Crash Reputation: il dietro le quinte dei casi più famosi
|
Uscito a ottobre 2024, pubblicato da Engage Editore e scritto a sei mani da Luca Poma, Giorgia Grandoni e Alessio Garzina, Crash Reputation, che abbiamo avuto modo di leggere e recensire in questo articolo, è un libro che racconta il dietro le quinte di 50 casi famosi in cui la reputazione di aziende e personaggi di fama mondiale ha subìto un grave danno, o è comunque stata messa a rischio e solo grazie ad una sapiente gestione della crisi stessa, il disastro reputazionale è stato evitato, mitigato, risolto. Stiamo parlando di casi come quello della Costa Concordia, della Thyssenkrupp e di molti altri ugualmente conosciuti e con esiti talvolta molto differenti. Scopo del libro è spiegare come queste crisi reputazionali siano accadute, da dove siano scaturite, e le azioni sia giuste che sbagliate messe in campo per gestirle, oltre ai conseguenti risultati, positivi o negativi.
Crash Reputation: cosa c’è dietro a una crisi di reputazione
Il libro si divide in due parti ben distinte. La prima è di natura più analitica e affronta il tema della reputazione come concetto. Una lettura di tipo tecnico-universitario che vuole mettere in luce quali siano i concetti legati alla reputazione e come fa quest’ultima ad essere messa in crisi da azioni e reazioni sbagliate o comunque avventate degli addetti ai lavori. Grazie alla collaborazione di Alberto Pirni, autore di uno scritto interno al libro, si affronta la reputazione come un costrutto fatto da “autenticità, rispetto, riconoscenza, responsabilità, onore, affidabilità”. Se ci si pensa, è abbastanza immediato comprendere come tutte queste caratteristiche siano ormai inevitabilmente legate alla vita di chiunque voglia fare qualcosa in pubblico. Un’azienda che non persegua l’affidabilità ad esempio, anche (ma ovviamente non solo) dal punto di vista comunicativo, avrebbe certamente vita breve nel mondo attuale.
Gli autori affrontano quindi il concetto di reputazione, fondamentale in ogni campo, per chiarirne la struttura e far capire come questa possa crollare da un momento all’altro (Crash Reputation, appunto) per errori (anche banali), distrazioni e addirittura disinteresse. Eppure, le crisi reputazionali “appassionano il pubblico”. Ovvero, quando qualcosa va male, o sta per farlo, l’interesse pubblico su quella determinata vicenda aumenta a dismisura. Ciò tra l’altro, a causa dell’eco mediatico, contribuisce spesso a peggiorare le cose. Può però anche accadere l’esatto contrario se la crisi è gestita bene. Ma se “il corretto allineamento tra identità ed immagine” viene tradito, poi per riprendersi o addirittura guadagnarci bisogna saperci fare.
Crash Reputation, per spiegare le proprie tesi, utilizza anche elementi di crisis management e crisis communication, ovvero introduce concetti appartenenti ad una sfera molto tecnica che da una parte riguardano la gestione di una crisi in atto ed il modo di prevenirla, mentre dall’altra affronta il tema di come si dovrebbe comunicare prima e durante una crisi per far capire al pubblico ciò che si sta facendo per evitarla in un caso e risolverla nel caso sia già esplosa. Quando una crisi scoppia, se la gestione della stessa non va a buon fine, allora questa aumenta di intensità e la cosa può portare a conseguenze catastrofiche ed irrimediabili. D’altra parte, anche comunicare male può essere causa di una crisi aziendale. E tanto più se si continua a farlo durante la crisi stessa.
Nel volume, dal taglio piuttosto tecnico ma comunque decisamente piacevole da leggere, è spiegato poi cosa è e cosa non è una crisi. Ad esempio può essere utile sapere a chi è titolare di azienda che un’emergenza non è una crisi, rientra invece nella normale gestione di impresa. Una crisi da cui deriva un crash reputazionale, può invece essere strisciante (cioè esiste ma è latente da molto tempo, perché non gestita) o improvvisa. Può anche accadere che un’impresa, di qualsiasi tipo risulti vittima della crisi stessa (cioè non è stata scatenata da lei, ma subisce comunque un danno più o meno grande). Oppure può essere accidentale, o ancora prevedibile. La seconda parte del libro è invece dedicata all’analisi di cinquanta tra i casi più noti in cui un’azienda o un personaggio pubblico noto è andato incontro ad una crisi. Alcune volte la cosa è finita abbastanza male, in altre invece, alcune realtà, mettendo in campo le contromisure giuste, ci hanno addirittura guadagnato.
Ma esattamente cosa possiamo dedurre dall’analisi di questi cinquanta casi? Leggendoli tutti e schematizzandoli anche solo mentalmente, si capisce subito che alcuni tratti sono comuni a tutte le crisi, pur con specificità uniche ogni volta. Dalla Costa Concordia al ponte Morandi di Genova e alla pandemia, quando le persone non hanno capito, si sono opposte o hanno parzialmente e magari temporaneamente tolto la fiducia ai protagonisti dei vari casi, le motivazioni sono più o meno state sempre le stesse, vediamo quali sono:
Comunicazione sbagliata: le crisi sono esplose e quasi sempre si sono anche trascinate per diverso tempo a causa di una comunicazione sbagliata. Chi doveva spiegare insomma, non lo ha fatto, o lo ha fatto male. Questo ha causato equivoci, incomprensioni, sfiducia e anche in un certo senso rifiuto all’ascolto anche a crisi inoltrata. Ciò ha fatto sì che quest’ultima si prolungasse oltre modo. L’effetto collaterale sembra essere quello di creare due mondi completamente separati: uno in cui c’è chi è dentro la crisi reputazionale che cerca, a volte inutilmente o quasi di rialzarsi e l’altro in cui chi dovrebbe ascoltare per voler capire cosa è accaduto e perché, ignora tali spiegazioni perché ritenute tardive. Oltre un certo limite di tempo insomma, le cose diventano molto più complicate da gestire.
Assenza di tempestività: la comunicazione sbagliata fa infatti spesso il paio con l’assenza di tempestività nel reagire. Farlo male, o troppo tardi, può, anzi, quasi sicuramente è, foriero di cattive notizie. In questo senso è accaduto in diversi casi analizzati dal libro, che l’assenza di tempestività si sia generata anche da comportamenti sbagliati. Ovvero i responsabili si sono mossi bene, ma troppo tardi e questo perché all’inizio si sono mossi male. Ma che significa esattamente? Secondo gli autori, in diversi casi esaminati ci sono stati comportamenti errati, come ad esempio sottovalutare alcuni rischi, o negare le proprie responsabilità sperando che la tempesta passasse, o in altri casi ancora dichiarazioni arroganti di personaggi coinvolti, che non hanno fatto altro che allontanare i consumatori, o comunque l’opinione pubblica in generale. Ciò ovviamente ha acuito e prolungato la crisi reputazionale, che solo grazie al tempo, all’investimento di molti soldi e a cambi netti di strategia, è rientrata, a volte del tutto, a volte no.
Mancanza di un team per gestire le crisi. In alcuni casi specifici, di comportamenti come quelli sopra descritti non ve n’è traccia, però sussistono dei meri errori tecnici molto importanti. Uno di questi è sicuramente la mancanza di un team preparato a gestire le crisi reputazionali. Persone con competenze in tal senso possono certamente prevedere il verificarsi di tali crisi orientando le azioni dell’impresa, ma quando queste persone non ci sono, possono prendere piede errori anche banali che però conducono, o possono condurre, a conseguenze catastrofiche. Il consiglio sembra quindi essere quello di prepararsi prima, assumendo un team giusto che sia in grado di prevenire e anche nel qual caso si verifichino, gestire le crisi di reputazione in maniera sapiente, al punto di riuscire anche a guadagnarci in visibilità e, appunto, in reputazione. Non tutti i mali vengono per nuocere insomma, se li si sa affrontare nella maniera giusta.
Crash Reputation: a chi è dedicato?
Chi dovrebbe leggere Crash Reputation? Chi potrebbe trarre vantaggio dalla lettura di questo volume? Diciamo subito che il libro è scritto molto bene, in maniera scorrevole e di facile comprensione. Solo a tratti è presente qualche termine tecnico che da parte dei non addetti ai lavori potrebbe richiedere un approfondimento, ma a parte questo è sicuramente un libro alla portata di tutti. Quindi per chi segue molto l’attualità e vuole saperne di più su casi noti praticamente a tutti, Crash Reputation è certamente un’ottima lettura, in grado di istruire sul perché certe dinamiche si siano verificate e sul come si sarebbe dovuto agire per non farle accadere. Aiuta quindi ad avere un’opinione molto più informata.
E’ però anche un libro molto utile ai comunicatori di professione (giornalisti compresi), visto che uno dei suoi tratti distintivi è appunto l’analisi della comunicazione, perlopiù aziendale ma non solo. Crash Reputation è anche e senza alcun dubbio un libro per gli imprenditori, ovvero per chi ha un’impresa e vuole evitare certi errori che potrebbero certamente essergli fatali, a meno che sia un vero e proprio colosso. E’ un libro da cui si può imparare molto in tal senso insomma. Da ultimo ma non per questo meno importante, anche chi fa marketing dovrebbe dare una seria occhiata a Crash Reputation. In esso sono infatti contenuti concetti molto specifici, in grado di spiegare sia le dinamiche di errori gravissimi, sia come alcune aziende siano riuscite sapientemente a trarre profitto da un’ottima strategia comunicativa e appunto di marketing.
Chi sono gli autori
Crash Reputation è scritto da tre autori. Luca Poma è professore di Reputation Management all’università Lumsa di Roma ed all’Università della Repubblica di San Marino, ha pubblicato circa 200 scritti sul tema della reputazione ed è stato anche consigliere del ministro degli esteri sotto i governi Berlusconi IV e Monti. Giorgia Grandoni è una consulente per una start-up che si occupa di Reputation Management (da cui prende il nome) ed è docente in Gestione della reputazione alla Lumsa di Roma. Alessio Garzina è un social media manager che ha collaborato con diversi quotidiani nazionali e si occupa di comunicazione per varie associazioni. Il libro contiene anche un articolo di Alberto Pirni, docente di Filosofia morale alla scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e la prefazione dell’avvocato Nicola Menardo.
Andare oltre l’ESG
|
SONO STATI ANNI DIFFICILI per l’ESG, l’acronimo con cui si indicano la misurazione e la gestione della performance ambientale, sociale e di governance di un’azienda. Negli Stati Uniti, il termine è diventato un bersaglio per entrambe le parti della scena politica. Per chi si posiziona a sinistra, l’ESG non obbliga a sufficienza le aziende ad affrontare le grandi sfide della società, in particolare quelle relative al cambiamento climatico. Per chi sta dall’altra parte, rappresenta un tentativo insidioso di far adottare alle aziende un’agenda liberal, alterando così i mercati e la libera concorrenza. Da tutte le parti arriva poi la critica al greenwashing, ovvero la pratica, da parte di aziende e investitori, di enfatizzare in modo eccessivo gli sforzi ESG. Questa raffica di critiche ha fatto perdere lustro all’ESG agli occhi di molti dirigenti. Alcuni addirittura praticano il greenhushing, evitano cioè di parlare pubblicamente delle loro iniziative ESG.
Tuttavia, il bisogno di collegare in modo trasparente la performance finanziaria di un’azienda con la sua performance ambientale, sociale e di governance rimane, e anche le sfide sociali che le imprese devono contribuire ad affrontare non sono scomparse, a partire dal cambiamento climatico. È, dunque, il momento di fare il punto sull’ESG e tracciare un percorso per un movimento sulla sostenibilità aziendale. A tal fine, negli ultimi due anni ho fatto la spola tra le fazioni in conflitto impegnate nel dibattito, incontrando liberal e conservatori, critici e sostenitori, a New York, Washington e in Europa, cercando di trovare un terreno comune.
