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La lettura del bel volume dell’amico e collega Daniele Chieffi, dal titolo Crisi reputazionali ai tempi dell’Infosfera, lettura che consiglio a chiunque voglia aggiornare le proprie conoscenze in tema di Crisis communication in particolare negli ecosistemi digitali, mi ha stimolato – tra le tante – una riflessione che ho urgenza di condividere, oltre a convincermi – finalmente, ed era ora! – che può esistere qualche elemento di distonia tra i punti di vista miei e di Daniele, nella prassi sempre così sorprendentemente allineati.

(descrizione)

Battute a parte, partiamo dalla lettura di alcune affermazioni contenute nel libro, parti del modello di risposta alle crisi reputazionali proposto da Daniele (i grassetti sono miei):

“La crisi non è ciò che è, ma è ciò che sembra essere agli stakeholder e all’audience, e per affrontarla è necessario agire sulla percezione del fatto e non sul fatto in sé (…) Viene abbandonata la visione meccanicistica della crisi come relazione causa-effetto, e si ribalta la prospettiva: non è il fatto in sé a innescare la crisi, bensì la percezione che gli stakeholder hanno di quel fatto (…)”

Daniele – con il quale per primo ho condiviso il senso di queste mie riflessioni prima di pubblicarle, dibattendone con lui appassionatamente quanto rispettosamente, confronto che è parte di un processo di crescita continua che dovrebbe essere una delle cifre della nostra professione – riprende a più riprese questo concetto nel suo volume, supportandolo anche con ricchi e puntuali riferimenti bibliografici, incluso peraltro, e di questo l’ho ringraziato, il corposo volume sulla Crisis communication edito da Il Sole 24 Ore – a firma mia e del fraterno amico Piero Vecchiato – nell’ormai lontanissimo fine 2011, ed entrato nelle librerie – circostanza singolare ma del tutto casuale – proprio nei giorni del naufragio della Costa Concordia.

Come non essere d’accordo? La percezione è l’ingrediente principale del “piatto”: un incidente, una vicenda giudiziaria, una breccia informatica, un furto di proprietà intellettuale, saranno tanto più gravi tanto più la pubblica narrazione si impadronirà di loro, tracimando magari oltre i mass-media convenzionali e attivando e animando – terrore di ogni CCO e di ogni Crisis manager – gli ecosistemi digitali e le conversazioni online, che si svilupperanno attorno a quel fatto fino a condizionare i giudizi valoriali che gli stakeholder daranno su quanto accaduto, dando così un contribuito esiziale, nel peggiore dei casi, alla distruzione di valore per il brand.

Tuttavia, a mio avviso, in quest’epoca sempre più – per citare Zygmunt Bauman – incerta e liquida, è arrivata l’ora di riflettere sul concetto stesso di crisi reputazionale, sul tema del rischio, sulle sopracitate dinamiche legate alla percezione dei fatti, e sulla nozione di non conformità, a mio avviso strettissimamente correlata alle crisi, anche – perché no – con lo scopo di ridisegnare in parte alcuni fondamentali della materia e della professione.

Occorre però fare una breve premessa. Il lavoro portato avanti negli ultimi anni dal valido team aggregatosi nei corridoi e nelle aule dell’Università LUMSA di Roma, dove dal 2016 si tiene il primo corso verticale in Reputation management in Italia, ben illustrato in un volume scritto a quattro mani nel 2021 con la talentuosa Giorgia Grandoni, ha generato – incrociando e analizzando i dati di letteratura e l’attività professionale di un ventennio – un tool predittivo dei rischi reputazionali eccezionalmente efficace: un vero e proprio assessment in grado di individuare eventuali non conformità aziendali, identificare in anticipo possibili scenari di crisi, e suggerire le opportune raccomandazioni correttive. Le prime somministrazioni di questo strumento, delle quali si sono giovate alcune imprese di medie dimensioni italiane, hanno confermato un’intuizione che ritengo preziosa e quanto mai pertinente a questo nostro ragionamento, ovvero che l’approccio al management della crisi non può che essere multistakolder anche del tutto a prescindere dalla eventuale eco che la crisi stessa è in grado di generare, o ha già generato, nell’infosfera.

Anticipo qualche collega, che certamente – e non del tutto a torto – obietterà: se manca la pubblica deflagrazione della crisi, la chiara evidenza della stessa, e il conseguente impatto sui mass-media convenzionali e/o digitali, siamo ancora nell’ambito del rischio, e non della crisi vera e propria.

No, permettetemi di dissentire, e, brevemente, di argomentare: l’urgenza di ridisegnare il confine del nostro sguardo quando parliamo di crisi reputazionali è ormai irrinunciabile, e non solo perché l’approccio figlio della logica Aristotelica (“o è crisi, o non è crisi, e se non ha impatto sulla percezione degli stakeholder, non è crisi…”) è ormai del tutto inadeguato a descrivere la complessità nella quale siamo, obtorto collo, quotidianamente immersi, ma anche e soprattutto perché è estremamente miope l’occhio dello specialista medico che guarda solo all’organo di sua competenza (rectius, del comunicatore che misura l’impatto della crisi dall’effetto che essa genera su una sola audience, la pubblica opinione): perché, molto semplicemente, non è quello l’unico stakeholder il cui stato di salute della relazione è da presidiare e tutelare per costruire buona reputazione.

