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Avvocati e comunicatori: tensioni o sinergie?

Recentemente si è svolto un webinar organizzato dall’Ordine Avvocati di Torino, dal titolo “L’avvocato e la comunicazione: vecchie tensioni e nuove frontiere della moderna funzione difensiva”. Un argomento di eccezionale attualità, se consideriamo l’eccezionale clamore mediatico di alcuni processi e la sempre più alta esposizione mediatica dei casi giudiziari, complice il megafono – complesso da governare – dei Social network. Molti avvocati paiono intimoriti da questi strumenti e ambienti, altri invece innovano, portando a tema la stretta collaborazione, vitale nell’interesse degli imputati, tra legali e comunicatori di professione. Abbiamo intervistato su questi temi Nicola Menardo, uno dei più noti avvocati della scena torinese e non solo, partner del blasonato studio Grande Stevens.

Avvocato, come dovrebbe essere gestita, a suo avviso, la delicata relazione tra il processo legale e il giudizio del “tribunale dell’opinione pubblica”?

Il tema del processo mediatico che si affianca a quello celebrato nelle aule di giustizia è molto complesso: non è semplice bilanciare il diritto dell’imputato alla presunzione di innocenza con il diritto all’informazione dell’opinione pubblica. Tuttavia, proprio perché è un fenomeno con cui l’avvocato è oramai necessariamente costretto a confrontarsi, credo che occorra prendere atto della necessità di gestire nel migliore dei modi anche questo aspetto collaterale dell’attività difensiva con lo stesso grado di professionalità e sobrietà con il quale si affronta il processo celebrato in aula, sempre nell’esclusivo interesse del cliente.

“L’importante è organizzare una buona difesa” o potrebbero esserci anche altri elementi in gioco? la gestione della comunicazione durante un processo può influire sulla reputazione a lungo termine di un individuo o di un’azienda?

Credo che occorra partire dalla considerazione che la reputazione è una componente fondamentale della vita e della dignità dell’individuo. Se poi parliamo del professionista o del manager, o ancora delle questioni giudiziarie relative alle imprese, non si può trascurare il fatto che, secondo i più recenti studi, la reputazione è un asset immateriale di inestimabile valore, e spesso la compromissione di questa fondamentale componente del patrimonio aziendale o professionale derivante dalla decisione di non contrastare mediaticamente e in tempo utile le ipotesi accusatorie divulgate sui mass media, può essere – e spesso è! – assai più deleteria della pena che l’imputato rischia di vedersi infliggere alla fine del processo. Questa premessa a mio avviso consente di affermare che la “difesa nel processo” spesso – da sola – per quanto fondamentale, non è sufficiente a proteggere in modo globale gli interessi dell’assistito, per cui occorre valutare l’opportunità di integrarla con una altrettanto buona tutela mediatica, con ovviamente un’adeguata valutazione in termini di costi/benefici.

In che modo, dal suo punto di osservazione, la comunicazione esterna e la copertura mediatica, magari viziata da informazioni errate o fuorvianti, potrebbe influenzare un processo, e quali precauzioni è necessario prendere per mitigare o governare questo impatto?

La questione dell’influenza che le notizie veicolate dai media hanno sul processo di formazione dell’opinione del grande pubbico e sull’esito di un processo celebrato avanti all’Autorità Giudiziaria è complessa, oggetto di numerosi studi scientifici e difficile da sintetizzare senza il rischio di cadere nella banalità. Mi limito a rilevare che in una recente sentenza sul cosiddetto “delitto di Perugia”, la Corte di Cassazione ha espressamente evidenziato che l’inusitato clamore mediatico della vicenda ha fatto sì che le indagini “subissero un’improvvisa accelerazione, che, nella spasmodica ricerca di uno o più colpevoli da consegnare all’opinione pubblica internazionale, non ha certamente giovato alla ricerca della verità sostanziale”, con ciò confermando evidentemente che il processo, in quanto “fatto umano”, subisce inevitabilmente dei condizionamenti esterni. In questi casi, è evidente che portare nel dibattito pubblico e con immediatezza e reattività una contro-narrazione rispetto a quella accusatoria diventa semplicemente imprescindibile.

