È una cosa assai comune criticare i Social media dal punto di vista dell’utente-consumatore, ma in realtà gli User sono il vero il “soggetto” di business delle società che gestiscono i social media: impacchettati e venduti – loro, più i dati che li riguardano – agli inserzionisti.
Noi tutti partiamo dal presupposto di non essere dei “Prodotti” e ci connettiamo a Facebook con l’intento di poterci esprimere liberamente e sentire cosa dicono i nostri amici, mentre in realtà entriamo in una “sala degli specchi”, che riflettono – artatamente – le nostre convinzioni in modo totalmente autoreferenziale. Come già scrissi in passato, gli utilizzatori dei social media non capiscono quando è il momento di fermarsi, quando gli strumenti li irretiscono e istupidiscono. Dovrebbero inoltre fare una valutazione “costi benefici”, prima di concedere tutti i propri dati personali in cambio della gratuità di un servizio.
Considerando ciò, sto iniziando a pensare che gli utenti “apprezzino” il fatto di diventare essi stessi un prodotto. Grazie ai servizi che i social media offrono – come ad esempio mappare le proprie connessioni, ammassare dati personali, la chimera di raggiungere la propria audience personalizzata, permettere modi preconfezionati di espressione, algoritmi che suggeriscono in modo mirato cosa leggere, comprare, sapere etc. – essi sostengono il processo di trasformazione da “utilizzatore” a “commodity” insito nel pacchetto. Un po come la salsiccia dell’hot-dog, che si spalma da sola il ketchup addosso. Questa “auto commoditificazione” non intacca la considerazione che l’utente ha di se, anzi, la rende più accettabile. Io, come prodotto, sono automaticamente deresponsabilizzato in certi miei comportamenti, e ho una visione più semplificata e diretta di me stesso. Solo vedendoci come “prodotti”, possiamo riconoscere noi stessi come meritevoli di attenzione e di riconoscimento in una società e una cultura che è consumistica e capitalistica.
Siamo intrinsecamente e ideologicamente indotti ad amare i beni di consumo, e quindi spontaneamente desideriamo esserlo anche noi, divenendo così meritevoli di amore attenzione e considerazione da parte di noi stessi e degli altri, come ad esempio la gratificazione del ricevere “Like” (ai nostri post, ndt). In una cultura consumistica, i prodotti perdono velocemente la loro “amabilità” (da lovability, capacità di ottenere affezione, ndt) e divengono quindi inutili, obsoleti, spazzatura. Il consumismo è la incessante creazione di nuovi bisogni e nuovi prodotti per soddisfarli, in un ciclo infinito che alimenta la crescità dell’economia. Io “cresco” e miglioro in misura di quanto sono sempre più capace di comprare e possedere, quindi devo ampliare il mio potenziale per esprimermi – consumando – sempre più, o fallirò come individuo.
La crescita personale nel capitalismo diviene quindi la possibilità crescente di accumulare beni, e l’evoluzione è quindi una continua insoddisfazione e rifiuto di accontentarsi. E questo si riflette anche sulla percezione del se: tutto ciò che già so di me non è interessante, ciò che conta è solo ciò che scopro nuovamente di me, ciò che ancora di nuovo voglio consumare o possedere. Quindi, il “se” come prodotto, ogni qual volta cessa di essere affascinante, ha bisogno di essere rivitalizzato divenendo nuovamente familiare, conosciuto, compreso. Noi amiamo noi stessi quando siamo “novità”, e perdiamo appeal quando diventiamo un bene già posseduto e già visto. Vogliamo scoprire sempre di noi nuovi lati che ci rendano nuovamente desiderabili, da consumare e godere. Solo questo ci rende “marketabili” (in grado di avere mercato, ndt). Il nostro desiderio di noi stessi ci spinge a renderci rinnovati, “repackaged”, per avere sempre nuovo appeal.
I social media nutrono la contraddizione di riuscire ad essere autentici solo quando noi risultiamo “sorprendenti” ai nostri stessi occhi; ci offrono modi per “consumare” noi stessi ogni volta come fossimo nuovi; gli algoritmi sono studiati per suggerirci nuove identità nelle quali calarci; ampliano la nostra capacità di desiderare, e affinarci all’idea che ci facciamo di essere desiderabile. Ciò che hai colto, consumato e rimesso in rete, viene purificato e riproposto per generare nuovi desideri e un nuovo te. Gli algoritmi di Facebook fanno questo: processano i nostri dati e ci ripresentano in una nuova più appetibile “confezione”. Noi apriamo la scatola, e ci stupiamo di ritrovarci così “nuovi” e allettanti. Ma è una scatola che continua a illuderci, e a nutrire le nostre illusioni, e a trarre nutrimento da esse.