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Elon Musk: la figura dell’iperpadrone è vincente?

Così l’ha soprannominato qualcuno. Perché lui comanda, arriva, contesta, critica, licenzia decine di migliaia di persone senza alcuno scrupolo; e poi twitta, senza sosta, contro i vaccini, strizzando l’occhio a Trump e Putin, e difendendo la “libertà di parola” sui Social, che – a suo avviso – si sostanzierebbe nel diritto di chiunque di dire qualunque cosa condividendo informazione-spazzatura online, inquinando i pozzi e alimentando fake-news e analfabetismo funzionale. Non per nulla, Musk piace molto al Ministro Matteo Salvini, che di queste strategie di disinformazione ha fatto una colonna portante del proprio posizionamento pubblico (senza comprendere che se il suo consenso in Italia è crollato dal 30 ed oltre per cento delle europee al misero 7% delle ultime politiche, un motivo forse c’è).

L’uomo più ricco del mondo – una specie di “faraone 2.0”, con 200 miliardi di dollari di patrimonio personale, che si vanta pubblicamente di richiedere a suoi collaboratori fedeltà senza limiti di orario a totale detrimento della vita privata – è l’emblema del “bene o male purché se ne parli”. Chiassone e a tratti trash, inconsapevole del fatto che il modello press-agentry, che predicava il riempimento degli spazi sui mass-media un tanto al chilo, è definitivamente tramontato da oltre 50 anni.

Incredibile la quantità di valore bruciato: un oceano di capitale reputazionale che, se ben speso, avrebbe potuto fare la differenza sia per Musk che per i suoi ambiziosi – e a volte geniali – progetti imprenditoriali. “Perché?”, si chiedono i migliori relatori pubblici nei 5 continenti…

E se lo chiedono anche influencer non da poco, come ad esempio Elton John (1,1 milioni di follower sul social dell’uccellino azzurro), che ha frizzato il proprio Twitter perché “la disinformazione sta prosperando senza controllo”, dichiarando: “Per tutta la vita ho cercato di usare la musica per unire le persone eppure mi rattrista vedere come la disinformazione venga ora utilizzata per dividere il nostro mondo”. Ma anche il mondo della scienza è lapidario: Karen How, la senior editor della MIT Technology Rewiew, disse: “I novellini ascoltano sempre il più rumoroso nella stanza, ma nessun esperto è interessato a quel che dice Elon Musk”

Musk è una celebrità, questo è certo, ma afflitto da una smisurata ipertrofia dell’ego: patisce a non essere costantemente sulla cresta dell’onda (digitale) ed è disponibile a cavalcare qualunque tipo di polemica pur di surfare l’hype, come un adolescente complessato e desideroso di attenzione. Nulla di male, si direbbe, se non fosse che la continua e reiterata violazione dei fondamentali del reputation management fa male non solo alla sua immagine pubblica, ma anche al valore di borsa delle sue aziende, esposte alle fluttuazioni generate dalle esternazioni del loro lunatico CEO (Tesla ad esempio è calata del 52% dall’inizio del 2022). Ultima in ordine di tempo, quella del sondaggio online: “Dovrei dimettermi da capo di Twitter?”. L’imbarazzante esito è che il 57,5% dei votanti ha detto “SI”, gettando il boss nello sconforto: obbedire al volere della rete come ha sempre dichiarato essere imprescindibile fare, o passare oltre facendo dimenticare la votazione, ma tradendo così la fiducia degli utenti? Per intanto, le analisi degli specialisti confermano la crisi: solo il 18% della fan-base esprime un sentiment convintamente positivo per Elon Musk, a conferma che costruire reputazione è un po’ più complesso che non “comunicare”, specie se le comunicazioni sono prive di logica, come quando, dopo un improvvido tweet a mercati aperti in cui aveva detto che era pronto a ricomprarsi la sua azienda a 420 dollari ad azione (il numero è un slang che definisce la cannabis nel gergo di strada), il titolo è stato inizialmente sospeso per eccesso di rialzo, per poi – chiarita la boutade – essere oggetto di due multe da 20 milioni di dollari l’una, una temporanea destituzione dal suo ruolo di Presidente esecutivo, e il blocco di twitter per 3 mesi richiesto e ottenuto dai membri del suo Consiglio di Amministrazione. Davvero allora “bene o male, purché se ne parli?”.  

