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CASO RYANAIR: QUANDO LA CRISI ARRIVA DA LONTANO

Ryanair sopprime duemila voli, viaggiatori sul piede di guerra

Dal 16 settembre a fine ottobre, Ryanair lascerà a terra 400mila viaggiatori a causa di ritardi e delle ferie dei dipendenti


Di Giuditta Mosca – Fonte: Wired

primi rumori si erano sollevati quando venerdì scorso Ryanair ha comunicato di avere cancellato alcuni voli previsti per il giorno dopo, 16 settembre, in tutto circa 50 viaggi. Ora la compagnia comunica che, fino a fine ottobre, saranno circa duemila i voli cancellati, per cause da collegare soprattutto ai ritardi, al personale in ferie, al maltempo e agli scioperi che hanno portato il tasso di puntualità dei viaggi Ryanair al di sotto dell’80%, una performance che la compagnia low cost giudica inaccettabile.
Federconsumatori chiede ai viaggiatori (si stima siano 400mila circa, compresi quelli che hanno già il biglietto in tasca) di fare valere i propri diritti. L’azienda nel frattempo ha comunicato, a margine della lista dei voli cancellati, le due modalità per attutire i colpi del danno: rimborso o prenotazione gratuita di posti su altri aerei.
L’elenco delle cancellazioni fino al 28 ottobre è stato pubblicato e possono essere comunicate ulteriori variazioni fino a 6 ore prima della partenza; anche se finestre meno ampie di tempo sembrano plausibili, considerato il caos del momento.
Il ceo Michael O’Leary teme un’ondata di richieste di rimborsi e risarcimenti che potrebbero raggiungere i 20 milioni di euro, oltre al danno di immagine che ne deriva.
Le azioni intanto, quotate sull’Irish Stock Exchange (Dublino) hanno ceduto fino al 5%, per poi riguadagnare terreno e, al momento in cui scriviamo, sono scambiate a 16.75 euro ognuna (-1.85%)
 

“Hanno tirato troppo la corda, chi può scappa da O’Leary”

L’ex pilota di Ryanair: condizioni pessime, in 18 mesi siamo andati via in mille

Di Nicola Lillo – Fonte: La Stampa
«La verità è che il caos in cui si trova ora Ryanair è dovuto all’alto numero di licenziamenti dei piloti. Da inizio anno se ne sono andati in centinaia. Sono più di mille nell’ultimo anno e mezzo. Sono scappati per le pessime condizioni di lavoro». A parlare è un pilota di 30 anni, che sotto anonimato racconta le condizioni di lavoro nella compagnia «low cost» di Michael O’Leary. Il pilota è uno dei tanti che ha scelto di cercare fortuna professionale altrove, da inizio estate ha infatti lasciato Ryanair per un contratto migliore in una compagnia concorrente.
Ci sono altri motivi alla base della cancellazione dei duemila voli?  

«Oltre alla fuga per cercare contratti migliori c’è chi è rimasto e ha fatto un ricatto all’azienda, chiedendo le ferie desiderate e minacciando altrimenti di andarsene».

Dove hanno trovato lavoro i piloti in fuga?  

«Molti sono andati in Norwegian, gli inglesi hanno scelto invece Jet2. I comandanti con più esperienza sono stati presi dalle compagnie aeree cinesi. Alcune sono basate in Europa e fanno contratti prestigiosi, anche da 30 mila euro al mese».

E in Ryanair quanto guadagna un pilota?  

«Ci sono due tipi di contratto. C’è chi è assunto direttamente dall’azienda e guadagna 7 mila euro al mese, ma si tratta di meno di un terzo dei piloti. E c’è chi lavora come autonomo, essendo legato a un’azienda interinale in Irlanda: in questi casi lo stipendio va dagli 8500 ai 10 mila euro, e la retribuzione è sotto forma di rimborso spese. Le cifre riguardano i comandanti, se parliamo invece di un primo ufficiale appena entrato il guadagno è dai 2 ai 4 mila euro».

I contratti hanno delle tutele?  

«Chi lavora da autonomo non ha ferie né la malattia e le tasse vengono pagate in Irlanda, non nel luogo in cui risiede il lavoratore. Questi dipendenti, come accadeva a me, vengono pagati in base a quanto volano e spesso vanno vicino al limite di 900 ore di volo all’anno. A queste cifre vanno però tolte le spese che gravano su ciascun pilota».

Cioè?  

