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“Behind the Label”: il documentario che racconta i retroscena del cotone indiano

Un mondo sommerso. Behind the Label è il documentario realizzato da Cecilia Mastrantonio e Sebastiano Tecchio che racconta un lato sconosciuto dell’India, quello legato alla sua produzione di cotone. L’India è un paese in forte crescita economica, dove l’agricoltura resta la principale attività per il 70% della popolazione. Il secondo settore rilevante per l’occupazione nazionale è l’industria tessile.
Dal 2002 l’India ha sostituito il suo cotone nativo con piante geneticamente modificate e oggi cresce il 90% della sua produzione con semi nati in laboratorio. Produttore dei semi è la Monsanto, multinazionale nota per la sua politica commerciale aggressiva. Mastrantonio e Tecchio hanno dunque scelto di dare voce alle persone direttamente coinvolte per raccontare le conseguenze di un uso non etico del cotone OGM sull’ambiente, ma sopratutto sulla società indiana.
Nel giro di nove anni l’India ha visto affermare il monopolio dei semi Monsanto. L’ ex-direttore commerciale di Monsanto India – Tiruvadi Jagadisan – racconta come l’azienda, per entrare in questo mercato, abbia negli anni Novanta introdotto illegalmente semi con un gene in grado di rendere sterili le varietà locali e poi, dal 2002, ha acquistato passo dopo passo un monopolio di fatto quasi totale del mercato. Oggi i semi di cotone sono distribuiti a carissimo prezzo da aziende indiane, che versano le royalties alla Monsanto: ciò che all’inizio costava 9 rupie al chilo, oggi viene comprato a 4.000 rupie.
Le conseguenze documentate da Behind the Label non interessano solo l’ambiente. Se da un lato i territori risultano impoveriti, la coltivazione del cotone biologico si dimostra ancora più difficile, la presenza di nuovi parassiti si moltiplica, dall’altro gli agricoltori che hanno scelto di affidarsi ai semi Monsanto fanno sempre più fatica a mantenere i propri raccolti, entrando in un circolo vizioso di spese che li ha portati al collasso economico e, in molti casi, al suicidio. Sono 216.000 i contadini che in meno di un decennio si sono tolti la vita per la disperazione generata dai debiti contratti per mantenere le coltivazioni. Parallelamente, il documentario racconta la storia di coloro che hanno scommesso sull’alternativa della coltivazione biologica del cotone. Una strada che parte con il recupero dei semi tradizionali per conservare la biodiversità e assicurare un futuro diverso per i piccoli produttori di cotone nel rispetto dell’equilibrio sociale e ambientale.
Sebbene manchi un contraddittorio, Behind the Label ha il merito di portare l’attenzione sulla situazione indiana, ignorata e sconosciuta a molti, e sull’uso degli OGM, tema controverso su cui l’informazione è spesso confusa e imprecisa. Obiettivo del documentario è, in ultima analisi, quello di aiutare la coltivazione biologica del cotone indiano sensibilizzando anche noi occidentali a un acquisto più consapevole. Perché in un sistema basato sulle leggi di mercato sono le decisioni del consumatore a fare la differenza.




Cittadini pronti a boicottare le aziende che non investono in responsabilità sociale

E’ QUANTO EMERSO DURANTE IL CONVEGNO “CSR: DA IMPEGNO SOCIALE A VANTAGGIO COMPETITIVO”. L’80% DELLE SOCIETÀ QUOTATE HA UN CSR MANAGER. DIMEZZATO IL DATO SULLA TOTALITÀ DEGLI OPERATORI

