenti vanno impiegati «in modo condiviso» senza dimenticare che «esistono rischi per la salute»: dai disturbi del sonno all’obesità, passando per comportamenti aggressivi o ritardi del linguaggio.

Gli Stati Uniti hanno già puntato l’indice contro l’«algoritmo di YouTube che cattura i bambini », si legge in un articolo della rivista The Atlantic.Soprattutto con la nuova App “YouTube Kids”. Non solo ogni giorno vengono caricate molte ore di nuovi filmati, ma la piattaforma acquistata da Google fa sì che un video tiri l’altro: appena finisce un filmano parte automaticamente il successivo oppure è sufficiente un tocco sulla destra dello schermo per scegliere la nuova clip. E dal momento che i bambini amano rivedere gli stessi filmati più volte, il super contenitore in streaming li tiene incollati allo schermo, spesso imbottito di pubblicità. Compresa quella subdola: ad esempio, molti video sono sostanzialmente spot di giocattoli. Ecco perché i nativi digitali sono già un affare.

Il massmediologo Ferri: «Ma per i genitori YouTube è una babysitter digitale»

«Ormai quando un genitore vuole punire il figlio non dice più: “Da adesso non guardi la televisione”. Ma: “Non ti do lo smarphone e il tablet”». Si affida a un esempio di routine familiare Paolo Ferri per descrivere il rapporto fra i bambini e la celebre piattaforma di video YouTube. Docente di teorie e tecniche dei nuovi media all’Università Bicocca di Milano, dirige l’Osservatorio nuovi media dello stesso ateneo ed è autore del libro I nuovi bambini (Bur; pagine 242; euro 12) dedicato alla sfida di educare i figli all’uso della tecnologia senza «diffidenze e paure».
Professore, YouTube si è trasformato nella tv dei più piccoli?
«Direi di sì. Se una mamma allatta mentre scrive con il cellulare, per il figlio sarà logico che il telefono e il tablet facciano parte del suo quotidiano. Infatti i genitori italiani ammettono che l’80% dei loro bambini smanetta questi strumenti già a tre anni. Allora è naturale il matrimonio fra i più piccoli e YouTube visto che il video rappresenta un intrattenimento privilegiato per chiunque».
Lo schermo per eccellenza dei bambini è diventato quello touch?
«Certo. Per più motivi. YouTube è molto facile da usare. Ad esempio, non c’è bisogno di saper leggere o scrivere: così i piccoli possono accedere ai filmati anche quando hanno due o tre anni. Poi i contenuti possono essere rivisti più volte consecutivamente senza dover attendere, come accade con la tv, le repliche. Inoltre i device sono utilizzabili ovunque: anche al ristorante, in auto o mentre si è in coda dal medico. Infine YouTube viene impiegato dai ragazzini in maniera attiva, quasi fosse un social network: e se questo servizio ha un così grande successo, lo si deve anche al fatto che favorisce un intrattenimento condiviso legato a quella cultura partecipativa molto cara ai nativi digitali. Tutto ciò fa di YouTube un canale ben più comodo e allettante di quelli televisivi».
Che cosa guardano i baby utenti?
«Un po’ di tutto. Basta digitare Peppa Pig per rendersi conto di quante volte è stato visto il celebre cartone. Ma vanno molto anche i video brevi, al massimo di 5 minuti, prodotti spesso da ragazzi poco più grandi di cui i bambini diventano fan. Ne sono la prova le decine di milioni di filmati in cui un ragazzo si cimenta in un gioco o in un’esperienza quotidiana. È interessante questa via di appropriazione del mezzo partita dal basso che adesso si cerca di governare dall’alto anche per trarne profitto».
I bambini sono un affare per il mondo digitale. Lo dimostra anche la nuova App “YouTube Kids”?
«I piccoli fanno gola perché sono decisori di acquisti. D’altro canto YouTube è ormai l’ordinario contenitore di ciò che amano vedere bimbi o adolescenti. Ecco perché Google lo ha comprato: ha capito che siamo di fronte a un fenomeno significativo. E proprio YouTube è diventato il secondo motore di ricerca del mondo. Invece non credo molto in “YouTube Kids”. I nativi digitale preferiscono di certo l’originale».
Un ruolo chiave è quello dei genitori.

