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Chat GPT per migliorare la comunicazione internazionale di un’azienda

Chat GPT per migliorare la comunicazione internazionale di un'azienda

Non tutti conoscono Valery Brumel, ma molti sanno che il salto in alto nelle prime edizioni delle Olimpiadi richiedeva gambe muscolose perché la tecnica “ventrale” dominava ai tempi questa disciplina. Questo atleta degli anni ’50 si distinse grazie a questa caratteristica fisica, come ancora oggi si può notare nelle foto storiche….

Successivamente, qualcosa accadde: qualcuno sostituì la sabbia e i trucioli di legno sui quali Brumel atterrava con i moderni materassi. Da quel momento tutto cambiò. L’innovazione infatti non è il cambiamento della tecnologia: quest’ultima si evolve per ragioni spesso proprie, indipendenti dal volere di chi se ne serve. L’innovazione è piuttosto data dalle opportunità che si aprono in virtù delle soluzioni che nuove tecnologie consentono ed è quindi frutto non di aspetti tecnici, ma organizzativi e culturali: sono i materassi infatti ad aver consentito all’americano Dick Fosbury di adottare il moderno salto di schiena e di innalzare di parecchi centimetri il record del mondo.

L’ultimo cambiamento tecnologico in ordine di tempo è l’avvento dell’Intelligenza Artificiale e costituisce un’opportunità per le aziende che operano in un contesto internazionale su molti fronti, ma anche sul piano della comunicazione.

Grazie alla sua capacità di fornire varianti diverse di un testoChatGPT risulta immediatamente utilizzabile da coloro che devono creare cataloghi, blog, siti web e newsletter. Tuttavia, l’utilizzo di strumenti come Copy.ai o Rytr.me consente di impostare in modo più accurato il formato di comunicazione (ad esempio, e-mail, blog, sito web, social media) e di stabilire il tono da adottare, al fine di generare un primo elaborato da sottoporre poi a un professionista per ulteriori interventi.

Inoltre, le funzionalità basate sull’intelligenza artificiale che permettono di ritoccare, migliorare e differenziare le immagini, come Dall E, Midjourney e Stable Diffusion, si rivelano estremamente utili per l’ampliamento e l’ottimizzazione delle immagini presenti su siti web, cataloghi, marketplace e social media.

Tuttavia, è con Flair.ai che emerge la possibilità di modificare la narrazione di un prodotto, ad esempio, attraverso il cambiamento dello sfondo su cui un oggetto viene riprodotto. 
Nonostante la disponibilità di strumenti che permettono di massimizzare la creazione di testi e immagini, è importante considerare la risposta di Google riguardo al valore che attribuisce ai contenuti generati in questo modo e al loro impatto sui risultati di ricerca.

Di fronte all’avvento di ChatGPT, Google ha specificato che la sua interpretazione del contenuto rimane invariata e che l’obiettivo principale è premiare i contenuti di alta qualità, indipendentemente dal modo in cui vengono prodotti. Pertanto, non è vietato includere testi e immagini generati dall’intelligenza artificiale, e le pagine web che li contengono possono essere indicizzate e oggetto di attività di posizionamento. Tuttavia, Google consiglia di fare riferimento alle sue linee guida sulla qualità dei contenuti, in particolare al concetto di “EEAT” (competenza, esperienza, autorevolezza e affidabilità), che rimangono i criteri da rispettare nella produzione di testi informativi e comunicativi. 

Grazie alla varietà di strumenti disponibili, come quelli menzionati in precedenza, è possibile differenziare i contenuti e i testi, sfruttando anche l’automazione offerta da tecnologie già esistenti e potenziata da ChatGPT.

