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Era il (digitalmente lontano) 2015, quando in un mio lavoro per Franco Angeli utilizzai per la prima volta (al mondo forse, in Italia sicuramente) un termine che ebbe poi, per meriti del tutto indipendenti da me, una certa fortuna: digital body.

Un poco di sex appeal doveva averla, quell’immagine di un corpo digitale, il nostro, capace quasi di vita propria, e in grado di ammalarsi, sedurre, innamorarsi, venir abbandonato, e anche, in prospettiva (ne parlavo in quel saggio di 8 anni fa) di diventare immortale, del tutto a prescindere da noi: un nostro doppio, il doppelganger, che nella mitologia è presagio di morte, mentre nella cronaca dei giorni nostri è quanto meno un’asfissiante presenza in grado di saturare la nostra attenzione e il nostro tempo, come quello dei nostri ragazzi e ragazze, i quali senza dispositivo in mano quasi h 24 – e allora avevano ragione la leggenda e il folclore! – davvero paiono non poter più vivere.

Fatto sta che dobbiamo farci i conti, con questo “gemello maligno”, e far nostre alcune regole elementari per imparare a gestirne le esuberanze digitali: perché online ci si innamora, si parla, si urla, si litiga, sempre più frequentemente, producendo cortisolo[1] con uno zelo degno di miglior causa.

Digital Body, ovvero il nostro alter-ego digitale, ma anche – per estensione – l’area di influenza sul web di un’organizzazione, un’azienda, un brand, un’istituzione pubblica, un opinion leader, nonché i confini dello spazio che esso/a è in grado concretamente di influenzare.

Non voglio annoiarvi ribadendo per l’ennesima volta l’importanza della reputazione: come confermato da solidissima letteratura e da innumerevoli case-study derivanti da pratica professionale, è in assoluto l’asset intangibile più importante e di maggior valore per qualunque soggetto od organizzazione. E sempre più spesso va in crisi, in particolar modo online, per mancanza di conoscenza dei fondamentali del crisis management, o anche solo per imperizia nel maneggiare quell’arma potente che sono i Social network, delizia e trappola di ogni reputation manager.

Nelle mie lezioni amo rispolverare alcune regole d’oro che è opportuno tenere sempre a mente, in parte frutto della mia esperienza, in parte codificate da altri colleghi e specialisti. Prassi banali, forse: ma se fossero davvero così banali, non registreremmo centinaia di epic-fail ogni mese, così tanti e così gustosi da ingrassare ad ogni semestre le slide di chi ha fatto come il sottoscritto della docenza universitaria una professione.

Eccone alcune.

Alcune regole base per (prevenire ed evitare) le crisi online

Innanzitutto, essere pronti 24/7, perché se con i media tradizionali si ragionava in termini di mezze giornate, oggi nel web si ragiona (purtroppo, occorre dirlo…) in termini ore, a volte di minuti. Internet è un mezzo che elimina il filtro dei mass-media nell’interazione tra l’organizzazione e il suo pubblico: gli interlocutori si aspettano di ricevere immediatamente e direttamente le notizie più importanti e i successivi aggiornamenti, essendo i tempi dei media tradizionali del tutto inadeguati alla fame di protagonismo dei cittadini. A volte ci mette meno tempo la notizia di una crisi reputazionale a fare il giro del mondo, che un’azienda ad attivare il proprio crisis team. Situazione questa da evitare, poiché se l’organizzazione – sia essa impresa, personaggio pubblico o influencer – tarderà a rispondere, a quel punto il pubblico si sarà già formato la propria opinione a riguardo, e probabilmente avrà anche già visto su Youtube il filmato relativo all’evento oggetto di dibattito, e l’organizzazione stessa avrà fallito l’obiettivo fondamentale di essere la prima fonte di informazioni a prendere la parola: tutto quello che comunicherà successivamente – compreso un eventuale statement di risposta – otterrà minor ascolto e attenzione e un più robusto filtro critico da parte del pubblico.

Conseguente, ma non certo meno importante, monitorare costantemente il web. Essere dappertutto, perché l’internet va scrutato con costanza e in modo approfondito (inclusi blog, newsgroup e forum di minore portata) come già si fa con i mass-media tradizionali. In particolare, le due categorie di pubblico che devono essere tenute sotto costante sorveglianza sono, agli opposti, i fans e i più accesi critici dell’organizzazione, perché è da questi due gruppi di persone che spesso provengono i segnali informativi di maggior valore, visto anche il loro profondo interesse per i temi “caldi” relativi ad essa.

Poi, non sottovalutare i cosiddetti segnali deboli di crisi, perché spesso le problematiche reputazionali decollano sotto forma di leggeri brusii – buzz – di sottofondo che, più o meno velocemente, diventano grandi frastuoni. Per captare i rumoriquando essi sono ancora poco udibili, bisogna essere dappertutto, ovvero non solo monitorare, ma valutare e (solo se necessario, e nei tempi e modi corretti) intervenire in ogni newsgroup, pagina Facebook, canale social, hashtag etc. dove si discute di un argomento affine all’azienda. Per questo è necessario rispondere sempre ai rumors: le informazioni che corrono in internet spesso sono frutto di dicerie che col passare del tempo assumono sempre più peso e considerazione da parte del pubblico.

Su internet occorre essere flessibili e sapersi adattare alle caratteristiche del media: potrebbe rivelarsi molto utile rispondere ai rumori creando dei brusii opposti, utilizzando le stesse armi degli utenti ostili. Un esempio di un modo efficace per rispondere ai rumors negativi – governando la crisis – fu quello di General Motors: creò un portale con il preciso scopo di accogliere tutte le dicerie che infuriavano nel web sul tema della sicurezza delle automobili, e, per ognuna di esse, propose la risposta ufficiale dell’azienda con la relativa rettifica o smentita, scientificamente documentata.

Mantenere la calma, perché nella comunicazione di crisi la prima reazione “di pancia” è, molto spesso, quella sbagliata. Prima di lasciarsi prendere dall’impeto e rispondere a un commento di attacco con rabbia e risentimento, è sempre meglio prendersi un minimo di tempo. Vero, la tempestività in situazioni di questo tipo è un valore, ma voglio rassicurarvi: anche se non risponderete in un lasso di tempo dell’ordine dei nanosecondi, il web non imploderà su sé stesso. Inoltre, rispondere in maniera aggressiva a un commento negativo postato sul web non è bello, e denota un eccesso di permalosità e di superbia da parte del brand, nonché una scarsa considerazione del punto di vista dell’utente/cliente.

