1

Pinkwashing: eh no, Economy, fateli quei nomi!

Pinkwashing: eh no, Economy, fateli quei nomi!

Con colpevole ritardo, ho sfogliato un numero del bel mensile Economy, diretto da Sergio Luciano. Copertina assai attraente per chi come me si occupa di reputation management: “Pink washing. Dietro il fervore della parità, l’insidia del bluff: come scoprirla e evitarla”.

La cover story è tanto ben documentata quanto inquietante. Ecco qualche dato in ordine sparso: in Italia (fonti ISTAT, JobPricing e Deloitte) solo il 15,5% dei CEO è donna; solo il 22,2% è Presidente di CdA; la percentuale di donne nei Board per il 50% circa delle aziende oscilla tra “nessuna” a un quinto, per non parlare delle drammatiche percentuali (basse) di donne dirigenti, spessissimo con ruoli ad effetto (come ad esempio “responsabile per la sostenibilità” o “responsabile per la parità di genere”, incarichi che fanno tanto fine, salvo poi non dotarle di budget nel 46% dei casi).

Perché – ci chiediamo – a esatta parità di incarico con un uomo le donne in Italia sono pagate dal 10 al 15% in meno? Come si giustifica questo dato da parte di aziende “così attente alla sostenibilità”?

È surreale notare come l’8 marzo, Giornata internazionale per i diritti delle donne, tutte le bacheche digitali del mondo si tingano di rosa o di giallo (il colore della mimosa), salvo poi contraddirsi per i restanti 364 giorni dell’anno: prova ne sia che la grande maggioranza delle certificazioni di sostenibilità GRI sono solo “with reference”, e non “in accordance”, ovvero basati su “cherry-picking” di indicatori graditi alle imprese e non già interamente aderenti alle stringenti indicazioni del Global Reporting Initiative, che è il riferimento più diffuso presso le organizzazioni di tutto il mondo per misurare e comunicare, con il massimo livello di trasparenza, le performance in termini di sostenibilità. E anche sull’autenticità dei famosi rating ESG è bene stendere un velo pietoso, come dimostrano numerose ricerche, una delle quali condotta proprio dal mio team nel 2023, grazie a un finanziamento del Parlamento Europeo, e presentata al Senato della Repubblica l’ottobre scorso.

Inutile ripetere per l’ennesima volta nozioni date totalmente per acquisite nel reputation management, secondo i cui fondamentali sia impossibile costruire valore per gli azionisti sul medio-lungo termine se non mettendosi in pace la coscienza circa la necessità di privilegiare un approccio autentico al business, evitando maquillage, marketing autoreferenziale e lifting pubblicitari (ne abbiamo parlato proprio recentemente in un ricco ed appassionante evento alla IULM).

Un ultimo quesito rimane però irrisolto, a proposito di green, pink e social washing. L’articolo di Economy inizia così (riporto verbatim): “Qual è quella casa di moda, la prima ad aver ottenuto la certificazione per la parità di genere, che dopo aver stabilito nel 2015 come obiettivo l’eliminazione del gender gap, nel proprio report d’impatto scrive che negli ultimi 8 anni ha ‘iniziato ad analizzare la situazione in più di 45 Paesi’? E chi è quel gestore di concessioni autostradali premiato per le sue politiche nella parità di genere con l’inserimento nel Gender Equality Index di Bloomberg, che dopo il delisting dalla borsa ha nominato un CdA di soli uomini? E qual è quella banca che dopo aver sottoscritto il Ceo Champion Commitment Zero Gender Gap, poco prima di deliberare un aumento del compenso del 30% al proprio AD, uomo, ha accolto le dimissioni immediate dal CdA del presidente del comitato remunerazioni, donna, sostituendola peraltro con un uomo?”

“Si dice il peccato ma non il peccatore”, sostiene Economy. E no, cara rivista! Se vuoi parlare di “sciacquate di rosa” con competenza, devi dire sia peccato che peccatore, diversamente stai trattando il tema per vendere copie ma senza assumerti quelle responsabilità che dovrebbero essere ben proprie di un sano giornalismo. E stai, forse, facendo un po’ washing anche tu.

