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BANCARIUS KARMA: IL VIZIO SUPREMO DELLA SUPERFICIALITÁ

Di Luca Poma
Wilde ne faceva – provocatoriamente, e solo apparentemente – quasi uno stile di vita; Warhol la attribuiva fieramente a sé stesso, senza timori; Calvino ci teneva a distinguerla dalla leggerezza, che era tutt’altra cosa; Longanesi, che giudicava tutto dall’abito, ne rivendicava il coraggio intrinseco; Solgenitsin la definiva “la malattia psichica del XX secolo”.
Qualunque cosa pensiate voi, ora, della superficialità, pare essere questa la “cifra” che ha dato colore a questo caso; che affronto solo ora, a distanza di due settimane, a giochi fatti e bocce ferme, per un’analisi che vuole essere volutamente distante dalla frenetica e fatua eccitazione del dibattito “social”.
Per chi come me ha la memoria del pesce rosso, ecco un riassunto dell’accaduto: Intesa Sanpaolo – si scoprirà solo con giorni di ritardo – chiede ai dipendenti di girare dei video, una specie di contest con finalità di team-building. La provocazione è la seguente: spezzate, come credete, la monotonia del lavoro quotidiano, e raccontate qualcosa di voi, anche se non siete dei professionisti della telecamera, e i video più folli verranno proiettati durante le prossime convention aziendali. Una cosa da ridere, insomma; ma ridere tra noi (tra loro), in casa, non certamente in rete, con milioni di occhi puntati addosso. Già, come se Intesa fosse padrona della rete, e potesse decidere cosa va online e cosa no; ma di questo parleremo più avanti.
Katia Ghirardi, la direttrice della filiale Intesa di Castiglione delle Stiviere, provincia di Mantova, realizza un video amatoriale che sfocia – forse volutamente, ironicamente, provocatoriamente – nel grottesco. Non ha esperienza con la telecamera, appunto, e ha quell’aria un po’ goffa e decisamente troppo sopra le righe che la rende davvero comica. Qualche collega sadico fa girare il video, e di Whatsapp in Whatsapp la “performance” tracima e finisce su internet: prima Facebook, poi Youtube, infine i mass-media mainstream; tanti, mass-media.
In un paio di giorni, la povera Katia – che nel frattempo oscura il proprio personale profilo Facebook perché inondata da critiche e anche da insulti – diventa il caso della settimana: tutti, ma proprio tutti, osservano, valutano, giudicano, inclusi colleghi ed esperti, veri o presunti, al grido di “Ecco cosa accade se non hai un bravo Social Media Manager”. A peggiorare il tutto, la registrazione di una telefonata, che diventa subito anch’essa virale, di un correntista che chiama la Filiale per complimentarsi per il video, e riceve un riscontro dalla telefonista di Banca Intesa tra l’impacciato e il fortemente imbarazzato, del tipo “non mi pare ci sia proprio nulla di che complimentarsi”, a conferma – semmai fosse stato necessario – che non tutti all’interno della banca hanno approvato l’iniziativa della Ghirardi.
Poi la svolta, diametralmente opposta, quando emerge la sopracitata verità, ovvero che non si trattava – come un occhio attento avrebbe compreso fin dall’inizio – di singolo un video amatoriale, messo in rete da qualche buontempone collega bancario, bensì di un contest ironico a fini di comunicazione interna. Prova ne sia, che spuntano on-line altri due video del medesimo tipo: il primo, girato nella filiale di Lissone di Intesa San Paolo, immagina la preparazione dei lavoratori alle Olimpiadi tra bizzarre discipline come il “sollevamento di penne biro” e il “canottaggio sulla sedia dell’ufficio”, con “Momenti di gloria” come base musicale; il secondo , invece, è una divertente parodia della canzone “Occidentali’s karma” di Francesco Gabbani, vincitore dell’ultimo Festival di Sanremo, in chiave “bancaria”, con ritornelli peraltro davvero spassosi.
A quel punto, Katia si trasforma rapidamente da zimbello a vittima: scatta il compatimento, e le prese di posizione di chi senza esitazione pubblica sulla propria bacheca di Facebook il cartello “Io sono Katia Gherardi”, puntando il dito su chi con inclemente cattiveria sghignazza senza sosta, seguite da esternazioni di opinionisti più o meno noti, a sostegno della povera e bistrattata dipendente di banca.
Devo confessare che per un istante – solo per un istante, assordato dalla confusione generale del dibattito – sono stato anche sfiorato da uno strano retrogusto in bocca, come un lontano rumore di fondo: e se tutto questo scenario fosse riconducibile a una raffinata e sofisticata operazione di digital marketing? Se non esistesse nessuna Katia Gherardi, o se fosse tutt’altro che un’inavveduta dipendente? Se anche la telefonata in Filiale fosse genialmente falsa? Troppo bello per essere vero, e infatti – stante l’assenza a posteriori di esplosione e spiegazione del “caso” da parte della Banca – pare sia stato tutto tristemente concreto e realistico, esattamente per come ve l’ho raccontato. Anche per questo ho voluto attendere per scriverne: volevo capire, vedere davvero la fine del tunnel, prima di trarre conclusioni.
Conclusioni, appunto, perché arriva – prima o poi – sempre il momento di tirare le fila. E ognuno l’ha fatto a modo proprio.
C’è chi ha scritto che la banca avrebbe dovuto dotarsi di una policy del tipo “Cari dipendenti, questi video sono per uso esclusivo interno, qualsiasi diffusione all’esterno verrà punita, ovvero vi facciamo un mazzo tanto se i video finiscono sui social”. Ben sappiamo invece quanto debole – inutile, anzi forse controproducente – possa essere una policy basata sulla paura, in relazione alla porosità dei Social e alla possibilità che qualunque dipendente possa comunque aggirarla con un click, pubblicando anonimamente qualunque video.
C’è chi ha protestato, come i Sindacati, scrivendo che “le immagini dei video richiamano alla memoria la saga di Fantozzi”, pronto a qualunque cosa per compiacere il “mega direttore galattico”.
C’è chi come l’azienda di onoranze funebri Taffo ha manifestato solidarietà, evidenziando come non sia esattamente una passeggiata realizzare un videoclip per chi di regia e riprese non è affatto esperto; chi  non ha perso occasione per cavalcare l’onda e dire la propria, come Ceres  – geniali come sempre – che se n’é uscita con un preciso e ficcante “A cantare al bar son bravi tutti, provate voi a farlo in banca”; e chi, come Unieuro, ha solidarizzato con Katia al grido di “Io ci sto”, ma soprattutto ha ironizzato su Fabio, il collega della Ghirardi che per non dover essere coinvolto nel video si è combinazione dato per malato proprio quel giorno, con tanto di certificato medico.