Ci vorranno anni perché il dibattito sull’ESG trovi una soluzione. Alcune sfide, del tutto legittime e complesse (sia da un punto di vista politico che tecnico) non sono nemmeno lontanamente vicine a trovare una soluzione. Ne è un tipico esempio la questione se utilizzare la materialità singola o quella doppia per valutare le performance ESG. La materialità singola (chiamata anche materialità finanziaria) tenta di quantificare le questioni ESG importanti per la creazione di valore per gli azionisti, cioè quelle questioni che rappresentano dei rischi per un’azienda. Questa è la visione dominante dell’ESG oggi in uso. La materialità doppia tenta di misurare anche l’impatto di un’azienda, in altre parole le esternalità positive e negative che crea e che rendono il mondo un posto migliore o peggiore, ma che non influenzano direttamente la performance finanziaria aziendale. L’impatto, però, è estremamente difficile da quantificare e non esiste un accordo, in sede politica, sul fatto se sia più o meno appropriato pretendere che i manager forniscano tali informazioni a investitori e altri stakeholder chiave. In generale, i Paesi europei e i liberal statunitensi spingono per regole che impongano la materialità doppia, convinti che le sfide di misurazione siano un ostacolo superabile. I conservatori statunitensi e molti dirigenti aziendali preferiscono la materialità singola, sostenendo che la materialità doppia non sarebbe né fattibile né giustificata. Insomma, è un bel pasticcio.
Al centro del dibattito ESG c’è la questione fondamentale del ruolo dell’impresa nella società: cosa significa essere un’azienda responsabile? Mettendo da parte tutta la retorica fiorente sul tema, è questa la sfida che si trovano oggi ad affrontare i leader aziendali. Devono essere chiari su come le loro aziende creano valore per gli azionisti e su come le loro iniziative ESG contribuiscono a farlo. Devono essere altrettanto chiari su cosa le loro aziende, anche volendo, non possono fare con l’ESG per rendere il mondo un posto migliore e cosa appartiene alla sfera delle politiche pubbliche. Troppe aziende, investitori e politici confondono i due ambiti.
Le aziende possono e devono fare pressione affinché i Governi introducano regole efficaci in tema di ESG, ma non è su questo che si concentra l’articolo. Quello che invece farò è offrire tre strategie che i leader aziendali possono utilizzare per gestire le pressioni contrastanti che animano il dibattito ESG. La base per tutte e tre le strategie è il riconoscimento della differenza tra ESG tradizionale e impatto (in altre parole, la differenza tra materialità singola e doppia). Queste strategie consentiranno ai leader di passare da posizioni reattive alla capacità di orientare attivamente le discussioni che si sviluppano all’interno della scena politica.
SIATE CHIARI SUL VOSTRO SCOPO
Ogni azienda deve definire il proprio scopo con precisione. Troppe mission, vision e valori sono enunciati in modo talmente ampio che potrebbero valere per qualsiasi organizzazione. Chiarezza dello scopo significa anche che sono chiare le questioni ESG essenziali che influenzano direttamente la creazione di valore, senza che ciò includa gli impatti positivi e negativi più ampi che un’azienda ha sul mondo esterno. I sostenitori del capitalismo degli stakeholder e della materialità doppia non amano questo approccio, perché sostengono che, col tempo, gli interessi degli stakeholder e quelli degli azionisti convergono. Questo, semplicemente, non è vero. Non tutto ciò che conta per gli stakeholder riguarda il valore per gli azionisti. I compromessi sono inevitabili.
Colin Mayer, mio collega all’Università di Oxford, sostiene che lo scopo di un’azienda è quello di produrre soluzioni redditizie ai problemi delle persone e del pianeta e di ridurre al minimo il profitto che crea problemi. Lo scopo di Exxon Mobil è soddisfare le esigenze energetiche del mondo in modo redditizio. Questo oggi comporta la fornitura di energia sia inquinante sia rinnovabile. Il CEO dell’azienda, Darren Woods, ritiene che, nell’arco di una decina d’anni, il suo business a basse emissioni di carbonio (come la cattura e lo stoccaggio del carbonio e l’idrogeno) potrebbe essere più grande del suo storico business di petrolio e gas, ma non gli dispiace affatto soddisfare le esigenze energetiche di oggi con il business tradizionale dei combustibili fossili.
Alcune aziende utilizzano i 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (OSS) delle Nazioni Unite per definire il proprio scopo, collegando esplicitamente il proprio lavoro alla lista dei bisogni insoddisfatti dell’umanità steso dall’ONU. Ad esempio, Nike sottolinea i suoi contributi agli obiettivi 3 (buona salute), 5 (parità di genere), 8 (buona occupazione e crescita economica), 12 (utilizzo responsabile delle risorse) e 13 (lotta contro il cambiamento climatico). Anche Schneider Electric collega il proprio lavoro agli OSS e produce rapporti trimestrali sui progressi compiuti.
Oltre a identificare i bisogni insoddisfatti dei clienti, le aziende devono articolare i fattori ESG che rappresentano rischi materiali per la creazione di valore per gli azionisti. Gestire i fattori di rischio specifici per settore può impedire al mondo di diventare un posto peggiore di quello che è, ma non lo rende necessariamente un posto migliore. Un’azienda può realizzare performance insoddisfacenti sul piano ESG pur avendo un impatto positivo. La bassa valutazione ESG di Tesla è un caso emblematico. Secondo l’agenzia di rating S&P Global, Tesla ha un punteggio ESG totale di 40 (su un massimo possibile di 100). Ottiene 53 sull’ambiente (laddove il massimo del settore è 81), 29 sull’impatto sociale (il massimo del settore è 84) e 40 sulla governance (il massimo del settore è 69). Sebbene i suoi veicoli elettrici abbiano un impatto ambientale positivo, Tesla ha avuto con la sua forza lavoro continui problemi che ne hanno influenzato il valore azionario. L’idea di fondo (sbagliata) di chi critica l’ESG da destra è che la materialità singola sia il riflesso di un’agenda politica liberal. Non c’è niente di così ambizioso, si tratta semplicemente di occuparsi dei temi legati alla sostenibilità che hanno un impatto sulla creazione di valore.
Quasi tutte le aziende producono esternalità negative, anche quelle ben posizionate sui temi ESG e con un impatto positivo sul mondo. È importante essere sinceri a tale proposito. Queste esternalità negative sono ciò su cui si concentra chi critica l’ESG da sinistra, secondo cui le aziende non farebbero abbastanza per affrontarle. Le esternalità negative, però, sono inevitabili e non influenzano necessariamente le valutazioni ESG. Owens Corning ha un punteggio ESG assegnatogli da S&P Global di 85 e ottiene il punteggio più alto su ogni elemento ESG consentito dal suo settore. È impegnata a creare un’economia circolare e allinea le proprie attività agli OSS. Allo stesso tempo, le fonti d’energia non rinnovabili (carbone incluso) rappresentano poco più della metà del suo consumo energetico, i suoi prodotti dipendono fortemente dall’acqua e generano un alto grado di stress idrico per le comunità locali, senza contare che smaltisce considerevoli quantità di rifiuti pericolosi nelle discariche. L’azienda ha l’obiettivo di migliorare tutti questi problemi fino ad arrivare a zero rifiuti in discarica entro il 2030. Nel futuro immediato, tuttavia, queste attività non rappresentano rischi reali per le sue performance finanziarie, quindi non hanno una grande influenza sul suo rating ESG.
Per essere un’azienda responsabile, una società deve avere dei piani per ridurre le proprie esternalità negative: ogni azienda sa quali sono. Le ONG, i giornalisti e altri gruppi di controllo sono diventati molto abili nell’interpellare le aziende su un’ampia gamma di questioni ambientali e sociali. La sfida, per le aziende, è come gestire gli impatti negativi che genera, anche quelli che non sono rilevanti dal punto di vista ESG, senza danneggiare la creazione di valore per gli azionisti. In molti casi, le aziende possono fissare degli obiettivi. Un esempio classico è quello di ridurre le emissioni di carbonio in accordo con il consiglio di amministrazione. Fissare obiettivi può stimolare l’innovazione e rappresentare una fonte di vantaggio competitivo.
Uno degli esempi più significativi di esternalità negativa è quello delle sigarette. Philip Morris International o PMI (di cui sono consulente retribuito) si è posta l’obiettivo di ottenere, entro il 2030, due terzi dei ricavi netti da prodotti “senza fumo”. A tal fine, ha sviluppato un prodotto a base di tabacco riscaldato che è meno dannoso del fumo di sigaretta (anche se non del tutto innocuo) e più redditizio del tradizionale business delle sigarette. L’azienda sta vivendo un’incredibile trasformazione aziendale, proprio sulla scia di questo suo ambizioso obiettivo.
Alla fine, però, è la regolamentazione il modo principale con cui le esternalità negative vengono mitigate. Nuove leggi possono di punto in bianco renderle rilevanti da un punto di vista finanziario. È attraverso la regolamentazione che i Governi stabiliscono le condizioni per la creazione di valore per gli azionisti, rendendo le aziende responsabili degli impatti negativi che producono. Una tassa sul carbonio, che sostengo, ne è un buon esempio. Le aziende, specialmente negli Stati Uniti, sono generalmente considerate contrarie a qualsiasi nuova legge e regolamentazione, ma opporsi a tutte le regolamentazioni per partito preso è un errore. È giusto che le aziende si lamentino perché la società civile chiede loro troppo, ma la conseguenza è che devono essere chiare su ciò che il Governo dovrebbe fare per affrontare le esternalità negative. Sarebbero le prime a trarne beneficio se dessero degli input sulle normative piuttosto che semplicemente opporvisi.
Incoraggiare questo tipo di regolamentazione è in gran parte l’approccio che Owens Corning ha adottato per affrontare le proprie esternalità negative. Nel suo rapporto di sostenibilità del 2023, l’azienda scrive: «Con i sistemi e le politiche che abbiamo in atto, siamo nella condizione di soddisfare i vari requisiti […] in tutto il mondo. Questi sistemi e politiche ci preparano anche per il futuro, dal momento che gli organi di governo di tutto il mondo stabiliscono regolamentazioni sempre più stringenti per far fronte agli impatti negativi del cambiamento climatico». Allo stesso modo, in una dichiarazione d’intenti firmata da ogni membro del board, PMI osserva che «con il giusto incoraggiamento normativo e il supporto della società civile, le vendite di sigarette potranno terminare nel giro di 10-15 anni in molti Paesi.»
In sostanza, per essere un’azienda responsabile occorre avere uno scopo chiaro, e ciò richiede una profonda comprensione di ciò che l’azienda può e non può fare per affrontare le sfide sociali e ambientali e fornire allo stesso tempo rendimenti a lungo termine per i suoi azionisti.
SIATE TRASPARENTI NEI VOSTRI BILANCI DI SOSTENIBILITÀ
Gli standard di rendicontazione pongono le basi per la trasparenza ESG. Tredici anni dopo aver co-fondato il Sustainability Accounting Standards Board (SASB) con Jean Rogers, devo purtroppo dire che non siamo ancora arrivati a un insieme universalmente riconosciuto di standard, ma ci siamo quasi. Gli standard di rendicontazione finanziaria richiedono alle aziende di riportare le performance finanziarie sia positive sia negative, quelli di rendicontazione di sostenibilità faranno lo stesso. Permetteranno alle aziende di essere più trasparenti nel riportare sia le performance ESG sia quelle d’impatto. Se le aziende stanno rendendo il mondo un posto migliore mentre fanno guadagnare gli azionisti, saranno in grado di spiegare come lo fanno. Se stanno peggiorando il mondo, risulterà evidente. Se stanno migliorando il mondo a scapito degli azionisti (e probabilmente di alcuni stakeholder), sarà altrettanto chiaro. Una rendicontazione limpida che utilizzi standard condivisi è l’unico modo per evitare il greenwashing e non nascondersi dietro il greenhushing.