Ciò si rivela utile per molte aree legate al marketing digitale e all’e-commerce. Ad esempio, le funzionalità basate sull’intelligenza artificiale consentono di:

  • creare bozze di descrizioni di prodotti da perfezionare manualmente per pubblicarle su siti web, negozi online e altri canali digitali di comunicazione;
  • generare variazioni e miglioramenti delle immagini per utilizzarle sul sito e per l’indicizzazione nelle ricerche per immagini;
  • differenziare le informazioni da distribuire su marketplace e siti web dei partner commerciali;
  • aumentare la precisione nella generazione di copy e landing page da sottoporre a test A/B nelle campagne pubblicitarie online;
  • creare bozze di contenuti da utilizzare nella comunicazione sui social media e nelle newsletter;
  • massimizzare le risposte testuali per arricchire l’area di customer service e creare chatbot di assistenza clienti.

Già prima dell’avvento di ChatGPT, l’Intelligenza Artificiale aveva trovato notevoli applicazioni nel marketing digitale e nell’e-commerce, sia per supportare la generazione di contenuti basati su database di informazioni, sia per rendere più efficienti le attività di performance marketing. Tuttavia, oggi le opportunità per le aziende meno strutturate di accedere a tecniche e strumenti professionali per gestire la presenza online sono ancora più ampie.




Il goal che manca all’Agenda 2030

Il goal che manca all’Agenda 2030

Oggi è raro trovare un evento aziendale di qualsiasi tipo che non richiami in qualche modo la sostenibilità, vissuta come passe-partout in grado di comunicare al meglio con cittadini, istituzioni e mercato. Certo, in questa scelta ormai diventata prassi, ci può stare una buona dose di tattica per cavalcare l’onda dell’ambientalmente e socialmente corretto, ma in realtà le imprese, grandi o piccole che siano, si trovano trasversalmente impegnate a “transitare” da un sistema basato sull’acceleratore a uno fondato su freno e frizione. E dove la competitività passa davvero attraverso un utilizzo più consapevole di risorse e un cambio di marcia funzionale ad adattarsi alle istanze di legislatori e consumatori più attenti e rigorosi nei confronti della responsabilità aziendale.

Ecco, allora, che anche la comunicazione si fa responsabile. Al bando i valori di marca giocati su efficienza e performance, ci si focalizza su impegni, rispetto e tutele per (ri)creare una relazione di fiducia con i propri pubblici. E qui entra in gioco il ruolo cruciale dei professionisti della comunicazione, anch’essi impegnati ad abbandonare qualsiasi scorciatoia di pura immagine – che nell’epoca della sostenibilità assume i connotati del greenwashing – per ancorare saldamente il vocabolario aziendale ad azioni verificabili e comportamenti tangibili. Compito tutt’altro che facile nell’epoca dominata da fake news, infomedia e dal rischio crescente di un utilizzo inconsapevole delle applicazioni di intelligenza artificiale.

È in questo contesto che nasce l’iniziativa lanciata da Global Alliance – la federazione delle principali associazioni e istituzioni mondiali di relazioni pubbliche e comunicazione e che rappresenta oltre 320.000 professionisti e accademici – affinché venga presentata la richiesta alle Nazioni Unite di aggiungere un nuovo goal, il diciottesimo, agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) dell’Agenda 2030: l’obiettivo “comunicazione responsabile”. Un’iniziativa, adottata da FERPI in Italia, che intende mettere al centro il dialogo aperto sulle sfide globali, in grado di recuperare il rapporto con il reale, combattendo le diverse forme di propaganda che alimentano e inquinano il dibattito pubblico. Nella comunicazione responsabile il linguaggio si fa inclusivo e abbandona ogni forma di ostilità: questo vuol dire, ad esempio, allenarsi ad accogliere le critiche, a rispondere a dubbi e richieste di approfondimento sul merito, ad accorciare le distanze. Quante volte nella comunicazione d’impresa si cede ancora alla tentazione di rispondere in modo stizzito o presuntuoso, ignorando la regola basilare che se non siamo stati capiti la responsabilità va ricercata in noi anziché che nei destinatari?