Rispondere sempre ai commenti negativi (dobbiamo ricordare che non vanno mai e poi mai cancellati? No, non dobbiamo…). Oltre a essere alla base di una corretta interazione, molto spesso una pronta e efficace risposta ad un commento negativo descrive un brand molto meglio di mille pagine “About”. In particolare, ringraziare sempre l’utente per la segnalazione/critica/commento, placare gli animi qualora vi siano diatribe sulle vostre pagine, spiegare le proprie ragioni senza ostinazione, ma con sobria decisione laddove necessario, e – se l’errore commesso è evidente – arrendersi, ammetterlo, accettarlo scusandosi (e – di nuovo – ringraziare).

Non aspettare troppo, perché se prima ho suggerito di prendervi un po’ di tempo… non intendevo con questo convincervi a dormirci sopra. Mai far passare troppo tempo, quindi, prima di rispondere a un commento negativo, perché si rischierà di dare l’impressione di trattare con noncuranza le opinioni degli utenti/clienti e soprattutto si permetterà all’eventuale tsunami di critiche di assumere forme bizzarre che diventeranno in brevissimo tempo incontrollabili.

Si, ci sono anche (purtroppo) i Troll[2]. Di Troll purtroppo è pieno il web ed è plausibile che un dato commento negativo sia proprio frutto dell’azione di uno di questi soggetti. Per prima cosa, qualora possibile, bisogna accertarsi della reale identità dell’utente che ha postato il commento negativo, dopodiché, una volta sicuri che si tratti effettivamente di un Troll, si potrebbe rispondere con un messaggio ironico (sempre educato) con cui far notare che l’utente in questione ha sbagliato pagina, muove critiche prive di senso, annoia gli utenti con polemiche sterili, etc. Neanche a dirlo, se il Troll persiste a violare la policy della community si ha tutto il diritto di bannarlo dal proprio blog aziendale o dagli account Social.

Lo sapete, vero, che non dovete partire attaccando? Perché come nell’interazione off-line, anche nel contesto Social è fondamentale il tatto. E, vi prego, non utilizzate i Social come se si trattasse di una chat privata, mettendo in scena conversazioni che rischiano di andare fuori controllo e di non veicolare in maniera corretta la giusta percezione del brand: non state rispondendo a vostra zia nel tinello di casa, c’è il mondo che vi guarda (e vi valuta!).

Tantomeno dovete bloccare i thread critici, per nessun motivo: eliminare per gli utenti la possibilità di commentare i post presenti sulla pagina è un errore mortale che ancora in troppi tendono a fare ai primi segnali di una crisi, evidenziando così null’altro che gli effetti della mancanza di un piano preventivo per gestire la crisi stessa, nonché una certa incompetenza di fondo. Basteranno pochi secondi all’utente irritato per fare uno screenshot della pagina, condividerlo sui propri profili social e denunciare l’indisponibilità al confronto dell’azienda, peggiorando ulteriormente la crisi, spostando peraltro il dibattito altrove e proseguendo a postare le critiche in territori del web lontani dal vostro controllo.

Infine, ricordate la legge 1-9-90: ad ogni persona che crea contenuti corrispondono sommariamente 9 persone che li commentano direttamente sulla pagina, ma almeno 90 che lurkano, guardano senza prendere la parola e neppure mettere like, e si fanno le proprie idee leggendo il tono delle vostre risposte. Sarà poi questo popolo anonimo, misterioso e sotto traccia, che determinerà, tramite passaparola, la vostra reputazione online, quindi non fatevi soverchiare e condizionare dalle emozioni negative, neppure dinnanzi al peggior analfabeta funzionale: è a quei 90 che dovete guardare, ed è a quei 90 che starete parlando, quando risponderete a uno specifico utente aggressivo o critico…

Come evitare le ostilità: discussione o dialogo?

Di questo specifico aspetto, vera e propria cifra delle conversazioni 2.0, parla in modo approfondito Bruno Mastroianni, filosofo e giornalista, ricercatore di Teoria generale della comunicazione e consulente per i social media de “La grande Storia” di Rai 3, nel sul bel saggio dal titolo La disputa felice. Dissentire (senza litigare) sui social network, sui media e in pubblico, stampato da Franco Cesati Editore, del quale consiglio vivamente la lettura. Vediamo qualche highlight.

Le discussioni online, come ben sappiamo, affollano il web. Discussione è però un termine “abusato”, quando si parla di conversazioni online, che ha un’accezione negativa, simile a quella di litigio e di controversia, perché lo scopo di una discussione, in fondo, è quello di avere ragione sull’interlocutore, costi quel che costi. Preferibile invece sempre – questo è l’approccio condiviso e consolidato tra gli addetti ai lavori – vedere le conversazioni online non come discussioni bensì come dialoghi, dove ci si confronta per arricchirsi, usando le nostre argomentazioni per creare valore nell’altro e senza censurare l’altrui punto di vista.

Tanto più che nelle discussioni (sui Social ma non solo) la maggior parte delle volte il livello dell’incomprensione non è tanto nei contenuti in sé, ma nelle differenze tra i modi di intendere la realtà degli interlocutori coinvolti: l’ostilità, insomma, è un conflitto tra mondi diversi che si riversa sulle persone, quando un soggetto sente nelle affermazioni dell’altro la negazione di qualcosa in cui crede, e che ha per lui un valore non negoziabile.

Sui Social, accade qualcosa di simile a quello che succede nei confronti interreligiosi, sostiene Mastroianni: quando si dialoga tra fedi, ciascun interlocutore sa bene che esiste una sfera – quella delle credenze della religione dell’altro – che non può essere messa in discussione, pena creare un effetto di mancanza di rispetto; occorre allora tenerlo presente e discutere centrando il dibattito su altri aspetti, come le conseguenze sociali, morali, politiche, di quelle credenze. In tutti i casi di confronto tra diverse visioni del mondo, la sfera delle certezze dell’altro è un punto di partenza da accettare, per trovare un terreno comune e divergere, casomai, sulle scelte concrete.

