Violazione copyright, chi ci rimette? "In fondo è tutto marketing gratuito"

Studio indipendente commissionato dall’Agcom inglese va controcorrente. E prova ad anticipare le soluzioni utili a un giusto equilibrio tra offerta legale dei contenuti e l’ampliamento della libertà di scelta dei consumatori. Per evitare la criminalizzazione dei comportamenti quotidiani
OGNI VOLTA che rigiriamo una email, pubblichiamo un poster pubblicitario su Facebook o una clip musicale su Youtube violiamo il copyright di qualcuno. Ogni volta che facciamo lo schizzo di un quadro durante la riunione aziendale violiamo un copyright, ogni volta che incolliamo la copertina di un libro su Twitter o pubblichiamo un articolo di giornale sul nostro blog violiamo un copyright. Ogni volta che fotografiamo i nostri bambini dentro un museo violiamo un copyright. Siamo tutti trasgressori. Ma chi ci rimette? Secondo i pubblicitari nessuno, è tutto marketing gratuito; secondo le associazioni di categoria a rimetterci sono gli autori delle opere. Un professore americano, John Tehranian, nel suo libro “Infringment Nation” ha calcolato l’ammontare delle potenziali richieste di risarcimento per ognuno di questi innocui atti quotidiani stimandolo su circa un milione di dollari al giorno.
Tutti criminali allora? Per l’industria del copyright sì. Le associazioni di categoria in tutto il mondo  –  gli editori belgi, l’associazione cinematografica americana, la Siae italiana, la Business Software Alliance e molte altre  –  lamentano quotidianamente perdite di miliardi di dollari o di euro di mancati introiti, tasse inevase e perdita di posti di lavoro, dovuti alla diffusione illegale di opere creative. I numeri che danno sono stratosferici e qualche dubbio su come vengono calcolati rimane.
Di recente l’Autorità inglese per le telecomunicazioni, Ofcom equivalentealla nostra AGCOM, ha pubblicato uno studio esteso sulla violazione del diritto d’autore in Inghilterra. Condotto su un campione di alcune migliaia di persone con un metodo inedito, questionari online e interviste faccia a faccia, lo studio di Kantar Media incaricata da Ofcom e pagata dall’Intellectual property office (Ipo) inglese ha fatto un po’ di chiarezza sull’allarme copyright.
La ricerca ha stimato che nei tre mesi di monitoraggio dei comportamenti del campione su Internet solo 1l 16% dei soggetti considerati, dai 12 anni in su, aveva scaricato o “strimmato” o “acceduto” a materiale “illegale”, cioè materiale di cui non si posseggono i diritti relativi all’acquisto. I livelli di violazione di questi diritti sono piuttosto variabili: l’8% ha consumato musica senza pagare, il 6% lo ha fatto coi film, il 2% con software e videogames. La maggior parte dei trasgressori sono maschi tra i sedici e i trentaquattro anni. Ma l’analisi ha anche registrato che questi consumatori scorretti consumano più contenuti digitali di tutti gli altri, anche pagandoli. Di questo 16% la metà ha dichiarato di farlo illegalmente perché i contenuti sono “gratuiti”, e perché è comodo e veloce. Un quarto dei trasgressori dice di farlo per provare i “prodotti” e decidere se comprarli oppure no.
Il problema senza dubbio esiste e pone un questione centrale dell’era della riproducibilità tecnica di ogni oggetto e opera dell’ingegno umano, quello della giusta retribuzione degli autori e del mantenimento della filiera industriale grazie alla quale le loro opere arrivano confezionate al grande pubblico. Ma l’irrigidimento delle norme per tutelare il copyright non è l’unica strada per farlo. Nello studio di Ofcom il 39% dei trasgressori intervistati ha dichiarato che se i prodotti costassero meno non li scaricherebbero illegalmente, il 32% non lo farebbe se quello che cercano fosse disponibile legalmente, il 26% non lo farebbe se fosse finalmente chiaro cosa sia sotto copyright e cosa no.
Non a caso la Commissione Europea ha dichiarato di voler avviare un dialogo strutturato con tutti gli stakeholder per adattare il copyright all’era digitale e affrontare il tema della portabilità transfrontaliera dei contenuti, la questione degli user generated contents (contenuti generati dagli utenti) e del data mining (analisi di una grande mole di dati), come pure i prelievi sulle copie private. Un dialogo necessario per evitare che capiti ancora di poter sequestrare il computer a una bambina finlandese di nove anni che aveva scaricato la canzone di una pop star nazionale, molto popolare tra le adolescenti e le ragazzine.
Tutto qui? No. Le proposte alternative a riequilibrare i diritti degli autori e dei consumatori sono molteplici. A cominciare da quella del Centro Nexa del Politecnico di Torino di dare la facoltà a tutti gli autori di rilasciare le proprie opere nel pubblico dominio e di indicare di volta in volta le opere che non debbono starci. Una proposta simile a quella del dual licensing lanciata da Creative commons e molti gruppi di artisti e attivisti di poter distribuire le proprie opere con full-copyright o con un copyright attenuato secondo le convenienze e gli scopi del proprio lavoro. Il meccansimo potrebbe funzionare. Creative Commons ha festeggiato proprio questo mese i 10 anni dalla nascita del set di licenze libere che oggi campeggiano su moltissimi contenuti di Flickr o Tumblr, giornali, settimanali e televisioni come Al Jazeera e che ci dicono che tutto quello che non è vietato è permesso. Permesso d’autore.