Può farci un esempio di come comunicatori e avvocati potrebbero e dovrebbero lavorare insieme, nell’interesse dell’imputato, per migliorare la gestione della comunicazione, senza con questo compromettere i delicati aspetti legali?

Ritengo che ogni esternazione del difensore debba avvenire sempre e solo nell’esclusivo interesse della tutela dei diritti del suo assistito, e non per finalità “autopromozionali”, come d’altro canto è imposto dal codice deontologico, ma altresì l’avvocato che affronta un processo avente rilevanza mediatica non può sottrarsi al tema della comunicazione: le scienze sociali insegnano che anche il silenzio è una forma di comunicazione, dal significato – purtroppo – non sempre governabile. Ciò premesso, posto poi che la comunicazione è una scienza sociale complessa, ritengo che, così come il difensore si avvale di esperti e consulenti quando deve affrontare nel processo questioni particolarmente complesse, altrettanto debba fare nel momento in cui di trova ad interagire con il mondo dei mass media, affidandosi dunque ad esperti di comunicazione e di gestione della reputazione.

Come conciliare i diversi orizzonti temporali del processo giudiziario e del processo mediatico, e mettere d’accordo l’approccio relativamente ‘freddo’ della comunicazione legale, spesso in contrasto con il linguaggio necessariamente più “emotivo” dei comunicatori? E inoltre: è possibile equilibrare la necessità di comunicare in modo chiaro e trasparente con il pubblico, tutelando al contempo la riservatezza sulle strategie legali durante un processo?

Va trovato un punto di equilibrio sia nei tempi che nei modi, conciliando questi mondi (e modi) apparentemente distanti ma in realtà interconnessi, dopo una attenda e ponderata valutazione dei rischi, secondo la tipica logica costi/benefici che sottende ogni decisione, e tenuto conto di tutte le circostanze e specificità del caso concreto. Il risultato è spesso il frutto di “mediazione” tra le varie esigenze (di processo e di comunicazione) e dell’utilizzo di un linguaggio comunicativo semplice, comprensibile ai cittadini, ma che non alteri né svilisca i caratteri fondamentali delle questioni giuridiche – spesso complesse – comprendendo che la parola d’ordine funzionale a regolare i rapporti tra avvocato e comunicatore è “collaborazione” e non scontro.

In ultimo, quali considera le competenze essenziali di un comunicatore nel contesto di una crisi reputazionale legata a un processo, e qual è il profilo ideale di comunicatore che lei vorrebbe avere in un suo team?

Il “processo mediatico” è una forma articolata e specifica del più generale fenomeno della “crisi reputazionale”, per cui richiede di essere affrontato da esperti di comunicazione specializzati nella materia della crisis communication, dotati di un’adeguata conoscenza delle dinamiche processuali e delle modalità di circolazione delle informazioni di cronaca giudiziaria, con l’attitudine ad operare a stretto contatto e in sinergia con i professionisti legali, a sondarne le esigenze e a modulare di conseguenza il proprio intervento sui mass media. La sintesi, dimostra la mia personale esperienza, è comunque possibile, nell’interesse dell’assistito.




Esg: un nuovo regolamento sul rating per contrastare il greenwashing

Esg: un nuovo regolamento sul rating per contrastare il greenwashing

Al momento, il mercato dei rating Esg (Environmental, Social, Governance) è viziato da non conformità, elementi distorsivi e soprattutto rischio di greenwashing. È un problema ormai sotto i riflettori, dimostrato anche da una recente ricerca finanziata dall’Europarlamento – presentata a Bruxelles nel giugno scorso – secondo la quale il 70% circa delle aziende che pubblicano bilanci di sostenibilità, confermano che il lavoro delle società di certificazione si è basato soltanto sull’analisi di documenti ed evidenze prodotte dall’azienda stessa, senza quindi vera e propria verifica.