Attualmente, esistono diversi modelli di riferimento che plasmano gli standard a livello globale. L’International Sustainability Standards Board (ISSB), sviluppato dalla IFRS (International Financial Reporting Standards) Foundation, si concentra sulla materialità finanziaria. In Europa, il Sustainability Reporting Board (SRB) ha sviluppato 12 standard che richiedono alle aziende di relazionare su questioni ESG finanziariamente rilevanti e su quelle che producono un impatto sociale più ampio. Negli Stati Uniti, la SEC ha diramato una regola sulla trasparenza climatica ma, dopo aver affrontato cause legali da parte di gruppi che volevano di più dalla norma e da quelli che non la volevano affatto, l’ha sospesa. Infine, la Global Reporting Initiative (GRI), che risale alla fine degli anni ‘90, si concentra principalmente sugli impatti esterni di un’azienda, rivolgendosi agli stakeholder interessati dagli effetti sociali complessivi prodotti dalle azioni aziendali. È in corso un dibattito per armonizzare questi standard in modo da facilitare il carico di rendicontazione per le aziende e raggiungere uno standard globale uniforme. Nel frattempo, le aziende in Europa devono ovviamente conformarsi agli standard SRB. Le aziende che utilizzano gli standard GRI dovrebbero continuare a farlo. E tutte le aziende dovrebbero lavorare per implementare gli standard ISSB.
SIATE COSTRUTTIVI NEL COINVOLGERE AZIONISTI E STAKEHOLDER
Le proposte degli azionisti, sia pro che anti-ESG, sono ormai al centro della guerra culturale che si sta combattendo negli Stati Uniti. Le proposte legate all’ESG sono salite da 273 nel 2022 a 337 nel 2023. Principalmente, sono state presentate alle assemblee generali annuali di aziende che hanno un grande impatto sul clima (come Chevron ed ExxonMobil) o che sono strettamente legate a questioni sociali di alto profilo (come i diritti dei lavoratori in Amazon e l’uguaglianza razziale in Walmart). Tuttavia, il supporto degli investitori a tali proposte è diminuito: nello stesso periodo, si è passati da un 30% a un 20%, in media. Contestualmente, le proposte anti-ESG, per lo più centrate sulle azioni DEI (diversità, equità e inclusione), sono aumentate: dalle 30 del 2021 alle 79 del 2023. Ottengono, però, un supporto molto inferiore da parte degli investitori, attestandosi intorno al 3%.
La qualità delle proposte ESG degli azionisti varia e alcune sono focalizzate più su opinioni politiche (basate sui valori) che su benefici economici o finanziari (basate sul valore). Le proposte pro-ESG tendono ad ammantarsi di concetti che richiamano la creazione di valore per gli azionisti, ma gli argomenti che portano sono spesso vaghi e non supportati da prove, come “il rischio climatico è un rischio finanziario” e “la diversità migliora la performance”. Ironia della sorte, mentre i critici di destra imputano al’ESG di voler promuovere un’agenda politica liberal, la maggior parte delle proposte anti-ESG sostenute dai conservatori è palesemente di natura politica (dato che usa dichiarazioni del tipo “affrontare il cambiamento climatico mina l’industria dei combustibili fossili in America” e “i programmi DEI discriminano gli uomini bianchi”). Affermano che l’ESG è dannoso per i valori azionari, ma non portano alcun argomento reale che dimostri perché la loro visione alternativa sarebbe migliore.
Anche se le proposte ESG degli azionisti sono aumentate, ben poche aziende le accolgono. Ciononostante, il fenomeno mostra bene le pressioni che tutte le aziende si trovano ad affrontare. Il cambiamento climatico (nel mirino dei progressisti) e la DEI (nel mirino dei conservatori) sono i due argomenti che generano la pressione maggiore sulle aziende. La sinistra, tipicamente rappresentata da ONG e investitori socialmente responsabili, vuole che le aziende si assumano maggiori responsabilità nell’affrontare le questioni ambientali, sociali e di governance. La destra, tipicamente rappresentata da politici e associazioni di categoria conservatrici, accusa le aziende di intromettersi nelle questioni di politica pubblica a scapito della creazione di valore per gli azionisti. Spinte contrastanti sono connaturate a un mondo di visioni ideologiche contrapposte. Non spariranno mai.
Il modo migliore per un’azienda di affrontare queste pressioni è attraverso una rendicontazione trasparente e un coinvolgimento costruttivo, anche di gruppi estremamente ostili. Ignorarli non li farà sparire. Denigrarli porterà a una risposta emotiva, non razionale. I leader aziendali e i loro CdA dovrebbero ascoltare ciò che i critici hanno da dire. Dovrebbero quindi spiegare quali questioni legate alla sostenibilità non sono importanti per la creazione di valore, riconoscendo che alcune di esse potrebbero diventare rilevanti in futuro qualora la legge dovesse cambiare. Le aziende dovrebbero spiegare cosa possono e cosa non possono fare riguardo alle loro esternalità negative e identificare le aree in cui è necessario introdurre qualche forma di regolamentazione. Alcuni di quelli che si aspettano che un’azienda “faccia di più” ascolteranno, altri no. Alcuni ascolteranno e saranno d’accordo in privato, ma manterranno una posizione diversa in pubblico, perché questo fa parte della loro strategia complessiva per esercitare pressione sul settore privato e su quello pubblico.
Ecco perché è così importante, per un’azienda, essere proattiva nel coinvolgere azionisti, ONG, politici e associazioni di categoria. Deve essere chiara sul fatto che le questioni legate alla sostenibilità sono vitali per la creazione di valore e spiegare come questo funzioni in termini finanziari. Deve dare forma alla propria narrativa invece che giocare in difesa contro quelle create da altri. Prendiamo Unilever, che ha affrontato delle critiche per la sua attenzione alla sostenibilità. Sotto la guida del nuovo CEO, Hein Schumacher, ha sviluppato un “piano d’azione per la crescita” che, secondo una lettera pubblica dello stesso Schumacher e del CSO Rebecca Marmot, fa sì che l’azienda si concentri sul fare meno cose meglio e con maggiore impatto. La lettera dice che questo approccio si applica anche alla sua agenda di sostenibilità. L’azienda ora si concentra principalmente su quattro grandi priorità di sostenibilità: clima, natura, plastica e mezzi di sussistenza. «Questi sono gli ambiti di maggior rilevanza per il nostro business, quindi abbiamo implementato piani dettagliati, con scadenze precise, per garantirne il raggiungimento, allo stesso modo in cui siamo determinati a raggiungere i nostri obiettivi finanziari.»
NON SI PUÒ NEGARE che i leader aziendali debbano affrontare alcune questioni difficili riguardo a cosa significhi essere un’azienda responsabile. Queste questioni devono essere risolte con metodo e imparzialità. In altre parole, all’opposto di come la guerra culturale in atto tratta le questioni ESG. Per questo motivo, sospetto (e spero) che l’acronimo ESG alla fine scomparirà completamente. Piuttosto che parlare di ESG, i dirigenti aziendali devono essere chiari e trasparenti su quanto le loro siano aziende responsabili che stanno gestendo le esigenze di azionisti e stakeholder, e su quali esternalità negative non possono migliorare senza che intervengano dei cambiamenti nel contesto normativo. Spetterà quindi al resto di noi, la comunità intera, avviare una conversazione costruttiva su come creare al meglio una società equa e sostenibile per le generazioni future. Vista attraverso questa lente, superare le guerre culturali sull’ESG è, in realtà, la parte più facile.
ROBERT G. ECCLES è visiting professor di Pratiche manageriali alla Saïd Business School dell’Università di Oxford e presidente fondatore del Sustainability Accounting Standards Board.
RICICLARE PLASTICA PER IL PIANETA E COSTRUIRE VALORE PER L’IMPRESA: È POSSIBILE?
|
FIMIC muove i primi passi nel 1963, grazie a nonno Giuseppe, nato in una famiglia di contadini: all’ennesima tempesta con conseguente distruzione del raccolto, stufo di non avere il controllo del proprio destino, decise di aprire una officina meccanica. Ora è un’azienda in forte espansione, che ha superato i 20 milioni di fatturato, e che vuole dimostrare che è possibile prendersi cura del Pianeta e anche costruire valore economico-finanziario come impresa.
FIMIC dove, cosa e quando: genesi, missione e visione dell’azienda
Nonno Giuseppe all’inizio realizzava un po’ di tutto: scale, cancelli, lampioni, anche i chiodi se li faceva da solo, finché a 17 anni, entrò in azienda mio padre Antonio. Dopo alcuni tentativi che non diedero i risultati sperati, notarono che nella nostra zona c’erano moltissime aziende produttrici di componenti di plastica o specializzati nel riciclo, così entrarono in quel mondo, grazie alla costruzione della loro prima ghigliottina per il taglio di bobine di plastica da recupero, e poi di un cambiafiltro autopulente, uno dei primi a quell’epoca. Questo è stato il primo step della FIMIC di oggi, conosciuta anche per questo macchinario innovativo che permette il riciclo di materiali plastici contaminati post consumo, portandoli a nuova vita.
A un certo punto della storia di FIMIC, Erica Canaia: perché ha deciso di prendere le redinidell’impresa, e cos’è cambiato con lei sul ponte di comando?
Nel 2011 entrai in azienda a sorpresa: avevo studiato giurisprudenza e l’idea iniziale era una carriera un po’ diversa. Poi, a fine studi, mi sono resa conto che volevo restare in famiglia, proseguire ciò che aveva iniziato il nonno. Non sapevo quale sarebbe stata la mia figura manageriale, c’erano solo due dipendenti al lavoro in quel momento, oltre a mia madre e mio padre. Così sono partita dalla base e ho semplicemente cercato quale fosse il mio posto: ho iniziato sistemando i documenti che trovavo in disordine, ho fatto pulizia in magazzino di ciò che era obsoleto; ho organizzato la logistica dei ricambi, realizzato un nuovo sito internet, imparato a gestire la parte amministrativa e contabile. Dopo 6 mesi di lavoro, scoprii il mio vero amore: le vendite. Partecipai alla prima fiera, creai una rete vendite estera che non esisteva, organizzai fiere, e man mano feci conoscere il nome FIMIC in tutto il mondo. Al tempo vendevamo solo in Italia, poco in Spagna e Francia. C’era molto lavoro da fare! Questa espansione ha creato ovviamente la necessità di assumere nuovo personale: mentre io giravo per vendere, in azienda c’era la necessità di produrre e fatturare. Tuttavia, raggiunto il numero di 10 persone da gestire e coordinare, sono andata in tilt; confesso che non ero in grado, non avevo le competenze per la gestione delle persone. Così ho ricominciato a studiare, a imparare, e non ho più smesso. Una delle prime attività che ho realizzato quando ho iniziato a strutturare me stessa come imprenditrice – e di conseguenza l’azienda – è stata una introspezione sulla vision e mission aziendale: 10 anni fa era molto diversa da ora, perché anche la mission e la vision evolvono e crescono. Ora siamo più di 50 persone in azienda e siamo conosciuti in tutto il mondo con la nostra tecnologia e la nostra innovazione, ma restiamo quell’azienda familiare a cui piacciono le parole “fiducia” e “libertà”: un gruppo di persone che vive la propria vita in modo completo con la liberà di essere ciò che sono, e la fiducia reciproca a sostegno – e a protezione – di un mondo migliore, al quale cerchiamo di dare il nostro contributo attraverso la produzione di macchinari per il riciclo della plastica.