UN BUON CASO DI GESTIONE DI CRISIS: BERLUSCONI E IL NUOVO CENTRODESTRA DI ANGELINO ALFANO

Per “crisi” gli addetti ai lavori del settore comunicazione intendono un evento – esogeno o endogeno – di tale virulenza da creare un significativo pregiudizio alla business-continuity di un’organizzazione. Forse proprio dinnanzi a una delle più gravi crisi della Sua carriera da imprenditore si è ritrovato Silvio Berlusconi dopo le – in parte inaspettate, o comunque impreviste – gravi evoluzioni negative delle sue vicende giudiziarie: una crisi a tutti gli effetti sottostimata, principalmente a causa dell’inettitudine dei Suoi collaboratori e avvocati, incapaci di prevedere la portata del rischio in caso di sentenze sfavorevoli; una crisi di tale portata da porlo fuori gioco dalle prossime elezioni, per almeno 2 anni, e da mettere a rischio il suo stesso ruolo di leader politico del centrodestra. Tuttavia, con un’abilità e reattività tipica del personaggio, e che lo consegnerà una volta di più alla storia del nostro Paese – piaccia o non piaccia – come uno dei meno docili e più abili protagonisti dello scenario imprenditoriale e politico italiano, il Cavaliere ha rapidamente elaborato – come consiglia ogni buon manuale di Crisis management – delle contromisure che è impossibile non valutare perlomeno efficaci.
Come ha titolato Marcello Sorgi in un bell’articolo sulle colonne del quotidiano La Stampa, “Un terzo al governo, due terzi all’opposizione”: il Cavaliere ha messo a segno un importante risultato strategico, con una manovra assai intelligente – l’apparente separazione da Angelino Alfano – più simile a una separazione consensuale che non a un divorzio.
La nuova strategia di comunicazione di Berlusconi sta pagando, in termini di ritrovata capacità di influenza del suo gruppo di pressione? Analizziamo brevemente questo nuovo frizzante scenario:

  • le riunioni pre-scissione tra il Cavaliere e la Sua “creatura”, Angelino Alfano, sono state frequenti e intense, fin troppe per far anche solo supporre una spaccatura “a freddo”;
  • dall’analisi di oltre trecento tra post Facebook, tweet e lanci di agenzia di entrambi i personaggi politici, non emergono mai attacchi che vadano al di la della polemica, sempre strumentalmente gestita e invero molto ben “dosata”;
  • non è mai stata nettamente esclusa la possibilità di una “federazione” tra i due gruppi in vista delle prossime elezioni, che anzi appare assai probabile;
  • è ora concreta la possibilità per il Cavaliere di mantenere – seppure “per procura” – una presenza determinante all’interno del Governo Letta, soddisfacendo nel contempo le aspettative di chi nel centro-destra – stanco per la costante sovrapposizione tra le vicende giudiziarie personali dell’ex Premier e le vicende politiche nazionali – manifestava crescenti segnali di insofferenza;
  • si disegna all’orizzonte la possibilità per Berlusconi – da leader dell’opposizione – di gestire con efficacia una lunga campagna elettorale, con le Europee nel 2014 e le politiche al più tardi nel 2015, basata su un programma marcatamente Euro-scettico, tale da riportare a casa anche parte dei consensi persi con il successo del Movimento 5 Stelle di Grillo;
  • è innegabile, come ha denunciato da Renzi nella convention del PD di pochi giorni fa, l’avvenuta “diversificazione dell’offerta elettorale” del centro destra, che ora può articolarsi meglio tra falchi e colombe, ortodossi e moderati, contando anche sui non pochi piccoli partiti in grado di completare il “packaging” dell’ala conservatrice del Parlamento, dalla Lega a Fratelli d’Italia, con accordi in vista delle urne capaci di disegnare maggioranze variabili tali da mettere a rischio la tenuta elettorale del PD;
  • pare potenzialmente assai più efficace la rinnovata validazione di Berlusconi come “perseguitato politico” e bersaglio della Magistratura, ben più credibile – e facilmente gestibile sui mass-media – nel suo ruolo di capo dell’opposizione, che non in quello di alleato di Governo.