 
 
C’è infine chi ha suggerito che la banca avrebbe dovuto presiedere personalmente l’iniziativa, al fine di garantire risultati diversi, e decisamente migliori, con meno torte, meno canzoncine e un filo di professionalità in più, che è quello che ci si aspetta da un ambiente tendenzialmente asettico come quello di una banca”. Ma allora che contest sarebbe stato?
C’è anche chi – tra i competitor diretti di Intesa San Paolo – ha riflettuto con attenzione e ponderatezza sull’accaduto. Sono incidentalmente venuto a conoscenza che un manager di una banca concorrente, assai attenta alla reputazione, ha indirizzato a tutto il proprio top management una email di intelligente e dettagliata analisi sul caso, concludendo con questa frase: “Ritengo che l’esperienza che sta vivendo uno dei nostri principali competitor possa esserci d’aiuto per approfondire la riflessione su alcuni aspetti della nostra strategia di comunicazione. Con una domanda di fondo: e se domani capitasse a noi…?”
E la banca coinvolta, Intesa San Paolo, nel frattempo, cos’ha fatto…? Pare che inizialmente si sia limitata a confermare all’Huffington Post che il grottesco video in questione “era destinato a un contest interno, e non si spiega come e soprattutto chi sia stato a farlo circolare su internet”. Bontà loro, che neppure sanno chi comunica e verso chi, all’interno della loro stessa banca.
Che fosse un contest è peraltro chiaro, risulta senza equivoci dal “bando” lanciato dalla comunicazione interna di Intesa San Paolo.