«Vengono scalati 5 euro per ora di volo per pagare i simulatori che servono per l’addestramento. E per andare a fare i corsi in programma due volte all’anno a Londra è necessario pagarsi l’albergo. In più ogni pilota è costretto a pagare il parcheggio dell’auto in aeroporto, la divisa, cibo e bevande a bordo. O ti porti l’acqua e un panino da casa oppure li compri sul volo come fanno i passeggeri. Se poi il catering è finito, allora stai senza. Stesso discorso per gli assistenti di volo, che guadagnano molto meno».

Che aria si respirava in azienda?  

«Tra colleghi l’ambiente è amichevole. Ma l’azienda fa terrorismo psicologico, non si può rivendicare nulla e non è consentito avere rapporti col sindacato. Al primo problema sei fuori. Certo, bisogna ammettere che hanno un grande fiuto per gli affari e competenza nel gestire l’azienda. Ma forse hanno tirato troppo la corda e ora sta venendo fuori tutto».
 

La lezione di Ryanair e Uber: la reputazione è il tallone d’achille delle aziende

Di Pasquale Berela – Fonte: IlSole24Ore
Una azienda per svolgere la sua attività acquisisce tutti i fattori produttivi necessari, in sostanza può comprare tutto, dal lavoro alle materie prime, tranne la reputazione. Quest’ultima infatti non si compra, si costruisce. Purtroppo, rispetto ad altre tipologie di “immobilizzazioni” immateriali, la reputazione – specialmente al tempo dei social network – risulta molto fragile, dunque a rischio di rovinarsi (rischio reputazionale) con conseguenti impatti sulla redditività dell’azienda stessa.
Le recenti vicende che hanno coinvolto Uber e Ryanair pongono alcuni interrogativi. Partiamo con ordine.
La notizia relativa alla revoca delle licenze per Uber in UK, paese notoriamente di matrice fortemente liberista, stupisce alquanto. L’impatto per Uber, che ora aspetta il verdetto dell’appello, rischia di essere molto pesante, visto che a Londra (tra le poche metropoli non statunitensi ad avere accordato una licenza alla società californiana) operano 40mila driver per una platea di 3,5 milioni di clienti.
Uber si è contraddistinta per un nuovo, spregiudicato modello di business che ha messo in discussione lo status quo: lo abbiamo visto in mezza Europa e anche nel nostro Paese, con la rivolta dei taxisti. In particolare si è caratterizzata nel basare la propria attività sull’utilizzo di un esercito di driver così detti “a partita Iva”.
Altro caso: Ryanair, la più famosa compagnia aerea irlandese. In un contesto di forte rigidità della compagnia, dovuta ad una serie di decisioni aziendali, si è aggiunta la vicenda dei voli cancellati derivanti da una “gestione” rischiosa del personale pilota: il piano ferie, secondo l’azienda, la fuga verso altre compagnie per gli stipendi bassi, secondo diverse testimonianze di ex piloti.
La cancellazione dei voli rappresenta meno del 2% del traffico aereo gestito dal vettore, eppure l’effetto in borsa ha visto un picco di discesa vicino al 10%.
Sia Uber che Ryanair si sono presentate come “diverse” e “innovative”. La prima si è posizionata come startup miliardaria della “sharing economy”, la seconda come una compagnia “low cost” molto più efficiente e redditizia dalle altre, diventata in pochi anni il primo vettore europeo.
Colpisce vedere queste due aziende simbolo del “nuovo”, chiave del successo, barcollare come un pugile colpito duramente dal suo avversario.
In realtà si sono scontrate con problematiche che riguardano tutte le aziende sia old economy sia new economy. Questo perché pur essendo “new” sul profilo dell’offerta di prodotto, si son trovate come tutte le altre realtà aziendali a dover rispondere alle stesse regole di mercato.
Evidentemente nessuna azienda può pretendere di concorrere ad armi impari: turni di lavoro e livelli di retribuzione non adeguati per i piloti, come nel caso Ryanair; traslare su un esercito di così detti self-employed questioni di sicurezza del trasporto di persone, come nel caso di Uber.
Nella gestione di un’azienda il rischio reputazionale va sempre tenuto in alta considerazione: abbiamo visto in questi due casi come può incidere a tal punto da mandarle in crisi e pregiudicare il proprio futuro.
Prima di tutto non si può pensare di creare valore semplicemente rischiando e non gestendo in maniera strategica i rischi assunti. Il problema principale per le aziende è non rendersi conto dei potenziali rischi connessi alla propria reputazione.
Cosa possono fare le aziende?
È necessario investire nella diffusione della cultura del rischio. L’approccio deve essere quello di una visione olistica della gestione del rischio, seguendo un impostazione di Enterprise Risk Management (ERM), che comprenda pertanto anche la valutazione del rischio reputazionale al pari del rischio di mercato.
La morale è semplice. Chi pensa di giocare senza badare alle regole del gioco, rischia molto, se non tutto.