Vista a posteriori, dopo alcune settimane dai primi annunci di frizioni tra il padre putativo Berlusconi e il figliol prodigo Alfano, la strategia di posizionamento elettorale e di comunicazione del Cavaliere pare insomma ancor più chiara, e accuratamente pianificata: dividersi in due per contare ancora di più, in termini di influenza all’interno dei palazzi del potere e degli apparati dello Stato, come anche di appeal elettorale, dimostrando una volta di più la straordinaria lucidità di un personaggio – il Cavaliere – ben più abile dei suoi avversari nel gestire efficacemente scenari complessi.


World Press Photo


Terrorismo e iconoclastia

C’è stato un tempo, neanche tanto lontano, in cui si urlava al No Logo. Si consideravano i marchi di fabbrica responsabili – simbolici ma non per questo meno efferati – di tutti i mali del mondo. E li si distruggeva, fisicamente prima ancora che spiritualmente, per ogni dove questi logo si presentavano: nei cartelloni pubblicitari, nelle vetrine, nei capi d’abbigliamento.
C’era chi di nascosto toglieva il coccodrillo alle magliette, ma c’era anche chi apertamente bruciava i pannelli delle pompe di benzina o le insegne dei ristoranti di cibo veloce. Per una strana congiuntura economico-culturale si costruiva entro una unica configurazione un Nemico fatto di multinazionali del petrolio e hamburger nauseabondi, look arciglamour e sneakers d’ordinanza, senza dimenticare la bolla informatica e i suoi mentori industriali. In Italia, nella Genova d’inizio millennio, si sono celebrati gli involontari funerali di tutto ciò. E oggi si ripiega sulle talpe che trivellano le montagne alpine per far accelerare i convogli ferroviari che devono sfrecciare, per volere di chissà chi, lungo le nuove vie commerciali d’Europa.

Ma sul logo è rimasta l’ombra del sospetto, come se quelle griffe che vestono i corpi di tutti noi, volenti o nolenti, e più in generale quei disegnini immancabilmente presenti sulle merci di ogni tipo e natura, natura compresa, fossero i depositari di quel feticismo dietro cui si nasconde l’oppressione capitalistica dell’uomo sull’uomo teorizzata, duecento anni fa, da un genio solitario dalla pessima reputazione.
Ma i logo, poracci, che c’entrano? Perché accanirsi contro questi simboletti che schiere di grafici e designer, strateghi della comunicazione e direttori aziendali mandano in giro, indifesi, per il mondo – pronti a essere esibiti, consumati, riesumati, interpretati, distrutti? La ragione certo c’è, e non sta tanto nel capitalismo, e nemmeno in quel suo avatar mediatico che è il sistema dei brand. Sta in qualcosa di molto diverso, al tempo stesso più profondo e più leggero che è, molto semplicemente, lo statuto semiotico dell’immagine. Come ci hanno da tempo spiegato i grandi teorici del visivo, da Panofsky a Gombrich, da Freedberg a Marin e a Elkins, un’immagine, qualsiasi immagine, sia essa artistica o meno, prima ancora di rappresentare qualcosa del mondo si presenta in esso, è un oggetto fra gli altri, una cosa che non sta lì soltanto a dire o a simboleggiare ma semmai agisce, fa, colpisce, trasforma.

Il famigerato potere delle immagini consiste nel fatto che esse sono, appunto, potenti, talvolta prepotenti, e spesso hanno lo stesso medesimo peso, se non maggiore, delle armi. Uccide più il pennello che la spada. Ragion per cui risorge ciclicamente l’iconoclastia, che alle immagini/armi accanitamente si oppone, ora vincendo ora perdendo, ma in ogni caso innescando una guerra senza quartiere nella quale, alla fine, a rimetterci non sono le immagini ma noi che le facciano, le guardiamo, le subiamo, le sopportiamo con malcelato fastidio.
La forma più recente dell’iconoclastia è stato insomma il movimento No Logo, analogo nei gesti e negli esiti a coloro i quali gettavano via le statue dei santi dalle chiese cristiane in piena rivoluzione francese, quelle di Lenin e Stalin dalle piazze dopo la caduta del muro di Berlino, o quelle di Buddha dagli anfratti afghani in pieno delirio talebano. Cattelan, al confronto, è un improvvisatore.