I rating Esg sono ormai indispensabili ovunque per partecipare a bandi, appalti, beauty contest, ma nella maggior parte dei casi le cosiddette “certificazioni” altro non sono che validazioni di auto-dichiarazioni delle aziende stesse, sulle quali non viene effettuato poi alcun controllo di autenticità. È per questo motivo che a breve, a Bruxelles, si discuterà della proposta di Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio europeo sulla trasparenza e sull’integrità delle attività di rating Esg, messo recentemente a punto dalla Commissione europea.

“Non esistendo un quadro normativo specifico a livello europeo per i rating Esg, gli Stati membri, attualmente, operano indipendentemente l’uno dall’altro, generando eccessiva eterogeneità, possibili conflitti e una protezione ineguale degli investitori nei diversi Stati membri”, ha dichiarato Luca Poma, Professore di Reputation Management all’Università Lumsa di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino, che ha avuto modo di analizzare nel dettaglio la bozza di proposta che sta per approdare in Parlamento e avanzare alle autorità preposte alcune osservazioni di merito. “Questo strumento legislativo vuole garantire, attraverso dichiarazioni Esg credibili, autentiche e rilasciate da enti e agenzie autorizzate, una standardizzazione di questo genere di certificazioni, garantendo un approccio omogeneo tra gli Stati membri e una maggiore trasparenza e protezione degli investitori”.

È un intervento che punta dunque a offrire coerenza per un quadro normativo omogeneo che faciliterebbe la comparabilità tra i rating Esg, evitando la diffusione di norme diverse a livello nazionale e garantendo la riduzione delle incertezze per gli operatori del mercato. Un passo importante nella lotta al greenwashing, ma non mancano le criticità. “Per fare solo tre esempi tra tanti, la bozza per com’è ad oggi concepita prevede che l’Esma (l’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati dell’Ue) abbia l’autorità per fare ispezioni solo in caso di segnalazione di violazioni e non di propria iniziativa”, ha aggiunto Poma.

“Senza ispezioni in loco, verifiche e altri meccanismi di controllo, non vi sarà alcuna certezza che i requisiti previsti dal regolamento siano mantenuti nel tempo dalle agenzie di certificazione. Poi, non è prevista la creazione di una banca dati delle aziende che hanno ricevuto il rating Esg e delle relative agenzie che le hanno certificate. Questo limita fortemente la trasparenza verso i cittadini, che dovrebbe invece essere una delle prerogative principali dell’Ue”.

In ultimo, dovrebbero essere gli stessi certificatori ad adottare le misure necessarie per garantire che i rating Esg forniti non siano influenzati da conflitti di interessi, ma chi avrà la responsabilità di verificare che queste misure siano effettivamente rispettate? “Insomma – ha concluso Poma – c’è molto di buono in questa proposta di regolamento, ma anche molto ancora da migliorare”. La proposta, appena approdata in Parlamento, verrà presa in esame dalle varie commissioni delegate già nel corso di questo novembre.




Quando è il silenzio a parlare: la Polizia di Stato e la mancanza di autenticità nella lotta alla violenza di genere

Quando è il silenzio a parlare: la Polizia di Stato e la mancanza di autenticità nella lotta alla violenza di genere

La Polizia di Stato ha scelto di prendere posizione sul tema drammatico femminicidio di Giulia Cecchettin, dimostrando apparentemente una sensibilità solo “di facciata”. L’account Instagram ufficiale ha condiviso i versi di Christina Torres Caceres, che in questi giorni sono diventati simbolo della protesta contro la violenza di genere.