 
Solo 3 giorni dopo lo scoppio del caso, il CCO di Intesa interviene in una trasmissione radiofonica su RAI Radio 1, ma al netto dell’incomprensibile ritardo – 3 giorni! – le giustificazioni paiono comunque “deboli”: “qualcuno ha trovato i video e li ha pubblicati su Facebook, non siamo stati noi” (sic!), nonché “La vita è fatta di eventi incontrollabili, gli esseri umani sono imprecisi e fallibili per definizione”, quasi a voler “scaricare”, con un’alzata di spalle lievemente altezzosa, la responsabilità dell’epic fail totalmente sugli impiegati della banca stessa.
É vero: come ha osservato qualche commentatore, quando vuoi che qualcosa diventi virale, puntualmente ciò non accade, anche se in linea di principio lo meriterebbe; mentre ciò che mai e poi mai vorresti diventasse virale, magari sfugge di mano e lo diventa. Parafrasando Richard Brooks, “É internet, bellezza, e tu non ci puoi fare niente! Niente!”
Ma è davvero cosi…?
Stupisce in effetti che un colosso come San Paolo Intesa possa – nel 2017 – ignorare o sottostimare i fondamentali del crisis management, a conferma di ciò che sostengo da sempre: la dimensione, non è di per se garanzia di adeguata cultura d’azienda.
Come ha scritto uno straordinario accademico, Elio Borgonovi, nel manuale de Il Sole 24 Ore sulla comunicazione in situazioni di crisi, “Una corretta gestione delle situazioni di crisi reputazionali diventa uno strumento fondamentale per evitare che l’impegno, la professionalità e la dedizione che manager e altri collaboratori hanno profuso per anni possano essere vanificati o messi in discussione a causa di una crisi mal gestita”.
É impossibile riassumere centinaia e centinaia di pagine sulle buone prassi in comunicazione in un articolo divulgativo come questo, ma volendo almeno tentare di evidenziare alcuni errori da parte del colosso bancario, segnalerei, non necessariamente in ordine di importanza, questo “decalogo”:

  1. scarsa o nulla simulazione preventiva di scenario;
  2. brief ai dipendenti del tutto inadeguato;
  3. operazione “al risparmio”, senza alcun presidio tecnico sul territorio in occasione della realizzazione dei video e/o senza alcuna indicazione atta a garantire un livello minimo di qualità dei contributi video;
  4. nessun disclaimer pubblicato on-line per il grande pubblico, al fine di “prevenire” la marea montante delle critiche, illustrando nel dettaglio l’operazione prima ancora che essa partisse;
  5. nessun monitoraggio efficace del web, quando sono scoppiate le polemiche, oppure monitoraggio efficace ma evidente incapacità di cogliere i segnali deboli (sempre meno deboli, invero) di crisi;
  6. atteggiamento ottuso e comunque incurante delle regole base del reputation management, del tipo “…tanto passerà presto”, mixato con atteggiamento vagamente supponente del tipo “…perché vi agitate tanto”;
  7. nessuna presa di posizione ufficiale della banca in tempi accettabili (probabilmente, a causa della carenza di cui al punto 1)
  8. nessun tentativo di “governare” efficacemente la comunicazione (probabilmente, a causa della carenza di cui al punto 6), sia off-line che on-line, nonostante la rassegna stampa negativa assai copiosa;
  9. atteggiamento di supporto emotivo ai dipendenti coinvolti nel epic fail decisamente troppo debole;
  10. a tre settimane dall’accaduto, e questo è forse ciò che più stupisce, nessuna azione di recovery.

É vero, come qualcuno ha osservato, in occasione di episodi come questo immancabilmente “entro poco tempo ci sarà altro a cui pensare, su internet, e altro contro cui indignarsi”. Sacrosanto. Ma altro che pesci rossi: gli algoritmi del web hanno una memoria da elefante, lapidaria, e questa vicenda – oltre che essere già diventata con rapidità degna di miglior causa un caso di studio in diversi Master e corsi Universitari – resterà lì, per sempre, online, a testimoniare l’inadeguatezza di una grande banca, Intesa San Paolo, a gestire un problema di immagine e di reputazione non solo proprio, ma anche di propri fedeli e dedicati collaboratori.
Eccola, la banca, la protagonista: capace di prevedere l’andamento degli investimenti, e più in generale gli scenari futuri, fatta di persone, che ha a cuore il territorio, attenta al benessere dei propri dipendenti come dei propri correntisti, e soprattutto rassicurante, fatta di rituali dove nulla accade a caso.
O forse no?
 