Essere sé stessi online, rispettare la propria identità e non venir meno alla propria integrità vuol anche dire fuggire da proiezioni superbe della propria competenza, delle proprie capacità e della “bontà a prescindere” dei propri argomenti. “Spesso quando interveniamo in dibattiti pubblici sentiamo crescere in noi un certo senso di rivalsa e ci lasciamo andare all’aggressività, alla spocchia, alle prevaricazioni sull’altro all’unico scopo di avere ragione”, sottolinea Mastroianni, aggiungendo che

sui Social tale effetto si accentua ancor di più: il leone da tastiera che è dentro di noi si fa sentire, perché scrivere guardando uno schermo può far dimenticare che dall’altro lato c’è un’altra persona in carne ed ossa che legge. Si crea quindi un effetto psicologico simile a quello dell’anonimato che, grazie alla distanza, accentua le reazioni e allenta i freni inibitori: è un modo di procedere che compromette senz’altro la comprensione reciproca

Torniamo ad essere persone, quindi, e abbandoniamo l’arroganza, suggerisce l’esperto: dobbiamo parlare e proporre temi ammettendo che ci sarà sempre qualcuno che ne saprà più di noi, e che, con le sue idee, potrà contribuire ad arricchire il dibattito, aggiungendo nuovi elementi del puzzle, a volte anche con maggior competenza della nostra.

Altre regole preziose da tenere a mente sottolineate da Mastroianni: muoversi anzitutto nel proprio perimetro, e attenersi a ciò che riteniamo vero perché vagliato personalmente; parlare solo se abbiamo davvero qualcosa da aggiungere a ciò che stanno dicendo gli altri; separare ciò che viene dalle nostre personali impressioni da ciò che è nei dati, nei fatti e negli argomenti fondati, laddove per argomento fondato intendiamo un’analisi supportata da una fonte terza autorevole; non ripetere cose dette da altri se non messe alla prova fino in fondo (perché prenderci questo rischio?).

Gestire un digital body in modo efficace è, insomma, anche uno sforzo di umiltà: tracciare il proprio perimetro realistico di competenza per esporre le proprie opinioni in modo sincero, esplicitando i propri pensieri, le proprie aspirazioni, i propri bisogni, senza trucchi, maquillage, e lifting poco genuini.

Vero, non dobbiamo mai negoziare sui valori fondamentali, per non incrinare la nostra autenticità, ma dovremmo usare più spesso verbi al condizionale, nell’esposizione dei fatti, così da non entrare in crisi se qualcuno aggiunge nuovi elementi dimostrando che la nostra interpretazione non era poi così corretta.

Ma Mastroianni dice anche un’altra cosa, assai interessante.

Aggredire: un modo per proteggersi?

L’aggressività online è ormai all’ordine del giorno, con una tale gradazione di potenza da lasciar spesso senza parole. Chi aggredisce è perché di solito non vuole esporsi, non accetta i suoi limiti e quindi, per difendersi, fa quello che farebbe qualsiasi essere vivente di fronte al pericolo: si nasconde mettendosi con le spalle al muro, per proteggersi, e ringhia se qualcuno si avvicina. Ci sono molti modi di nascondersi e proteggersi in una conversazione, che Mastroianni nel suo bel saggio enuclea assai bene: esaminiamone alcuni.

Nascondersi dietro ai principi, cosa che facciamo quando usiamo espressioni come “su questo tema non si può discutere perché è sbagliato in sé”, “la verità va difesa”, etc.; nascondersi dietro a un ruolo: “io insegno questa materia da 10 anni”, “io sono un professionista”, “io sono riconosciuto come…”; nascondersi dietro a un’autorità riconosciuta, dicendo “lo dice la Costituzione”, “lo dice il Vangelo”, “lo dice l’Europa”; nascondersi dietro alle proprie reazioni emotive, affermando ad esempio: “non voglio discutere con te perché quello che dici mi offende e mi turba profondamente”.

Quelle appena elencate sono tutte strategie per frapporre qualcosa tra noi e l’altro, così da permetterci di ripararci dietro una posizione sicura che, non riguardando il merito del discorso, solleva dal doversi confrontare pienamente con l’interlocutore.

Trucchetti alla portata di tutti, anche se la strategia corretta, invece, è rivendicare con sobrietà la propria posizione, le proprie idee, la propria consapevolezza, sottolineando come tutto ciò non sia altro che l’espressione di un punto di vista personale e quindi soggettivo per definizione, rimanendo sul tema, circoscrivendo il proprio peso e ammettendo i propri limiti; tra l’altro, ciò mette nelle condizioni di accettare anche i limiti dell’interlocutore nell’interazione, rendendoli plasticamente evidenti al pari dei nostri.

Chi è disposto a riconoscere la propria tendenza a prevaricare (tutti abbiamo dei difetti…) la troverà altresì più comprensibile quando gli si presenterà da parte dell’altro, e ne resterà meno ferito, favorendo il disinnesco di eventuali ostilità: siamo tutti vulnerabili, quando ci apriamo al confronto. Questo è uno sforzo che val la pena fare: chiunque può parlare dal proprio punto di vista, e per il solo fatto di aver vissuto qualcosa o averlo sperimentato ha diritto a prendere parola in modo rilevante sul tema.

In realtà, gran parte dei conflitti non nasce tra persone, ma tra differenze, come quanto – ricorda Mastroianni – atei discutono con religiosi, progressisti con conservatori, complottisti con scienziati rigorosi, e via discorrendo: la soluzione allora è quella di tenere aperto il confronto tra la persona che sta parlando e quella che risponde, senza far interferire in modo sproporzionato fattori distorsivi, così da mantenere il più possibile il focus su ciò che si ha in comune (essere umani) al di là di ciò che apparentemente ci divide.

L’autorevolezza: un’arma potente… a doppio taglio

L’autorevolezza di un discorso dipende soprattutto dal contenuto e dalle argomentazioni, che devono reggere in sé, il che è vero, ma va considerato che la dinamica conversazionale dei Social network ha di fatto spostato il peso dal contenuto al profilo degli interlocutori.

