Il Covid-2019 ha provocato due contagi, uno fisico e uno mediatico. Il secondo ha prodotto molti più ripercussioni del primo. Tornare a un mondo gerarchico, con le informazioni maneggiate dagli specialisti e diffuse soltanto tra gli addetti ai lavori (Asl o operatori sanitari) è impensabile
Il coronavirus ha diviso l’opinione pubblica italiana secondo linee preesistenti e prevedibili. I sovranisti amplificano il pericolo e danno la caccia all’untore cinese, i populisti alimentano complottismi e sfiducia nelle autorità, i liberal dicono che l’influenza stagionale fa più vittime e vanno a pranzo al ristorante cinese. E poi ci sono le prese di posizione assunte per reagire ad altre prese di posizione, come quelli che deridono le mascherine perché se le mettono i parlamentari di destra. Finora non abbiamo quasi mai parlato della malattia, abbiamo parlato solo della sua percezione. Negli ultimi anni abbiamo usato il termine “virale” più nella sua accezione mediatica che medica, e il Covid-2019 ha di fatto provocato due epidemie, una fisica e una mediatica, con la seconda che ha prodotto molti più “contagi” e ripercussioni della prima. E come la prima verrà studiata, domata e iscritta nei protocolli sanitari, così la seconda dovrebbe venire analizzata scrupolosamente, per elaborare protocolli e vaccini per le prossime emergenze.
Il panico da COVID-2019 – da distinguersi dall’epidemia reale – ha mostrato quello che sappiamo già, ma non abbiamo ancora compreso e realizzato fino in fondo: nel mondo mediatico in cui viviamo i nostri comportamenti sono dettati dalle narrative. Chi forgia le narrative governa (o insidia il governo). La polemica sui contagi al Nord non è solo un dibattito sulle tattiche di gestione dell’emergenza, ma uno scontro sulle rispettive narrative, e nulla lo mette più in chiaro degli attacchi di Salvini e dei media vicini alla Lega, che dopo l’esplosione del contagio in Italia accusano i “buonisti” di “aver combattuto il razzismo invece del virus” (la svolta verso la minimizzazione successiva del governatore Fontana non è un cambiamento di narrativa, cioè di una visione del mondo, ma soltanto la difesa della sanità lombarda).
In altre parole, il razzismo – una narrativa – era la tattica giusta, e combatterlo – con un’altra narrativa – è stato sbagliato. Fossimo rimasti razzisti, saremmo rimasti sani. Una narrativa che in Italia ha, se non prevalso, avuto largo spazio, con conseguenze fatali. L’associazione del virus all’”untore” asiatico ha portato alla tranquillizzante logica dell’isolamento: chiudiamo i voli con la Cina e il virus non atterrerà in Italia. Il “paziente 1” di Codogno mostrava sintomi associabili al coronavirus, ma era italiano, come probabilmente anche l’ignoto per ora “paziente 0”, ed è stato rimandato a casa, dopo aver infettato mezzo pronto soccorso. Probabilmente è stato un caso sfortunato, che poteva accadere a Cosenza o a Cortona quanto a Codogno, ma il fatto che sia successo proprio nella provincia del Nord, quella operosa, benestante, organizzata e tradizionalista, colpisce pesantemente la narrativa del sovranismo italiano che la vede come il cuore e il modello del Paese, un luogo dove rifugiarsi dalla depravazione della globalizzazione. E genera un’altra narrativa, quella del Sud che vuole proibire l’ingresso ai lombardi, in una gongolante ritorsione contro decenni di narrativa antimeridionale. Il corona-razzismo internazionale e interrazziale ha lasciato il posto al razzismo interregionale.