S ull’importanza delle iniziative di corporate social responsability nei confronti dei soggetti e dei territori coinvolti non possono esservi dubbi. Ma le ricadute non sono scontate quando si passa a considerare il ritorno degli investimenti in csr. Una questione non di scarso rilievo se si considera la prudenza con la quale si muovono le imprese in questo periodo quando si tratta di allocare quote importanti di budget, soprattutto in relazione a segmenti che non riguardano direttamente il core business aziendale. Alcune ricerche pubblicate di recente fanno chiarezza in merito, offrendo risultati sostanzialmente positivi, che promettono di spingere altri operatori ad adottare il tema della responsabilità sociale non come semplice strumento di comunicazione, ma come strategia focale nel modo di fare impresa. Secondo quanto emerso nel corso del convegno “Csr: da impegno sociale a vantaggio competitivo”, organizzato da Manageritalia, Fondazione e Università Alma Mater, Università di Cadice, Osservatorio andaluso della Csr e Dirse, il dibattito sui temi della csr ha portato a una diffusa consapevolezza tra i cittadini in merito a questo tema, che solo qualche anno fa non interessava che piccole fette di popolazione. Ormai si è arrivati al punto che il focus non è tanto sulle aziende che adottano questo approccio, ma su quelle che non lo fanno, e per questo motivo vengono boicottate. L’appuntamento è servito anche per fare chiarezza sul concetto di csr, che funziona davvero solo se non si limita a un’azione di vertice, ma coinvolge tutti i collaboratori dell’impresa con azioni concrete anche nel contesto aziendale. Come a dire che l’esempio all’interno conta più dei principi propagandati. L’importanza della responsabilità sociale d’impresa è evidente anche nel ruolo, sempre più di primo piano, di una figura dedicata: oggi ormai l’80% delle società quotate ha un Csr manager, anche se il dato si dimezza considerando la totalità degli operatori economici. Un’altra ricerca, questa volta condotta da Csr Manager Network, Assonime, Nedcommunity e Altis (Alta Scuola Impresa e Società dell’Università Cattolica del Sacro Cuore), rivela il crescente coinvolgimento dei consigli d’amministrazione nelle politiche di sostenibilità. Un atto di indirizzo fondamentale per poi diffondere le azioni dentro il tessuto aziendale e nei rapporti con il mondo esterno. La csr risulta molto presente nella visione valoriale e strategica delle grandi aziende quotate a Piazza Affari. Il 90% delle realtà presenti nell’indice Ftse Mib ha integrato i temi socio-ambientali nel codice etico e il 51% dei cda esamina e approva politiche aziendali in materia. La nota stonata è costituita dallo scarso allineamento tra impegni assunti formalmente e reale inclusione di tematiche socio-ambientali nel piano industriale (42% delle aziende). Un settore sul quale occorre ancora intervenire.




RESILIENZA, CAPITALE SOCIALE E ISSUE MANAGEMENT PER UNA COMUNICAZIONE RESPONSABILE

Una riflessione sulla comunicazione di crisi nata dai due terremoti che hanno colpito L’Aquila e l’Emilia, con il contributo di numerosi soci Ferpi. La lettura di Toni Muzi Falconi alla luce dei temi di resilienza, capitale sociale e issue management.