“Se domani sono io, se domani non torno, distruggi tutto. Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima”.  Il post della Polizia, che riprendeva le parole di Christina Torres Caceres, dichiarava: “Questi i versi di una toccante poesia (…) che ci ricordano, oggi più che mai, l’importanza di essere uniti nel combattere la violenza sulle donne. Ricordate, se #questononèamore non siete sole. Insieme per l’eliminazione della violenza di genere»”. Tuttavia, nei commenti, molte donne hanno espresso come si siano sentite isolate proprio nel momento cruciale del tentativo di denuncia. Il post si è velocemente trasformato in un clamoroso autogoal, attirando migliaia di testimonianze centrate sulla presunta trascuratezza di singoli Commissariati rispetto alla mancata ricezione di denunce di donne vittime di violenza.

Una donna ha condiviso: “Da voi mi sono sentita dire: “Venga la prossima settimana” – “Ma magari si tratta di uno scherzo!” – “Aspettiamo un’altra settimana” – “Non c’è molto da fare”. Un’altra ragazza, ha aggiunto: “Quando sono stata trascinata in un parcheggio di forza e sono venuta a denunciare mi avete apostrofato come “quella a cui hanno dato un boffetto sul sedere”. Mi avevano trascinato di peso in un parcheggio. Mi avete chiesto com’ero vestita”. E ancora, un’esperienza con un carabiniere: “Sono uscita con un carabiniere una volta, pensando che fosse single. A metà cena scopro che è sposato, con 3 figli piccoli, e insisteva per portarmi via due giorni. (…) Mi sono trovata ad aver paura, col cellulare scarico, e quei 2 km in macchina prima che mi riportasse alla mia, avevo il terrore che imboccasse un’altra strada”.

Queste testimonianze riflettono una profonda disconnessione tra le dichiarazioni pubbliche di solidarietà e la realtà vissuta dalle donne che cercano aiuto nelle istituzioni preposte alla loro protezione.

E la toppa è stata peggiore del buco, dal momento che la reazione istituzionale a questo uragano di verità scomode si è sostanziata in una fuga dalla realtà, con la cancellazione dei commenti sotto al post e dalla chiusura di ogni spazio di dialogo, con blocco della possibilità di commentare il post da parte dei cittadini.

L’approccio della Polizia di Stato nel gestire la comunicazione sul caso di Giulia Cecchettin ha rivelato una serie di gravi errori. Tentare di sfruttare l’onda emotiva di un femminicidio sui Social media rappresenta non solo un errore sotto il profilo etico, ma anche una mossa comunicativa miope.

La decisione di chiudere i commenti al post, invece di accogliere un dialogo necessario e profondo, ha trasmesso un messaggio di indifferenza, mancanza di empatia e aggressività. Questa azione non solo si è rivelata inutile, ma ha anche aggravato la situazione, alimentando una crisi di reputazione che si è estesa ad altri canali e a molti altri post, in quanto – com’era totalmente prevedibile – i cittadini hanno iniziato a commentare la vicenda sotto molti altri thread, “sporcando” tutto il wall.

In un’epoca dove la trasparenza e l’autenticità sono valutate in tutta la loro importanza, una tale mancanza di coraggio nel confrontarsi con le critiche e le esperienze dolorose condivise dal pubblico ha evidenziato una profonda incomprensione delle dinamiche di comunicazione contemporanee. Limitare la conversazione non solo ha impedito un’opportunità di ascolto e crescita, ma ha anche rafforzato la percezione di un’istituzione disconnessa dalle reali esigenze e sentimenti della comunità che dovrebbe proteggere e servire.

Anche tenendo in conto la possibilità che non tutti i commenti ostili fossero davvero genuini, molti osservatori hanno commentato che piuttosto che concentrarsi sulla creazione di post emozionali sui Social, sarebbe urgente e indispensabile che le istituzioni intraprendano azioni mirate a invertire la tendenza del diffuso machismo ancora presente al loro interno, dimostrando impegno in un percorso di formazione e sensibilizzazione, funzionale a promuovere un ambiente più inclusivo e rispettoso. Azioni concrete, come l’ulteriore revisione delle procedure di denuncia, una più intensa formazione specifica sull’approccio alle vittime di violenza di genere e la promozione di un dialogo aperto e costruttivo con la comunità, potrebbero essere passi essenziali verso un cambiamento significativo.