Il tema del ricambio generazione le sta particolarmente a cuore, ed è anche al centro di una sua intensa campagna di sensibilizzazione e di dialogo con le nuove generazioni: perché?
Il mio stesso cambio generazionale è stato intenso, quanto in qualsiasi altra azienda del territorio. Siamo italiani, siamo passionali, siamo legati alla famiglia e siamo fieri di ciò che abbiamo costruito. Quando ho iniziato a studiare per migliorarmi come imprenditrice ho scoperto immediatamente, ad esempio, la difficoltà della comunicazione, e quanto poco viene studiata in generale. Ci sono tantissime sfaccettature a riguardo, e ogni anno trovo qualche spunto nuovo di studio e approfondimento. Sono convinta che oltre ad una differente tipologia di comunicazione che varia a seconda della cultura e sulla propria personalità, ci sia anche un differente approccio comunicativo anche in base all’età. Le generazioni che hanno creato le nostre aziende hanno una modalità comunicativa diversa dalla nostra, come le generazioni più giovani si differenziano dalla mia. In famiglia ho tutte le tipologie comunicative possibili: mia suocera non parla e mantiene tutte le emozioni dentro sé; mio marito è molto simile a sua madre sta ancora lavorando molto per migliorarsi e parlare più apertamente delle proprie emozioni; mio suocero parla senza filtro alcuno, quello che gli viene in mente lo butta fuori; mia madre non ha nessuna diplomazia comunicativa e va dritta al punto, al suo obiettivo, senza pensare ai risvolti emotivi della controparte; mio padre è talmente delicato e ha paura di disturbare o offendere qualcuno che dice solo le cose davvero importanti; mio figlio, infine, ciò che decide fa, e quindi ti dice ciò che vuole senza mezzi termini… e ha solo 4 anni! Con una famiglia con così tanti stili comunicativi ed età differenti, sono sopravvissuta solo imparando ad adattarmi alla comunicazione dell’altro. E in azienda è lo stesso. Parlo spesso con amici che non riescono a gestire un cambio generazionale pacifico, e quando chiedo loro come comunicano in famiglia, in poco tempo realizzano che semplicemente non comunicano, e così ci sono tante aziende che vengono vendute a fondi di investimento o che implodono, solo per mancanza di comunicazione. Dal canto mio, cerco di condividere ciò che ho capito con gli altri, per evitare la sofferenza familiare ed aziendale che ne comporta, che crea seri problemi anche ai collaboratori che restano bloccati da queste dinamiche familiari. Quindi, spero che anche questa intervista possa aiutare e sostenere qualche azienda, e magari contribuire così, con una piccola cosa, a realizzare un mondo migliore.
La sostenibilità secondo Fimic
È un tema molto sentito da FIMIC, è parte della nostra missione aziendale, dal momento che contribuiamo al riciclo della plastica. Abbiamo creato il progetto AreyouR ormai 10 anni fa, abbiamo più di 90mila followers in tutta Europa su Facebook: è un progetto diretto a realizzare consapevolezza sul riciclo e ad evitare la demonizzazione della plastica tout-court, assolutamente inutile e deleteria per l’ambiente. La plastica non ha le gambe! Per noi però sostenibilità riguarda anche le nostre persone. Sosteniamo la maternità con il progetto Mater novissima (nei primi 3 anni di vita della madre paghiamo l’asilo nido al suo bambino, e ai padri diamo 25 ore libere di permessi retribuiti in azienda come tempo dedicato alla paternità e al sostegno della famiglia). Oltre a questo progetto, nel quale credo moltissimo, sosteniamo e realizziamo la formazione del personale sia per le soft che per le hard skills: abbiamo corsi di lingua straniera, coaching, assistenza psicologica, corsi dedicati per l’inserimento delle nuove risorse, corsi di mindfulness, corsi di intelligenza emotiva e molti altri. La crescita delle competenze dei nostri dipendenti è per noi strettamente legata alla crescita aziendale e alla nostra mission familiare: vogliamo delle persone serene in azienda, felici di venire al lavoro.
La tutela della reputazione secondo Fimic (e secondo lei)
In passato ho sofferto molto – nel nostro settore – per l’imitazione dei nostri macchinari, e non solo. Ci hanno copiato video aziendali, pubblicità, gadgets, i modelli delle offerte… Purtroppo la giustizia dal punto di vista legale è lunga e tende a prediligere il principio di libera concorrenza. Dimostrare che copiare è sleale è talmente complesso e comporta una spesa non solo economica, ma soprattutto di energie e tempo, che dopo molti anni di duro lavoro sto abbandonando le attività legali e spostando tutte le risorse in ricerca e sviluppo. Non posso controllare l’invidia e la slealtà degli altri, ma posso innovare e stare sempre un passo avanti rispetto agli altri, questo si. La concorrenza quindi è una spinta a migliorarsi ed è molto utile. In tutto questo, la reputazione ha certamente un ruolo centrale.
Lei è donna, giovane, CEO di un’azienda metalmeccanica: sfata molti stereotipi. Come vive la sua condizione professionale, e come la sua professione impatta sulla sua sfera personale?
È una sfida giornaliera che ho imparato ad accettare. Me la prendevo molto in passato, ma è stato molto utile affrontare stereotipi di genere, di età e pure di competenze, perché mi ha dato la spinta per dimostrare ciò che potevo fare, imparare sempre di più e fare meglio. Mi è successo anche di recente, la mia giovane età ha creato un bias agli occhi di un gruppo di persone che non mi ha trovato all’altezza di un compito a cui tenevo molto. Quando poi avrò 60 anni, forse sarò troppo vecchia per altri. Come dicevo, ci rido su, e semplicemente proseguo per la mia strada. Non posso piacere a tutti, questo è ovvio, ma sono molto grata del mio gruppo di persone, quelli con cui lavoro insieme, e con cui ho un rapporto amichevole, di fiducia e rispetto. Loro sanno che possono sempre contare su di me. Devo dire che non ho mai fatto una divisione netta fra sfera professionale e personale: ho un solo telefono e un solo computer. Dentro ci sta personale e professionale, e sono come sono sia in famiglia che sul lavoro. A lavoro sanno tutto di me, e in famiglia sanno tutto del lavoro, perché trovo che i segreti uccidano le relazioni. Comunque è stato difficile all’inizio esser donna giovane in un ambiente maschile, certo, ma è stato anche divertente e sfidante. Ad esempio mi scambiavano per la hostess durante le fiere, e mi chiedevano di parlare con un tecnico. Chiedevo 10 minuti del loro tempo per dimostrargli che potevo rispondere anche senza il tecnico: si mettevano a ridere, ma nessuno mi ha mai detto di no. E dopo 10 minuti nessuno mi chiedeva più del tecnico… Come ho detto, l’importante è come vedi tutto ciò che ti accade: come un problema, una sfortuna o una difficoltà, oppure come una opportunità da cogliere. Io ho sempre preferito pensare che fosse il secondo caso.
Che significato dà lei ai termini “autenticità” e “coerenza”?
Non sopporto la falsità e non sopporto l’incoerenza: minano la fiducia, il mio valore personale principale. Preferisco sentirmi dire in faccia cosa ho sbagliato, per potermi migliorare a livello personale ed aziendale. E penso che dai miei post di Linkedln si capisca che non sopporto le falsità, visto che cerco di smascherare il greenwashing e le fake news sulla plastica. Non è sempre facile esserlo, perché essere più “politica” (quindi meno sincera) in certi ambiti sarebbe utile, ma a lungo andare, il tempo dimostra sempre che ne vale la pena.
Il suo più grande successo in azienda, e in suo più grave errore…
Il mio più grande successo è anche il mio più grande errore: do sempre molta fiducia alle persone perché, sempre per coerenza, se dichiaro essere il mio valore principale, non potrei non darla al massimo a tutti, e nella maggior parte dei casi è molto ben riposta. Le persone in FIMIC crescono ed evolvono, sia dal punto di vista personale che professionale. Danno il massimo per il bene del gruppo, sono felici di venire a lavoro, si sentono parte di qualcosa di importante e sanno che sono tutti parte di un ingranaggio che si collega ad un altro per un fine comune. Ma non sempre la fiducia è stata riposta correttamente, in alcuni rari casi – in passato – ho sbagliato nella scelta di persone da inserire che hanno approfittato di una mia certa ingenuità emotiva. Succede di sbagliare, ma è parte della vita dell’imprenditore provare e ritentare. E in ogni caso questi errori hanno sempre lasciato spazio all’ingresso di una nuova persona meravigliosa in azienda.
Cosa cambierebbe nel vostro settore industriale?
Mi piacerebbe molto che ci fosse una lobby più forte in grado di misurarsi costruttivamente con l’Unione Europea e le direttive comunitarie, con una voce comune. Comprendo la volontà dell’UE di migliorare l’ambiente, ma al contrario, hanno demonizzato la plastica e imposto delle regole troppo severe sul riciclo e il riuso. Hanno permesso l’importazione di materiale riciclato extra europeo, non certificato ma più economico. Hanno permesso il crollo del costo della plastica vergine e hanno fatto collassare così l’acquisto del materiale riciclato. Comprano tutti materiale plastico vergine, perché costa meno! Siamo in sofferenza da 18 mesi ormai, un altro anno in questa situazione e molte aziende del settore non riusciranno a sopravvivere, causando un danno ambientale ulteriore. Serve un deciso cambio di passo.
FIMIC tra 10 anni…
Quando ho iniziato in FIMIC avevo 25 anni e avevo creato una lista di sogni da poter raggiungere in 10 anni. C’era un figlio, una azienda strutturata, un elenco di paesi da “conquistare”, e molto altro. 10 anni dopo, l’avevo ultimata per davvero, e mi sono sentita svuotata: come se non potessi fare altro, perché avevo già raggiunto tutto! Questo è il motivo per il quale non faccio più liste così a lungo termine: per non risentirmi nuovamente “già arrivata”. Le faccio allora a 2-3 anni, ed è una lista aperta, dove poter aggiungere, e aggiungere ancora. In questo momento stiamo studiando nuovi prodotti, nuove collaborazioni e magari una acquisizione. Ciò che so per certo, è che voglio che tutti vivano FIMIC come una famiglia, un posto sereno da vivere insieme.
Cooperazione e complessità come antidoto alla violenza di genere
|
Ringrazio tutti voi presenti, i co-relatori, e in particolare l’organizzatrice dell’evento Prof.ssa Emilia Costa, alla quale mi lega un’amicizia e una stima solidissime, ormai ultraventennali.
Mi è stato chiesto di dare un contributo alla discussione di oggi dal mio punto di vista di docente in Scienze delle comunicazioni, settore scientifico-disciplinare apparentemente ancillare a quelli più direttamente centrati e coinvolti nel tema della violenza di genere, che state trattando oggi.
Vi chiedo la pazienza necessaria per permettermi di fare una breve premessa, solo apparentemente slegata dal tema del congresso.
Rudolf Virkhow era un patologo e antropologo tedesco, il padre del consolidamento della teoria cellulare moderna e della legge di derivazione cellulare, che nell’Ottocento immaginò le cellule come tante piccole “cellette”, microcosmi a sé stanti e isolati.
Seppure la scienza debba essere molto grata a Virkhow, oggi questo concetto si è molto evoluto, e si parla infatti di “super-organismo”: nel corpo umano vi sono 30.000 miliardi di cellule fortemente interconnesse, nonché 40.000 miliardi di batteri, che formalmente non sono parte del nostro organismo e non hanno il nostro DNA, ma a tutti gli effetti vivono nel nostro corpo e lo condizionano tangibilmente. Esiste persino una stretta dipendenza tra il codice genetico dei batteri e il nostro, fenomeno che prende il nome di microbioma.