Quale descrizione più convincente del diffuso paradigma per cui la comunicazione-con è (quasi) sempre più efficace dellacomunicazione-a… di leggibile nell’appena uscito “Disastri Naturali: una comunicazione responsabile?” (Bologna University Press, 2016), quando Massimo Alesii si sofferma sulla diversità dei modelli che hanno caratterizzato il governo della comunicazione nei due terremoti dell’Abruzzo e dell’Emilia?
Diffusa “resilienza comunitaria” in quest’ultimo e “centralismo comunicativo” nel primo.
Nonostante il recente deperimento degli indicatori relativi al capitale sociale del territorio emiliano, emerge ben chiaro dal racconto di Alesii il diverso spessore di resilienza (“legameria sociale”, la chiama argutamente nel libro un partecipante a un focus dell’Università di Modena e Reggio Emilia). Una resilienza alimentata da reti sociali orizzontali, peer-to-peer, ove è la comunicazione a orientare la qualità delle relazioni e non il contrario, come nel caso dell’Abruzzo dove la comunicazione fu esercizio di potere (politico) e di persuasione (mediatica).
Né conosco rendicontazione più aggiornata e vivace sulla utilità della “prevenzione di crisi” e poi -quando la crisi scoppia- sulle modalità della sua comunicazione, argomentata in questo lavoro da Luca Poma, con la insolita e benvenuta aggiunta di una intrigante suggestione del piano di crisi come “antifurto”, a tutela delle relazioni con gli stakeholder, quasi “copertina’ di Linus”.
In più, dando per scontato che mai una crisi si presenta proprio come era stata prevista, Poma aggiunge anche che l’esercitazione costante è sempre e comunque essenziale perché arricchisce il valore della prevenzione, focalizzando l’attenzione più sul “quando” e sul “come”, che non sul “se” operare.
Considero poi di inusitato livello la essenziale e asciutta lucidità del testo di Sergio Vazzoler quando descrive valori, dinamiche e importanza della comunicazione ambientale per il rafforzamento della partecipazione sociale ai processi decisionali pubblici (è di questi giorni finalmente il primo ingresso ufficiale della Commissione Europea nella elaborazione di una politica di “debat public”).
Basterebbero questi elementi a consigliare la lettura di questa opera – in larga parte dovuta alla passione e la competenza diBiagio Oppi e Stefano Martello – non solo agli studenti universitari, ma a tutti i professionisti, consulenti e dipendenti; giovani, maturi, nuovi vecchi e anziani (come è l’autore di questa nota) che per vivere si occupano di relazioni tramite strumenti e canali di comunicazione. E sono ormai quasi 150 mila nel nostro Paese.
Ma questa opera non finisce qui: le ricche, curiose e stimolanti testimonianze di Fabio Montella e Monica Argilli; insieme all’inedita metodologia di analisi e riflessione prodotta dagli studiosi dell’Università di Modena e Reggio Emilia, ne fanno una lettura davvero originale nel panorama piuttosto banale e ripetitivo della nostra pubblicistica.
Per parte mia, provo ad aggiungere, se possibile, qualche ulteriore valore al lavoro dei miei colleghi, ripercorrendo quel particolare filone delle relazioni pubbliche noto come “issue management”.
Un filone che, soprattutto nella sua accezione “organizzativa”, appare particolarmente adatta a consolidare e rafforzare l’impianto narrativo di questo bel lavoro, nel tentativo di offrire spunti e indicazioni operative a chi dovrà occuparsi delle inevitabili crisi prossime venture.
Nel 1976 lo statunitense Howard Chase – professionista assai vicino al Presidente Eisenhower, e uno dei sei fondatori della Public Relations Society of America – pubblicò un lavoro indicando con il nome di “issue management” una interpretazione della comunicazione d’impresa come ‘colla’ che tiene insieme l’organizzazione composta da network di relazioni.
Si tratta, ancora oggi, del livello più avanzato e maturo di integrazione delle relazioni pubbliche come costitutive della funzione di direzione.
In breve: qualsiasi organizzazione identifica, monitora e orienta – in funzione dei propri obiettivi, caratteristici e unici – le diverse dinamiche delle ‘variabili’ sociali e culturali e dei ‘fattori’ economici e tecnologici che ne influenzano il raggiungimento.
Gli “early adopters”, anche a causa della crescente regolazione pubblica cui venivano sottoposte nella seconda metà degli anni settanta, furono le grandi imprese del tabacco e dell’alcool, delle armi e della tecnologia.
In assoluto all’avanguardia fin dal 1976, la IBM, specialmente in Europa dove le regolazioni dei singoli mercati erano le più diversificate.
Fu allora, nel 1980, che un gruppo di brillanti giovani ex IBMers britannici (Ian Dauman, John Stopford, Geoffrey Morris e Dick Van Den Bergh) fondarono una società di consulenza strategica (Matrix limited) i cui primi clienti furono la Philip Morris e la Shell (!!).
Lo schema organizzativo, parallelo e contemporaneo a quello tradizionalmente gerarchico e verticale, è a matrice: massimo dieci ‘issue’ selezionate incrociando la loro importanza e urgenza. Per ciascuna issue una squadra coordinata da un issue manager e composta da un analyst, un advocate e un account, con ruoli intercambiabili in funzione delle singole competenze e abilità.
L’account segue con attenzione le dinamiche interne dell’organizzazione e come queste impattano sulla specifica issue; l’advocate è l’esperto della rappresentazione presso i regolatori e gli influenti; l’analyst è invece l’esperto della materia specifica; mentre l’issue manager formula la definizione e l’aggiornamento continuo di una policy per ciascuna tematica, assicurando la funzionalità del lavoro collettivo.
La squadra “scorrazza” su e giù e attraverso l’organizzazione formale, con tutte gli immaginabili conflitti ma anche arricchimenti culturali interni stimolatori di straordinari risultati sul campo.
In Italia, nel 1981, nacque la Intermatrix Italia, un srl con azionisti, insieme alla Casa Madre inglese: la Scr Associati (leader nelle relazioni pubbliche); Methodos (leader nella formazione manageriale); il consulente di direzione Mario Unnia; l’economista Antonio Martelli; i sociologi Enrico Finzi e Renato Mannheimer; e il ricercatore Gadi Schonheit. Insomma una gran bella squadra.
Fra i primissimi clienti, la Xerox Italia che, complice il capo della comunicazione Paolo Pasini, commissionò alla neonata società la stesura di un “manuale di issue management” che negli anni successivi ebbe ampia distribuzione soprattutto in ambienti confindustriali andando ad arricchire soprattutto la cultura manageriale del movimento dei giovani imprenditori.
Rimango convinto che l’issue management, nella sua formulazione culturale e organizzativa, rappresenti oggi la metodologia di direzione che meglio integra le logiche fuzzy e relazionali indotte dalle tecnologie prodotte dalla globalizzazione, la società a rete e le rivoluzioni del sistema dei media e del discorso pubblico.
Concludendo, ogni riflessione operativa intorno alla resilienza di un territorio in preparazione (o in presenza) di turbamenti materiali, economici, sociali e culturali costituisce grazie all’esperienza dell’issue management un forte valore aggiunto al capitale sociale di un territorio.




