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La CSR conquista i mercati emergenti

L’annuale ricerca Goodpurpose, targata Edelman, rivela uno scenario economico caratterizzato da una profonda dicotomia. Da un lato, il mercato USA in declino, colpito per la prima volta da un calo del numero di consumatori che scelgono marchi impegnati nel sociale, dall’altro, i mercati in crescita, in cui la CSR ottiene ottimi risultati.
A fine aprile è stato pubblicato il quinto studio annuale Goodpurpose® diEdelman, un’analisi globale sul gradimento del pubblico e sull’impatto sui consumatori dei programmi diCorporate Social Responsibility.
Quest’anno l’agenzia di comunicazione, da sempre attenta alle dinamiche sociali in campo economico, ha condotto la sua ricerca su un campione di 8.000 consumatori provenienti da ben 16 mercati diversi (Belgio, Brasile, Cina, Francia, Germania, India, Indonesia, Italia, Giappone, Malesia, Stati Uniti etc.).
A livello globale i dati della ricerca evidenziano come l’*87%* dei consumatori desiderino che il business difenda in egual modo sia i propri interessi economici che quelli sociali, ma solo il 28% di essi creda che esso stia affrontando in modo efficace le problematiche che affliggono la società moderna.
Nonostante ciò la finalità sociale continua ad essere percepita dai consumatori di tutto il mondo che si trovano di fronte a due prodotti di pari costo e pari qualità una leva, un fattore decisivo nel processo d’acquisto – con un aumento del 26 per cento dal 2008. Difatti nel corso degli anni è aumentata l’azione dei consumatori a favore dei marchi che promuovono una buona causa con un aumento del:
+39% del numero di consumatori intervistati che consiglierebbe brand cause-related;
+34% del numero di consumatori intervistati che promuoverebbebrand cause-related;
+9% del numero di consumatori intervistati che cambierebbe il marchio abituale per passare ad un brand cause-related.
L’analisi Goodpurpose si è poi concentrata sullo studio e disamina dei dati relativi al mercato degli Stati Uniti, constatando come il declino economico abbia causato il crollo della percentuale dei consumatori che optano per prodotti che sposano una buona causa, registrando tra il 2010 e il 2012 una caduta in questo settore dal 60% al 53%.
Non si può non prendere atto di questi dati senza citarne un altro molto preoccupante, quello relativo ai consumatori americani colpiti dalla crisi economica, pari all’82% del totale dei consumatori.
La ricerca ha inoltre fatto emergere il paradosso che domina l’odierno panorama economico statunitense: nonostante il crollo dei consumi, il popolo americano crede che la responsabilità di affrontare i problemi sociali ricada di più sulle spalle dei cittadini che su quelle del governo con una percentuale rispettivamente del 35% e del 22%.
“La tensione di questo paradosso mette in luce l’esistenza di significative opportunità per gli specialisti di marketing. Mentre i consumatori al momento hanno meno tempo e soldi da investire sulle tematiche sociali, essi sentono ancora di essere i più responsabili nel campo dell’attività sociale.” Ha affermato Carol Cone, presidente global practice, Business + Social Purpose, di Edelman. “I brand e le imprese possono alleviare il peso dei consumatori rendendo più semplice il loro coinvolgimento nelle questioni sociali e più allineato agli obiettivi/bisogni che devono affrontare oggi: lavoro, fame, educazione e sanità. ” ha concluso Cone.
Il Rapporto tra imprese e finalità sociale invece è in forte crescita nei paesi del Bull Market, o mercati emergenti, – come Cina, Brasile, India, Emirati Arabi, Indonesia e Malesia – e supportano i brand che perseguono scopi sociali, basti pensare che Il 62% dei consumatori delBull Market acquista prodotti cause-related almeno una volta al mese contro il 37% dei consumatori del Bear Market, o mercati in ribasso – come America ed Europa Occidentale.
Ma c’è di più, il Bull Market sta letteralmente mostrando i muscoli nel campo del CSR tramite azioni di rilevanza sociale quali la condivisione, la donazione ed il volontariato:
• Quasi due terzi (il 63%) dei consumatori del Bull Market ha fatto donazioni nell’anno passato contro il 52% dei consumatori del Bear Market.
• Il 44% dei rappresentanti del Bull Market compie attività di volontariato nella propria comunità mentre solo il 23% dei consumatori del Bear Market.
Il Goodpurpose 2012 mette dunque in luce il divario esistente tra paesi dall’economia emergente e paesi la cui economia è in ribasso, la soluzione secondo Edelman potrebbe essere quella di affidarsi a nuovi modelli di marketing.
“La finalità sociale, la ragione di un marchio o un’azienda per andare al di là dei profitti, è ora diffusa in tutto il mondo”, ha dichiarato Cone. “Per promuovere le iniziative di responsabilità sociale e per far si che abbiano il massimo impatto, sia sul piano economico che su quello sociale, le aziende devono essere in linea con le più grandi tendenze socio-economiche del momento ed escogitare soluzioni personalizzate per soddisfare le esigenze mutevoli dei consumatori.”
Clicca qui per scaricare il Goodpurpose 2012 Executive Summary
 