Non è quindi più valido da tempo il modello di una sola singola unità indipendente dalle altre, bensì il modello oggi riconosciuto è quello di miliardi di elementi armonicamente interdipendenti fra loro: le cellule si combinano per formare i tessuti, i tessuti per formare gli organi e gli organi per formare gli organismi viventi, che poi agiscono tra loro organizzandosi in sistemi sociali.
Eccoci quindi in un attimo dall’infinitamente piccolo alla dimensione delle relazioni tra esseri umani, relazioni messe a dura prova – tra le altre cose – proprio dalla violenza di genere.
In un mio saggio, dal titolo Apri la tua mente, riflettevo sulla necessità di abbandonare un modello di pensiero binario-sequenziale per abbracciare definitivamente un modello circolare, complesso, fluido, più vicino a quello illustrato dalle più recenti scoperte nel campo della medicina dei sistemi, e – decenni prima – da Ludwig von Bertalanffy, il biologo austriaco noto soprattutto per aver fatto muovere i primi passi alla Teoria generale dei sistemi.
D’altra parte la natura, nel micro come nel macro, obbedisce a leggi basate, appunto, sulla complessità, tematica sulla quale so l’amica Emilia Costa ha concentrato parte della sua ricerca per almeno 30 lunghi anni, forse più.
Ebbene, il passaggio a un livello di interazione superiore, con l’ipotesi di nove miliardi di esseri umani interdipendenti che comunicano tra loro anche grazie alle molecole sine materia costituite dalle emozioni, apre nuovi orizzonti di riflessione: l’essere umano come un sistema di flusso, in continua relazione al proprio interno ma anche con gli altri esseri umani, e non solo, anche in contatto virtuoso (o a volte vizioso, come nel caso delle guerre che affliggono il nostro contemporaneo) con l’ambiente che lo circonda.
Assai stimolante come consapevolezza, quella indotta da queste prime riflessioni, ma anche “scomoda”, in ragione di quanto ci richiama a un ben più alto livello di responsabilità, anche nella relazione con l’altro/altra, e nell’ambito delle dinamiche proprie dei rapporti di coppia, troppo spesso – come ci ricordano le cronache – “tossici e inquinanti”
Anche la natura, d’altra parte, è fonte di continua ispirazione in termini di analogie con i sistemi complessi creati dall’uomo.
A tal proposito, ho piacere di citare e commentare oggi con voi un bell’articolo pubblicato su The New York Times Magazine dallo scrittore Ferris Jabr, che ci accompagna nell’assai stimolante mondo delle foreste, sistemi viventi nei quali – sorprendentemente – enormi reti sotterranee di funghi permettono agli alberi di comunicare e cooperare tra loro, in un enorme e straordinario internet delle piante.
Secondo queste ricerche, sotto la superfice del terreno, alberi e funghi formano delle correlazioni denominate micorrize: si tratta di funghi filiformi che avvolgono le radici degli alberi fino a fondersi con esse, aiutandole a estrarre acqua, fosforo e azoto in cambio di zuccheri ricchi di carbonio, che le piante producono grazie alla fotosintesi.
Gli esperimenti in laboratorio avevano già dimostrato che le micorrize collegano una pianta all’altra: ma qual è in effetti il livello di interazione tra questi elementi, se esiste?
La Professoressa Suzanne Simard, che insegna ecologia forestale all’Università della British Columbia, segue questa linea di ricerca da almeno 30 anni, e – analizzando il DNA delle radici e tracciando il movimento delle molecole sotto terra – ha scoperto che le micorrize collegano tra loro quasi tutti gli alberi di una foresta, anche di specie diverse, in un enorme rete biologica.
E – incredibilmente – tale meccanismo funziona non solo per facilitare il trasferimento di sostanze nutritive, bensì anche per permettere il passaggio di ormoni e di segnali di allarme: ad esempio, le risorse tendono a fluire dagli alberi più vecchi e grandi a quelli più piccoli e giovani, e i segnali chimici di allarme o stress generati da un albero preparano gli alberi vicini al pericolo.
Ad esempio, un albero ormai vecchio e in punto di morte, rilascia una notevole quantità di carbonio in eredità ai propri vicini, mentre le piantine separate da questo reticolo di comunicazione hanno maggiori probabilità di morire rispetto a quelle interconnesse con esso.
In successivi esperimenti, la scienziata dimostrò che in una foresta di abeti ogni albero era connesso all’altro, sottoterra, da non più di tre gradi di separazione, e che quando le piantine di abete erano private delle foglie e quindi rischiavano di morire, inviavano segnali di stress e una notevole quantità di carbonio a un robusto pino nelle vicinanze, che accelerava la produzione di enzimi difensivi.
Jabr, nel suo articolo per il NYT Magazine, ci ricorda quindi come queste scoperte finiscano per contraddire, in parte, le teorie darwiniane della perpetua contesa tra le specie viventi, centrate sulla lotta di ogni organismo per sopravvivere e riprodursi, tutti governati da “geni egoisti”, e portino invece fortemente l’attenzione sul tema del valore della cooperazione tra i singoli appartenenti di un sistema complesso, all’interno del quale possono esserci inevitabili conflitti, ma anche negoziato, reciprocità e solidarietà.
Le più recenti scoperte scientifiche sulla cooperazione tra specie vegetali diverse appartenenti a un macrosistema biologico complesso ribaltano quindi i ragionamenti Darwiniani e ci chiamano in causa, stimolando un’assunzione di responsabilità a livelli molto più alti che in passato.
Oggi, la scienza della complessità studia, come sappiamo, i sistemi complessi e i fenomeni emergenti a essi associati, occupandosi – con una visione interdisciplinare – di studi relativi ai sistemi adattativi, alla teoria del caos, all’intelligenza artificiale e alla cibernetica; approcci che hanno mosso i primissimi passi alla fine del XIX secolo, in seguito alla constatazione che la logica Aristotelica e il dualismo Cartesiano erano ormai inadeguati a comprendere le regole che animano le complesse interazioni del mondo moderno.
Ebbene, tutto ciò dovrebbe valere egualmente anche per l’essere umano, troppo spesso impegnato in una continua lotta, spesso violenta, per il predominio sui propri simili, con risultati quanto mai disastrosi, dinnanzi agli occhi di tutti, più che mai evidenti in questo turbolento XXI secolo, nel quale la violenza contro le donne – sia da parte di maschi tossici, come da parte di governi misogini e totalitaristi, come, per non fare nomi, quello Iraniano del mullah – pare semplicemente non esaurirsi mai.
Chiarito questo, passo ad analizzare un altro aspetto di questa delicata, importante e attuale tematica che è l’oggetto del vostro dibattito di oggi.
Questa nuova idea di noi, della società e del mondo, centrata sulla complessità e sulla circolarità, invece che sul banale approccio sequenziale e binario, porta a tema anche l’indiscutibile potenza delle relazioni nel ridefinire la nostra identità.
Kathleen Wallace, docente di filosofia all’Università di Hempstead (New York) si chiede: “Che peso le relazioni possono avere nella definizione e determinazione della nostra personale identità?”.
Un quesito di straordinaria attualità, a mio avviso. L’osservazione pare dimostrare che, ci piaccia o no, nulla è più plasmabile dell’identità, e che al centro dei vari meccanismi che regolano le modificazioni identitarie vi sono sempre loro: le relazioni.
Già Cartesio intuì secoli fa la forza delle potenziali interazioni tra mente e corpo, ma questo punto di vista appare riduttivo, se guardiamo al dibattito in corso su questi temi nella filosofia contemporanea, centrato fortemente sul concetto di sé come rete complessa, e non più solo di sé come contenitore (di coscienza, educazione, esperienze, emozioni, etc.).
Relazioni quindi fisiche (tra le cellule e tra gli organi del nostro corpo), genetiche (eredità da chi ci ha preceduto), psicologiche (tra i nostri pensieri), emotive (tra le emozioni, nostre e degli altri), ambientali (all’interno della società), e via discorrendo: tutti questi fattori possono condizionare la nostra stessa identità, che tende inevitabilmente a modificarsi nel tempo.
Mille sono i modi nei quali possiamo definirci, sulla base della nostra identità in quel certo momento, evidenzia Wallace: uomini o donne, di destra o di sinistra, credenti o atei, bianchi neri o di diversa etnia, cugini e fratelli di altre persone, amanti di questa o quell’altra arte, estroversi oppure timidi e via dicendo.
In pratica, ognuno di voi potrebbe dire in questo momento: “Sono un uomo di pelle nera, cristiano evangelico, fratello di Luisa, conservatore ma liberale, eterosessuale, sposato, padre di due figli, creativo ma riservato, di lingua ispanica”. Potremmo continuare a lungo, tentando di definirci in base ad alcune delle caratteristiche del nostro essere, che tuttavia – impossibile negarlo – possono variare nel tempo, contribuendo a ridefinire la nostra identità.
Ad esempio, 25 anni dopo – un tempo solo apparentemente lungo, ma che passa in un’istante! – tu, che stai ascoltando o leggendo questa mia relazione, potresti aver abbandonato la tua religione, aver praticato in alcune occasioni la bisessualità, essere diventato molto più estroverso e sicuro di te, tua sorella potrebbe essere venuta a mancare, ed essendoti trasferito per ragioni di lavoro in Francia il francese potrebbe essere diventata la tua lingua corrente di riferimento.
In poche parole, parte delle caratteristiche e delle certezze sulle quali all’epoca avevi definito la tua identità potrebbero essere drasticamente cambiate, ma, non per questo, saresti meno “tu”: semplicemente, le relazioni con ciò che ci circonda hanno influenza e potere su di noi e sull’apparentemente incrollabile perimetro che siamo abituati a costruire per definire – in modo assai rassicurante – il nostro modo di percepirci e farci percepire dagli altri.
Ci sono aspetti che potrebbero essere più dominanti di altri; alcuni potrebbero generare conflitti e tensioni all’individuo stesso, che potrebbe volerne nascondere o dissimulare una parte (ad esempio, quelli politici, o sessuali); altri potrebbero essere oggetto di discriminazione in quanto ritenuti soggettivamente più rilevanti per chi osserva (ad esempio quelli razziali, o relativi al genere); altri ancora si modificheranno con assoluta certezza (nell’esempio sopra riportato, da adolescente non era sposato, e magari dopo i 50 anni ha litigato con sua moglie e ha divorziato). La nostra stessa coscienza, come anche il modo nel quale interpretiamo la vita e il mondo, è effetto di questi inevitabili cambiamenti nelle nostre plurime e mutevoli identità, e questo non deve spaventarci.
Cambiamenti che possono essere scelti oppure subiti, ma che non ci fanno cessare di essere ciò che siamo: semplicemente ci arricchiscono, o ci impoveriscono, ma sempre ci trasformano.
Il sé continua ad esistere, passando però a una nuova fase. E questa complessità rende anche plasticamente evidente quanto sia riduttivo classificare un individuo o un’organizzazione in base ad una sola delle sue caratteristiche identitarie: “è islamico, è sposata, è una setta, è un’azienda che inquina…” (l’industria che inquina, ad esempio, è la stessa che da anche lavoro a migliaia di famiglie; questo non deve apparire come una giustificazione assolutoria, ma solo come la presa d’atto di una definizione necessariamente più complessa).
Quale può essere allora la ricetta per una convivenza meno tossica?
Forse cercare tra i molteplici aspetti identitari anche ciò che unisce, e non solo la singola caratteristica che “divide”, potrebbe essere utile per coltivare comunicazioni interpersonali e relazioni più sane ed efficaci.