La lotta contro la violenza di genere non è un compito che spetta esclusivamente alle istituzioni, è una responsabilità che grava su tutti, dai singoli individui alla collettività nel suo insieme. Unire le forze in questa battaglia è essenziale per un cambiamento che deve avvenire su tutti i livelli. Sebbene una rivoluzione così radicale richieda tempo, l’azione delle Forze dell’ordine può e deve essere immediata: la capacità di ascoltare attentamente e prendere sul serio le denunce delle donne può letteralmente salvare vite. Molti saranno sicuramente gli agenti che hanno accolto le richieste di aiuto con estrema cura e attenzione, facendo una differenza fondamentale nella difesa delle donne in difficoltà, e il loro impegno va riconosciuto e valorizzato come esempio di come le forze dell’ordine possano e debbano agire in queste situazioni critiche, e questa vicenda non rende onore al loro operato.

La reputazione delle forze dell’ordine è un pilastro fondamentale nella costruzione di un rapporto di fiducia con i cittadini, che non è solo desiderabile, ma essenziale per garantire un tessuto sociale sicuro e coeso. È quindi vitale che ogni azione, specialmente nella sfera della comunicazione pubblica, sia gestita con la massima attenzione e sensibilità. Errori come quelli commessi in questa occasione possono minare rapidamente questo rapporto, e creare una barriera tra la comunità e coloro che sono incaricati di proteggerla. E questo non deve accadere.




Intelligenza artificiale generativa: cos’è successo in un anno e cosa accadrà ora

Intelligenza artificiale generativa: cos'è successo in un anno e cosa accadrà ora

All’incirca un anno fa, Sequoia Capital pubblicava un documento nel quale si affermava che l’intelligenza artificiale generativa avrebbe dato vita a una profonda trasformazione tecnologica. Detto, fatto: l’avvento di piattaforme come ChatGpt da lì a poco avrebbe generato un fervore paragonabile ai primi giorni di Internet. Sulla base di questa previsione «azzeccata», la società di venture capital di Menlo Park, tra i più grandi investitori hitech del mondo (Apple, Google, Paypal, Cisco, eccetera) è tornata sull’argomento con un articolo dove fa il punto dell’IA oggi e azzarda qualche previsione per il futuro. 

Le previsioni di Sequoia sull’IA generativa

Tra le altre cose, gli analisti di Sequoia avevano previsto che l’IA generativa avrebbe avuto un impatto profondo sul mercato. Ed è andata proprio così: nonostante le sfide, l’IA generativa ha già oltrepassato le fasi iniziali del mercato SaaS (Software as service market), registrando oltre un miliardo di dollari di entrate solo dalle startup. Alcune piattaforme, come ChatGpt, Midjourney e Google Bard, si sono diffuse a gran rapidità dimostrando il potenziale dell’IA generativa. «ChatGpt è stata l’applicazione più veloce a raggiungere 100 milioni di MAU (utenti attivi), e lo ha fatto in modo organico in sole 6 settimane», scrivono nel report di Sequoia Capital. «Al contrario, Instagram ci ha messo 2,5 anni, WhatsApp 3,5 e YouTube e Facebook hanno impiegato 4 anni per raggiungere quel livello di domanda degli utenti». E ChatGpt non è un fenomeno isolato. «La profondità del coinvolgimento di Character AI (durata media della sessione di 2 ore), i vantaggi in termini di produttività di Github Copilot (55% più efficiente) e il percorso di monetizzazione di Midjourney (centinaia di milioni di dollari di entrate) suggeriscono che la prima schiera di killer app è arrivata», si legge. 

In taluni casi, le previsioni si sono rivelate persino caute, come ammette lo stesso articolo: «L’anno scorso avevamo previsto che sarebbe passato circa un decennio prima di avere la generazione di codici a livello di stagista, video di qualità hollywoodiana o discorsi di qualità umana che non sembrassero meccanici. Ma un ascolto veloce delle voci di Eleven Labs su TikTok o del festival cinematografico AI di Runway dice che il futuro è arrivato a grande velocità». 