«Sicuramente. Le poche indagini finora condotte dicono che mamme e papà cedono ai figli lo smartphone e il tablet per tenerli buoni. È l’idea che siano come una babysitter. Vale lo stesso per YouTube che viene considerato più sicuro e controllabile rispetto alla tv».
Perché?
«Perché prevale la concezione che sia possibile scegliere cosa mostrare ai bambini e comporre un palinsesto su misura. Inoltre si ritiene che sia semplice togliere il dispositivo dalle mani dei figli. Eppure sono pochi i genitori che attivano il parental control, ossia il filtro elettronico, che è presente nella piattaforma per proteggere dai contenuti indesiderati».
Quali consigli dare alle famiglie?
«Il primo avvertimento è che i bambini non possono essere lasciati soli nella cameretta di fronte a YouTube. Bisogna che i genitori stiano con loro e discutano di quanto viene visto. Inoltre è bene inserire il parental control. E soprattutto occorre che l’utilizzo di questi media entri a far parte del lessico familiare. Di fatto è necessario educare i bambini a un uso non banale di cellulari e tablet. Come si insegna ai ragazzi a non passare con il rosso, così è indispensabile indirizzarli a un corretto impiegato di strumenti che marcano con forza la loro vita».




[Il retroscena] Trovato il regista dietro la galassia web dei siti pro Lega e M5s

Identità rivelata da un ex dipendente della Casaleggio Associati. Si tratterebbe di un libero professionista della provincia di Napoli

L’appello lanciato ieri da Tiscali.it sulla necessità di fare chiarezza sui siti web pro Lega e M5s accomunati dallo stesso codice informatico per la raccolta dei ricavi pubblicitari è stato ascoltato. David Puente, ex dipendete della Casaleggio Associati e noto debunker ovvero esperto nella demistificazione dei contenuti online, sarebbe riuscito a scovare il nome della persona che gestisce e incassa i profitti del contestato network. Si tratterebbe di Marco Mignogna, libero professionista di Afragola, in provincia di Napoli. La notizia è stata rivelata dal quotidiani la Repubblica.

Web designer con alle spalle studi in economia

Mignogna su Linkedin si definisce un web designer, social media manager e wordpress expert. Dal 1994 al 2002 ha frequentato la facoltà di Economia e Commercio all’Università di Napoli senza però completare gli studi. Attualmente lavora come free lance.

Un bacino di 650 mila follower su Facebook

Secondo quanto riportato da la Repubblica a lui farebbero capo i 19 siti finiti nel mirino del New York Times. Del  network farebbero parte Noi con SalviniVideo a 5 StelleIl Sud con SalviniIostoconputinItalyForTrumpStopEuroControinformazioneTv solo per citare alcuni dei più noti. Complessivamente le fan page su Facebook di questi siti arriverebbero a quota 650 mila follower, un bacino niente male che ovviamente potrebbe crescere ulteriormente sfruttando i meccanismi di viralità della rete.

Relazioni sia con Lega che con M5s

Secondo la Repubblica Mignogna avrebbe relazioni politiche sia con il M5s che con la Lega. La biografia pubblicata nel sito Info5stelle lo definirebbe un “attivista 5 stelle” mentre il responsabile della comunicazione di Salvini, Luca Morisi, avrebbe parlato di lui come di un “giovane salviniano del sud”. Lui sul web si sarebbe autodefinito “un trumperizzato fino al midollo”.

Uso massiccio della tecnica del click bait

Ad onor del vero le notizie pubblicate sul suo network non possono essere accusate esplicitamente di essere fake news. Mignogna si limita a riprendere articoli pubblicati in altri siti ma con una modifica importante: la titolazione. Il network lavora molto sul cosiddetto click bait ovvero sulle tecniche di comunicazione fatte apposta per acchiappare gli utenti enfatizzando gli aspetti che maggiormente parlano alla pancia dei lettori.

Niente di illegale ma dubbi sotto il profilo etico

Maggiori sono i click maggiori sono gli introiti pubblicitari che come noto vengono raccolti sulla piattaforma Ad Sense di Google. Niente di illegale. Tutto perfettamente in regola anche se ovviamente qualche dubbio si pone sotto il profilo etico considerando che spesso e volentieri, soprattutto nel web, la lettura si ferma al titolo per cui se questo viene distorto si può creare una falsificazione della realtà ovvero una falsificazione rispetto a quanto riportato nel contenuto stesso dell’articolo.