La persona-tipo che abbiamo utilizzato come esempio probabilmente si sentirebbe più apprezzata e comunicherebbe meglio trovandosi in un ambiente politico conservatore, ma ciò non toglie che potrebbe con un minimo sforzo individuare altre e diverse proprie caratteristiche identitarie utili per costruire un dialogo virtuoso anche con un progressista, ad esempio cristiano evangelico come lui. E questa consapevolezza potrebbe generare atteggiamenti meno tossici nei rapporti con gli altri, e in particolare con le donne, esposte statisticamente più degli uomini a gesti e atteggiamenti violenti.
Aggiungo che per anni mi sono impegnato culturalmente per rivendicare l’unicità dell’identità: ai miei discenti ho sempre spiegato che l’identità è ciò che siamo realmente, e che è parte sostanziale della nostra equazione. Resto convinto della peculiarità dell’identità rispetto alla percezione costruita artificialmente o alla vuota ed effimera immagine, ma successivamente – anche in forza dei ragionamenti che ho appena condiviso con voi – ho arricchito il mio punto di vista – modificando quindi in parte anch’io la mia identità! – circa il fatto che l’identità stessa possa arricchirsi (o depauperarsi di qualcosa) e quindi modificarsi nel tempo, sulla base delle relazioni che la coinvolgono, continuando a costruire valore e sopravvivenza, solo in maniera diversa.
Le relazioni, in poche parole, ci ridisegnano ogni giorno, e all’interno della rete complessa che in qualche modo ci definisce, la regola per vincere dovrebbe essere quella della condivisione: quale relazione può sopravvivere se non ben coltivata?
Dovremmo allora agire, pensare e vivere sempre compartecipando, offrendo del proprio ad altri, e viceversa, perché solo seguendo questo modello, “nutrendo” ogni giorno la nostra rete di relazioni, riusciremo a costruire valore in grado di sopravvivere allo scorrere del tempo.
Le relazioni sono il potentissimo solvente universale, in grado di permetterci di risolvere più velocemente qualunque crisi o tensione, sul lavoro come nella vita: mai sottovalutare il loro straordinario, dirompente potere.
Mi avvio verso la conclusione di queste mie riflessioni. Come coltivare, allora, queste relazioni in modo virtuoso e non tossico? Partendo, forse, dalle piccole cose.
Come riportato in un articolo del Washington Post a firma della dott.sa Trisha Pasricha, medico al Massachusetts General Hospital e docente all’Harvard Medical School, l’atto di tenersi per mano non è solo una gestualità antica, ma ha degli effetti straordinari sul nostro organismo: “contribuisce ad abbassare la pressione, a ridurre il dolore e a mitigare le esperienze stressanti”, conferma Pasricha. “È un gesto semplice, ma che può limitare l’impatto dello stress sul sistema nervoso autonomo, regolando funzioni corporee involontarie come la dilatazione delle pupille. Stringere le mani di una persona cara riduce inoltre l’attività delle regioni cerebrali responsabili della risposta emotiva”.
I risultati di queste ricerche sono stati confermati anche da James Coan, psicologo clinico e direttore del Laboratorio di neuroscienze affettive dell’Università della Virginia: “la risonanza magnetica cerebrale dimostra che stringere la mano di una persona conosciuta o, ancor più, per la quale proviamo affetto, riduce lo stress e fa diminuire la paura”.
I ricercatori ci confermano che la regolazione delle emozioni è governata dalla corteccia prefrontale, la regione del cervello che ci aiuta a controllare gli istinti: non per niente, come ricordo spesso ai discenti nelle mie lezioni in università, utilizzare l’intelligenza emotiva significa anche trovare il giusto accordo ed equilibrio tra ragione e sentimento.
Molte altre ricerche di questo tipo confermano anche un altro dettaglio, per nulla secondario: il cervello non percepisce il gesto di stringere la mano come una “novità” rispetto ad una situazione precedente di assenza di contatto, bensì – sorprendentemente – é vero esattamente il contrario, in quanto la condizione neuropsicofisiologica di base è proprio il senso di contatto, di vicinanza e di comunanza con gli altri, e la situazione “anomala” è invece il senso di solitudine, che destabilizza noi e – conseguentemente – l’intero nostro ecosistema di relazioni.
I nostri neuroni si aspettano quindi del tutto naturalmente che esistano dei rapporti di reciproca connessione – delle relazioni, appunto – e questo vale per il cervello umano e anche, a mio avviso per estensione, per qualunque organizzazione sociale complessa: l’uomo e le organizzazioni da esso create nascono per condividere, ovvero dividere con, sinonimo di possedere insieme, partecipare, offrire del proprio ad altri, e viceversa, all’estenuante ricerca del giusto equilibrio che ci permetta di essere utili, come anche di trarre sopravvivenza da chi circonda, per proseguire nella nostra personale missione, quale che sia, nella quale coinvolgere sempre più altre persone, sempre più altre parti di noi.
Abbracciatevi più spesso quindi, e stringete la mano chi stimate o amate, iniziando oggi, subito, nella sala dove vi trovate ad ascoltare questa mia relazione, o nell’ambiente professionale o familiare dove la state leggendo.
Grazie per la vostra attenzione, e buon proseguimento di lavori.
Prof. Luca Poma, Professore in Scienze della Comunicazione e Reputation Management all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino
Bufere Social, crisi reputazionali, GenZ e l’#Influcirco: a un anno dal Pandoro-Gate, ancora guai “sotto l’albero” degli Influencer
|
Influencer: crisi di reputazione per il comparto?
Il Natale, lo sappiamo, può essere un periodo un po’ “tricky”, come direbbero i giovani della GenZ: c’è chi si lascia trasportare dallo scintillio delle luci natalizie, dalle grandi mangiate con amici e parenti, dai momenti di convivialità e dallo scambio dei regali; e chi, preso dallo sconforto e dall’ansia sociale, non ama l’eccessivo fasto, ne critica il lato meramente consumistico e magari teme le rimpatriate familiari, con il loro carico di insidie e di immancabili “domande-trappola” degne del lungometraggio Parenti Serpenti di Mario Monicelli: “Il fidanzatino? E i figli? Ma quando vi sposate…?”. Per gran parte del tessuto imprenditoriale, invece, il periodo natalizio rappresenta un’occasione irripetibile per spingere sulle vendite e chiudere l’anno con risultati auspicabilmente positivi. E, su intuizione dei marketer, gli influencer sono stati a lungo considerati degli alleati indispensabili per sfruttare al meglio questo momento: trasformandosi nei volti e nelle voci delle festività, i professionisti del digitale hanno dato forma a campagne promozionali con risultati spesso significativi.
Una dimensione del fenomeno la dà la recente analisi di Pulse Advertising ed Eumetra, condotta nell’ambito dell’Osservatorio InSIdE[1]. Lo studio sottolinea come le piattaforme Social siano ancora oggi fondamentali non solo per far conoscere un prodotto, ma anche per accompagnare l’utente fino alla conclusione del funnel di acquisto. Sono 29 milioni gli italiani che attualmente seguono almeno un creator, e di questi ben il 57% – cioè più di 21 milioni di persone – dichiara di prendere in considerazione un prodotto consigliato da un influencer, confermando il ruolo strategico di queste figure nelle decisioni d’acquisto. Un’industria, quella dell’influencer marketing, che sul piano internazionale vale 16,4 miliardi di dollari nel 2022, con previsione di arrivare a quota 22,2 miliardi entro il 2025[2].
Come discusso nel nostro volume #INFLUENCER. Come nascono i miti del web, edito da Lupetti, negli ultimi anni gli influencer – o content creator, come molti di loro preferiscono definirsi (le due categorie presentano alcune lievi differenze nel rispettivo posizionamento digitale, ma in questo articolo divulgativo li considereremo come sinonimi) – hanno assunto un ruolo centrale nelle strategie di marketing dei brand. Grazie alla loro capacità di catturare l’attenzione, influenzare le scelte d’acquisto e costruire connessioni apparentemente autentiche con il pubblico, sono diventati il motore di numerose operazioni di successo. Non a caso, durante il periodo che va dal Black Friday a Capodanno, le pagine Social di molti beniamini del web si trasformano in autentici canali di televendite digitali h24: un flusso incessante di unboxing, esperienze accattivanti e “consigli per gli acquisti”.
Eppure, quello che sembrava un matrimonio perfetto tra marketing e Social-media pare iniziare a scricchiolare vistosamente: il periodo natalizio, un tempo favorevole per re e regine del web, si sta trasformando invece in un terreno minato, con sovraesposizioni inopportune, accuse di mancanza di autenticità e un pubblico sempre più scettico, tutti elementi che hanno reso le festività un banco di prova assai insidioso per gli influencer.
Cosa sta succedendo? Riavvolgiamo il nastro e tentiamo di fare chiarezza.
La genesi: Chiara Ferragni e il Pandoro-Gate
A un anno di distanza, il Pandoro-Gate si conferma un caso emblematico di come una campagna di influencer marketing che non includa preoccupazioni sul fronte del reputation management, possa trasformarsi in un vero e proprio boomerang reputazionale, in grado di distruggere completamente un’azienda e il suo valore. Soprattutto, quel case-study dimostra come una gestione di crisi digitale non efficace possa mettere la parola fine a un business di successo, a ulteriore conferma – semmai ve ne fosse bisogno – che il modo nel quale si gestisce la crisi (o – nel caso di Ferragni e dell’agenzia milanese che la affiancava – non la si gestisce) può pesare più della crisi stessa.
Un rapidissimo recap per i pochissimi che si fossero persi il caso di crisi reputazionale più “pop” del 2023/24 e più emblematico degli ultimi 10 anni: nel 2022 Chiara Ferragni e Balocco lanciano l’operazione commerciale Pandoro Pink Christmas, presentata come un progetto dal doppio appeal che si prefiggeva l’obiettivo di unire glamour e solidarietà per le feste natalizie. Una promessa, quella di devolvere parte dei proventi delle vendite all’Ospedale Regina Margherita, tutt’altro che trasparente: la donazione di 50.000 euro, effettuata mesi prima del lancio, in realtà non era in alcun modo legata alle vendite del prodotto, e ha trasformato quella che doveva essere una campagna solidale in una vera e propria operazione percepita dal pubblico come “ingannevole”.
Non è dovuto passare molto tempo finchè l’opinionista Selvaggia Lucarelli[3] – particolarmente attenta alla condotta degli influencer, e in particolar modo dei Ferragnez, la coppia Ferragni/Fedez – accendesse i riflettori sulla vicenda. Siamo nel dicembre 2023, esattamente un anno fa, quando l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) infligge una multa di oltre 1,4 milioni di euro a Fenice, la società di Chiara Ferragni, per pubblicità ingannevole[4], facendo esplodere pubblicamente il caso.
Nei mesi successivi, il tentativo di gestire la crisi non ha fatto che peggiorare la situazione. Il video di “non scuse” confezionato con l’aiuto di una nota agenzia milanese di relazioni pubbliche, con il celebre maglione grigio e la frase “si è trattato di un errore di comunicazione”, con quindi implicite accuse al pubblico di “non aver capito” quanto accaduto, è diventato l’esatto simbolo di ciò che non si dovrebbe fare in una crisi reputazionale.
Su TikTok, il maglione grigio e “l’errore di comunicazione” sono un vero e proprio tormentone
Apparizioni successive dell’imprenditrice digitale, come la tardiva e poco efficace intervista al Corriere della Sera e la partecipazione a Che Tempo Che Fa, con Fazio totalmente piegato sulla narrazione dell’influencer, lungi dal permettere un recupero del dialogo con gli stakeholder, non hanno sortito l’effetto desiderato, anzi, hanno a tratti peggiorato la situazione, venendo percepite dal pubblico, sempre più attento alle carenze di autenticità, come mosse artificiose, rafforzando quindi l’idea del distacco ormai incolmabile tra Ferragni e i suoi follower.