Qualche esempio concreto vissuto in casi che ho trattato nel recente passato, per ragioni professionali o accademiche: è crisi anche se non è deflagrata pubblicamente quella dell’agenzia di consulenza all’interno della quale i dipendenti vivono un clima tossico e contraddistinto da violenze sessuali o psicologiche, in quanto trattasi di non conformità resa evidente dal più banale degli assessment reputazionali anche senza che lo scenario abbia ancora generato conversazioni online; come anche è crisi, pur senza essere stata portata alla pubblica evidenza, la ripetuta violazione degli standard della Legge 231 da parte dell’organizzazione stessa; o, ancora, la pressione eccessiva e soffocante sui collaboratori a fini di performance che porta i migliori talenti a fuggire altrove, ed è crisi anche se nessun giornalista se ne è ancora interessato.

Torniamo allora, dicevo, ai fondamentali, a quella definizione che demmo nel 2011:

“Crisi è quell’evento inaspettato che, se non adeguatamente governato, può generare pregiudizio ai rapporti con uno o più stakeholder
o alla business continuity”.

Ebbene, ogni non conformità acclarata genera de facto pregiudizio alla business continuity, perché lacera il clima interno e nuoce alla produttività, perché aumenta il distacco dalla concorrenza, perché contribuisce a far chiudere l’organizzazione in se stessa vittima di una coazione a ripetere un errore, perché le impedisce di attrarre i  migliori talenti, o perché riduce l’interesse per l’impresa da parte di nuovi investitori: queste non sono forse lesioni alla continuità del business, in grado di limitare la licenza di operare dell’organizzazione? Se si, sono crisi, e non solo rischio, anche se non hanno ancora generato rumore online o sui mass-media tradizionali.

Di qui, la necessità di mappare non solo i rischi potenziali, al fine di mitigarli, ma tutte le eventuali non conformità già esistenti, che a mio avviso rientrano nel perimetro di crisi – riadattandone la definizione, ovvero meglio valorizzandone quella originale – pur non avendo pubblica evidenza, come un tumore non ancora diagnosticato che però già sta erodendo l’organismo dall’interno, quindi ne sta danneggiando l’operatività tangibilmente.

“Viviamo in un delicato equilibrio dinamico sull’orlo del caos”, disse nel 1990 Chris Langton, del Santa Fe Institute, principale centro al mondo di studio delle scienze della complessità. Il caos, in fondo, è la zona intermedia tra ordine e disordine, ed è lo stato abituale di qualunque elemento presente in natura, come ha giustamente ricordato in una bella TEDx di dicembre 2024 il professor Alberto Felice De Toni, ingegnere economico gestionale ed ex Magnifico Rettore dell’Università di Udine: “troppo ordine genera morte per fossilizzazione, e troppo disordine è morte per disintegrazione. Dobbiamo imparare a surfare proprio all’orlo del caos”. È necessario quindi interrogarci sull’ipotesi che i contorni di ciò che è crisi e ciò che non lo è possano essere molto più sfumati di quanto le nostre rigide menti cartesiane possano aver percepito fino ad oggi.

E su questi temi, in prospettiva, lo straordinario Lofti Zadeth – come sostengo da anni – aveva già detto tutto, a Berkeley, con la sua eccezionale folgorazione sulla logica fuzzy a insiemi sfumati, o a infiniti valori di verità, ben illustrata nel suo lavoro Fuzzy Sets.

Era il 1965, esattamente 50 anni fa: a distanza di mezzo secolo, l’urgenza di riscoprire questo approccio, questo mindset, è massima, se vogliamo attrezzarci in modo efficace per affrontare le nuove impegnative sfide che ci attendono.


Opere citate

  • Bauman, Z; Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2002
  • Chieffi, D; Crisi reputazionali ai tempi dell’infosfera, ed. Franco Angeli, Milano, 2024
  • De Toni, A. F; In equilibrio dinamico al margine del caos, TEDx Lake Como, consultato su Youtube il 17/12/2024;
  • Langton, C; Life at the Edge of Chaos, Artificial Life II, Addison-Wesley, 1991
  • Poma L, Vecchiato, G; Crisis Management: la Guida del Sole 24 Ore alla comunicazione di crisi, Edizioni Il Sole 24 Ore, Milano, 2012
  • Poma, L, Grandoni, G; Il reputation management spiegato semplice, Ed. Celid, Torino, 2021
  • Zadeth, L; Fuzzy sets, Information & Control, Volume 8, Issue 3, June 1965
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