DI CRISI IN CRISI

Viviamo in una società sempre più fragile anche perché “internet non dorme mai”. Secondo una ricerca della società di consulenza Oxford Metrica, venti anni fa la probabilità che un dirigente dovesse affrontare un incidente tale da mettere a rischio il proprio brand era del 20%. Oggi il rischio è salito all’82%.
Praticamente dobbiamo tutti pensare alla prevenzione o almeno capirci qualcosa prima di dover correre ai ripari, in fretta e malamente.
C’è un manuale – pubblicato da poco – che consiglio a tutti, anche a chi non lavora in azienda. Il titolo è Crisis Management. Cioè come comunicare la crisi: strategie e case history per salvaguardare la business continuity e la reputazione. Lo hanno scritto i professionisti Luca Poma e Giampietro Vecchiato ed è pubblicato con il Gruppo Sole 24Ore.
Non è il solito manuale un po’ noioso e accademico, questo libro è scritto bene, con un  piglio giornalistico: l’ho letto in treno e l’ho veramente apprezzato. Devo ammettere che mi avvicino ai manuali di comunicazione un po’ prevenuta: sono spesso scritti in modo verboso e ripetitivo.  Il libro di Luca e Giampietro è completo sul tema: analizza tutti gli aspetti di una crisi, teorici e pratici e soprattutto fa elenchi con ottimi esempi su cosa fare e non fare, e su cosa hanno fatto o non hanno fatto manager e aziende con nomi e cognomi.
Una parte centrale è dedicata alle relazioni media durante le crisi. Sono queste ultime in particolare la chiave della gestione di una crisi. Mi sono piaciuti moltissimo i casi ai quali è dedicata quasi la metà del libro: dalla vicenda degli hamburger venduti nei supermercati E.Leclercal caso della Coca Cola Company in Belgio; da ThissenKrupp ai più recenti WikiLeaks e British Petroleum.
Sul tema – di cui mi sono sempre occupata e appassionata quando lavoravo in azienda – sono stata recentemente invitata insieme a Luca a parlare a Milano a un incontro del Symposium Travel Lab. Ho raccontanto a mia esperienza di crisis in azienda e dati i 15 minuti che avevo a disposizione ho scelto 2 casi che ho qui sintetizzato in 11 slides e in un testo di appoggio.