La premessa di Mastroianni è la seguente: una tesi potrà essere più o meno accettata a seconda di quanto è accreditata e ritenuta autorevole la fonte da cui essa deriva (anche se – aggiungo io – le sciatte derive complottiste hanno negli ultimi anni finito per mettere in discussione, purtroppo, anche questo sacrosanto principio, all’insegna del tristissimo e ingannevole “uno vale uno”).

L’esperto ricorda come le fonti autorevoli classiche (il diritto, la letteratura scientifica in generale, le tradizioni, il catechismo, i libri sacri e religiosi) “non siano spendibili di per sé, giacché la loro autorevolezza presuppone un accordo preventivo sulla loro validità da parte di tutti gli interlocutori”: per alcune persone esse sono discutibili, per altri possono essere persino motivo di opposizione pregiudiziale, per il solo fatto di essere nominate, come può essere per un non credente il catechismo, per un anarchico la costituzione, per un complottista la scienza, e così via.

Ne deriva che in un dibattito non dovremo mai dar per scontata l’esaustività di una fonte, per quanto da noi ritenuta autorevole. Non si tratta certamente di mettere in discussione la cultura e la scienza, bensì di accettare di doversi mettersi in gioco per convincere chi parte da punti di vista di rifiuto: vogliamo scendere nell’arena dei Social? Bene, dobbiamo interpretarne le regole e imparare a governare i flussi di comunicazione.

Anche perché – come scrivevo in una mia precedente analisi, riprendendo anche il lavoro di altri colleghi – lo suggerisce proprio la scienza. Andrea Grignolio, storico della medicina, nel suo libro dal titolo Chi ha paura dei vaccini?[3], riflette sulle circostanze sociali e individuali e sui bias neurocognitivi che hanno favorito la diffusione di atteggiamenti esitanti nei confronti delle vaccinazioni: se un genitore ha paure legate a un’alterata percezione del rischio, ad esempio in seguito a scandali che hanno realmente coinvolto aziende farmaceutiche oppure rappresentanti di istituzioni sanitarie che si sono rivelati corrotti, ha perso fiducia in queste autorità; oppure, se è rimasto segnato dal racconto o dall’esperienza personale di una disabilità erroneamente attribuita – ad esempio – a una vaccinazione, non sarà certo facendogli una lezioncina su Facebook, deridendolo o insultandolo che gli si potrà fare cambiare idea.

Come non essere d’accordo? Tanto più che “le evidenze – aveva dichiarato sempre a Wired proprio Grignolio in un’intervista – ci dicono che sfidare le persone esitanti o contrarie ai vaccini non serve: il rischio è quello di radicalizzare le posizioni contrarie”. Limitarsi a dire “Non è così, io ho ragione e tu torto”, è sbagliato, rischia di diventare uno scontro di identità in cui le nuove informazioni – paradossalmente – non fanno che aumentare le posizioni contrarie.

La sfida, molto più complessa, consiste quindi nel fornire a chiunque, in relazione alle sue possibilità, gli strumenti per fare scelte consapevoli e, possibilmente, scientificamente fondate: si chiama empowerment del cittadino, un nuovo modello che prevede il coinvolgimento del pubblico non più visto come un “contraltare passivo” da farcire di informazioni ma come un interlocutore attivo, con il quale interagire a vantaggio di entrambe le parti[4]. È utile in tal senso ricordare le parole di Jane Gregory, della London University[5]:

Il pubblico ci ha insegnato una lezione utile rifiutando di cooperare con scienziati che li trattavano come idioti. È un peccato che così tanti dei nostri scienziati di spicco abbiano causato così tanta irritazione tra persone precedentemente amichevoli verso la scienza. Molti di noi che lavorano in questo campo in Gran Bretagna sperano che il recente rapporto della Camera dei Lord renderà gli scienziati consapevoli del fatto che devono guadagnare il loro posto come una delle tante autorità della società. È tempo di riconoscere che la nostra prima enfasi sull’apprendimento pubblico da parte degli scienziati era fuori luogo e che ciò di cui abbiamo bisogno è che gli scienziati imparino dalle persone.

Occorre allora accettare di farsi carico dell’onere della prova davanti agli altri e non respingere al mittente nessuna delle obiezioni, sottolinea infine Mastroianni, “anche quando si parla di cose assodate: ogni rilievo espresso in termini razionali è degno di risposta, ogni affermazione ha bisogno di essere comprovata da fatti, dati e ragionamenti. Quando ci si confronta pubblicamente, nessuno può sentirsi in una posizione di rendita dovuta al suo ruolo, alla sua popolarità o alla sua condizione sociale”.

Il criterio del senso comune presuppone insomma che si sia disponibili a riaprire le questioni ogni volta che sia necessario. Ad esempio, se c’è bisogno di ripetere il concetto perché qualcuno è arrivato dopo o non ha seguito tutto il discorso, questo va fatto, e se un’incomprensione ha viziato la procedura è necessario fare qualche passo indietro per ritornare ad affrontarla una seconda volta, senza timori ne esitazioni, serenamente e in modo aperto e inclusivo.

Potremmo casomai discutere a lungo del perché non tutti si prendano la briga di leggere i commenti di una discussione o lo storico di post precedenti sullo stesso argomento prima di intervenire su un punto, nelle discussioni online, ma questa analisi ci porterebbe poco lontano: la verità è che serve tanta, tantissima pazienza. Ma tutto ciò è parte del gioco.

Piccoli saggi trucchi per difendersi dal (eccessivo) Q&A

Non di solo web vive un comunicatore, e ci sono regole che possono tornare utili – nei loro principi generali – sia nella gestione dei confronti e conflitti online, che nelle analoghe situazioni nella vita reale (l’una non esclude l’altra, anzi). 