Intelligenza artificiale, primo e secondo atto 

Quello a cui abbiamo assistito dall’avvento delle prime app di IA generativa era solo il primo atto: «Abbiamo scoperto un nuovo martello – i modelli di base – e un’ondata di nuove app che rivelano nuove interessanti tecnologie», si legge sul report. «Ora riteniamo che il mercato stia entrando nel secondo atto, che sarà più orientato verso gli utenti». In soldoni, nella prossima fase, l’attenzione dell’intelligenza artificiale si concentrerà maggiormente sulle nostre esigenze e problemi. Con interfacce sempre più innovative. «Il mercato sta già iniziando la transizione dall’Atto 1 all’Atto 2», avverte Sequoia Capital. 

Intelligenza artificiale generativa: cosa è successo in un anno e cosa accadrà a breve. Le previsioni di Sequoia Capital
Il mercato dell’IA generativa nel 2023

Esempi di aziende pronte per il secondo atto includono Harvey, che sta costruendo LLM personalizzati per studi legali d’élite (LLM sta per Large Language Model, ovvero i grandi modelli linguistici che stanno alla base delle intelligenze artificiali generative); Glean, che esegue la scansione e l’indicizzazione dei nostri spazi di lavoro per rendere l’intelligenza artificiale generativa più rilevante sul lavoro; e Character.ai e Ava, che stanno lavorando alla creazione di partner digitali. 

Il futuro (prossimo) dell’Intelligenza artificiale generativa

Nella fase attuale, definita come Atto Secondo dell’evoluzione dell’intelligenza artificiale, le Big Tech sono al lavoro non solo per migliorare i loro prodotti, ma anche per renderli più accessibili e utili. Questo significa trasformare modelli linguistici sofisticati in strumenti che possiamo usare nella vita di tutti i giorni, in modo intuitivo. Gli sviluppatori stanno anche sperimentando nuove tecniche come la catena di pensiero, che aiuta le macchine a «ragionare» in modo più simile agli esseri umani: lo scopo è far sì che l’intelligenza artificiale possa seguire un flusso di pensieri, proprio come facciamo noi umani quando riflettiamo su un problema. Ma la sfida non è solo tecnologica. L’esperienza dell’utente è al centro di tutto: per sfondare, le piattaforme di IA puntano su design accattivante e facilità d’uso. 

Il vero obiettivo dell’IA: coinvolgerci come i social

Al momento, infatti, le intelligenze artificiali generative non riescono a coinvolgerci pienamente, al contrario dei social. Se alcune delle principali piattaforme come Instagram, Youtube e TikTok vantano tassi di coinvolgimento giornaliero dei loro utenti tra il 60-65%, e WhatsApp addirittura l’85%, le applicazioni basate sull’IA generativa si limitano a una media del 14%. Questo indica che, nonostante l’entusiasmo iniziale, gli utenti non colgono ancora il mai-più-senza di ChatGPT e le altre. Dunque, il punto essenziale della questione, come sottolinea David Cahn di Sequoia Capital, non riguarda la scoperta di nuove piattaforme in grado di fare cose, ma piuttosto come l’IA generativa possa effettivamente migliorare la nostra vita. La sfida è creare app che ci convincano a usarle spesso e volentieri. Un po’ come hanno fatto le app di messaggistica come Whatsapp e Telegram. Insomma, nel futuro dell’intelligenza artificiale non è detto che vinca chi offre il servizio migliore, ma chi sarà più bravo a coinvolgerci.




GREENWASHING

Sostenibilità, scatta l’allarme sulla rendicontazione ESG nei bilanci delle aziende europee: solo una su 4 si sottopone a verifiche e audit affidabili e indipendenti. Ne parliamo con Luca Poma, Professore di Reputation management all’Università LUMSA di Roma

Guarda il video l’estratto della diretta di RTLNews di domenica 19 novembre 2023 con l’intervento di Luca Poma

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