Green business: ecco i 5 maggiori vantaggi della sostenibilità in azienda

Sono sicuramente più di uno i motivi per i quali un numero sempre maggiore di aziende sta riconsiderando in chiave “green” le proprie strategie. Per questo il sito GreenBiz.it ha pensato di presentare a chi come voi sta pianificando di entrare nel mondo della green economy, o vi è già entrato, i cinque principali vantaggi che questa scelta potrà apportare alla vostra azienda. Naturalmente il tutto supportato da evidenze derivanti dalle principali ricerche di mercato sul settore. Seguiteci.
1) Incremento del valore della marca e sviluppo di vantaggi competitivi
Il NMI (Natural Marketing Institute), primario istituto di ricerca USA, specializzato nei settori della salute e del benessere e nell’analisi delle tendenze green in tutte le industrie, afferma che sta crescendo costantemente dal 2002 ad oggi il numero dei consumatori attenti alla sostenibilità. Questi ultimi, secondo il NMI, propendono per l’acquisto di prodotti realizzati da aziende consapevoli del loro impatto ambientale e che stanno seriamente lavorando per ridurlo. In più studi sociologici affermano che nel corso degli ultimi 40 anni si sta sviluppando una nuova tendenza culturale e sociale rappresentata dal gruppo dei “Cultural Creatives”. Questi individui, stimati dall’NMI come pari a 68 milioni in USA e circa 100 milioni in Europa sarebbero forieri di un cambiamento sociale orientato verso un’economia più etica, uno stile di vita più sano e naturale, una più elevata consapevolezza individuale e collettiva che si evidenzia anche nelle loro scelte di acquisto quotidiano. Secondo il BBMG Conscious Consumer Report, inoltre, circa 9 americani su 10 acquistano più volentieri (a parità di prezzo e qualità) prodotti realizzati attraverso un utilizzo efficiente dell’energia ( 90%), sono attenti alla salute ed alla sicurezza dei loro acquisti (88%), supportano le aziende che intraprendono azioni di fair trade e di sostenibilità sociale (87%), definendosi così “consumatori consapevoli” (conscious consumer).
2) Aumento della produttività e riduzione dei costi
Attraverso lo sviluppo di strategie e pratiche sostenibili aumenta l’efficienza delle attività e dei processi aziendali, tutte le risorse vengono utilizzate in maniera più razionale, si riducono gli sprechi e quindi i costi. Nel 2011 KPMG, in collaborazione con l’Economist, ha realizzato un’indagine definita “The corporate sustainability: a progress report”.In essa vengono riportati i principali benefici che sono derivati ad alcune maggiori aziende USA dall’applicazione di pratiche di sostenibilità. Secondo i responsabili aziendali nel 34% dei casi tali strategie hanno permesso alla propria azienda di ridurre i costi. Anche una recente ricerca di mercato compiuta dalla Buck Consultant, relativa ad un campione di 100 imprese americane di varie dimensioni ed operanti in diversi settori, conferma la crescente presenza di programmi verdi che vengono intrapresi soprattutto alla ricerca di vantaggi economici e riduzioni di costi. La motivazione fortemente “cost saving” allo sviluppo di pratiche sostenibili viene confermata dal fatto che il 60% del campione afferma di aver ottenuto dei risparmi di costo fino al 39% relativamente all’uso dei principali input energetici e di risorse naturali come l’acqua.
3) Miglioramento delle opportunità finanziarie
Gli analisti finanziari riconoscono come un’importante criterio di valutazione delle aziende, la loro propensione a sviluppare piani di sostenibilità, in particolare per quanto riguarda la loro efficienza energetica e la riduzione dell’impatto ambientale. Degno di nota è il recente rapporto “Global 500 Report 2011”, realizzato per il Carbon Disclosure Project (CDP) dalla PricewaterhouseCoopers Advisory. Il report Global 500 del CDP si basa sulle risposte ad un questionario inviato alle maggiori aziende del mondo. Uno dei principali risultati dell’edizione 2011 afferma l’esistenza di una correlazione positiva tra performance ambientali e risultati finanziari. Le aziende più impegnate sul fronte ecologico hanno premiato gli investitori con un rendimento due volte superiore rispetto alla media nel periodo 2005-2011.
4) Minimizzazione dei rischi
Secondo Ernst & Young tra i principali 10 rischi per le aziende riportati nel suo report “Business Risk for Business” ci sono il mancato adeguamento a leggi e regolamenti riguardanti l’ambiente ed il rischio legatoall’utilizzo delle fonti fossili la cui disponibilità è destinata a decrescere, ed i costi quindi ad aumentare, nel corso del prossimo decennio. Le aziende quindi potranno fronteggiare e non trovarsi sprovviste di fronte a tali possibili situazioni di difficoltà solo se prenderanno coscienza con anticipo della necessità di sviluppare politiche rivolte all’utilizzo di fonti energetiche sostenibili ed alla riduzione delle proprie emissioni di carbonio.
5) Attrazione e mantenimento delle risorse umane
Le aziende proattive nei confronti delle problematiche ambientali sono quelle che attraggono maggiormente risorse umane più motivate e che rimangono fedeli nel tempo. La prima ricerca sul tema della gestione sostenibile delle risorse umane nelle aziende italiane, realizzata dal CSR manager network Italia, l’associazione che riunisce i responsabili delle politiche ambientali e sociali delle maggiori imprese italiane segnala un forte allineamento tra CSR Manager (87,5%) e HR manager (80,5%) che giudicano la CSR come elemento strategico essenziale per lo sviluppo di lungo periodo della competitività aziendale. Secondo quanto riportato nel documento: “L’assunzione della responsabilità sociale quale leva strategica per le imprese può migliorare le condizioni di salute e sicurezza dei lavoratori, fare delle aziende dei luoghi più attenti al benessere dei propri collaboratori anche al di fuori del contesto lavorativo, accrescere produttività e motivazione delle persone, ed in prospettiva, essere un elemento di attrazione dei talenti sul mercato del lavoro”.