Per compiere questo salto di qualità occorre innanzitutto comprendere come accanto alla transizione verso un’economia più sostenibile, le imprese devono organizzare una parallela transizione comunicativa. I diritti, il rispetto delle diversità, la sicurezza sul lavoro e la tutela della salute e dell’ambiente sono valori che richiedono la presenza e il supporto di comunicatori esperti, capaci di traghettare l’intera organizzazione aziendale, formando le persone a nuove competenze e sensibilità e facilitando l’ascolto e il dialogo con i pubblici interni ed esterni. E avendo ben chiaro come la portata della sfida sostenibile è tale da richiedere una parallela assunzione di responsabilità ai consumatori che devono essere accompagnati, proprio tramite la comunicazione responsabile, ad abbandonare abitudini consolidate, soluzioni facili e zone di comfort diventate oggi insostenibili.

C’è poi un ultimo ma fondamentale salto in avanti che deve compiere l’organizzazione che intende garantirsi un futuro in un mondo in profonda trasformazione: se la propaganda crea ad arte continue “emergenze”, è necessario recuperare il rapporto con il reale e affrontare le “urgenze”, quelle vere e in crescita, che affliggono la nostra società. Ecco che, ancora una volta, la comunicazione responsabile è la strada che aiuta l’impresa a mettere a fuoco le priorità e a dimostrarsi empatica nei confronti delle sofferenze. Che siano del pianeta o delle comunità, occorre in ogni caso ripensare il proprio scopo: vana, anzi potenzialmente assai rischiosa, diventa la presentazione dei risultati del proprio report di sostenibilità, se poi s’inciampa nell’indifferenza verso chi, tra i propri stakeholder, ti manifesta un disagio concreto o una richiesta d’aiuto.

Nella cornice della comunicazione responsabile, ovviamente, non possono mancare i media. E in questo caso occorre ricorrere a Italo Calvino per “cercare e sapere riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Nel mainstream la rincorsa ad “asfaltare” il prossimo appare una tendenza irreversibile ma persino in questa cornice i professionisti della comunicazione possono cogliere l’opportunità di costruire relazioni virtuose con chi (e non sono pochi, soprattutto tra chi sperimenta nuovi strumenti e linguaggi) è in grado di fare le domande giuste, valutare l’autenticità del racconto e allargare la platea dei destinatari. Ne è un caso emblematico la nuova direzione “RAI per la sostenibilità – ESG” che, in collaborazione con ASViS e FERPI ha portato i temi e le parole della sostenibilità nei programmi più pop della tv pubblica. A dimostrazione di come la comunicazione responsabile può svolgere appieno il suo compito solo se associata a un ruolo strategico all’interno delle organizzazioni. Ecco, per l’Agenda 2030 è forse arrivato il momento per attribuire “un posto al sole” anche al Goal 18.




IL DIBATTITO SULL’AI

IL DIBATTITO SULL’AI

Microsoft ha annunciato che nei prossimi mesi integrerà Copilot, il suo assistente AI, in Windows 11. Sarà quindi possibile, fra le altre cose, chiedere all’assistente di “regolare le impostazioni” o di eseguire altre azioni su un computer (The Verge).
“Stiamo introducendo Windows Copilot, rendendo Windows 11 la prima piattaforma per computer ad annunciare un’assistenza AI centralizzata per aiutare le persone a intervenire facilmente e a realizzare le cose”, scrive Microsoft nel suo blog.

In un diverso post, sempre Microsoft spiega il concetto di Copilot (copilota). “Un Copilot è un’applicazione che utilizza la moderna AI e modelli linguistici di grandi dimensioni (LLM) come GPT-4 per assistere le persone in compiti complessi. Microsoft ha introdotto per la prima volta il concetto di Copilot quasi due anni fa con GitHub Copilot, un strumento AI di programmazione che assiste gli sviluppatori nella scrittura del codice, e continuiamo a rilasciare dei Copilot in molte delle attività principali dell’azienda. Riteniamo che il Copilot rappresenti un nuovo paradigma nel software alimentato dall’intelligenza artificiale e un profondo cambiamento nel modo in cui lo stesso software viene sviluppato”.