ALGORITMI

Una traccia redatta a quattro mani da Michele Mezza e Toni Muzi Falconi per l’avvio di una possibile riflessione sul tema degli “algoritmi” in Italia e nel mondo. In vista di due incontri sul tema a Roma e Milano.


Mezzo secolo di sociologia dei consumi ci ha insegnato (almeno questo!) che il solo insorgere dei desideri e delle necessità segnala qualche subalternità verso chi li soddisfa.
Ecco allora alcune domande chiave le cui risposte consentono di acquisire un minimo di consapevolezza intorno alla dialettica sociale indotta dal digitale: possiamo ritenere ‘oggettiva’ la struttura semantica dei colossi digitali sapendo che linguaggi, modalità di accesso, selezioni dei contenuti, sistemi di catalogazione sono tutti  elementi ignoti e  privi di opzioni alternative?  Chi “negozia” l’algoritmo? Con chi? Con quali valori e interessi ?
E poi, quella delega generale affidata alla potenza computazione che standardizza i problemi e indicizza le soluzioni, non conduce ad una omologazione della conoscenza?
Qualche giorno fa il rappresentante legale di Facebook ha inviato una lettera al presidente della commissione commercio del senato degli USA John Trune spiegando che le accuse di manipolazione semantica e cognitiva ai sistemi automatici che smistano sul suo social le informazioni si devono solo a “possibili ma isolate azioni di qualche singolo tecnico  che collabora ai progetti di ricerca di Facebook per colmare il gap fra quello che un algoritmo può fare oggi e quello che ci auguriamo potrà fare in futuro”.
Questo gap è oggi forse al centro di una competizione globale di più vasta portata che ci coinvolge tutti. L’anedottica è pressante. L’automatizzazione delle attività discrezionali, quando si intreccia alla potenza di profilazione e personalizzazione delle offerte, altera le relazioni sociali e le forme linguistiche di intere comunità, come spiegava recentemente un approfondimento della Harvard Business Review.

La posta in gioco

Si gioca una partita che forse sovverte la gerarchia uscita dalla rivoluzione industriale.
La smaterializzazione dei valori e del consumo, insieme alla materializzazione  della conoscenza grazie alla comunicazione, trasforma il semplice utente in una figura potenzialmente forte, proprio per la sua inedita capacità di attribuire senso comune e credito sociale al senso del racconto, al servizio o al prodotto. Sicuramente affida ad una nuova funzione, quella del service provider, il ruolo di predisporre e incanalare le nostre richieste più personali.
Del resto, se da un lato l’utente chiede sempre maggiore personalizzazione, dall’altro il distributore di servizi e contenuti si sostituisce ai mediatori tradizionali con una offerta in larga parte gratuita, in cambio di una passiva omologazione a quei sistemi intelligenti  per cui, a fronte di una velocizzazione del servizio,  ogni sistema editoriale, ogni data base, ogni  dizionario impone un allineamento a logiche, linguaggi e discipline indotte da procedure algoritmiche ignote all’utente.