Crescono i manager della CSR, la “coscienza” delle imprese

I manuali di management li considerano la “coscienza” delle aziende, quei professionisti che hanno coniato parole come stakeholder, convinti che un business per essere sano debba restituire qualcosa non solo ai propri azionisti ma anche al suo territorio e alla sua comunità, e disposti a sfidare le esigenze di bilancio in nome della sostenibilità ambientale e della responsabilità sociale d’impresa. Sono i csr manager, i dirigenti della corporate social responsibility, una generazione ancora giovane per il nostro panorama industriale se è vero che secondo uno studio della Cattolica solo il 40,1% delle aziende italiane quotate ne ha uno al suo interno, mentre quasi il 60% ne è tuttora sprovvisto.E mentre all’estero sono spesso considerati dei guru, uomini capaci di dare un volto umano e quindi “sostenibile” a qualsiasi business e quindi conquistarsi la fiducia e il rispetto dei consumatori, in Italia, complice il tessuto produttivo fatto di piccole e medie imprese, il loro ruolo sta crescendo lentamente e rimane legato in maniera esclusiva alle aziende di grandi dimensioni. «Si tratta di un lavoro a perimetro variabile – spiega Fulvio Rossi, csr manager di Terna e presidente del Csr Manager Network, l’associazione che riunisce i professionisti del settore – perché i suoi protagonisti sono chiamati a trattare tematiche spesso differenti, che cambiano anche da azienda ad azienda. Da un lato hanno un compito di ispirazione, quindi devono predisporre piani e obiettivi per rendere le imprese più sostenibili a livello ambientale e più sane nel rispetto dei principi della responsabilità sociale; dall’altro gli vengono richiesti impegni precisi e molto tecnici come la preparazione e la redazione del bilancio sociale, uno strumento sempre più diffuso tra le grandi aziende».
«Purtroppo – continua Rossi – è ancora molto difficile individuare quale sia il valore effettivo in termini di ritorno economico delle attività ispirate alla corporate social responsibility; è certo che un legame tra le attività csr e la creazione di valore esiste anche quando il manager interviene su caratteristiche all’apparenza intangibili, come la reputazione, le competenze, la previsione dei rischi». Nonostante il peso sempre maggiore riconosciuto a questi asset intangibili, le aziende richiedono ai csr manager prettamente soluzioni pratiche e prodotti utili a migliorare la loro immagine sul mercato. È il caso dei rapporti di sostenibilità che ormai vengono pubblicati dal 70% dei gruppi quotati alla Borsa di Milano.
«In Italia – commenta Carlo Caporale, senior partner della società di recruitment Robert Half – la richiesta di questi profili professionali è in crescita, anche se la domanda sul mercato arriva quasi esclusivamente dalle grandissime aziende, soprattutto le quotate in Borsa. Questo conferma che, almeno per i csr manager, il nostro Paese è ancora decisamente indietro rispetto a Francia e Germania, ma soprattutto a Inghilterra e Stati Uniti dove il grado di interesse nei confronti di queste figure è molto più elevato. La conseguenza è duplice: da una parte i dirigenti esperti di responsabilità sociale sono una merce rara, quindi hanno buon mercato; dall’altra però la domanda delle loro prestazioni è bassa, e quindi anche i posti disponibili sono ridotti». Questa arretratezza trova conferma anche a livello organizzativo. In alcune aziende il csr manager risponde alla direzione finanziaria, in altre a quella legale, in altre ancora direttamente all’amministratore delegato. «Anche questo elemento – continua Caporale – conferma che non si tratta di un profilo standardizzato, tanto nella considerazione gerarchica, quanto nel percorso formativo che viene seguito e che spesso differisce da professionista a professionista».
«Dalle nostre indagini su consumatori e manager – spiega Marcella Mallen, presidente del Centro di formazione manager del terziario – emerge con forza la richiesta di sostenibilità, che vuol dire attenzione all’ambiente, ma anche e soprattutto all’intorno sociale in azienda e fuori. Questo è da alcuni anni un must che entra con forza nei nostri percorsi formativi. Non solo e non tanto quindi corsi per le funzioni ad hoc (green o energy manager o CSR manager), ma soprattutto un filo conduttore che lega molti percorsi formativi e che permea gli aspetti strategici e operativi. Seguendo questa strada, gli aspetti del csr diventano direttrici strategiche dell’azienda per guidare cultura aziendale, comportamenti, innovazione e per diventare solo poi contenuti della comunicazione che in primo luogo deve informare e formare i partner e i clienti e condividere con loro questa mission». «Perché – conclude Mallen – per diventare vantaggi competitivi queste dimensioni del fare business devono essere reali e incidere sui processi interni ed esterni. Non mode passeggere e messaggi mediatici che avrebbero vita breve e non inciderebbero sulla promessa dell’offerta aziendale».