Le arti marziali – e la cultura orientale in generale – sono fonte di grande ispirazione per la messa a punto di strategie efficaci per la gestione dei conflitti, basti ricordare il mai abbastanza citato Sun Ztu: l’arte della guerra, il più antico testo di arte militare esistente (VI secolo a.C. circa), che spiega non solo come vincere, ma anche come farlo sfruttando l’imperizia dell’avversario. Il Judo, ad esempio, usa la forza del nostro antagonista “contro di lui”. Ciò significa – adattando questo concetto a una intervista o contesto mediatico “ostile” – riuscire a utilizzare gli argomenti (e la visibilità generata dal contesto) a nostro favore, sfruttando la circostanza non solo per chiarire il nostro punto di vista sull’argomento in discussione, ma approfittandone per rendere noti e far passare quelli che sono i nostri valori. Il buon crisis manager infatti non ha mai paura di una polemica: se ben gestita, è una preziosa occasione per far comprendere alla nostra audience chi siamo veramente.

Il Tai chi, invece, ci da un suggerimento prezioso, che ho applicato infinite volte, ad esempio, nella gestione dell’apparato Social della Farnesina, quando servivo come Consigliere del Ministro degli Esteri: trovare “la linea di minor resistenza”. Ovvero, di fronte a un muro di argomentazioni ostili, individuiamo l’unica cosa (o più di una, se ve ne sono) davvero infondata e palesemente errata tra le affermazioni della controparte, foss’anche secondaria: troviamo una fonte inattaccabile a nostro favore e demoliamo quella singola inesattezza. Se riusciremo a mettere in crisi anche un solo mattone nel muro dell’avversario, metteremo – agli occhi della pubblica opinione – in crisi la sua intera attendibilità e apriremo un’utile crepa nella sua narrazione, portando molti osservatori quanto meno da una posizione a noi ostile ad una posizione di sentiment neutrale.

Ecco qui di seguito alcuni altri suggerimenti – maturati dall’esperienza mia e del mio team – che ritengo utili per chi ogni giorno deve misurarsi con aggressioni e critiche nella trincea dei Social, e anche, perché no, per chi deve confrontarsi con rappresentanti dei mass-media convenzionali, ad esempio in occasione di una conferenza stampa ostile.

“Usare” le domande dell’intervistatore. Evitiamo un banale “La ringrazio per la domanda…” per poi parlare di ciò che si vuole: meglio invece subito dopo aver fornito l’informazione richiesta (il quesito posto va risolto sempre, senza eccezioni, eventualmente anche solo con una breve battuta), “agganciarci” con approfondimenti costituiti da ciò che ci interessa far sapere (meglio se pochi concetti, 2-3 al massimo, ben collegati fra loro).

Rispondere a una domanda alla volta. Non perdiamo mai di vista le basi della crisis communication: solo dopo che un concetto è stato “duplicato” e fatto proprio dall’interlocutore, e ne siamo certi (conta anche il “non verbale”), possiamo passare a un altro argomento. Se veniamo “tempestati” da domande, è anche buona educazione “fare ordine” e spiegare che amiamo rispondere a una domanda alla volta, ottenendo ci sia lasciata fornire una risposta completa prima di passare alla successiva questione (ci si può anche appellare al rispetto per il pubblico, che ha il diritto di capir bene di cosa si sta parlando).

Non dire più del necessario, e – se serve – tacere. Non cadiamo nella trappola del “vuoto” creato dall’intervistatore (spesso in TV o su un palco) dopo la nostra risposta. Ho detto ciò che dovevo dire, non ho altro da dire, sono pronto alla prossima domanda… e se l’intervistatore tace, taccio anche io: ho finito, e non continuo a balbettare parole pur di riempire il vuoto, con il rischio di dire cose non rilevanti o controproducenti. Piuttosto, posso sollecitare una nuova domanda, dimostrando così il pieno controllo della comunicazione.

Non inventare mai, se non si conosce la risposta (corollario: non fare promesse che non si possono mantenere). Mai rispondere solo per non fare la figura di colui che non sa, se non siamo più che certi dei contenuti che esponiamo. Molto meglio: “Al momento non dispongo di questa informazione, mi lasci il tempo per raccogliere dati certi e glieli farò avere”, e poi alla scadenza pattuita, inderogabilmente, trasmettere il dato promesso. Non siamo tuttologi, e non c’è niente di male ad ammettere di volersi riferire agli esperti in matria prima di dare un parere. In politica, ad esempio, ci sono ben pochi esempi di questo genere di onestà nella comunicazione: non sarebbe mai troppo tardi iniziare ad importare in quel mondo confuso uno stile diverso…

Essere brevi. Conoscere e riconoscere i tempi del media e il contesto, e calibrare le risposte in base ad esso. In un servizio TV verranno montati pochi secondi della nostra dichiarazione. Meno ci dilungheremo e più speranze avremo che vengano utilizzati i passaggi della nostra dichiarazione che ci interessa davvero vengano divulgati. Soprattutto, cerchiamo di esprimere già nella prima frase il concetto chiave, rimandando al proseguio eventuali approfondimenti: così saremo certi che il nostro messaggio “passerà” realmente.

Rimanere in tema, calmi, convinti e coinvolgenti. Discorsi fuori tema nascono soprattutto in momenti di stress, e – ad esempio – un’intervista ostile facilmente di stress ne crea. È importante mantenere un buon allineamento tra cosa si dice e il come lo si dice (enfasi, tono di voce, non verbale, postura…), stare sempre leggermente al di sopra del tono emozionale dell’interlocutore se questo è basso, dimostrare empatia, calore umano e coinvolgimento emotivo, in primis il nostro.

Evitiamo l’ingenuo “Glielo dico, ma non lo scriva”, perché non esistono gentlemans agreement con i giornalisti. Anzi, il codice deontologico del giornalista obbliga a riportare un fatto o una informazione, non importa se chi la svela chiede di non divulgarla. Casomai, embarghiamo una notizia, prima però negoziando l’embargo (non divulgare fino a una certa data e ora, non divulgare interamente, etc.) e poi, solo dopo, inviando i contenuti desiderati dal giornalista.

Fine dell’intervista…? I “fuori onda”, i tempi morti, il caffè e due chiacchiere insieme al giornalista dopo l’intervista, il breve tragitto insieme uscendo dallo studio televisivo, sono tutte situazioni in cui rischiamo un abbassamento della tensione e della guardia: l’intervista (crediamo) è finita, possiamo essere “più noi stessi”. Niente di più sbagliato, in quei momenti ci può scappare una battuta o una informazione o un atteggiamento o comportamento contrastante con quanto appena detto, e mandare tutto all’aria. L’intervista è finita solo quando la porta si chiuderà alle spalle di chi ci ha visitato, quando saremo fuori dall’edificio, quando saremo – finalmente – da soli.