Sul concetto di Copilot torna anche il CTO di Microsoft, Kevin Scott, colui che sta al cuore di questa trasformazione dell’azienda all’insegna dell’AI. In una intervista a The Verge/Decoder, infatti dice: “Volevamo immaginare come utilizzare questa tecnologia per assistere le persone nel lavoro cognitivo che stanno svolgendo. Il primo che abbiamo costruito è stato GitHub Copilot, uno strumento che aiuta le persone a scrivere codice per svolgere le loro attività di sviluppatori di software. Molto rapidamente ci siamo resi conto che si trattava di un modello per un nuovo tipo di programma, che dunque non ci sarebbe stato solo GitHub Copilot, ma molti [altri] Copilot”.

Watermark sui contenuti sintetici

Altro spezzone interessante è quando Scott affronta il tema della generazione di contenuti sintetici e dell’effetto negativo che possono avere, dalla diffusione di disinformazione alla creazione di meccanismi di loop in cui le stesse AI si addestrano su contenuti sintetici, prodotti da altre AI.
“Abbiamo lavorato a un sistema di riconoscimento dei media che consente di inserire un watermark crittografico invisibile nei contenuti audio-visivi”, spiega Scott, in modo che, quando si riceve questo contenuto, un software possa decifrare le informazioni che lo riguardano e che indicano da dove arriva.
“È utile per il rilevamento della disinformazione in generale. L’utente può dire: “Voglio consumare solo contenuti di cui capisco la provenienza”. O si può dire: “Non voglio consumare contenuti generati dall’intelligenza artificiale”, prosegue Scott. Allo stesso modo, il sistema potrebbe essere usato quando si addestra una AI per eliminare contenuti sintetici dai dati di addestramento.

L’intervento di Bengio

Ma se ogni settimana ci sono annunci di prodotto (e non è compito di questa newsletter passarli in rassegna, anche perché sono tantissimi), ogni settimana arrivano anche nuovi spunti su quello che ho definito il dibattito sull’AI, ovvero la parte di discussione più sociale e politica (che include anche differenti visioni su quelle che sono le capacità tecniche attuali e future di questa tecnologia).

Così, dopo i commenti di Yann LeCunGeoffrey Hinton, e altri, non poteva mancare un altro dei pionieri della rivoluzione deep learning, Yoshua Bengio. Il vincitore del Premio Turing 2018 ha dichiarato “che la recente corsa di Big Tech al lancio di prodotti di intelligenza artificiale è diventata ‘malsana’ – scrive il FT –  aggiungendo di vedere un “pericolo per i sistemi politici, per la democrazia, per la natura stessa della verità”.

A proposito di verità: il problema di queste interviste​​ con esperti è che non sono vere e proprie interviste con domanda e risposta in cui i due interlocutori sono chiaramente separati, ma conversazioni che mescolano virgolettati con un resoconto di quanto detto. Questo rende difficile, specie su temi complessi e tecnici come questi, capire bene le priorità dell’intervistato e le sfumature che attribuisce ad aspetti diversi. Ad ogni modo, quella che traspare dall’articolo è una posizione più pragmatica rispetto ad altri ricercatori del settore. E ha il merito di mettere il dito nella piaga. Scrive il FT: “Bengio ha affermato che la cosa più urgente da fare per le autorità di regolamentazione è rendere i sistemi di AI più trasparenti, anche facendo degli audit sui dati utilizzati per addestrarli e i loro risultati. Inoltre, insieme ad altri colleghi, ha proposto una coalizione internazionale per finanziare la ricerca sull’AI in settori importanti per il pubblico, come il clima e la sanità. “Come gli investimenti nel CERN in Europa o nei programmi spaziali: questa è la scala che dovrebbe essere usata oggi per gli investimenti pubblici nell’AI per portare davvero i benefici dell’intelligenza artificiale a tutti, e non solo per fare un sacco di soldi”, ha detto”.