L’Intelligenza Artificiale alimenta le strategie di customer experience dei migliori brand al mondo

I brand più evoluti sono tre volte più propensi ad adottare le ultime tecnologie per raggiungere l’eccellenza della customer experience

Secondo il nuovo report della rivista MIT Technology Review, promosso da Genesys, condotto a livello globale tra più di 550 senior executive in 30 paesi, ha mostrato che il 91% delle compagnie “icona”, ossia quelle che mantengono sia alti livelli di soddisfazione in termini di customer experience (CX), implementa soluzioni di Intelligenza Artificiale (AI)per migliorare la soddisfazione dei clienti, rispetto al solo 42% di tutte le aziende interpellate.
La nuova ricerca si intitola “Getting to Iconic” e rivela che i brand più evoluti hanno più probabilità di riconoscere come gli strumenti di AI automatizzati siano più efficaci quando integrano ed estendono le funzionalità del proprio team di assistenza clienti. Dunque, il 60% degli intervistati ritiene di avere il giusto mix di canali di comunicazione “live” e automatizzati, rispetto al solo 26% delle aziende meno evolute e al 40 del totale degli intervistati.
Inoltre, il report rivela che le compagnie più evolute utilizzano l’AI non solo per le chatbot. La maggior parte degli intervistati ha indicato che l’AI sta guidando le funzionalità di customer analytics. La ricerca ha evidenziato che l’ottimizzazione di strumenti, applicazioni e processi operativi, al fine di coinvolgere maggiormente i clienti attraverso ogni stadio del loro journey condiviso, è da sempre una strategia fondamentale di crescita per il successo delle società globali. Questo fatto è semplicemente accelerato con l’avanzamento delle tecnologie come le analisi dei big data, che trasformano le informazioni dei clienti in asset predittivi, e gli assistenti virtuali, che MIT_Getting to Iconic_Infographic_4aiutano le aziende a gestire in modo più efficiente le richieste dei clienti.
Le aziende icona sono anche tre volte più propense a considerare il primato nell’adozione di tecnologie come componente cruciale del mantenimento di una customer experience di successo. Al contrario, solo la metà delle aziende con livelli di soddisfazione bassi in termini di customer experience e scarso riconoscimento del brand impiega attualmente tecnologie abilitanti, e il 10% non ha intenzione di implementarle.
Questa ricerca conferma ciò che avevamo previsto. L’AI rappresenterà un fattore cruciale nel portare la soddisfazione del cliente a nuovi livelli” ha commentato Merijn te Booij, Chief Marketing Officer di Genesys. “Siamo entusiasti della AI che abbiamo progettato per la customer experience, Kate, che permetterà uno scambio omogeneo e contestuale tra bot e umani. Il potere congiunto di automazione e finezza del tocco umano in tutta l’azienda offre il tipo di soluzione combinata che ogni leader della customer experience necessita oggi.”
Getting to Iconic comprende lo studio globale e le case study dei leader della CX come Alibaba, BT Global Services, Lexus, Nuband, Uber e Zurich Insurance. Altri risultati di Getting to Iconic mostrano:

  • Quasi il 90% delle aziende più evolute ha ritenuto di avere dimestichezza nel gestire l’esperienza del cliente da una prospettiva omnicanale. Questa cifra scende al 75% per tutti gli intervistati e al 66% nella schiera delle aziende con prestazioni minori.
  • Le aziende più evolute assumono un ruolo molto più attivo nella gestione del loro ecosistema. Queste, infatti, hanno il doppio di probabilità che i propri partner aderiscano agli standard di CX rispetto alla media delle aziende, e quasi tre volte la probabilità di avere il proprio sistema di customer experience integrato con i partner.
  • Detto questo, un terzo delle aziende icona afferma di non condividere attivamente i dati dei clienti attraverso il proprio ecosistema, un dato sopra la media. Queste compagnie riconoscono i vantaggi competitivi dell’univoca comprensione del cliente.
  • La Responsabilità Sociale delle Imprese (Corporate Social Responsibility – CSR) è un altro fattore differenziante per le aziende più evolute: il 75% la indica come una delle più importanti componenti del proprio brand value, contro il 21% delle aziende di basso profilo.