Autocitarsi è sempre antipatico, ma ti diamo una mano senza bisogno di andare troppo lontano: qui trovi un’analisi sulla discriminazione di genere nel mondo delle agenzie pubblicitarie; qui sulla scarsa autenticità nel mondo degli Influencer; qui su non conformità (gravi, per come denunciate) sul semi-monopolista della ristorazione autostradale; qui sullo scandalo Dieselgate; qui sui falsi fondi ESG della più nota banca tedesca; qui su una primaria multinazionale del pharma che ha alterato i dati scientifici pur di immettere sul mercato uno psicofarmaco in grado di indurre al suicidio bambini e adolescenti; e potremmo continuare a lungo. Tutti articoli firmati, e con brand in evidenza e – laddove disponibili – nomi e cognomi dei manager coinvolti.

Perché si fa presto a denunciare la scarsa autenticità: salvo rischiare di esserne vittime noi stessi.




BIG-TECH E LA REPUTAZIONE “SHORT TERM”: È COSI CHE SI COSTRUISCE VALORE?

BIG-TECH E LA REPUTAZIONE “SHORT TERM”: È COSI CHE SI COSTRUISCE VALORE?

Certo, noi siamo i rompiscatole. Quelli che parlano a vuoto, i predittori di sventure. Coloro che hanno come saldo riferimento il medio-lungo termine e criticano il marketing fine a sé stesso, e l’effimero approccio della comunicazione e della pubblicità centrate solo sull’immagine fatua, e non sull’identità. Quelli che restano convinti che per preservare valore le crisi vadano previste, che ci si debba attrezzare prima. Insomma, coloro che – pur guardando più che mai al futuro, ma tenendosi ben ancorati al primo pilastro della costruzione di buona reputazione, che è la qualità del prodotto – paiono un po’ demodè, d’antan, pedanti e poco trendy e non in sintonia con i ritmi frenetici dell’high-tech.

Si, lo ammetto, siamo così. Restiamo convinti che per costruire aziende che durino nel tempo serva un’idea intelligente, un prodotto o servizio di eccezionale qualità, un post vendita memorabile, un approccio tassativamente multi-stakeholder (sveglia, amici del marketing: gli acquirenti non sono l’unico pubblico di riferimento per costruire valore), e una spiccata capacità di previsione di scenario, per anticipare eventuali crisi reputazionali.

Ma noi siamo fuori moda: la tendenza è dettata dall’alta entropia delle big-tech. Ok, bene.

Allora leggiamo qualche dato:

  • Amazon ha annunciato quest’anno un taglio di personale per 27.000 unità, Meta per 11.000 unità, Google per 12.000, Paypal per 2.000, Zoom per 1.300;
  • Il New York Times ha fatto causa a Google per aver utilizzato illecitamente milioni di contenuti giornalistici per addestrare la propria intelligenza artificiale, la richiesta di risarcimento danni fa tremare i polsi;
  • l’Antitrust europea ha ingiunto alla Apple di consentire ai propri utenti di installare anche App di terze parti, rompendo così lo storico monopolio della “mela”;
  • l’OCSE ha approvato la Global Minimum Tax, che impone ai colossi del web con ricavi superiori a 750 milioni di euro (quindi tutti i “big”) di pagare il 15% di imposte, mettendo fine quindi all’elusione fiscale che ha permesso a queste aziende di non pagare tasse macinando più utili;
  • AirBnb si è vista sequestrare 779 milioni di euro dalle autorità per non aver versato la cedolare secca sugli affitti degli appartamenti messi in affitto sulla piattaforma;
  • la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha comminato una multa di 2,4 miliardi di euro a Google perché su Google Shopping avrebbe reso i suoi concorrenti praticamente invisibili agli utenti;
  • sempre l’Unione Europea ha comminato 8 miliardi di dollari di multa ad Android per pratiche anticoncorrenziali;
  • la Federal Trade Commission ha fatto causa ad Amazon, insieme ai procuratori di ben 17 Stati USA, con l’accusa di monopolismo, finalizzato a far pagare ad acquirenti e venditori somme più alte per avere un servizio peggiore;
  • l’AgCom ha sanzionato sempre Amazon per 1 miliardo di euro perché favorirebbe il proprio servizio di logistica a scapito di operatori concorrenti;
  • il nuovo Social Threads lanciato da Mark Zurkerberg già zoppica, con poco più di 150 milioni di download in tutto il mondo (e un numero di utenti attivi in calo);
  • X, ex Twitter, la cui maggioranza è stata acquisita da quel genio (sic!) di Elon Musk, ha perso il 70% di valore da quando il pirotecnico ed eccentrico miliardario l’ha acquistato (a riprova della correlazione esistente tra reputazione del brand e valore assoluto dello stesso);
  • il pandoro-gate che ha malamente coinvolto Chiara Ferragni, le cui aziende sono state squassate proprio dalla sua obiettiva carenza di autenticità percepita, con danni per decine di milioni di euro in termini di perdite di valore, è solo l’ultimo dei preoccupanti indicatori del tramonto di un modello di influencer marketing centrato sull’apparenza;
  • secondo il colosso della consulenza strategica Gartner, società di Stamford (USA) che si occupa di analisi nel campo della tecnologia dell’informazione, entro 2, massimo 3 anni, il 50% degli utenti avrà abbandonato i Social, tenendo magari attivi i profili ma non interagendo più online.

E via discorrendo, potremmo continuare a lungo. Però siamo noi che non capiamo, e che ci ostiniamo a ritenere che il rispetto dei fondamentali del reputation management sia indispensabile per mitigare davvero i rischi e garantire costruzione di valore per i decenni a venire.

Ed eccoci qui, seduti al bordo del fiume, ad aspettare il passaggio dei cadaveri di quelli là, cool e intelligenti: quelli che “la borsa e la Silicon Valley sono mondi di squali, bisogna innanzitutto prendere, altrochè”.

Che poi Wall Street di Oliver Stone è del 1987: son passati 35 anni, e certa gente, di danni, non ne ha forse già fatti abbastanza?




Amministrazione giudiziaria per la Giorgio Armani operations

Amministrazione giudiziaria per la Giorgio Armani operations

La Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano ha disposto l’amministrazione giudiziaria per la Giorgio Armani operations spa, società che si occupa di progettazione e produzione di abbigliamento e accessori del gruppo del colosso della moda, a seguito di un’inchiesta dei pm Paolo Storari e Luisa Baima Bollone e dei carabinieri del Nucleo Ispettorato del Lavoro.

Indagine con al centro un presunto sfruttamento del lavoro, attraverso l’utilizzo negli appalti per la produzione di opifici abusivi e il ricorso a manodopera cinese in nero e clandestina. 

La Giorgio Armani operations spa, controllata dalla Giorgio Armani spa, sarebbe stata “ritenuta incapace di prevenire e arginare fenomeni di sfruttamento lavorativo nell’ambito del ciclo produttivo non avendo messo in atto misure idonee alla verifica delle reali condizioni lavorative ovvero delle capacità tecniche delle aziende appaltatrici tanto da agevolare (colposamente) soggetti raggiunti da corposi elementi probatori in ordine al delitto di caporalato”. E’ quanto viene spiegato dagli investigatori in relazione alla misura di amministrazione giudiziaria disposta dal Tribunale di Milano. 

Si è potuto accertare, spiegano i carabinieri, che “la casa di moda affidi, attraverso una società in house creata ad hoc per la progettazione, produzione e industrializzazione delle collezioni di moda e accessori”, ossia la Giorgio Armani operations spa, “mediante un contratto di fornitura, l’intera produzione di parte della collezione di borse e accessori 2024 a società terze, con completa esternalizzazione dei processi produttivi”.