Eppure, i segnali della crisi erano tutto tranne che deboli o difficili da intercettare: erano lì, visibili e lampeggianti come un’insegna al neon su una strada buia, tanto che uno degli autori di questo articolo ne scrisse con un anno di anticipo, parlando di “personal branding vacillante”.
L’apertura di un’indagine da parte dell’Antitrust avrebbe dovuto essere il campanello d’allarme per intervenire e programmare un’azione tempestiva di crisis communication: un piano strategico avrebbe potuto mitigare l’impatto della crisi, ma nulla di tutto ciò è stato fatto, nonostante l’intervento più che sollecito del socio di maggioranza Alchimia. L’improvvisazione, lato Ferragni, ha preso il sopravvento, e il risultato è stato disastroso: una comunicazione percepita come opaca e una gestione assai superficiale della crisi, tale da accelerare il declino, anzichè fermarlo o rallentarlo.
Secondo i dati dell’agenzia Arcadia[5] nell’ultimo anno Chiara Ferragni ha perso oltre 1 milione di follower su Instagram, pari al 3,45% del totale, e registrato un calo di circa 50 milioni di interazioni rispetto all’anno precedente. Anche se i suoi numeri complessivi rimangono notevoli – 28,6 milioni di follower e post che raccolgono centinaia di migliaia di like (seppure non siano mancate le accuse di follower falsi acquistati sul mercato indiano) l’erosione della fiducia del pubblico è quanto mai evidente, e ancora più indicativo è stato il crollo delle collaborazioni sponsorizzate: brand un tempo in competizione per associarsi al suo nome, hanno preferito defilarsi, intimoriti dal rischio di accostarsi a un’immagine pubblica ormai ben più problematica che remunerativa. Chiara è diventata “radioactive”, come dicono in USA.
In ogni caso, il Pandoro-Gate ha lasciato un’eredità pesante, non solo per Chiara Ferragni, ma per l’intero settore dell’influencer marketing. Se la comunicazione non è – da tempo, anche se qualcuno pare non essersene accorto – solo marketing, ma anche e soprattutto reputazione, questo caso ne è l’esempio più lampante.
Ogni crisi contiene segnali premonitori, e ignorarli significa permetterne la deflagrazione, e in un panorama in cui il pubblico è sempre più critico e consapevole, la fiducia è una risorsa tanto preziosa quanto volatile. Ferragni ha scelto di non affrontare i segnali di crisi, e, così facendo, ha deciso il corso di un declino che non si misura solo in termini di numeri, ma anche di capitale reputazionale perso e quindi di valore aziendale distrutto: perché nel suo mondo, quello delle influenze digitali, la credibilità è tutto.
Tuttavia, la domanda più intrigante è ancora un’altra: qual è stato – se vi è stato – l’impatto di un episodio così eclatante sull’intera categoria degli influencer? Scorrendo i commenti sui principali Social network, la risposta sembra chiara: l’aria è cambiata.
Nasce l’hashtag #InfluCirco
La verità – lampante agli occhi dei più attenti tra gli addetti ai lavori – è che milioni di utenti italiani, dai giovanissimi ai più esperti, hanno iniziato a manifestare una crescente insofferenza verso un sistema percepito come artefatto, ipocrita e disconnesso dalla realtà.
Questa enorme massa critica si è consolidata, ad esempio, attorno all’hashtag #Influcirco[6], diventato un simbolo per chi critica apertamente uno stile di vita fatto di lusso sfrenato, ostentazione e consumismo. Gli influencer sono infatti sempre più spesso rappresentati – specie agli occhi della GenZ – come “clown”, figure grottesche che, dietro le narrazioni patinate, alimentano un distacco insopportabile dalla realtà di coloro che vivono dall’altro lato dello schermo, caratterizzata – in particolar modo dagli anni post pandemia – da crescenti difficoltà economiche, polarizzazione e disuguaglianze sociali.
Sotto #Influcirco si raccolgono quindi critiche sempre più frequenti, soprattutto da parte dei giovanissimi, consapevoli del potere di un loro “click”. Con spirito di denuncia, molti rappresentanti della GenZ smontano pezzo per pezzo le narrazioni patinate degli influencer, evidenziandone le contraddizioni.
La reputazione di un’intera categoria può davvero sgretolarsi in così poco tempo? Difficilmente, perché come discusso nel volume #Influencer[7], il percorso per essere riconosciuti come professionisti, e non come “fannulloni con un cellulare in mano”, è stato lungo e complesso, e non crollerà in un periodo di mesi o poco più; tuttavia, anni di eccessi, sponsorizzazioni poco trasparenti e comportamenti percepiti come decisamente opportunistici, hanno danneggiato il legame di fiducia tra gli influencer e il pubblico, alla ricerca – quest’ultimo – di narrazioni più autentiche e sincere.
L’exploit di questo fenomeno può essere ricondotto proprio al caso Pandoro-Gate deflagrato in casa Ferragni: l’episodio ha infatti spinto molti a interrogarsi non solo sul valore reale del lavoro degli influencer, ma anche sulla credibilità di un’intera industria.
La crescente attenzione agli hashtag come #supplied, #gifted e #invitedby riflette una consapevolezza collettiva sempre più marcata: termini che, pur obbligatori per legge, vengono spesso astutamente nascosti nelle storie o nei post, alimentando un senso di sfiducia e indignazione da parte del pubblico.
Domande come “Perché regalare beni e vacanze a chi potrebbe tranquillamente permetterseli?” hanno sempre più spazio tra le critiche digitali, portando alla luce questioni che, sebbene latenti da tempo, trovano oggi un’espressione più esplicita e pungente. Non è un caso che #Influcirco venga spesso associato alla parola “scrocconi”[8].
Quindi, sono moltissimi gli influencer che, nell’ultimo anno, sono finiti sotto la lente di utenti sempre più attenti e smaliziati: da Paolo Stella, criticato per aver accettato un soggiorno omaggiato in un hotel di lusso in seguito a un guasto al condizionatore di casa[9], a Carlotta Fiasella, bersagliata per video in cui apre decine di pacchi regalo inviati dai brand[10], fino a Paola Turani, travolta dai commenti dopo aver ammesso candidamente di aver completamente dimenticato per un mese una borsa di lusso, ancora imballata, nell’armadio[11].
Casi come questi sono ormai all’ordine del giorno: piccole (e meno piccole) crisi reputazionali online che non fanno che alimentare lo scontento e la sfiducia degli utenti in rete, rafforzando l’idea che molti influencer siano sempre più “lontani dal proprio pubblico”. Un 2024 quindi sdrucciolevole per chi si piccava di influenzare decine di milioni di persone. Fino ad arrivare, oggi, alla “gogna Social”
Gli “eventi per gli influencer” e le tempeste reputazionali online
Natale, come abbiamo scritto nelle prime righe di questo articolo, pare essere un periodo critico per Influencer e creator digitali. Cosa sta accadendo quindi in questi giorni alle nostre beneamate star del web?
TikTok, proprio mentre state leggendo, sta ospitando quella che potremmo ribattezzare una “civil-war” degli influencer italiani: una vicenda con tanto di schieramenti, video di replica al vetriolo, critiche asprissime, e una vera e propria levata di scudi, che sta intrattenendo gli utenti a suon di gossip e “rivelazioni”.
Se frequentate TikTok, difficilmente non vi sarete imbattuti in un video che tratta, più o meno direttamente, la storia legata alle famose “Feste degli influencer”[12]; se invece non amate il Social prediletto dalla GenZ, preparatevi con pazienza (e magari un po’ di popcorn) perchè persino il noto Accorciabro[13] ha dedicato due minuti per spiegare la situazione[14].
Tutto è iniziato con un video [15] pubblicato da Eleonora Arcidiacono, creator con oltre 425mila follower su TikTok: nel contenuto, che ha già superato i 5,3 milioni di visualizzazioni, Eleonora ha raccontato la sua esperienza al primo “evento per influencer” a cui abbia partecipato. “Gli eventi degli influencer sono così terribili come tutti dicono? Sì, e ora vi racconto tutta la verità”, ha esordito la giovane, descrivendo l’evento come un’esperienza “traumatica” e puntando, appunto, il dito sulla centralità dell’apparenza: “Mi sono ritrovata in una stanza piena di ragazze iper truccate, super pettinate, vestite benissimo, con tacchi alti. Tutte così, e sinceramente io mi sono sentita fuori posto”. Eleonora, che aveva scelto un abbigliamento più pratico, ha spiegato: “Non è che non mi interessasse l’evento, ma non volevo prendere freddo o svegliarmi con la bronchite. Non sto dicendo di essere migliore di loro, ma mi ha impressionato questa ossessione per un canone di perfezione irraggiungibile”.
L’influencer ha poi fatto luce, provocatoriamente, sulle contraddizioni tra quanto mostrato online e il comportamento nel privato:
“Posso capire che sui social mostriamo la nostra parte migliore, ma non puoi fare finta di essere Maria Goretti quando in realtà sei una snob altezzosa che per tre foto venderebbe anche sua madre”.
Ha quindi approfondito la sua riflessione, sottolineando quanto questo ambiente rischi di essere deleterio per giovanissime e giovanissimi: “Io ho 21 anni e ho lavorato su me stessa, ma non oso immaginare cosa potrebbe succedere a una ragazza di 16 o 14 anni buttata in questo mondo”.
Ebbene, il video ha innescato un vero e proprio terremoto[16] nel mondo degli influencer, spaccandolo letteralmente in due. Alcuni creator di spicco, come Gaia Bianchi (3,6 milioni di follower), Gianmarco Zagato (2,1 milioni di follower) e Nicole Pallado (1,4 milioni di follower) si sono schierati a sostegno di Eleonora, condividendo le sue riflessioni e lodando il suo coraggio nel voler far luce sulle dinamiche tossiche che contraddistinguono il settore.
Di tutt’altra opinione, invece, alcuni altri “big” della categoria, che hanno reagito con stizza e indignazione, accusandola di generalizzare. Tra questi, Carlotta Fiasella[17] (2,1 milioni di follower) e Sasy Cacciatore. Quest’ultimo si è lanciato in un lungo video critico[18], intimando a Eleonora di moderare il proprio malcontento:
“Non è un bel modo di integrarsi nella categoria. Questo video, come l’ho visto io, l’hanno visto le altre ottocento influencer ipotetiche. Se veramente hai visto questa cosa cafona che non si è capito di Maria Goretti, la prossima volta non saranno felici di fare amicizia con te”.
Il video però, a giudicare dalle reazioni del pubblico, si è trasformato in un vero e proprio boomerang, attirando a sua volta fortissime critiche, tanto che è stato alla fine cancellato e sostituito con un altro all’apparenza più riflessivo; ma il danno ormai era fatto.
Dal momento che i numeri contano sempre più delle opinioni, o quanto meno le giustificano e sostengono, sottolineiamo come – secondo un’analisi pubblicata da Il Messaggero[19] – il calo di follower per gli influencer che hanno attaccato Eleonora sia stato evidente: Carlotta Fiasella ha perso a brevissimo tempo circa 100mila follower (passando da 2,2 a 2,1 milioni), Sasy Cacciatore è sceso da 859mila a 770mila, e Francesca Amara è passata da 510mila a 460mila. Nel frattempo, per contro, Eleonora ha visto crescere il suo seguito in modo significativo, passando da 280mila a oltre 425mila follower in pochi giorni.
Inoltre il danno non pare essersi limitato alla perdita di follower: sono diversi i brand che per tentare di tutelare la propria reputazione e non rimanere schiacciati dall’onda d’urto di questa crisi digitale, stanno ritirando i propri ADV dai profili degli influencer interessati dalla vicenda, come Coccolino, la cui ADV è stata sospettosamente rimossa dai contenuti in evidenza della home page di Sasy Cacciatore, dopo una moltitudine di commenti negativi (sapientemente cancellati, violando ulteriormente una delle regole fondamentali del reputation management).