Infine, mai avere paura di chiedere scusa. Un essere umano di solidi principi, sicuro di sé, non ha paura di chiedere scusa per un errore. Arrampicarsi sui vetri cercando giustificazioni è molto meno efficace che guardare dritto negli occhi l’interlocutore (sia esso la/il nostra/o partner, un giornalista o un elettore) dicendo ad esempio “Gli elementi che avevo a disposizione mi hanno portato a conclusioni sbagliate, tengo molto alla sincerità con chi ho di fronte e quindi non ho alcun problema a scusarmi”. La letteratura in materia di gestione delle crisi reputazionali ci conferma senza ombra di dubbio che questa è l’unica strada per limitare i danni: chi sa chiedere scusa, recupera molto più velocemente un indice reputazionale compromesso. Lo capissero, una buona volta, quegli arroganti dei nostri politici…

Una trappola: le false dicotomie

Nei dibattiti online come anche nei rapporti con la stampa mainstream “dal vivo”, esistono le dicotomie – una categoria logico/filosofica spesso impiegata nelle discussioni, confronti e dibattiti: una dicotomia tra A e B significa che o è vero A oppure è vero B, e che non esistono altre possibilità. Questa tecnica può rivelarsi assai insidiosa.

Ma peggio ancora sono le false dicotomie, ovvero quegli artifici retorici secondo i quali la nostra controparte enuncia “A oppure B”… tacendo però che esistono anche altre possibilità C, o D, etc. Ad esempio – come ricorda Marco Calamari in un suo interessante articolo dal titolo “Tecnocontrollo e diritti civili – Cassandra Crossing/La necessità di scegliere tra privacy e sicurezza è una falsa dicotomia” – tacendo che possa esistere l’ipotesi “vogliamo la democrazia senza dover scatenare una guerra” (attraverso soluzioni diplomatiche politiche, di formazione culturale, citizen building, etc.) e sottendendo quindi che, desiderando la democrazia, sarà necessario invariabilmente fare una guerra (la storia della fine dell’apartheid in Sud Africa dimostra invece che un’altra strategia – seppur non di breve termine – è possibile, come anche la fine della dittatura Franchista in Spagna).

“La trappola logica della falsa dicotomia è un metodo dialettico estremamente comune per guidare una discussione fuori dai binari fattuali e far apparire in contraddizione l’interlocutore dinnanzi agli utenti del web, al pubblico, ai giornalisti, etc. Permettere il consolidamento di una falsa dicotomia in una discussione equivale a lasciare all’avversario scelta di campo, di armi e di momento, permettendo la sconfitta dialettica della propria posizione: significa di fatto accettare false premesse, rendendo sterile e fazioso il dibattito, e facendosi guidare dall’avversario verso un terreno arbitrario dove – molto probabilmente – lui è preparato e voi no, e dove lui dimostrerà una tesi falsa o strumentale, ai vostri danni”, sostiene Calamari.

Come reagire, allora, al tentativo di un avversario dialettico di far deviare la discussione nel vicolo cieco di una falsa dicotomia? Come sempre, prendendo ad assunto che – come dimostrano i fondamentali del reputation management – l’autenticità è un valore centrale, denunciandola subito e poi argomentando, ancorandosi a fonti qualificate. Esempio:

“Deve decidersi, o è a favore della famiglia tradizionale oppure è a favore dei diritti LGBTQI+” (tipica, sciattissima falsa dicotomia).

Risposta possibile: “Questa è una falsa dicotomia, è inutile che Lei utilizzi questi artifici dialettici puerili per cercare di dimostrare di avere ragione. La sua è una affermazione non provata, non esiste alcuna prova che le due cose non possano felicemente convivere. È pieno di esempi che la smentiscono in molti Paesi avanzati. Ad esempio, nel nord Europa, nazioni notoriamente civilizzate, vi sono fortissimi sostegni e politiche sociali a favore della maternità e della famiglia tradizionale eppure vi è un profondo rispetto delle minoranze sessuali. Mi dica lei: come mai?”

In questo caso abbiamo giocato noi in attacco, trasformando uno schema di gioco che ci avrebbe messo spalle al muro in uno scenario potenzialmente vincente. Ma potremmo anche essere costretti ad adottare degli escamotage per dribblare una palla pericolosa e sventare un’aggressione verbale del nostro interlocutore. Vediamo come.

Il salvagente inaffondabile: il blocking and bridging

In casi estremi abbiamo un paracadute, un salvagente, un’uscita di emergenza che può rapidamente portarci a rivedere la luce: bloccare l’attacco (blocking), la provocazione o l’argomento “rischioso”, dare un riconoscimento all’interlocutore, ringraziandolo per aver detto la sua, e collegarsi ad esso (bridging) con un argomento affine ma più gradito a noi (portiamoci sul lato del ring in cui ci sentiamo più a nostro agio…). Il bridging è quindi – letteralmente – un ponte verbale “che ci permette di approdare a una riva più sicura”, come spiega più approfonditamente l’amico e collega Andrea Polo nel suo bel saggio Crisis Terapy, edito da Il Sole 24 Ore.

Questo gioco dialettico va condotto con prontezza, rapidità (passaggi brevi, chiari, coincisi e autoconcludenti), naturalezza e fermezza. Facciamo un esempio pratico: alla domanda Ha considerato gli enormi impatti ambientali del completamento dell’anello della tangenziale?” potremmo immaginare come risposta “Questo è un aspetto molto importante che merita un approfondito studio (blocking), tuttavia voglio evidenziare (bridging) il risparmio di emissioni dovuto al minor traffico urbano, minori code ai semafori, qualità di vita dei residenti nelle aree ora afflitte dal traffico congestionato”, etc.

Valgono, per venirci in aiuto, anche metafore e aneddoti: sempre utile quindi averne diversi pronti nel nostro repertorio. Ma, soprattutto, ci aiuterà il calore umano, l’affinità empatica con l’interlocutore e soprattutto con il pubblico, che può essere un potentissimo e influente alleato.