Difesa contro cattiva informazione deve partire dal lettore

La vicenda conferma che nell’impossibilità di regolamentare il mondo dell’informazione sul web, senza correre il rischio di limitare la liberà di opinione, la responsabilità maggiore per contrastare il fenomeno delle fake news e del click bait spetta a singoli lettori. Bisognerebbe semplicemente evitare di dedicare tempo alle notizie evidentemente esagerate pubblicate da siti sconosciuti. Una banale regola di buon senso che potrebbe fare molto bene alla nostra dieta informativa.




Dall'oracolo all'analista Prevedere è tornato di moda

Le aziende assumono specialisti per sapere in anticipo cosa accadrà. Niente fantasia, solo probabilità e dati

Quando si parla di tecnologia, il tempo è relativo e scorre più veloce. In pochi anni abbiamo fatto progressi incredibili.

I telefoni, per esempio, da molto grandi sono diventati sempre più piccoli per poi tornare sempre più grandi e più piatti per contenere la crescita delle dimensioni degli schermi. Abbiamo tra le mani gli schermi giganti degli smartphone e solo 20 anni fa, nel 1997, avevamo tra le mani dei Nokia 6110. Se ci pensiamo, i progressi tecnologici sono stati rapidissimi.

Controllare un computer con la mente sembra non sia una cosa molto lontana. Pare che Microsoft stia sviluppando questa tecnologia e che abbia depositato 4 brevetti per Hololens e Surface. I brevetti di Microsoft sarebbero stati registrati su Wipo, l’organizzazione mondiale che si occupa di proprietà intellettuale. Un brevetto riguarderebbe l’input che verrà dato alle applicazioni: non ci saranno più tasti fisici, ma le applicazioni potranno ricevere dati direttamente dalla mente. Un altro brevetto parlerebbe dell’input visivo: le lenti potranno inquadrare un soggetto e trasmettere i dati alle nostre menti. Ma non si sa ancora quando Microsoft intenderà utilizzare i brevetti e non si conosce l’uso che ne farà Microsoft: li userà, non li userà?
L’uomo è sempre stato teso verso il futuro: ci affascina scoprire cosa sarà, quando accadrà. Prima esistevano gli oracoli, la Pizia, quello di Delfi, la Sibilla Cumana, oggi esistono i futurologi. La futurologia sta diventando uno dei mestieri dell’avvenire. In realtà, prevedere quello che accadrà, non è una professione recente. Se ci chiediamo cosa sia un futurologo, possiamo pensare a un moderno indovino, capace di coniugare scienza e previsione, con un pizzico di sociologia. Ma la futurologia non si basa sulla fantasia: si basa sui dati. Probabilità e dati verificabili, misurabili, proiettabili. La futurologia è una disciplina recente: il primo futurologo, in senso stretto, può essere Thomas Robert Malthus. Così come Malthus, nel 1798, nel suo «saggio sul principio della popolazione e i suoi effetti nello sviluppo della società», prevedeva che l’incremento demografico (la popolazione umana può raddoppiare ogni 25 anni) avrebbe generato una penuria di mezzi di sussistenza per la popolazione; i futurologi moderni si avvalgono di dati per esplorare mondi di futuri possibili.
Raymond Kurzweil, il futurologo di Google considerato come uno dei più grandi informatici al mondo, ha predetto che l’anno della «singolarità tecnologica» sarà il 2045. La stessa cosa di cui si parla nel libro Origin di Dan Brown. Ed esattamente come si legge nelle pagine di Origin, secondo Ray Kurzweil, nel 2030 i nostri corpi arriveranno a ospitare minuscoli nanorobot che ci consentiranno di mantenerci in salute. Il 2045, sempre secondo Ray, sarà l’anno in cui avverrà la transizione dall’intelligenza di tipo umano a un’intelligenza ibrida uomo-macchina. In pratica, ci fonderemo con le macchine: domani questi dispositivi saranno integrati nel nostro corpo.
Ma dove lavorano i futurologi? Spesso si tratta di consulenti aziendali, che prevedendo delle tendenze in atto, aiutano le aziende a programmare mosse future e a cogliere le opportunità emergenti nei mercati. Ian Pearson, ingegnere, fisico teorico e futurologo, prevede che «nel 2050 il cervello umano sarà immortale. Potremo scaricarlo su un computer, copiarlo su un dischetto, inserirlo su un robot, farlo vivere per sempre». Sempre Pearson, dice «il nostro lavoro è scrutare il futuro, immaginarlo, provare ad anticiparlo».