L’azienda fornitrice, però, “dispone solo nominalmente di adeguata capacità produttiva e può competere sul mercato solo esternalizzando a sua volta le commesse ad opifici cinesi, i quali riescono ad abbattere i costi ricorrendo all’impiego di manodopera irregolare e clandestina in condizioni di sfruttamento”. Un presunto “sistema” che avrebbe permesso “di realizzare una massimizzazione dei profitti inducendo” l’opificio cinese “che produce effettivamente i manufatti ad abbattere i costi da lavoro (contributivi, assicurativi e imposte dirette) facendo ricorso a manovalanza ‘in nero’ e clandestina, non osservando le norme relative alla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro nonché non rispettando i Contratti Collettivi Nazionali Lavoro di settore riguardo retribuzioni della manodopera, orari di lavoro, pause e ferie”.

A partire da dicembre 2023 i carabinieri hanno effettuato “accertamenti sulle modalità di produzione, confezionamento e commercializzazione dei capi di alta moda procedendo al controllo dei soggetti affidatari delle forniture nonché dei sub affidatari non autorizzati costituiti esclusivamente da opifici gestiti da cittadini cinesi nella provincia di Milano e Bergamo”. Sono stati controllati quattro opifici “tutti risultati irregolari nei quali sono stati identificati 29 lavoratori di cui 12 occupati in nero e anche 9 clandestini”.

Negli stabilimenti di produzione effettiva e non autorizzata è stato riscontrato che la lavorazione avveniva “in condizione di sfruttamento (pagamento sotto soglia, orario di lavoro non conforme, ambienti di lavoro insalubri), in presenza di gravi violazioni in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro (omessa sorveglianza sanitaria, omessa formazione e informazione) nonché ospitando la manodopera in dormitori realizzati abusivamente ed in condizioni igienico sanitarie sotto minimo etico”. Sono indagati per caporalato quattro titolari “di aziende di diritto o di fatto di origine cinese” e nove “persone non in regola con la permanenza e il soggiorno”.

Infine, sono state comminate “ammende pari a oltre 80.000 euro e sanzioni amministrative pari a 65.000 euro e per 4 aziende è stata disposta la sospensione dell’attività per gravi violazioni in materia di sicurezza e per utilizzo di lavoro nero”. 

Giudici su società Armani, ‘sistema che prosegue da 7 anni’

Non si tratta di “fatti episodici” ma di un “sistema di produzione generalizzato e consolidato” che riguarda diverse “categorie di beni”, come “borse e cinture”, e che “si ripete, quantomeno dal 2017 sino ai più recenti accertamenti dello scorso febbraio” con la produzione “della merce a marchio Giorgio Armani” realizzata “in concreto” da “opifici cinesi”. Lo scrivono i giudici di Milano Pendino-Rispoli-Cucciniello nel provvedimento con cui hanno di fatto commissariato per un anno la Giorgio Armani operations spa, a seguito dell’inchiesta del pm Storari e dei carabinieri su un presunto caporalato.

Giudici, per prodotti Armani 14 ore di lavoro per 2 euro all’ora

La produzione negli opifici abusivi cinesi di abbigliamento e accessori, venduti poi con marchio Giorgio Armani, era “attiva per oltre 14 ore al giorno, anche festivi”, con lavoratori “sottoposti a ritmi di lavoro massacranti” e con una situazione caratterizzata da “pericolo per la sicurezza” della manodopera, che lavorava e dormiva in “condizioni alloggiative degradanti”. E con paghe “anche di 2-3 euro orarie, tali da essere giudicate sotto minimo etico”. E’ il quadro che emerge dal provvedimento del Tribunale di Milano, attraverso testimonianze degli stessi lavoratori e accertamenti dei carabinieri, con cui è stata disposta l’amministrazione giudiziaria per un anno per la Giorgio Armani operations spa, società del gruppo del colosso dell’alta moda. Un’inchiesta che si inserisce in un filone di indagini aperto dalla Procura di Milano sullo sfruttamento del lavoro, che dopo aver toccato, sempre con fascicoli coordinati dal pm Paolo Storari, grandi aziende di trasporti, logistica, servizi di vigilanza e altri settori, sta approfondendo il mondo della moda. Nei mesi scorsi era stata commissariata dal Tribunale la Alviero Martini spa ed era emerso uno schema simile a quello venuta a galla oggi.