Tuttavia Bengio questa settimana affronta anche il tema dei “rischi esistenziali” di una AI autonoma che che possa agire nel mondo in modo catastrofico in un post scritto di suo pugno.
“Il tipo di AI più sicuro che riesco a immaginare è quello privo di qualsiasi capacità di agire in modo autonomo (agency), ma dotata solo di una comprensione scientifica del mondo (il che potrebbe già essere immensamente utile). Credo che dovremmo stare alla larga dai sistemi di AI che assomigliano e si comportano come esseri umani, perché potrebbero diventare delle AI fuori controllo (rogue) e perché potrebbero ingannarci e influenzarci (per promuovere i loro interessi o gli interessi di qualcun altro, non i nostri)”
E ancora: “La sicurezza delle AI richiede ancora molta ricerca, sia a livello tecnico che a livello politico. Ad esempio, vietare i sistemi di AI potenti (ad esempio, quelli superiori alle capacità di GPT-4) a cui viene data autonomia e capacità di agire (agency) sarebbe un buon inizio. Ciò comporterebbe sia una regolamentazione nazionale che accordi internazionali. La motivazione principale che spinge i Paesi in conflitto (come gli Stati Uniti, la Cina e la Russia) a concordare su un trattato di questo tipo è che un’AI fuori controllo (rogue) può essere pericolosa per l’intera umanità, indipendentemente dalla sua nazionalità. Qualcosa di simile alla paura dell’Armageddon nucleare che probabilmente ha motivato l’URSS e gli Stati Uniti a negoziare trattati internazionali sugli armamenti nucleari fin dagli anni Cinquanta”. 

Il paragone col nucleare

Interessante notare che questi paragoni col nucleare fatti da parte di alcuni ricercatori, imprenditori e politici stanno aumentando (come documentato da settimane in questa newsletter). A rincarare la dose negli ultimi giorni è stato il parlamentare democratico statunitense Seth Moulton, membro della commissione Usa che si occupa di forze armate e difesa. 
“Ciò che ci distingue dall’era nucleare è che non appena abbiamo sviluppato le armi nucleari, c’è stato uno sforzo massiccio per limitarne l’uso”, ha detto in una intervista a una newsletter di Politico. “Non ho visto nulla di paragonabile a questo con l’AI. È molto più pericoloso. La Cina sta investendo enormi risorse nell’AI. Putin ha detto che chi vincerà la gara dell’AI controllerà il mondo. Tutti i nostri principali avversari sono in una vera e propria gara con noi sull’AI, e quindi stiamo perdendo la capacità di impostare la definizione di questi standard internazionali”.

Non parliamo abbastanza delle responsabilità attuali

E qui torniamo necessariamente dal piano della ricerca a quello della politica.
Nella scorsa newsletter avevo raccontato l’audizione sull’AI al Senato americano, con le testimonianze, tra gli altri, di Sam Altman, il Ceo di OpenAI (la società che ha rilasciato ChatGPT, DALL-E ecc). E avevo sottolineato due aspetti: l’atmosfera amichevole e la strana propensione a chiedere regole da parte dell’industria. Ci torno questa settimana perché in effetti James Vincent su The Verge si sofferma proprio sulle due questioni. E scrive: “La cosa più insolita dell’audizione del Senato di questa settimana sull’AI è stata l’affabilità. I rappresentanti dell’industria – in primis l’amministratore delegato di OpenAI Sam Altman – si sono trovati d’accordo sulla necessità di regolamentare le nuove tecnologie di AI, mentre i politici sembravano felici di lasciare la responsabilità di redigere le regole alle aziende stesse (…)    
Ma la stessa introduzione di un sistema di licenze, come proposto da Altman e altri all’audizione, potrebbe in realtà non avere un effetto immediato, prosegue Vincent. Mentre, durante l’audizione, i rappresentanti dell’industria hanno spesso richiamato l’attenzione su ipotetici danni futuri, prestando scarsa attenzione ai problemi noti che l’AI già determina.

Gebru e il problema dei discorsi sui rischi esistenziali

Su questo tema in settimana ritorna anche la ricercatrice di AI Timnit Gebru (più volte citata in questa newsletter) intervistata dal Guardian. A proposito del problema di concentrarsi sui rischi della superintelligenza, di una fantomatica AGI (Artificial General Intelligence) e dei cosiddetti “rischi esistenziali” per l’umanità (l’AI è piena di espressioni e termini ambigui il cui utilizzo tradisce però precise visioni filosofiche-politiche) dice:“Questo tipo di conversazione attribuisce capacità d’azione autonoma, [e relativa responsabilità] (agency) a uno strumento invece che agli esseri umani che lo costruiscono”. Così si può evitare di assumersi responsabilità, prosegue Gebru. “Si dice: ‘Non sono io il problema. È lo strumento. È superpotente. Non sappiamo cosa farà’. No, il problema sei tu. State costruendo qualcosa con caratteristiche precise e lo fate per il vostro profitto. [Tutta questa impostazione] distrae e distoglie l’attenzione dai danni reali e dalle cose che dobbiamo fare. Subito”.