La geniale pubblicità Ikea che prende in giro Instagram

Quando si parla di marketing, Ikea è sempre un passo davanti agli altri. Anche questa volta.

Il colosso svedese dell’arredamento ha centrato perfettamente l’obiettivo anche con la sua ultima pubblicità su Youtube, dove prende scherzosamente in giro Instagram e i suoi utenti, più impegnati a fotografare piatti da portata che a trascorrere il proprio tempo in compagnia degli amici o della famiglia.
La nuova pubblicità, Let’s relax, è ambientata nella Francia del Settecento, alla tavola di un nobile che – all’ora di cena – ferma le sue bambine che stanno per addentare una mela. Questa tavolata bisogna davvero immortalarla! Ecco quindi arrivare il pittore che, finito il suo lavoro, fa il giro di tutti i notabili per ricevere consensi. Al suo ritorno si può finalmente iniziare a mangiare.
Vi ricorda nulla?
La scena passa poi ai giorni nostri dove, un altro padre di famiglia sta fotografando i piatti sotto lo sguardo spazientito del resto della famiglia che aspetta di poter mangiare.
Il messaggio dell’azienda svedese è chiaro: durante i momenti che possiamo finalmente passare con i nostri cari (ovviamente in una cucina Ikea!), rilassiamoci, senza passare il tempo ad aggiornare i profili social.
Non c’è dubbio: il reparto marketing sa proprio fare il suo lavoro!



Friends of Glass

Un’iniziativa creata dalla community europea Friends of Glass che possiamo definire veramente unconventional: bottiglie cantanti per incoraggiare il riciclo del vetro.
La campagna “Endless Chorus” nasce per promuove il riciclo del vetro e far conoscere ai giovani i vantaggi derivanti da questo tipo di imballaggio. Una recente ricerca ha messo infatti in evidenza che i millennials sono meno consapevoli dei vantaggi derivanti dall’uso del vetro rispetto a pubblici più adulti.
Le bottiglie parlanti, create da Illustrious, una società inglese di tecnologia del suono guidata da Martyn Ware, sono al 100% in vetro e dispongono di una base stampata in 3D dotata di tecnologia Bluetooth per catturare il suono nell’ambiente circostante.
Come in tutte le iniziative unconventional l’effetto sorpresa è determinante. Le bottiglie cantanti colgono di sorpresa i clienti nei locali pubblici e chiedono loro di unirsi al revival musicale: sulle note di brani musicali storici, con le voci della band danese The Bottle Boys in collaborazione con uno dei rapper e comici inglesi più famosi Ben Bailey Smith alias Doc Brown.
I musicisti ripropongono una serie di hit musicali degli ultimi 100 anni riportando in vita brani di Louis Armstrong, Fats Domino, Petula Clark e realizzando un mash-up che racconta le diverse vite del vetro e i suoi benefici dal punto di vista della sostenibilità.
Cosa c’è di nuovo
L’idea che quando si deve affrontare un tema non particolarmente divertente la creatività può dare una mano: è il caso di questa iniziativa che parla di sostenibilità in modo nuovo utilizzando un linguaggio divertente per ingaggiare i più giovani.




Nelle aziende italiane dipendenti poco coinvolti: le scelte sbagliate che riducono engagement e motivazione