Ma intanto, siccome l’Italia sta sostituendo nel ruolo dell’”untore globale” la Cina (i primi contagiati in Algeria e in Brasile provengono dalla Lombardia), ecco che scatta un’altra narrativa tipica di chi si sente in imbarazzo: in realtà, gli italiani sono stati semplicemente più bravi e solerti a scovare i casi di contagio, mentre in Francia o in Germania lasciano gli ammalati a piede libero. Se fosse così, tra qualche giorno Francia e Germania dovrebbero mostrare numeri epidemiologici ben più alti dell’Italia, ma tanto tra qualche giorno parleremo d’altro.
Il coronavirus è l’epidemia che ha messo il pianeta di fronte alla sua dimensione globalizzata, ma anche il panico che ha generato è stato un fenomeno globale, che si è propagato molto più rapidamente del virus stesso. È la prima epidemia ai tempi dei social e dei media globali. La prima epidemia ai tempi del populismo. E le misure per contenerla sono in buona parte dettate non tanto dalle esigenze sanitarie, quanto dall’ansia della politica rispetto alla psicosi dell’opinione pubblica, o perlomeno la seconda pesa nelle decisioni quanto la prima. Sarà curioso leggere, quando verrà scritta, una ricerca degli economisti sui danni provocati dal panico rispetto all’impatto sul Pil dell’epidemia reale, sempre che sia possibile separare nettamente le motivazioni nel caso di decisioni come la chiusura dei voli o del carnevale veneziano.Ma non può sfuggire la correlazione tra i numeri di contagi di alcuni dei Paesi più colpiti e il loro rapporto alterato con i media, censurati nel caso della Cina e dell’Iran, privi di qualunque freno nel caso dell’Italia. I ricercatori che studiano l’impatto delle malattie (non solo infettive), utilizzano vari indici che nascondono dietro sigle neutrali come SDI (social-demographic index) le voragini che separano i diversi Paesi per igiene, alimentazione, prevenzione, livello della sanità e possibilità di accesso alle sue strutture, e anche per cultura e disciplina della popolazione.
Non esiste – per ora, forse – un indice che misura il grado di virulenza dei media, social e non, né sono ancora state scritte linee guida che gettino un ponte in precario equilibrio tra il negazionismo e l’allarmismo. Ma se accettiamo la necessità, per il bene comune, di limitare la libertà di movimento e di assemblea, non possiamo difendere nello stesso tempo la libertà di dire idiozie. E’ una questione di igiene. Immaginatevi, per esempio, i notiziari sul coronavirus che mettono accanto al numero dei contagiati e dei morti quello dei guariti – in questo momento, rispettivamente 81288, 2770 e 30358 – e il panico fatica a nascere. Ma nei media vale la regola che una buona notizia non è una notizia, e se in più alcuni giornali italiani scambiano il numero dei guariti (recovered in inglese) con quello dei ricoverati, non c’è mascherina che tenga.
Tornare a un mondo gerarchico, con le informazioni maneggiate dagli specialisti e diffuse soltanto tra gli addetti ai lavori (Asl o operatori sanitari) è impensabile. Ma governare le narrative non significa usarle sempre per alimentare i peggiori istinti di panico e xenofobia. E il coronavirus lo sta mostrando, anche se il bias negativo dei media mette in risalto solo le conseguenze negative del corona-panico. Ma già adesso vediamo migliaia e forse milioni di persone indossare la mascherina, speriamo lavarsi le mani, e in generale reagire con compostezza e disciplina. La mascherina fece la sua comparsa nel nostro immaginario nel 2003, all’epoca della Sars, insieme alla misurazione della temperatura negli aeroporti. All’epoca, venne recepita come una misura esagerata e ridicola, dettata dalla paranoia. Oggi la consideriamo normale e la mettiamo di nostra volontà, senza aspettare richiami dalle autorità.