I leader delle società icona sanno di dover assumere il ruolo di capofila nell’investimento tecnologico per la customer experience”, ha affermato Elizabeth Bramson-Boudreau, CEO ed Editore di MIT Technology Review. “Ma sanno anche che affidarsi eccessivamente alla tecnologia per cercare un aumento dell’efficienza può ridurre, anziché incrementare, i livelli di conoscenza dei clienti richiesti per il successo.”
Inoltre ha aggiunto: “Le società più evolute, avendo realizzato quali sono le limitazioni di un approccio incentrato sulla tecnologia per il mantenimento dei livelli desiderati di customer management, attribuiscono un valore elevato agli investimenti di capitale umano e desiderano trovare il giusto equilibrio tra canali umani e automatizzati”.
Nel complesso, Getting to Iconic appura che le aziende icona sono molto più avanzate nell’implementazione di tecnologie di punta per la customer experience, incluso l’utilizzo di applicazioni AI emergenti. Sono anche più abili nel seguire i clienti attraverso tutti i canali e gestire i livelli di customer experience nel loro ecosistema esteso.




Redesign Thinking

Redesign Thinking per l’impresa

Nella rete è indispensabile pensare nella ogica di design. Al centro i bisogni del cliente

“In un mondo esponenziale, gli imprenditori che vogliono riuscire devono pensare come ribelli”. Parola di Patrick van der Pijl, CEO di Geo Business Models  Inc. e recentemente a Milano per il Sincularity Summit, dove ha presentato il suo bestseller “Design a better business” (in uscita per Franco Angeli) che raccoglie le esperienze di trenta leader nel business e nel design. Il titolo è giustamente rimasto in inglese in tutte le 12 lingue nel quale è stato pubblicato perchè “design” mal si traduce ed è spesso più facilmente associato ai prodotti che ai modelli di business e idee imprenditoriali.
“Design è una parola strana perchè è un sostantivo ma anche un verdo e un aggettivo – osserva questo 44enne olandese formatosi nelle business school, ma da tempo a suo agio tra i pennarelli, le lavagne e i canvas tipici dei designer – e possiamo usarla per descrivere il processo che sta dietro la produzione di esperienze come il Cirque du Soleil o la riprogettazione di un business alimentare”.
In realtà questa flessibilità è un riflesso del mondo digitale: “Nel mondo lineare, privo delle interconnessioni create dal digitale l’execution era tutto, e per scalare un business era necessario diventare una grande azienda – spiega Van Der Pijl – ma la rete ha cambiato tutto perchèabbattendo le barriere ha ampliato la competizione e rimesso al centro il consumatore. É per questo che oggi chi fa impresa, sia in una multinazionale o in una piccola media impresa, ha bisogno di strumenti di “design-thinking” per sfruttare gli effetti della coda lunga generata dalla frammentazione dei mercati”. Questa transizione non è sempre stata facile perchè i consigli di amministrazione, abituati a voluminosi piani industriali, possono trovarsi spiazzati da un piano di sviluppo composto da pochi fogli e da uno scenario schizzato su una sola pagina. Eppure, complice la crisi, l’elenco delle aziende e dei manager che si sono convertiti a questa nuova scuolasi sta allargando. Un esempio è quello di Ing Bank, dove qulche anno fa la Vp Strategy, Dorothy Hill, ha applicato le metodologie di design thinking per trasformare il piano di 250 pagine in una “strategia della pagina” collegando scopo e vison fornendo a tutti i dipendenti della banca una direzione chiara e immediatamente interpretabile.
La semplicità delle metodologie del design applicate all’impresa è in realtà basata su meccanismi molto sofisticati e affinati in decenni di lavoro da specialisti come David Sibbet, fondatore di The Grove Consultants International oltre che inventore di diversi strumenti grafici di progettazione condivisa.
Sibbet, per esempio, ha dimostrato fin dagli anni ’70 che annotare su grandi fogli le parole e i concetti più importanti durante una riunione, ne attesta l’ascolto e riduce le ripetizioni nei discorsi, sostenendo il pensiero di una visione di insieme e una memoria di gruppo.
Un punto centrale del Design Thinking è la centralità dei bisogni del proprio cliente, che non deve essere ideale, ma una persona in carne ed ossa. É infatti partendo dalle conversazioni con i propri clienti che Aart J. Ros, CEO di Auping, leader olandese nella produzione di letti, ha riprogettato tutta la comunicazione del prodotto sui benefici del sonno invece che sulle caratteristiche del proprio prodotto. Una volta individuati i bisogni bisogna però produrre un prototipo ed è in questa fase che entra in gioco il “maker mindset” utile a prototipare, anche in scala e spesso con l’ausilio di Lego o Playmobil, come dovrebbe funzionare un nuovo business, che si tratti di un jet privato o di una sala conferenze.
Viene però da chiedersi se questo tipo di approccio sia applicabile a qualsiasi taglia di azienda. “Certamente – osserva van del Pijl – ma in modo diverso. Una start-up è molto flessibile e può utilizzare questo approccio per mettere a punto il proprio modello di business, come avviene per esempio anche qui in Italia nell’incubatore di impresa di Bergamo Sviluppo, mentre una grande azienda fa spesso ricorso a consulenti specializzati, ma anche una piccola o media azienda ne trae utilità. In Olanda, per esempio, abbiamo aiutato una macelleria ala periferia di Amsterdam a crescere puntando su prodotti completamente diversi per il web da quelli che rendevano celebre il proprio esercizio fisico, ma anche facendogli scoprire che per i clienti un punto di forza era la possibilità di parcheggiare e cercare una location più centrale  non aveva senso”.