E le scuse? Non pervenute.
Goffi tentativi di recupero: parte seconda
Si sa, in questi casi la cosa più importante da fare – come suggerisce la migliore letteratura sulla gestione delle crisi reputazionali – è applicare il “solvente universale” di ogni crisi: scuse non condizionate.
Potrà sembrare paradossale, ma negli ultimi anni – con l’affermarsi del web 2.0 e il conseguente elevato grado di partecipazione/interazione tra gli utenti – questa si è dimostrata in moltissimi casi la strategia più profittevole in caso di crisi. Le scuse sincere smorzano le polemiche, smussano le armi ai giornalisti, costruiscono un ponte di empatia con il pubblico, preservano quanto più possibile la reputazione e riducono le eventuali richieste di risarcimento danni in sede giudiziale. Questa strategia può essere utilizzata come prima risposta a una crisi, in fase di post-crisi, o in entrambi i momenti. Tuttavia, pare qualcosa di assodato solo in teoria, perché nella pratica questa semplice regola viene purtroppo raramente applicata.
Sasy Cacciatore e Francesca Amara, entrambi sotto contratto con la stessa agenzia e utilizzando (guarda caso) le stesse parole – come ricorda astutamente Accorciabro[20] – hanno pubblicato, a poca distanza l’uno dall’altra, un video che rientra nella categoria delle ormai celebri “non scuse” di Ferragniana memoria: un sintomo evidente di come molti influencer – e le agenzie che li seguono, con i loro Social media manager – continuino a sottovalutare l’importanza strategica di scuse sincere e non condizionate per gestire al meglio una crisi reputazionale, e in generale dimostrino ignoranza per le regole fondamentali che governano la costruzione e la gestione della reputazione.
Anche se le scuse rappresentano una opportunità per l’influencer, offrendo la possibilità di mostrare la propria umanità “ricucendo” il rapporto con il pubblico, è infatti sorprendentemente frequente osservare, anche per strutture assistite da professionisti (o presunti tali), una riluttanza quasi patologica nel chiedere scusa; al contrario, si preferiscono cavalcare improbabili e inconcludenti giustificazioni, pur di non incrinare quella – falsa e irreale – immagine di perfezione che si desidera continuare ad ostentare al mondo esterno.
Eleonora Arcidiacono, invece, ha scelto una strada diversa. “Non potevo immaginare tutto questo, voglio dire grazie a tutti voi per il grande supporto”, ha dichiarato in un secondo video, esprimendo sorpresa per il sostegno ricevuto. Un caso che va ben oltre una semplice scaramuccia tra giovani creator, ma che si è trasformato in un sintomo evidente di una frattura più ampia nel rapporto tra influencer e pubblico.
È ancora presto per capire se questa sarà una svolta significativa per il settore, ma una cosa è certa: il terreno per le star del web è sempre più sdrucciolevole, non solo in Italia ma su scala globale.
Un altro esempio emblematico è il caso di Matilda Djerf[21], influencer svedese con oltre 2,7 milioni di follower su Instagram e fondatrice del brand Djerf Avenue, che si è trovata al centro di accuse pesanti: secondo le denunce di alcuni ex dipendenti, diventate rapidamente virali sui Social media, l’influencer avrebbe creato un ambiente lavorativo tossico, caratterizzato da pressioni psicologiche e da una cultura aziendale percepita come lontana dai valori sostenibili e inclusivi promossi dal suo brand. Inutile evidenziare come la polemica sia montata online fino a diventare incontrollabile.
In definitiva, l’autenticità, ora più che mai, non pare più essere un’opzione: è una necessità.
Cosa dicono i numeri: il modello di influencer marketing è a rischio?
Nonostante le polemiche e i cambiamenti nel panorama digitale, parlare di una “morte” del modello dell’influencer marketing appare quantomeno prematuro. I dati, infatti, raccontano una storia più complessa. Come evidenziato da Matteo Pogliani, specialista in digital marketing, che nella sua newsletter Digital Scenario fa una analisi sull’influencer marketing[22], il settore non sta collassando, bensì sta vivendo una fase di trasformazione strutturale.
Un esempio emblematico è rappresentato dai numeri delle attivazioni pubblicitarie su Instagram: nel primo semestre del 2023 si sono registrate 112.900 collaborazioni #ad, mentre nello stesso periodo del 2024 il numero è salito a 120.100 (+6,3%). Non solo: anche le interazioni generate da questi contenuti sono aumentate, passando da 60,4 milioni a 68,8 milioni (+13,9%). Questi dati dimostrano che, nonostante gli scivoloni reputazionali di alcuni big, il pubblico pare quindi non aver abbandonato l’influencer marketing.
Secondo uno studio presentato all’evento Digital Marketing 2024 di UPA[23], il valore del mercato dell’influencer marketing in Italia ha raggiunto i 352 milioni di euro nel 2024, segnando un incremento del +9% rispetto all’anno precedente. Questa crescita è parte di un trend più ampio che vede la creator-economy italiana raggiungere un giro d’affari di 4,06 miliardi di euro, con Instagram che guida il settore generando 3,3 miliardi di euro.
Tuttavia, questa crescita non può essere interpretata come un segnale di stabilità definitiva, e come sottolinea Pogliani stiamo assistendo a un cambio di paradigma: i content creator – quei professionisti che centrano le proprie uscite più sui contenuti che su loro stessi – stanno gradualmente acquisendo più rilevanza rispetto agli influencer tradizionali, molto più auto-riferiti. Non è un caso che il termine influencer sia spesso associato a un sentiment negativo, mentre creator mantiene una percezione più positiva, legata alla produzione di contenuti autentici o quanto meno di valore. “L’ultimo anno – ha dichiarato Pogliani alla nostra redazione – ha visto andare in crisi un sistema che si era si consolidato più per spinta del mercato e hype, e che in modo improprio si autososteneva. In molti casi, come abbiamo visto questo anno, mancavano però delle solide fondamenta capaci di sostenere il meccanismo nel medio-lungo periodo. Mancanze che, col tempo, hanno lasciato il segno sia lato brand che lato utenti, portando il sistema ad una sorta di cortocircuito. Le stesse mancanze che hanno portato a criticità e scarso approccio etico da parte di molti, e che devono spingere tutti i player del settore ad una maggiore attenzione su questo fronte”
Stimola però delle riflessioni la circostanza che un Manifesto per la comunicazione etica nel settore dell’Influencer marketing, redatto dall’ONIM – Osservatorio Nazionale Influencer Marketing in collaborazione con alcune delle più note boutique di comunicazione italiane, dopo essere stato messo a punto sull’onda lunga dello scandalo Ferragnez nella primavera 2024, sia poi completamente sparito dai radar: non risulterebbe infatti né sul sito dell’ONIM né altrove in rete, se non – puntualmente ripreso dalla nostra redazione – sul sito della nostra rivista. La domanda è una: il settore degli Influencer e dei Content creator ha desiderio di aderire a stringenti linee guida di carattere etico, per evitare il ripetersi di disastri quali quelli, numerosi, già saliti all’onore delle cronache, o è invece intenzionato a continuare a macinare denaro senza alcuna regola, e mantenendo le mani completamente libere? (NOTA: alcuni giorni dopo la pubblicazione di questo articolo, l’OISM ha reso pubblico il testo del Manifesto, pubblicandolo sul proprio sito web).
Influencer “rimandati a settembre” in gestione delle crisi reputazionali?
La verità è che gli influencer sono, prima di tutto, esseri umani, e, come tali, non immuni agli errori. Tuttavia, ciò che li rende particolarmente vulnerabili pare essere una diffusa e preoccupante scarsissima alfabetizzazione in tema di reputation management.
Le crisi reputazionali – per definizione, una situazione operativa che, se non affrontata adeguatamente e risolta, potrebbe avere conseguenze negative sui rapporti con uno o più stakeholder e sulla business continuity – rappresentano una delle sfide più complesse per chi vive di immagine e di consenso.
Non basta certamente un semplice “mi dispiace” per risolvere una crisi. Le scuse non sono solo una questione di buone maniere, ma uno strumento strategico e sofisticato che, se utilizzato con sincerità e competenza, può trasformare un momento di vulnerabilità in un’opportunità di riscatto. Come insegna la letteratura sul tema[24], il perdono del pubblico non è garantito, ma può essere conquistato attraverso un percorso ben preciso: ammettere l’errore in modo sincero, chiedere scusa senza condizioni, risarcire (materialmente o anche solo moralmente) gli eventuali danneggiati, promettere di non ripetere l’errore e compiere azioni concrete che dimostrino il proprio impegno a cambiare.
Eppure, il 2024 ha messo in luce una realtà desolante: molti influencer, pur supportati da agenzie che dovrebbero guidarli, si ostinano a ignorare questi fondamentali. I casi emblematici analizzati nell’articolo, dal Pandoro-Gate alle faide su TikTok, fino al caso internazionale di Matilda Djerf, non sono altro che la punta dell’iceberg di una crisi più ampia che coinvolge l’intero settore dell’influencer marketing.
Un esempio paradigmatico è quello delle “non scuse”, diventate ormai un classico del repertorio digitale: nonostante l’evidente delusione del pubblico, spesso si preferisce adottare improbabili giustificazioni pur di mantenere intatta quella facciata di perfezione che, paradossalmente, è proprio ciò che aliena il pubblico.
In un’era in cui la partecipazione e l’interazione sono alla base del successo digitale, la reputazione rappresenta un asset strategico da tutelare e presidiare con cura attraverso azioni concrete e, soprattutto, con un comportamento autentico; le bufere Social e gli scivoloni reputazionali sono diventati un vero e proprio banco di prova per chi vive del consenso del pubblico, e la lezione appare chiara: non è tanto l’errore a determinare il destino di un influencer, ma il modo in cui l’influencer sceglie di affrontarlo.
La crisis communication è una scienza sociale, e la competenza in questi delicati meccanismi non può essere improvvisata. Inoltre, l’autenticità, ora più che mai, non è un “accessorio” parte di una strategia di influencer marketing, ma è invece un requisito imprescindibile per sopravvivere in un panorama digitale in cui il pubblico pare essere sempre più attento, critico, difficilmente manipolabile, e, soprattutto, intransigente verso chi cerca di costruire la propria fortuna ignorando il potere – e le aspettative – di chi sta dall’altra parte dello schermo dello Smartphone.
Pulse Advertising e Eumetra, Report influencer marketing e social media 2024, https://www.pulse-advertising.com/it/osservatorio-report-influencer-marketing-2024/
Vecchiato G., Poma, L. (2012), Crisis management. Come comunicare la crisi: strategie e casehistory per salvaguardare la business continuity e la reputazione, Il Sole 24 Ore
Villa, R. (2019), La comunicazione della scienza non è un campo di battaglia, Wired.it
[1] Pulse Advertising e Eumetra, Report influencer marketing e social media 2024, https://www.pulse-advertising.com/it/osservatorio-report-influencer-marketing-2024/
[13] Con oltre 250mila follower su TikTok e circa 340mila su Instagram, Accorciabro è il profilo gestito da Rudy, 34 anni, che ha portato in Italia un format già consolidato in Europa e negli Stati Uniti. Il concept? Ridurre all’essenziale i video che affollano i social, spesso lunghi monologhi di influencer o aspiranti tali intenti a parlare del nulla per interminabili minuti.
[24] Vecchiato G., Poma, L. (2012), Crisis management. Come comunicare la crisi: strategie e casehistory per salvaguardare la business continuity e la reputazione, Il Sole 24 Ore