Su tutte, la regola d’oro per eccellenza da applicare invariabilmente sempre, ma in particolare nei dialoghi potenzialmente critici: mai mentire.

È possibile gestire conversazioni senza sfigurare, e imparando qualcosa dagli altri?

In definitiva, la risposta è si, secondo un bell’articolo a firma di Ian Leslie pubblicato in Gran Bretagna sul prestigioso quotidiano The Guardian, il cui contenuto condivido appieno.

La missione di Facebook per come la descrisse inizialmente Zuckerberg era “addomesticare le masse urlanti e trasformare un mondo solitario e antisociale in un mondo di amici”. Fa già ridere così, e il fatto che quella missione sia clamorosamente fallita è sotto gli occhi di tutti, ben considerando che Facebook fa a gara con Twitter per il premio di Social network più tossico dell’intero pianeta.

Facebook in particolare è, secondo Leslie, “un’enorme macchina funzionale a produrre reciproca antipatia”. Gli inglesi usano sempre parole gentili per descrivere anche il peggio, eleganti quali sono…

Per molti, essere in disaccordo è molto più stimolante che non essere d’accordo, e internet è uno strumento che crea divergenze per il modo stesso in cui è costruito: la tecnologia web è in buona parte responsabile della creazione – o meglio, emersione – di un mondo pervaso da forme di disaccordo nel quale si offende e si è offesi continuamente, sottoposti a pressioni estreme, tali da danneggiare psicologicamente, in modo anche serio, le personalità meno strutturate. Anche perché le piattaforme, inutile negarlo, traggono profitto dai conflitti online: i contenuti che scatenano indignazione e rabbia sono più condivisi e generano più engagement, con il risultato che i Social macinano più commenti e più like e quindi più accessi e più tempo di connessione, e quindi ancora possono vendere ad un prezzo maggiore i propri spazi pubblicitari.

Zuckerberg, Mask, e tutti gli altri big della Silicon Valley, fondamentalmente traggono guadagno dal nostro odio online. Quindi perché dovrebbero smettere di alimentarlo?

La tentazione però di dare la colpa solo alle piattaforme – che pure una bella fetta di responsabilità ce l’hanno, con il loro alzare le mani al cielo ogni qual volta si parla di stringere le maglie della regolamentazione – potrebbe porre in secondo piano una grande verità: la colpa è anche e soprattutto nostra, per aver accettato un modello nel quale tutti possono rispondere a tutti in nome di un falso principio di “libertà di parola ad ogni costo” (ci sarebbe anche l’autocontrollo, questo sconosciuto) e di equipollenza argomentativa (tu sei un ingegnere nucleare e io un idraulico, ma la mia opinione su una tempesta di neutrini vale come la tua).

Il contesto è cambiato nel corso dei secoli: oggi viviamo in un mondo liquido e orizzontale nel quale siamo avvolti da interazioni nelle quali tutte le parti in causa pretendono di avere eguale voce in capitolo, e tutti si aspettano che la loro opinione venga ascoltata: un mondo chiassoso e di fatto irriverente dove certe regole prima date per assodate riguardo a ciò che si può o non si può dire sono diventate (purtroppo) molto meno rigorose.

Inoltre, ricorda Leslie:

“il disaccordo inonda il nostro cervello di segnali chimici che rendono difficile concentrarci sull’argomento in questione, segnali che ci dicono che l’attacco è rivolto a noi: ‘non sono d’accordo con te’, diventa facilmente ‘tu non mi piaci’, così invece di aprire la mente al punto di vista dell’altro, ci chiudiamo in difesa”.

Ben prima della messa a punto delle riflessioni di cultori della materia come Mastroianni, già nel 1915 il biologo Walter Bradford Cannon descrisse le due strategie tipiche con le quali gli animali, esseri umani inclusi, reagiscono alle minacce: l’attacco e la fuga. Essere in disaccordo può spingerci a diventare aggressivi e a scagliarci contro l’avversario, oppure può indurci a fare marcia indietro e a tenerci le nostre opinioni per noi, per evitare il conflitto. Che sia quindi un’improvvisa impennata di entropia (scontro) o un poco genuino abbassarsi di essa (fuga) le nostre conversazioni, specie online, sono spesso condizionate da così tanti impulsi irrazionali da risultare ben poco utili e appaganti.

Il dissenso, tuttavia, è alla base del progresso, ce lo insegna anche il metodo scientifico: chi ama rinchiudersi in bolle autoreferenziali dove tutti vanno d’accordo e non si dissente mai, blocca l’evoluzione della scienza, che invece è stimolata dalla discussione e dal dubbio. Il tema quindi, casomai, è come dissentire.

Una delle strategie che la letteratura conferma essere vincenti è – contrariamente a quanto si potrebbe pensare – quella che prevede di riconoscere ruolo e profilo dell’avversario, ovvero confermare l’immagine pubblica che esso ama proiettare di sé: l’interlocutore che si vede accettato sarà più propenso al confronto e più facile da gestire.

William Donohue, Professore di comunicazione all’Università del Michigan, ha passato decenni a studiare le conversazioni conflittuali che coinvolgevano terroristi, persone sull’orlo dei suicidio, ed altre situazioni estreme di questo tipo che hanno coinvolto esperti di negoziazione operativa, e con il suo collaboratore Paul Taylor ha coniato l’espressione “one-down”, ovvero “sotto di uno”, per definire la parte che in qualunque tipo di conflitto si sente più insicura del proprio status: quella parte è molto più propensa ad agire in maniera aggressiva e competitiva, e non cerca quasi mai soluzioni e dialogo.

I negoziatori più esperti, ricorda Leslie, “cercano sempre di crearsi l’avversario che vogliono”, e – dal momento che non temono di perdere la faccia – tendono la mano alla propria controparte, facendola sentire “al sicuro”, riducendo strategicamente il divario al fine di creare le migliori condizioni per una trattativa. Ben consapevoli, aggiungo io, che l’unica exit way a un conflitto è una soluzione in grado di contemperare al meglio l’interesse delle due parti in causa.