 

Sviluppo agile e «design thinking»: il modello Lego funziona così

È stato Senior Innovation Director del gruppo Lego fino allo scorso marzo. È considerato, a livello internazionale, un esperto in «radical innovation» ed è riconosciuto come un «change-agent» particolarmente influente. David Gram è un personaggio di spessore, non c’è alcun dubbio, e lo prova la sua esperienza
sia di imprenditore sia di manager, dapprima nel ruolo di Head of Innovation in Scandinavian Airlines e poi nell’azienda danese dei mattoncini più famosi del mondo, dove ha diretto un team di designer, ingegneri, business developer e project manager con l’obiettivo di inventare il futuro del gioco.

Il Lego Future Lab è stata la “palestra” dove Gram ha affinato e potenziato la propria visione del modello attraverso il quale le aziende possono adeguarsi a un mercato in continua evoluzione e diventare organizzazioni «change-leading». La mentalità da startup che animava questo gruppo di lavoro è stata la base per iniziative di business radicalmente nuove, fondate sul paradigma del design thinking e sul concetto di «sviluppo agile». Iniziative che sono valse a Lego l’appellativo di «Apple dei giocattoli».

Gram ha partecipato all’ultima edizione del Technology Forum di The European House Ambrosetti, lo scorso maggio, calamitando l’attenzione di tutti i manager presenti quando è entrato nel merito dei pilastri del successo planetario di Lego. Elevatissima propensione all’innovazione radicale e coinvolgimento dell’utente finale (per farlo partecipare con le proprie idee allo sviluppo dei prodotti) sono in buona sostanza i due “mattoni” della filosofia della società scandinava. La si può definire «innovazione democratica», ma anche innovazione aperta 2.0. Gram ha provato a spiegarla partendo dal termine disruption: «È una parola di moda, ne parlano tutti. Il vero vantaggio è farla e non subirla, perché l’innovazione deve guardare al futuro rimuovendo rischi».
Tutte le aziende fanno e possono fare innovazione ma poche, questo il senso dell’incipit dell’ex manager di Lego, lo fanno in modo efficace. Ma come ha saputo fare un passo in avanti di tipo “disruptive” la casa dei mattoncini colorati, diventando uno dei marchi più popolari al mondo e superando una crisi finanziaria importante (nel 2003 la società era quasi fallita)? «Abbiamo cambiato modello – ha ricordato Gram – partendo dall’approfondita analisi dell’identità dell’azienda e della sua mission: ispirare la creatività dei bambini, i clienti del futuro. Capire il proprio Dna prima di pensare a servizi e prodotti è il presupposto chiave per fare innovazione in modo aperto, utilizzando le esperienze interne all’organizzazione e altre provenienti dall’esterno, anche non associate al prodotto fisico».
L’esperienza di sviluppo è cambiata in parallelo ai cambiamenti che hanno interessato i mercati e l’intera società. «Il ciclo di vita del prodotto – ha confermato in proposito Gram – si è accorciato e di conseguenza occorre guardare più velocemente al futuro, facendo proprie le nuove tecnologie come la mixed reality e l’intelligenza artificiale e i concetti di co-design e co-development per coinvolgere i consumatori nel processo di creazione in tempo reale. L’azienda deve restituire ai clienti il valore creato anche con il loro contributo».