Una via africana all’AI?

A questo proposito segnalo una discussione molto interessante su un magazine africano, The Continent, che proprio nella sua ultima edizione si sofferma su una visione differente dell’AI. Cita l’esempio di una startup, Lelapa AI, “fatta da africani, per africani”, come sottolinea il suo sito. 
“Lelapa AI non sta cercando di creare un programma che ci surclassi tutti. Al contrario, sta creando programmi mirati che utilizzano l’apprendimento automatico e altri strumenti per rispondere a esigenze specifiche”, scrive The Continent. “Il suo primo grande progetto, Vulavula, è stato concepito per fornire servizi di traduzione e trascrizione per lingue sottorappresentate in Sudafrica. Invece di raccogliere sul web i dati di altri, Lelapa AI collabora con linguisti e comunità locali per raccogliere informazioni, permettendo agli stessi di partecipare ai profitti futuri.(…)”. Lelapa AI si differenzia dunque da “quei programmi costruiti dall’Occidente su dati provenienti dall’Occidente che rappresentano i loro valori e principi”, ha commentato una delle sue fondatrici, Jade Abbott. Che nota come le prospettive e la storia africana siano in gran parte già escluse dai dati utilizzati da OpenAI e dai modelli linguistici di grandi dimensioni di Google. “Questo perché non possono essere facilmente “raccolti dal web(scraped)”. Gran parte della storia africana è registrata oralmente o è stata distrutta dai colonizzatori; e le lingue africane non sono supportate (parlate con ChatGPT in Setswana o in isiZulu e le sue risposte saranno in gran parte prive di senso). Per Lelapa, tutto questo rappresenta un’opportunità”, scrive ancora The Continent.

Chatbot e religioni

La localizzazione di questi strumenti in una specifica nazione o cultura può assumere però contorni anche molto diversi. Rest of the World racconta di come in India siano nati vari chatbot di AI a sfondo religioso. Ad esempio, GitaGPT. “il chatbot, alimentato dalla tecnologia GPT-3, che fornisce risposte basate sulla Bhagavad Gita”, il testo sacro più diffuso fra milioni di indiani. Secondo Rest of World “alcune delle risposte generate dai bot di Gita mancano di filtri per le discriminazioni di casta, la misoginia e persino la [violazione della] legge”




Aurora Baruto lancia il suo brand, ma viene criticata la banalità dei prodotti

Aurora Baruto lancia il suo brand, ma viene criticata la banalità dei prodotti

L’influencer Aurora Baruto ha lanciato il suo nuovo brand di abbigliamento, generando una notevole attenzione sui social media. Tuttavia, il debutto del marchio non è stato accolto senza controversie. Le t-shirt del nuovo brand sono state oggetto di critiche per la loro apparente semplicità, con molti utenti che le hanno paragonate a prodotti simili trovabili nei negozi a basso costo, come quelli delle catene di abbigliamento cinesi.

Il lancio di un brand da parte di un influencer è diventato sempre più comune negli ultimi anni. Con il crescente successo delle personalità sui social media, molti di loro hanno visto il potenziale di diversificare le fonti di guadagno attraverso la creazione di linee di prodotti, specialmente nel settore della moda. Aurora Baruto si inserisce in questo trend, tentando di capitalizzare la sua popolarità per avviare un’impresa che riflette il suo stile personale e il suo brand.

La creazione di un marchio da parte di un influencer può avere una serie di vantaggi, tra cui l’indubbia praticità di attingere a una base di fan già esistente potenzialmente pronta a sostenere e acquistare i prodotti facilitandone il successo iniziale. Tuttavia, la semplice popolarità non garantisce automaticamente il successo del brand, soprattutto sul medio e lungo termine.