La parte più forte nella trattativa normalmente tende a concentrarsi sull’obiettivo (la risoluzione del problema) mentre quella più debole ci tiene a prestare attenzione innanzitutto alla qualità della relazione: questo è il motivo per il quale molto spesso i dibattiti diventano instabili, disfunzionali, e spesso inutili se non addirittura tossici. Con sullo sfondo quello che viene percepito come il “premio in palio”, e che spesso è motore di tutte le cose sui Social network: l’approvazione generale, misurata nel numero di Like e nel sentiment dei commenti.

Un ottimo metodo per abbassare la posta in gioco riducendo l’entropia è quello di non attaccare mai il profilo identitario dell’interlocutore: discutere dei fatti o delle varie argomentazioni non mettendo in difficoltà la nostra controparte sulla percezione che essa stessa ha della propria identità può essere d’aiuto per fargli capire che – nel merito della discussione – è possibile cambiare opinione senza smettere di essere sé stessi.

Come ripeto spesso, guardate i problemi e i conflitti come degli “oggetti”, con la loro massa che occupa un certo spazio, che i due interlocutori in scontro possono “prendere in mano” ed esaminare, ruotare, ispezionare, e sui quali possono discutere, seduti entrambi dallo stesso lato della scrivania.

Certo, discutere in pubblico non stimola un approccio razionale, tanto più se il pubblico è quello – spesso burino – dell’arena dei Social network, perché sentirsi costretti a dover “salvare la faccia” dinnanzi a (molti) altri non aiuta certamente, e ci fa spostare l’attenzione, come abbiamo detto, dalla sana risoluzione del conflitto al tipo di relazione con la nostra controparte e con la audience.

Uno degli sbagli più frequenti è “l’errore del dominatore”: sottolineare con forza, verbalmente o con il paraverbale, il nostro vantaggio (è la tentazione di tutti, ammettiamolo…) è una pratica assai comune, ma che ferisce il senso d’identità del nostro interlocutore, e ci fa ottenere – forse – una vittoria sul momento, di breve termine, ma pregiudica il confronto rallentando il raggiungimento concreto di una soluzione, che in fondo farebbe comodo anche a noi.

Conclusioni

In questo articolo ho cercato di riepilogare a beneficio del lettore una serie di spunti e tecniche utili, tratte dalla migliore letteratura in materia nonché dalla mia diretta esperienza sul campo, funzionali a gestire con efficacia dialoghi critici e contrasti, riducendo le tensioni, permettendoci di far passare i messaggi che più ci stanno a cuore, e – inevitabilmente – costruendo valore.

Vorrei per concludere sollecitare la vostra attenzione sulla parola manipolare, che ha da troppo tempo assunto un’accezione negativa – alterare, rielaborare, contraffare, eterodirigere – che tuttavia non gli era propria agli albori. É una voce dotta recuperata dal latino manipulus, un composto di manus e plère, ovvero ‘riempire’. Una “quantità che riempie una mano”, vocabolo che nel latino medievale, usato da medici e farmacisti, acquisì un significato molto preciso: un’unità di misura di erbe medicinali da lavorare, con la mano, appunto, e poi successivamente, nel 1600, un modellare, un impastare, come si fa con la cera, scaldandola per sigillarci un collo di bottiglia. Ció che facciamo quando tentiamo di controllare una conversazione online modificando la percezione delle cose, non dovrebbe quindi avere un significato così negativo come lo intendiamo oggi…

In definitiva, la capacità di ascoltare chi abbiamo dinnanzi, chi sta dall’altra parte della connessione web, trattandolo con il rispetto che comunque merita, e costruendo consenso nell’accezione qui sopra descritta, può solvere davvero molti conflitti.

Anche perché, ammettiamolo, non c’è nulla di più catartico, potente e maturo del saper cambiare idea quando necessario.


Bibliografia essenziale

  • Luca Poma, Giampietro Vecchiato, La guida del Sole24Ore al crisis management, Ed. Il Sole24Ore, 2012
  • Luca Poma, Giorgia Grandoni, Il reputation management spiegato semplice, Ed. Celid, 2021
  • Ian Leslie, How to have better arguments online, The Guardian (UK), febb. 2021
  • Bruno Mastroianni, La disputa felice – dissentire senza litigare, sui social network, sui media e in pubblico, ed. Cesati. 2017
  • Marco Ferrini, Guida pratica alla risoluzione dei conflitti, Centro Studi Bhaktivedanta, marzo 2017
  • Andrea Polo, Crisis Therapy – Saper Gestire la comunicazione in tempi di crisi, Ed. IlSole24Ore, 2021
  • Roberta Villa, La comunicazione della scienza non è un campo di battaglia, Wired, genn. 2019
  • Federico Fioretto, Leadership sostenibile. Metodo CASE: trasformare i conflitti comunicando, Ed. La Meridiana, genn. 2015

[1] Il cortisolo è un ormone prodotto dalle ghiandole surrenali. È un ormone di tipo steroideo, chiamato anche “l’ormone dello stress”, prodotto su impulso del sistema nervoso determinando l’aumento della concentrazione nel sangue di grassi e l’incremento della glicemia, nei momenti in cui l’organismo è sottoposto a maggiore tensione e ha bisogno di più energia.

[2] “persone che interagiscono con gli altri utenti tramite messaggi provocatori, irritanti, fuori tema o semplicemente senza senso, con l’obiettivo di disturbare la comunicazione e fomentare gli animi” (fonte: Wikipedia)

[3] Grignolio A., Chi ha paura dei vaccini?, Tempi Moderni, Codice, 2006

[4] A sancire questo cambio di rotta è arrivato nel 2017 un paper della National Academies of Sciences, Engineering and Medicine statunitense, un’agenda, concordata da scienziati e comunicatori della scienza, che parte da un punto fermo: la comunicazione della scienza è un compito complesso, non riducibile alla dinamica «Se la pensi diversamente da me che sono un esperto, sei solo un ignorante». Ref: Evans G.A. and J. Durant J.(1995), The Relationship Between Knowledge and Attitudes in the Public Understanding of Science in Britain. Public Understanding of Science Vol. 4, pp.57-74, 1995

[5] Gregory J. and Miller S., Science in Public: Communication, Culture and Credibility, New York: Plenum, 1998

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