Peccato, perché il ragazzone mai completamente cresciuto, bullizzato da piccolo e dotato di inossidabile forza di volontà, è anche un genio, come confermano i suoi ingegneri della sua SpaceX, con la quale vuole colonizzare Marte, che in più di un’occasione Musk ha smentito dimostrando – ad esempio con l’utilizzo della saldatura ad attrito sui razzi, considerata impossibile da utilizzare – che lui aveva ragione e loro torto. Manda astronauti sulla stazione spaziale (neanche fosse la NASA, eppure…), crea Starlink, la più grande rete di satelliti a bassa quota per garantire l’accesso ad internet ovunque nel mondo, investe sull’auto elettrica diventandone leader mondiale. In ogni caso, c’è del contenuto: a maggior ragione, allora, quanto spreco!

In attesa di capire quanto ancora resterà in piedi la piramide – fortemente asimmetrica – del faraone Musk, lui procede spedito come il suo Hyperloop, il treno super veloce dentro un tubo a bassa pressione (progetto però del quale però si sono perse le tracce), e chiama suo figlio X Æ A-12 (che starebbe per Intelligenza Artificiale in lingua elfica, mentre A-12 si riferisce all’Archangel-12, l’aereo da ricognizione della CIA che Musk ama più di ogni altro aggeggio tecnologico). “In casa però lo chiamiamo solo X, è più breve”: occorre aggiungere altro?

Chiara Ferragni: in carenza di autenticità?

Ennesimo scivolone della prima delle influencer nostrane, nota a livello internazionale. Succede che la fabbrica di dolci Balocco chiuda un accordo con la Ferragni: un pandoro griffato solidale, che sarebbe andato a sostenere l’ospedale oncologico infantile Regina Margherita di Torino (“sono davvero fiera di questa iniziativa”, ammicca Ferragni dai social nel post di lancio). Ma la (malefica) Selvaggia Lucarelli non ci crede, e si attacca al telefono stalkerizzando sia l’azienda che l’ospedale, i quali rispondono a tratti stizziti e a tratti vaghi: impossibile sapere l’entità della donazione, che comunque – contrariamente a quanto avevano capito le massaie dell’intera penisola – non è correlata alle vendite.

Quindi non è “compro pandoro, aiuto ospedale”, quanto piuttosto: “Balocco paga (molto) Ferragni, che benedice il pandoro limited edition con lo zucchero a velo rosa, e fa anche – l’azienda – una donazione al Regina Margherita”; che se la facevano e basta, la donazione, senza costruirci sopra una campagna di marketing solidale andava bene lo stesso, solo che poi nessuno ne parlava sui giornali.

Ferragni non commenta, e in compenso nel pieno del buzz negativo si fa riprendere in slip sulla neve, secondo la vecchia saggia regola “se sei in mezzo a un casino, distraili…”, sollevando un pandemonio per alcuni commenti sgarbati di bodyshaming (scritti dal suo ufficio stampa, ha ipotizzato qualche mala lingua…) e spostando così completamente l’attenzione dalla vicenda del pandoro. Furba, la Chiara nazionale: d’altra parte, se ha costruito un impero ci sarà un motivo.

Ferragni, che già aveva deluso qualche addetto ai lavori, quando – in epoca non sospetta – era stata sorpresa ad organizzare con il marito e socio in affari Fedez una veloce recovery dopo le prime reactions negative alla figuraccia del cibo gettato per terra durante la sua festa di compleanno organizzata in un supermercato Carrefour (a caro prezzo… per Carrefour, ovviamente): “adesso facciamo un video così e cosà, tu ti metti a piangere, eccetera” discutevano lei, lui e la suocera. Anche questa vicenda rapidamente dimenticata grazie all’interventismo in epoca Covid, con un po’ di denaro donato da loro (il che è cosa buona), molto denaro donato da altri coinvolti da loro, e la patina di rispettabilità rapidamente ristabilita. O no?

Quel che è certo, e che o la top-influencer italiana – che pure ha molto meriti per aver costruito per prima un universo esperienziale di grande valore (anche economico) – avvierà rapidamente una riflessione accurata e profonda sul proprio frame narrativo, riposizionandosi pubblicamente in modo efficace sotto il profilo dell’autenticità, ovvero della coerenza tra identità (ciò che siamo) e immagine (come appariamo), o questi segnali deboli di crisi deflagreranno in un disastro reputazionale a confronto del quale quanto accaduto fin ora apparirà come un’inezia.