Una nuova narrativa – essere responsabili della propria salute e quindi di quella collettiva – ha preso piede con una rapidità impossibile prima dell’avvento della società mediatica. Anche quelli che avevano iniziato a lavarsi le mani prima di visitare i malati, venivano guardati come igienisti paranoici. L’arcivescovo Amvrosij, che durante la peste a Mosca cercò di impedire ai fedeli di baciare le icone taumaturgiche, venne dilaniato dalla folla inferocita; era il 1771, e l’imperatrice Caterina era in corrispondenza con Voltaire e Diderot. E quando, nel 1854, il dottor John Snow rimosse la maniglia sulla pompa d’acqua in Broadwick Street, fermando l’epidemia del colera a Londra, venne preso per pazzo (la maniglia viene tuttora rimossa e rimessa ogni anno, in una cerimonia che ricorda quanto sia difficoltoso il cammino della scienza). Era uno scontro di narrative, e sul lungo periodo vincono sempre quelle che permettono di sopravvivere.
Ovviamente, potremo tirare le somme delle due epidemie, quella del coronavirus e quella del corona-panico, soltanto quando si saranno concluse, e si potranno contare le vittime della prima e i danni e/o benefici della seconda. Ma se si scoprisse che grazie al panico globale – possibile soltanto in un mondo globalizzato – per la prima volta siamo riusciti ad arginare un’epidemia? Perché le epidemie erano globali anche prima di Facebook, e ogni anno si ammalano di influenza stagionale da 250 milioni a un miliardo di persone. Con una mortalità intorno allo 0,1-0,2%, significa 250 mila-1 milione di morti l’anno. Ogni anno. Se la mortalità del coronavirus è intorno al 2%, e la virulenza è più o meno quella di un virus stagionale “ordinario”, significa un rischio di 20 milioni di morti.
Se, come sembra, i grafici di diffusione del virus da verticali stanno diventando sempre più pianeggianti, anche grazie a misure draconiane come la segregazione di interi territori, da Wuhan al Lodigiano, il numero delle vittime (nonostante inevitabili esplosioni di contagio locali) potrebbe essere irrisorio su scala globale, poche migliaia. Questo significherebbe aver salvato circa 19 milioni 995 mila vite. Incluse quelle dei razzisti per prevenzione che picchiano quelli con gli occhi a mandorla negli autobus e nei supermercati (senza temere di prendere il contagio a toccarli), dei complottisti, degli apocalittici, dei paranoici, dei medici mediatici che si insultano sui social, dei giornalisti che pubblicano notizie non verificate e traducono male dall’inglese e perfino dei no-vax. Questo significherebbe aver fatto prevalere, perfino in sistemi politici non esattamente compassionevoli, la narrativa che la salvezza di una vita umana viene prima del profitto e della ragion di Stato.
Nel mondo animale, le epidemie eliminano gli esemplari più deboli e rafforzano con gli anticorpi quelli più resistenti. Vale anche per le epidemie di panico. E in un mondo sempre più globale e complesso, i più resistenti non sono quelli più robusti, ma quelli più capaci di adattarsi ai cambiamenti, di adottare comportamenti razionali, di mantenere la disciplina, di soppesare rischi e benefici invece di farsi prendere da emotività tribali, di cooperare con gli altri, di non soccombere al contagio. Ci sarà una selezione naturale. Stiamo già elaborando gli anticorpi: se nei primi giorni parlare di psicosi esagerata era più pericoloso che andare a Codogno, ora il mood che prevale (dopo tre giorni a casa con la famiglia) è quello di «la vita deve andare avanti». Inventeremo vaccini. Alzeremo le difese immunitarie contro il panico, ed elaboreremo protocolli per arginare le prossime epidemie rapidamente ed efficacemente, senza eccessi come quello di chiudere 3700 persone in una nave da crociera, trasformando il contagio da probabile in quasi certo.. Oppure, le tossine sedimentate da ondate di panico, una dopo l’altra (chi si ricorda dell’Isis?), finiranno per compromettere definitivamente il nostro genoma, portando a una mutazione o al risorgere di atavismi cavernicoli. In entrambi i casi, sarà merito (colpa) di un mondo globale dominato da narrative mediatiche.