I nostri tesoretti

In una economia sempre più intrecciata alla rete sembrerebbe prodursi un riequilibrio nel rapporto fra produttore e consumatore a favore di quest’ultimo.
Per esempio: la web reputation – per cui il giudizio e le esperienze di persone che conosciamo diventano trasmissibili e consultabili riducendo così l’imprevisto di una nostra scelta grazie ai giudizi di chi quella scelta l’ha già fatta.
Per esempio: il data mining – quel processo che mediante software sofisticati ma facilmente accessibili, ci permette di raccogliere grandi quantità di dati inerenti le nostre scelte  di consumo e quindi di ricostruire profili altamente aderenti alla nostra persona, arrivando così a decifrare anche le condizioni e le premesse per decisioni future.

Eppure

Nella tradizionale relazione produzione/consumo si sono introdotti nuovi soggetti e le nostre attività quotidiane sono sempre più scandite e mediate da entità quali il software e il server. E questo rende asimmetriche le relazioni e i legami sociali.

E noi?

Queste dinamiche ci vedono socialmente esposti su vari fronti.
Uno è il settore Pubblico. Man mano che le Amministrazioni Pubbliche procedono nella digitalizzazione dei  servizi e delle identità di cittadinanza, cresce troppo lentamente una diversa cultura del controllo e del confronto sulle soluzioni adottate. Quali sono le piattaforme scelte? In base a quali modelli comportamentali funzionano? Che garanzie di autonomia e di sovranità assicurano alla comunità? Insomma, usando i nuovi dispositivi chi acquista poteri? Lo stato, Il cittadino o il gestore del sistema tecnologico?
Un altro è il settore Privato. Come si configurano le transazioni digitali? Chi controlla i dati che rilasciamo? Chi misura il modo in cui questi dati producono ricchezza ulteriore?
Pare maturo negoziare forme di discussione con i network  per arrivare ad una esplicitazione concordata dei diritti, dei doveri e dei poteri del cittadino/utente consumatore capace di ‘pungolare’ (nudge) gli imperi tecnologici verso rapporti trasparenti di reciprocità: per esempio, tu usi gratuitamente i miei dati se però io posso usare gratuitamente la tua potenza di calcolo.
 




José Mujica: "Non veniamo al mondo per lavorare o per accumulare ricchezza, ma per vivere. E di vita ne abbiamo solo una"

“Appartengo a una generazione che ha voluto cambiare il mondo, ma che ha commesso il terribile errore di non volere cambiare prima se stessa”.
José Mujica, l’80enne ex presidente dell’Uruguay che durante l’epoca della dittatura fu imprigionato per 15 anni in una cella di isolamento, ha una visione del mondo piuttosto chiara. Il lungo periodo in carcere gli ha permesso di pensare molto e, in occasione dell’inaugurazione del Congresso sulla Saggezza e sulla Conoscenza organizzato dalla stazione radio spagnola Cadena Ser a Cordova, ha illustrato alcuni cardini della propria concezione dell’esistenza.

In prigione ho pensato che le cose hanno un inizio e una fine. Ció che ha un inizio e una fine è semplicemente la vita. Il resto è solo di passaggio. La vita è questo, un minuto e se ne va. Abbiamo a disposizione l’eternità per non essere e solo un minuto per essere. Per questo, ciò che più mi offende oggi è la poca importanza che diamo al fatto di essere vivi.

Da quando, qualche mese fa, Mujica ha smesso di governare il proprio Paese, ha iniziato a viaggiare parecchio ed è diventato un punto di riferimento per diverse persone. Molti apprezzano le sue idee, il suo modo di essere semplice e il suo parlar chiaro.

Essere anziano è un vantaggio, perché da giovane uno può montarsi la testa con tutti questi elogi. Però non sono né un filosofo né un intellettuale. Lo sono stato fino ai 25 anni. Fino a quell’età leggevo di tutto, dalla guida telefonica a Seneca.

Il filosofo romano vissuto a Cordova è stato una costante nel discorso dell’80enne. “Seneca affermava che non è povero chi ha poco, ma chi desidera molto”. Mujica si è cosí concentrato sull’economia di mercato e su un sistema di crescita basato sul consumo.

Io lotto contro l’idea che la felicità stia nella capacità di comprare cose nuove. Non siamo venuti al mondo solo per lavorare e per comprare; siamo nati per vivere. La vita è un miracolo; la vita è un regalo. E ne abbiamo solo una.