L’engagement dei collaboratori è un fattore di successo per le aziende: ha conseguenze positive su redditività, soddisfazione dei clienti, innovazione, costruzione dei brand e gestione delle crisi. E tuttavia il livello medio dell’engagement dei collaboratori delle grandi aziende italiane è di 3,5 su una scala da 1 a 5: un dato che indica che c’è ancora molto da fare nel nostro paese, soprattutto perché più coinvolgimento significa più motivazione e, quindi maggiore produttività.
Questo, in sintesi, è ciò che emerge dalla prima indagine scientifica sul tema dell’engagement in azienda mai condotta in Italia: realizzata dall’Università IULM, la ricerca ha coinvolto un campione di 375 imprese rappresentativo delle aziende italiane con più di 500 dipendenti per valutare se e come i dipendenti vengono motivati attraverso strategie e azioni di “coinvolgimento” attivo nella vita dell’azienda.
I risultati peggiori nelle aziende di proprietà italiana
“I risultati”, dice Alessandra Mazzei, responsabile scientifico del Working Group Employee Communication dello IULM, “indicano che nelle grandi aziende italiane il livello di engagement è appena sufficiente e peggiora nelle aziende di proprietà italiana, quelle che adottano strategie di riduzione dei costi, che operano solo a livello nazionale e che non sono quotate”. Come a dire, spiega, che la maggiore competizione induce le aziende a prendersi più cura dei propri collaboratori.
Le cause del “disengagement”
“Il disengagement”, prosegue la Mazzei, “cresce quando le relazioni con i collaboratori sono trascurate, la gestione delle risorse umane non valorizza talenti e aspettative ed esiste in azienda un diffuso senso di ingiustizia organizzativa. Tra le principali cause del disengagement ci sono inoltre l’incoerenza e l’arroganza del management, tema questo che chiama in causa in primo luogo i vertici aziendali”.
Cosa si intende con coinvolgimento
Ma cosa si intende esattamente con “engagement”? La prima criticità emerge già in questa prima definizione: l’indagine è stata condotta sui manager che si occupano specificatamente di favorire il coinvolgimento dei collaboratori, i quali ritengono che la componente più importante dell’engagement sia la connessione psicologica ed emozionale del dipendente con l’azienda e i suoi valori. Invece, dicono i ricercatori, gli studi scientifici hanno evidenziato che l’engagement è rilevante se genera nel dipendente comportamenti proattivi, cioè motivazione ad azioni per contribuire concretamente al successo dell’azienda.
Il ruolo della comunicazione (incluse le convention) 
Secondo gli intervistati, l’engagement si genera principalmente attraverso due strumenti: la comunicazione e la gestione organizzativa delle risorse umane. In termini di comunicazione interna, le pratiche ritenute più importanti sono la comunicazione a cascata (cioè quella top-down, che parte dai vertici e arriva a tutti i collaboratori) e le convention, seguite da strumenti quali newsletter, blog e email. Da sola la comunicazione interna non è però una leva sufficiente per coinvolgere le persone: entra quindi in gioco il ruolo dei capi diretti con temi quali il dialogo manager-collaboratori, i gruppi di progetto, le conversazioni informali per raccogliere il feedback dei collaboratori. In particolare, lo studio ha indagato le pratiche volte a creare un clima di comunicazione aperta che stimoli i collaboratori a suggerire nuove idee, esprimere critiche costruttive e segnalare fatti controversi, e i manager hanno evidenziato la rilevanza della politica della “porta aperta” e delle policy che proteggono i collaboratori da ritorsioni e discriminazioni. Sono considerati invece poco rilevanti, ai fini dell’engagement, i social media interni.
Welfare aziendale e smart working considerati poco efficaci
Per quanto riguarda la gestione delle risorse umane, le pratiche che le aziende considerano più efficaci per generare engagement sono job rotation e mobilità orizzontale (cioè spostare periodicamente i dipendenti in settori diversi a parità di retribuzione), il job posting interno e la formazione per lo sviluppo delle competenze personali. Elementi più innovativi di welfare aziendale, quali convenzioni per servizi alla persona, palestre aziendali, offerte per la famiglia sono invece considerati poco importanti ai fini motivazionali. E ancor meno lo sono, secondo le aziende, lo smart working, le iniziative di corporate social responsibility che coinvolgono i collaboratori e i programmi di diversity management