Rendere efficace, oltre che efficiente, l’innovazione non è ovviamente un compito scontato. Ricerca e sviluppo e business model consolidati non bastano. Il vero valore aggiunto, almeno nel caso di Lego, sono le persone, persone che sanno guardare oltre e sviluppano progetti sulla base di visioni future e di metodologie agili. Il Future Lab guidato da Gram è questo, un mix di esperienze e competenze che convergono per accorciare i tempi di execution delle idee e arrivare in poche settimane alla realizzazione di un prototipo. Si interpretano i Big Data per capire i comportamenti futuri, si stringono partnership con aziende esterne, vendor tecnologici e anche con i venture capital che fanno da scouting per arrivare alle startup. La storia “open” di Lego, non a caso, è costellata di espressioni che suonano ormai familiari come crowdsourcing e «user driven innovation».
«Bisogna imparare ad imparare -dice Gram -, democratizzando il processo di sviluppo del prodotto, aprendolo ai consumatori e anche alle aziende che sfruttano illegalmente il marchio della tua azienda. Costruendo una comunità e diventando dei ribelli diplomatici». Il messaggio di sintesi di Gram è tanto incisivo quanto esplicito. In Lego l’hanno seguito alla lettera e il lancio della piattaforma di open innovation “Ideas”, evoluzione del progetto Cusoo lanciato in Giappone diversi anni fa, ne è l’esempio vivente. A tutto dicembre 2016 i progetti caricati online dagli utenti erano oltre 2.200, solo 15 sono diventati prodotti realizzati e venduti. Perché solo le idee veramente “disruptive” hanno successo.




Lucchetto Kriptonite: Il primo e uno dei più famosi "epic fail" della storia dei social media

Siamo nel 2005, Kryptonite è un famoso produttore americano di lucchetti, leader del mercato di riferimento grazie a prodotti sicuri e inviolabili. Almeno fino ad allora.

Un giorno un ciclista amatoriale decide di comprare un lucchetto per proteggere la propria bici, scegliendo ovviamente Kryptonite. Essendo anche molto curioso e probabilmente meticoloso, decide di testare la sicurezza del suo nuovo acquisto.
In questa sperimentazione scopre un fatto sconcertante: i lucchetti più sicuri del mondo si possono aprire con una semplice Bic. Non contento della scoperta, filma la procedura necessaria ad aprire il lucchetto con la penna e posta il video nel forum su cui dialoga con i suoi amici cicloamatori.
Il video fa scoppiare un putiferio. La notizia si propaga all’istante, prima nella rete di amicizie del forum, e poi piano piano anche al di fuori. Lo stagista addetto alla comunicazione digitale di Kryptonite, intercetta video e conversazioni, e percependo la gravità della situazione, allerta la dirigenza. Ma non gli viene dato ascolto.
Come un virus il video “infetta” tutta la rete, mentre l’azienda continua a non rispondere. I danni d’immagine e commerciali si possono immaginare facilmente.
Dopo un paio di settimane, accortosi della reale entità del passaparola negativo, il responsabile della comunicazione di Kryptonite decide di intervenire. Scrive un comunicato sul sito istituzionale dell’azienda, in cui spiega in maniera autoreferenziale le qualità dei prodotti e del brand. Ovviamente è troppo tardi e un’azione così sterile non sortisce alcun effetto.
A seguito di questo episodio l’azienda è entrata in crisi a causa del calo di reputazione e non si è mai totalmente risollevata. A testimonianza del fatto che Internet (e soprattutto Google) non dimentica, è sufficiente dire che ancora oggi molte persone postano video divertendosi a mostrare come aprire un lucchetto Kryptonite nei modi più disparati. Se non ci credete, provate voi stessi a cercare su You Tube: “Kryptonite lock”.
Ed ecco palesarsi la prima grande regola del Web 2.0: ascoltate e rispondete in maniera tempestiva.