Armani, ‘abbiamo sempre attuato misure di controllo’

“La società ha da sempre in atto misure di controllo e di prevenzione atte a minimizzare abusi nella catena di fornitura”. Così in una nota la Giorgio Armani commenta la misura di prevenzione disposta dal tribunale di Milano per la GA Operations. “La GA Operations – conclude la nota – collaborerà con la massima trasparenza con gli organi competenti per chiarire la propria posizione rispetto alla vicenda”.




Convegno “False ESG: Narrazioni aziendali (in)autentiche?” Milano, IULM, 6 marzo 2024

“False ESG”: narrazioni aziendali (in)autentiche?

Si è svolto il 6 marzo all’Università IULM il convegno “False ESG: Narrazioni aziendali (in)autentiche?”, che ha anche ricevuto un ampio eco sulla stampa lombarda e di settore.

Il convegno (qui riproponiamo il razionale), è stato integralmente registrato, qui di seguito potete vedere il video completo:

Durante il convegno, numerose le domande pervenute tramite whatsapp al moderatore da parte del pubblico in sala e connesso in srteaming. Non è stato possibile rispondere a tutti in diretta, pertanto il Prof. Luca Poma e la Dott.ssa Giorgia Grandoni hanno registrato un ulteriore video in cui hanno risposto a tutti, eccolo:

A seguire, una breve galleria di scatti di alcuni momenti salienti dell’incontro.




Riparte la Scuola di formazione politica dei Riformatori sardi

Riparte la Scuola di formazione politica dei Riformatori sardi

Tre mattinate di approfondimento sul buon governo dei Comuni: è il nuovo evento formativo promosso dai Riformatori sardi intitolato “Alla guida della città: progetto e comunicazione”, inserito nella programmazione della Scuola di formazione politica.

Gli eventi, presentati questa mattina a Sa Manifattura a Cagliari, dal responsabile formazione del partito Umberto Ticca, si terranno al Poetto di Cagliari, stabilimento Il Lido, il 6, 13 e 20 aprile dalle 9.30 alle 13.
    È la seconda parte del corso dedicato agli amministratori locali, rivolta “a chi intende conoscere meglio il buon governo dei Comuni e i meccanismi della politica”, spiega Ticca.

Un focus sulle prossime amministrative con l’obiettivo di formare la futura classe politica e dirigente. “La formula è aperta a tutti a prescindere dall’appartenenza politica, quindi bipartisan – sottolinea – e anche in questa versione è interamente incentrato su argomenti legati alle elezioni, quindi la campagna elettorale e le sfide dei futuri candidati”.
    Si parte sabato 6 con il primo focus sulla comunicazione: con Luca Poma, docente universitario, esperto in comunicazione specializzato in reputation management, saranno approfonditi i temi legati ai pilastri della buona comunicazione, poi approfondimenti a cura di Fabrizio Leoni, docente di progettazione architettonica e urbana al Politecnico di Milano e Sergio Zuncheddu, imprenditore ed editore del Gruppo L’Unione Sarda.
    Il sabato successivo (13 aprile) è dedicato sempre alla comunicazione, con Andrea Camaiora, comunicatore politico, Giulio Steri, avvocato del Foro di Cagliari e Paolo Sanjust, docente di architettura. L’ultimo appuntamento (20 aprile) vedrà la partecipazione di Daniele Chieffi, saggista e docente universitario, già direttore della comunicazione del Dipartimento per l’innovazione e la digitalizzazione della Presidenza del Consiglio e infine Giorgio Angius, che dialogherà con i docenti di Ingegneria e architettura di UniCa, Ivan Blecic e Carlo Atzeni.