Tutto questo per dire che è appena uscito un libro che non potrà che mettere di buon umore Naomi Klein, autrice della celebre bibbia mondiale dei no global intitolata appunto No Logo, e con lei gli iconoclasti di risulta che, come rinnovati fantasmi, ancora s’aggirano per l’Europa e oltre. L’hanno messo insieme Artur Beifuss e Francesco Trivini Bellini, s’intitola Branding Terror. Loghi e iconografia di gruppi di rivolta e organizzazioni terroristiche, ed è pubblicato – guarda caso – dalle edizioni del Sole-24ore  (pp. 336, € 27,90) con una prefazione di Steven Heller. Si tratta della più completa raccolta di marchi dei gruppi terroristici di tutto il mondo, da al-Quaeda al Fronte popolare per la liberazione della Palestina, dai Tamil Tigers alle nostrane Brigate rosse e tante altre gradevolezze.

Si ricostruisce brevemente la storia di questa miriade di gruppi e gruppuscoli, e se ne presenta il logo, descrivendone caratteristiche grafiche e valori simbolici. Una vera e propria miniera semiotica, che si riallaccia a un’operazione analoga fatta alcuni anni fa nel blog Ironic sans su cui eravamo caduti – incuriositi – un po’ per caso, dove si proponeva un dibattito ancora oggi di grande richiamo.

La ragione di questa raccolta e del suo interesse, nella sua lapidaria, sconvolgente chiarezza, è esplicitata nell’introduzione di Beifuss: il terrorismo è un vero e proprio processo di comunicazione, che non solo fa uso dei media ma esiste, in quanto tale, se i media già esistono prima di lui, in qualche modo generandolo. Un attentato è un segno con precisi significati di promozione di una determinata ideologia, non un atto di violenza fine a se stesso. Al punto che, per quanto sia antipatico dirlo, un fattaccio come quello di cui è stato protagonista Anders Breivik potrebbe essere letto come un’eclatante operazione di lancio del suo ‘manifesto politico’ dal giorno dopo scaricabile da Internet.
Così, i gruppi terroristici sono grandi produttori di segni, alla stregua delle aziende commerciali o delle istituzioni pubbliche, e come tali devono saperli maneggiare con cura, ai propri fini specifici, di tipo, appunto, promozionale e comunicativo. Analogamente a qualsiasi brand, la scelta dei logo, per essi, non è accessoria ma consustanziale. Lo dice anche Heller nella prefazione con grande chiarezza: “questi gruppi terroristici sono tutti marchi, e ottengono una certa possibilità di sopravvivenza grazie a metodi legati al branding.

Il branding è uno strumento senza coscienza o moralità; può essere usato a scopi sia positivi sia negativi, a volte in contemporanea”. E così come ogni brand lavora per eliminare ogni possibile divario fra l’identità di sé che tende a veicolare e l’immagine che ne viene percepita dal pubblico, analogamente i terroristi devono saper usare, coi kalashnikov, un po’ di Illustrator e di Photoshop per gestire la comunicazione visiva del proprio gruppuscolo armato. Lo fanno bene, male, un po’ e un po’? Vista l’estrema povertà del repertorio figurativo, cromatico e formale messo in gioco in questi logo (stelle, bandiere, falci e martello, pistole, fucili che s’incrociano, fari, scritte… pochissimo altro) si direbbe abbastanza male. Spiccano, a mo’ di controesempio, i tedeschi della Baader Meinhof, banali nella scelta dei simboli e tuttavia eccellenti nella loro resa grafica.
Ma uno studio più approfondito sugli aspetti visivi di questo materiale, c’è da scommetterci, non sarebbe privo di sorprese. Per esempio: a una prima occhiata, si ha una forte impressione di uniformità; la maggior parte dei logo sembrano proprio assomigliarsi fra loro. Ma un vero logo, oltre a far accoliti, deve sapersi distinguere dai concorrenti, diretti e indiretti. Una delle sue prime qualità è la differenziazione. Sorge così una strana contraddizione fra l’enorme quantità dei gruppi terroristici esistenti, fatemelo dire, sul mercato, e la riproposizione sempre uguale dei loro segni. Che dicano tutti la stessa cosa?

 


LE CONSEGUENZE DI UNA CRISI MAL GESTITA: IL CASO COSTA CROCIERE

Mentre procedono le operazioni di recupero del relitto della Costa Concordia, ecco una nuova tesi universitaria, redatta – anche con il mio personale contributo – da Valeria Lamberti studentessa all’Università Bocconi di Milano, sulla crisi che ha coinvolto Costa Crociere e sui più evidenti errori di crisis management commessi dalla Compagnia;
Leggi tutta la tesi “LE CONSEGUENZE DI UNA CRISIMAL GESTITA:IL CASO COSTA CROCIERE” a questo link


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