Nel caso di Aurora Baruto, le critiche sulla semplicità delle sue t-shirt mettono in luce un aspetto cruciale della creazione di un brand. Se da un lato la visibilità di un influencer può fornire una spinta iniziale significativa, la qualità e l’unicità del prodotto sono determinanti per il successo sostenibile. I commenti negativi sugli articoli troppo simili a quelli economici di altre catene suggeriscono che, nonostante la visibilità dell’influencer, il prodotto deve avere caratteristiche distintive che giustifichino il suo prezzo e la sua proposta di valore.

Il processo di creazione e lancio di un brand richiede attenzione non solo al marketing e alla promozione, ma anche alla progettazione e alla qualità del prodotto. La semplicità del design può essere una scelta stilistica valida, ma deve essere accompagnata da un valore aggiunto che risuoni con il pubblico target. Se le t-shirt di Aurora Baruto risultano percepite come poco distintive, potrebbe essere necessario rivedere la proposta del brand per migliorare l’unicità e l’appeal.

In sintesi, mentre la creazione di un brand da parte di un influencer è una strategia sempre più comune e può beneficiare enormemente della popolarità del creatore, il successo di lungo termine dipende dalla capacità di offrire prodotti che si distinguano per qualità e innovazione. La sfida per Aurora Baruto e per molti altri influencer che intraprendono questa strada è quella di tradurre la loro visibilità in un valore reale e percepito dai consumatori, superando le critiche iniziali e costruendo una reputazione solida e distintiva nel mercato.




Moda, tessile, sostenibilità, greenwashing: in Europa l’Italia non ha voce

Moda, tessile, sostenibilità, greenwashing: in Europa l’Italia non ha voce

Si chiama SAC (Sustainable apparel coalition) il comitato a cui l’Unione Europea ha affidato il compito di formulare i criteri che consentiranno ai produttori del comparto tessile-abbigliamento di dichiarare su base volontaria la sostenibilità dei loro prodotti. Si tratta di una delle ultime tessere mancanti all’European Green Deal in gran parte già elaborato dalla Commissione europea per rendere le politiche climatiche dei Paesi membri idonee a ridurre le emissioni di gas a effetto serra, entro il 2030, di almeno il 55% rispetto ai livelli del 1990.

MODA E SOSTENIBILITÀ: LA RELAZIONE SUI PRODOTTI TESSILI

Il SAC però non è l’unico dei comitati al lavoro. Lo scorso maggio a Bruxelles è stata pubblicata la Relazione sui prodotti tessili sostenibili e circolari prodotta dalla Commissione per l’ambiente, la sanità pubblica e la sicurezza alimentare. Si tratta di un’inquietante sequenza di rilievi sullo stato del tessile mondiale, dove viene sottolineato come sia in particolare il tessile europeo (di cui quello italiano costituisce da solo quasi la metà) a essere sotto attacco. Di paragrafi che iniziano con “Considerando che…”, nel documento, ce ne sono diciannove. Ma già nel primo viene evidenziato come la produzione tessile mondiale tra il 2005 e il 2015 sia quasi raddoppiata, mentre nello stesso periodo la durata di utilizzo degli indumenti è diminuita del 36%. Entro il 2030, il consumo di indumenti e calzature è destinato a crescere da 62 a 102 milioni di tonnellate. Le diciotto considerazioni seguenti assegnano al tessile il quarto posto come responsabile in termini di effetto serra, inquinamento chimico, perdita di biodiversità, utilizzo di risorse idriche e terrestri, microplastiche immesse negli oceani. Per giungere alla seguente conclusione: la necessaria transizione verso la neutralità climatica rende impossibile mantenere pratiche e tendenze di consumo come sono attualmente.