Reputazione: la differenza tra identità e immagine

“Far comprendere la bellezza del costruire la propria reputazione privilegiando non l’immagine, la pubblicità o il marketing fini a se stessi, bensì l’azione, il fare, e il raccontare bene ciò che si è fatto, partendo, sempre, dalla consapevolezza profonda e sentita della propria identità”, scrivevo nell’introduzione a un ponderoso volume sul reputation management scritto a quattro mani con la collega Giorgia Grandoni.

Il termine identità si riferisce all’essenza, al nucleo, all’insieme degli elementi che caratterizzano l’organizzazione nel profondo, sia materiali che immateriali, la sua personalità, la vision, la mission, i valori guida ed i comportamenti dei membri: nel senso più esteso, il motivo stesso per il quale l’organizzazione esiste.

Mai il termine greco Telos – utilizzato da Aristotele, ma ripreso poi anche da Hegel e Marx- fu più centrato: lo studio degli oggetti in relazione ai loro obiettivi, contrapposto (o meglio, integrato) dal termine Téchne, ovvero il metodo grazie al quale si raggiunge uno scopo o si realizza un oggetto. La domanda alla quale, banalmente, tentare di rispondere, quando si indaga circa l’identità di un’azienda, o si lavora per rivitalizzarla, è la seguente: quale era il sogno dell’imprenditore, il giorno in cui ha sottoscritto l’atto fondativo dell’organizzazione? Dove voleva arrivare? Cosa voleva cambiare nella società?

L’immagine riguarda invece la forma esteriore dell’organizzazione, il riflesso dell’identità dell’organizzazione così come appare agli occhi dei suoi pubblici, ed è questione assai più superficiale ed effimera. Le organizzazioni investono molto sul concetto di immagine per cercare di distinguersi e di essere attraenti, mostrandosi al meglio agli occhi di tutti gli stakeholder, eil processo di costruzione dell’immagine aziendale è spesso la priorità degli uffici marketing e pubbliche relazioni, ma quest’attività può rivelarsi assai rischiosa quand’è auto-referenziale: quando ci si allontana troppo dalla vera identità dell’organizzazione, proiettando un’immagine inautentica ed artefatta, si entra nel tunnel del rischio di crisi reputazionale, che distrugge valore non solo per l’influencer/brand ma – ed è ben più grave – anche per tutti coloro che su di esso hanno investito.

Metaforicamente, come ripeto spesso, potremmo immaginare l’identità di un’organizzazione come un palazzo, e l’immagine come un’impalcatura costruita dagli operai per rendere la facciata gradevole alla vista e senza alcuna crepa. Se la distanza tra l’impalcatura e il palazzo fosse eccessiva, naturalmente andrebbe a verificarsi un crollo della prima, così come avverrebbe se un brand cercasse di comunicare inautenticamente un’immagine artefatta e intrinsecamente distante dalla propria identità (qualunque riferimento ai due casi citati in questa analisi non è puramente casuale).

Ed è proprio qui, nello spazio tra identità e immagine, che si posiziona il concetto di reputazione, cheidentifica il grado di allineamento tra l’identità dell’organizzazione e la sua immagine: la reputazione si costruisce nel tempo, insieme ai pubblici dell’organizzazione, che si creano un’opinione valutando tutti i messaggi e soprattutto le azioni – auspicabilmente coerenti con i messaggi – dell’organizzazione stessa.

Le differenze tra Musk e Ferragni sono notevoli, a tratti incolmabili: Musk – oltreché disporre di molte più risorse finanziarie – è polarizzante, divisivo, sopra le righe e non convenzionale ai limiti, a volte, dell’aggressività; la Ferragni vuole (vorrebbe) piacere a tutti, è inclusiva, a la page, moderna, centrata apparentemente su valori progressisti. Se Musk non piace, sta nelle cose; se la Ferragni incomincerà a non piacere, sarà l’inizio della fine della sua posizione di supremazia digitale.

Abbiamo tuttavia isolato alcune keyword preziose, centrali, nella costruzione della reputazione di un brand quali sono indubbiamente, con tutte le loro peculiarità e differenze, Elon Musk e Chiara Ferragni: ascolto della propria audience, rapporto a due vie con reciproca contaminazione di valori, rispetto, sostenibilità (sociale, non solo ambientale), ma soprattutto coerenza e autenticità.

E niente, fa già ridere così.

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