Perché Madrid ha un problema di comunicazione sulla questione catalana

Non sempre le immagini ci dicono la verità, ma in questa èra bisogna saperle usare

Comunica di più l’immagine o la parola? E’ più ingannevole l’immagine o la parola? La scorsa settimana Giuliano Ferrara, commentando le immagini iper-mediatiche e in alcuni casi taroccate delle violenze della polizia spagnola a Barcellona, le accusava di fornire una narrazione falsata e suggeriva di poggiare scelte e convinzioni sulla più completa e ricca narrazione legata alle parole, come da tradizione di questo giornale.
C’è molto di vero in tutto ciò, ma occorre qualche precisazione. Le parole sono simboli, croce e delizia dell’umanità. Sono il segno più specializzato e più duttile: con i simboli possiamo spostarci nello spazio e nel tempo parlando di epoche antiche e luoghi lontani, possiamo inventare mondi come quelli degli elfi, fabbricare concetti, costruire le sofisticate architetture giuridiche che, come nel caso menzionato, fanno stare in piedi o cadere interi paesi. Se poi intendiamo la parola come parola detta o scritta da qualcuno, essa mette in gioco un complesso insieme di capacità che ci fanno fidare o meno della persona che pronuncia o scrive. Non a caso le culture semitiche per indicare la verità preferivano utilizzare la metafora della roccia del testimone piuttosto che quella della luce che è condizione del vedere individuale. La parola è dunque all’origine di una comunicazione più forte, più incidente perché coinvolge la fiducia dell’ascoltatore o del lettore, più precisa e sofisticata. D’altro canto, l’inganno perpetrato attraverso la parola è più cruento, più stabile e più profondo. Le parole delle tremende ideologie del XX secolo e quelle più sofisticate del politicamente corretto di oggi dovrebbero esserne un monito.

Siamo in un’era iconica, soprattutto in politica, con vantaggi e svantaggi annessi e nonostante l’ammirevole resistenza dei lettori del Foglio. Si prende facilmente partito, irritandosi a seconda delle immagini che ci influenzano, ma si cambia più facilmente opinione. Per questo si fanno sondaggi tutti i momenti, nessun partito può essere certo del proprio elettorato. Si è più fragili e individualisti, ma gli inganni sono meno profondi. Più sentimentali, ma meno pronti ad accettare violenze in nome di cause astratte.

Il ruolo dei comunicazionisti

Inutile dire, poi, che da sempre l’utilizzo congiunto di tutti i tipi di segno (ce ne sono anche altri), è ancora più convincente dei segni singoli come dimostrano “gesti” comunicativi come manifestazioni, parate, liturgie, eventi. Sia le ère simboliche sia quelle iconiche della politica cercano questa completezza, con accenti diversi.
Quanto alla Catalogna, a prescindere dalla valutazione politica, il governo spagnolo ha sottovalutato la velocità dell’èra iconica della politica. L’intervento della polizia in alcuni seggi catalani ha mostrato iconicamente la faccia truce del potere, permettendo agli indipendentisti di completare la loro narrazione simbolica con immagini, trasformando la giornata in un “gesto” comunicativo. Ora, qualunque decisione Madrid prenda, deve trovare in fretta icone che trasformino in gesto la loro narrazione, adeguandosi alla civiltà iconica che stiamo attraversando, nel bene e nel male. Re Felipe aveva una grande occasione, potendo sfruttare il valore iconico che è sempre connesso alle monarchie. Ha buttato via una chance, sedendosi opacamente dietro una scrivania come qualsiasi primo ministro e attenendosi alla narrazione standard del governo. La manifestazione unionista di domenica scorsa è stata un inizio di ripresa ma non è sufficiente. Tuttavia, fossi nel re e nel suo governo, prima di quello dell’esercito, radunerei lo stato maggiore dei comunicazionisti.