CSR: 150 AZIENDE SOTTOSCRIVONO LA CARTA PER LA SOSTENIBILITÀ AMBIENTALE DI CONFINDUSTRIA

L’industria italiana si tinge di verde e punta sull’eco-sostenibilità. Ad oggi sono infatti 150 le aziende che hanno aderito alla “Carta dei principi per la sostenibilità ambientale’ adottata da Confindustria, uno strumento di innovazione per le imprese aderenti al sistema confederale che sancisce i valori condivisi e le azioni necessarie per un unitario e progressivo avanzamento verso obiettivi green realistici e realizzabili.
E gli obiettivi a breve termine sono ancora più ambiziosi: “speriamo di arrivare a giugno in occasione della conferenza di Rio con almeno 1000 aziende iscritte”, spiega Aldo Fumagalli, presidente commissione Sviluppo sostenibile di Confindustria. Fumagalli è stato intervistato in occasione dell’incontro a Milano in Assolombarda che, oltre a sottoscrivere la carta, ospita il primo dei tre incontri di presentazione a livello nazionale, con i prossimi appuntamenti che saranno a Roma il 18 aprile e a Bari 17 maggio. “Ferrero, Granarolo, Snam, cartiere del Garda, ma anche Assolombarda, Federlegno e Confindustria puglia”, spiega il presidente, sono tra le aziende e le associazioni che hanno già testimoniato il proprio impegno.
Aziende che potranno usufruire di una Guida pperativa che può essere utilizzata come strumento per l’applicazione pratica dei principi riportati nella Carta. La Guida può costituire, infatti, sia un orientamento per le azioni da intraprendere, sia uno strumento di verifica del proprio stato attuale, ai fini di una valutazione di compatibilità con i criteri per lo sviluppo sostenibile. In generale, alla Carta dei Principi e alla Guida Operativa aderiscono, su base volontaria, le imprese e le organizzazioni di imprese associate a Confindustria, che, una volta aderito, vengono dotate del logo ‘Confindustria per la sostenibilità’.
Ma, chiarisce la federazione, sia la carta dei principi che la guida sono strumenti volontari: Confindustria, non essendo un ente di certificazione, non si occupa di controllare la serietà dell’impegno, mentre “spetta alla azienda, che si assume la responsabilità nei confronti dei suoi stakeholder, fare in modo che alle parole corrispondano i fatti”, spiega Fumagalli . Insomma, la Carta Confederale dei Principi per la Sostenibilità Ambientale rappresenta per le imprese e le associazioni aderenti a Confindustria la bussola dei valori di riferimento nel loro cammino per uno sviluppo sostenibile.
Ecco allora i 10 impegni sostenibili che le imprese italiane aderenti devono mantenere:
1. porre la tutela dell’ambiente come parte integrante della propria attività e del proprio processo di crescita produttiva;
2. valutare l’impatto delle proprie attività, dei propri prodotti e servizi, al fine di gestirne gli aspetti ambientali;
3. promuovere l’uso efficiente delle risorse naturali;
4. controllare e ridurre l’impatto ambientale;
5. investire in ricerca, sviluppo e innovazione, al fine di sviluppare processi, prodotti e servizi a sempre minore impatto ambientale;
6. gestire in maniera responsabile il prodotto lungo l’intero ciclo di vita;
7. gestire responsabilmente la filiera produttiva coinvolgendo fornitori, clienti e parti interessate.
8. promuovere iniziative di informazione, sensibilizzazione e formazione, al fine di coinvolgere l’organizzazione nell’attuazione della propria politica ambientale;
9. promuovere relazioni, con le parti interessate, improntate alla trasparenza, al fine di perseguire politiche condivise in campo ambientale;
10. operare in coerenza con i principi sottoscritti in questa carta in tutti i Paesi in cui si svolge la propria attività.