Buondì Motta, prove tecniche di rilancio grazie agli spot corrosivi

Anche male, purchè se ne parli, diceva un politico della Prima Repubblica. Ma – come dimostra il celeberrimo caso che ha fatto scuola nelle digital pr di Eni vs. Report – oggi la reputazione vale invece, almeno, tanto quanto la notorietà. Sulla notorietà riservata allo spot del Buondì Motta non ci è dubbio, vista l’eco mediatica ricevuta che sembrerebbe confermare che l’advertising è efficace quando è in grado di affrontare la sfida di stupire utilizzando armi non convenzionali (o quasi). Il dibattito resta tuttavia aperto sulla sua effettiva efficacia.
Il caso della mamma colpita dall’asteroide – o meteorite, dubbio che ha alimentato la discussione in rete sullo spot – al termine della pubblicità della merendina, è diventato in poco tempo argomento di discussione e condivisione sui social media, fino a scalare la classifica dei trending topics, ottenere oltre 1,6 milioni di visualizzazioni su Youtube in una settimana, per essere infine analizzato e scandagliato dalla carta stampata, che ha messo in campo fior di critici di comunicazione e costume a interrogarsi sull’opportunità dello spot.
Eh sì perchè – per chi non avesse visto il video – la pubblicità ha fatto notizia proprio per questo: per l’asteroide che colpisce e la mamma (poi anche il papà) che rispondendo alla richiesta della figlia di una colazione «che possa coniugare la mia voglia di leggerezza e golosità», risponde: «Non esiste una colazione così, cara. Possa un asteroide colpirmi se esiste». L’arrivo dell’asteroide – o meteorite – infuocato a incenerire la mamma viene replicato nel sequel dello spot in cui appare il padre, anch’egli colpito e affondato dal corpo infuocato.
Chiaramente in molti hanno calcato l’accento sull’aspetto più divisivo dello spot, ossia sull’“uccisione” della mamma da parte dell’asteroide: entrando così nel loop della pubblicità provocatoria, alimentandone l’effetto e l’efficacia oltre gli spazi adv acquistati presso i broadcaster tv.
Se molti hanno interpellato esperti, massmediologi, docenti universitari e gli stessi copy che hanno lavorato alla campagna pubblicitaria, pochi hanno monitorato la risposta del pubblico alla “provocazione” Motta. Almeno sulle piattaforme social, analizzate invece da Datamediahub che in questi giorni è andata ad analizzarei i commenti pubblicati dagli utenti di Facebook e Twitter. Pier Luca Santoro e Pierluigi Vitale di Datamediahub hanno processato circa 5500 commenti raggruppandoli in in quattro principali topic di discussioni sullo spot.
Il primo, caratterizzato dall’ironia, ha raccolto circa i due terzi dei commenti, il 64,3% per la precisione. «Sicuramente – dicono i ricercatori – in questo topic si dividono le posizioni pro-contro ma, a dire il vero, sono più i complimenti e l’invito [agli altri] ad accettare l’ironia, che altro».
Da rilevare come la seconda tipologia di commenti sia caratterizzata dall’auspicio che l’asteroide colpisca la bambina, in una sorta di sfogo iconoclasta mascherata da nemesi stessa dell’iperbole del messaggio pubblicitario. Un topic, questo, che raccoglie i commenti di chi ritiene fastidiosa l’immagina della bambina che presenta petulante alla madre una richiesta con un linguaggio davvero poco infantile («Vorrei una colazione leggera ma decisamente invitante, che possa coniugare la mia voglia di leggerezza e golosità»). Che non a caso è stata accomunata a uno dei classici social “Le frasi di Osho”, ossia espressioni banali e di uso comune espresse fuori contesto. I tifosi dell’asteroide hanno mobilitato il 19,2% dei commenti, uno su cinque.
Rilevanza inferiore, circa il 10%, l’ottiene il cluster che raccoglie i commenti che sottolineano il lato violento dello spot: «Una buona quota di commentatori – dicono Santoro e Vitale – fa riferimento a diversi prodotti decisamente in voga, dal più recente Game of Thrones ai sempre verdi Tom & Jerry e Willy il Coyote. Si tratta inevitabilmente di un modo per porre in evidenza come la tv abbia dei precedenti, quotati e di successo, di format deliberatamente violenti che non suscitano esattamente lo stesso tipo di reazioni indignate. In particolar modo, nel caso di Tom&Gerry e Wile E. Coyote, parliamo di cartoni animati e quindi, a differenza di Game of Thrones, rivolti a un pubblico non adulto». Non supera il 7% il numero dei commenti che sottolineano l’immagine da famiglia da Mulino Bianco dello spot.
In effetti il meccanismo della campagna del Buondì Motta è molto semplice e tradizionale, analogo a quello dell’uomo in ammollo con il suo claim storico: «Non esiste sporco impossibile» e ci inventiamo un modo estremo per proporvelo. Che sia un detersivo o una merendina poco cambia: l’importante è focalizzare l’attenzione del pubblico verso il punto di fuga: ecco il prodotto che esaudisce il più impossibile dei desideri. Un obiettivo assolutamente coerente con l’obiettivo di rilanciare lo storico marchio del Buondì Motta, dopo che negli ultimi decenni la casa dolciaria è passata più volte di mano, prima di essere rilevata da Bauli.
Con un cote in questo caso un po’ inquietante: il desiderio del bambino può essere esaudito dal dio consumo, più e meglio di quanto i genitori – inadeguati, scettici e per questo colpiti d’asteroide – possano fare. D’altronde la forza della procovazione, com’è noto, travalica l’ambito pubblicitario se si pensa all’offerta (supposta) seria di Carpisa che annuncia il sorteggi tra i propri clienti di uno stage di sei mesi per elaborare un piano di comunicazione per l’azienda. Che in questo caso, per ottenere visibilità, ha anche risparmiato sui costi della campagna pubblicitaria.