I NUMERI DEL SISTEMA TESSILE EUROPEO

Nei suggerimenti, corposo è il numero di righe dedicato a temi come la Gestione dei rifiuti (92 milioni di tonnellate ogni anno), l’Innovazione (un imprescindibile tool per uscire dalla situazione attuale), il Greenwashing (che indica il 53% delle dichiarazioni ecologiche in circolazione come vaghe e fuorvianti). Di grande rilievo sono i passaggi dedicati alla difesa del tessile europeo: fatturato annuo 147 miliardi di euro, esportazioni per 58 miliardi, importazioni per 104. Il sistema è costituito da 143mila PMI che danno lavoro a 1,3 milioni di unità: per l’88,8% microimprese, con meno di 10 dipendenti. Un sistema fragile che deve far fronte alla sempre più intensa concorrenza di Paesi dell’area asiatica. I dati sono allarmanti: il 73% dei capi di abbigliamento e tessili per la casa consumati in Europa arriva da Paesi in cui tanto le norme ambientali che quelle sociali (a fronte di paghe da povertà, restrizione indebita dei diritti sindacali, lavoro minorile e di soggetti fragili, mancanza di sicurezza) sono quasi inesistenti. “La commissione rileva che l’onere normativo che colpisce direttamente e indirettamente l’industria tessile dell’UE, sommato alla pandemia di COVID-19, alla guerra di aggressione russa contro l’Ucraina, all’aumento dei prezzi dell’energia e alle conseguenze dell’inflazione sull’industria, sta minacciando la competitività̀ delle imprese dell’UE”. Anche per questo viene sottolineata l’urgenza di normative che garantiscano che i prodotti tessili in circolazione sul mercato europeo siano durevoli, riutilizzabili e privi di pericoli per la persona: almeno 60 sostanze chimiche presenti attualmente in questi prodotti sono cancerogene, mutagene o tossiche per la riproduzione.

“Perché nessuno è qui a difendere gli interessi delle 43mila PMI italiane che costituiscono da sole il 45% dell’intero comparto europeo?”

LA LOBBY DEL FAST FASHION E L’ASSENZA DELL’ITALIA

Sembrerebbero decisi passi avanti. Ma quel che sta accadendo è assai più complesso e pericoloso di quanto appare. Perché tra le commissioni al lavoro la SAC è decisamente la più autorevole: da sola raccoglie oltre il 50% delle aziende del settore abbigliamento e calzature, riunendo marchi, rivenditori, produttori, associazioni di fibre e altre importanti parti del sistema. E tuttavia tra queste solo 15 hanno diritto di voto. Vale la pena di elencarle. La spagnola Inditex ( Zara e Zara Home, Bershka, Pull&Bear, Massimo Dutti, tra gli altri), la svedese H&M (H&M, H&M Home, Cos, Monki tra gli altri), la danese C&A e la francese Decathlon. A seguire Nike, VF_Corporation (Eastpack, North face, Timberland, Vans tra gli altri) e produttori di sintetico come Gore-Tex (americana) e Sympatex (tedesca). Insomma aziende leader del fast fashion e dell’outdoor. È pur vero che sono presenti i francesi di Ademe (per la transizione ecologica pulita) e la Federation de la Haute Couture. E pure un paio di rappresentanze internazionali: per la lana il WTO (Belgio), per il cotone Cotton Incorporate.

Le bandiere dell'Unione Europea

Le bandiere dell’Unione Europea

PERICOLO GREENWASHING

Nel panorama brilla l’assoluta mancanza di una qualsiasi rappresentanza italiana: nessuna azienda grande o piccola, nessuna associazione di categoria, nessuna fondazione milanese, romana o fiorentina ha qui diritto di voto. Perché nessuno è qui a difendere gli interessi delle 43mila PMI italiane che costituiscono da sole il 45% dell’intero comparto europeo? Perché mai devono prevalere nella SAC i colossi del fast fashion, gli stessi che la Relazione sui prodotti tessili sostenibili e circolari indica come i principali responsabili del disastro ambientale connesso tessile? È dunque logico, lecito e allarmante ritenere che le lobby all’interno della SAC a Bruxelles potranno partorire indicazioni verbalmente rassicuranti, ma in realtà utili a difendere innanzitutto il loro interesse. Un greenwashing al quadrato, insomma.