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Avevano iniziato vendendo gomitoli, hanno finito per costruire un impero. Ma ora quella che fu una straordinaria avventura imprenditoriale rischia di tramutarsi in un calvario senza uscita.

Una storia imprenditoriale di successo. La storia di un capitalismo di prima generazione che si è fatto da solo, l’epopea di chi da venditore di gomitoli di lana ha costruito un impero e un brand conosciuti in tutto il mondo. E anche la storia di uno sguardo lungimirante, che ha saputo diversificare per tempo nel momento in cui ha capito che il mestiere per cui erano diventati famosi non reggeva più alla concorrenza di nuovi e più aggressivi competitori. Una storia che ora rischia brutalmente di crollare insieme a quel pezzo di ponte che ha inghiottito 42 persone, e che ha colto la famiglia di Ponzano tragicamente impreparata ad affrontare una situazione e un’emergenza che forse reputava inimmaginabili.

I BENETTON E IL PONTE MORANDI

Di fronte a questa tragedia, è come se i Benetton avessero girato la testa altrove. Il colpevole ritardo nel far sentire la loro voce, il continuare a vivere come se niente fosse (compresa la sciagurata grigliata cortinese come da tradizione nel giorno di Ferragosto), il pensare che in ultima istanza fossero fatti che non riguardavano l’azionista il quale, avendo delegato in toto la gestione ai manager, si ritiene per questo esente da responsabilità. È stato come una rimozione del reale, una presa di distanze come se la vicenda del ponte Morandi fosse un brutto film che non li riguardava. Purtroppo per loro non può essere così. La distinzione tra proprietà e gestione è buona per i manuali di sano capitalismo, ma nei momenti come quelli di Genova è un alibi inammissibile dietro il quale coprirsi. Nei momenti come questi, ci devi mettere la faccia e non rifiutarti di guardare.

È stato come una rimozione del reale, una presa di distanze come se la vicenda del ponte Morandi fosse un film
Conoscendoli, io attribuisco questo comportamento in minima parte al cinismo di chi per storia e ruolo ha introiettato una visione meramente contabile della vita in quel Veneto contadino dove i capannoni hanno sostituito i campi di grano, e molti attratti dall’improvviso arricchimento hanno venduto l’anima al diavolo. In gran parte lo spiego con l’imperizia e immaturità di gente che non ha mai voluto adeguare la loro visione del mondo a quello che erano diventati. Voglio dire che dei Benetton, diventati un colosso mondiale nella gestione delle infrastrutture, è cresciuto il fatturato ma mai la testa. Che è rimasta quella di quand’erano piccoli commercianti di provincia attaccati al campanile e al territorio che lo circonda, quasi inconsapevoli che nel frattempo il gruppo aveva cambiato pelle, era cresciuto e si internazionalizzato, e non lo si poteva più governare prestando fede solamente a quel che si vedeva fuori dai cancelli di villa Minelli a Ponzano Veneto. Se questo atteggiamento in un primo tempo è stata la loro fortuna, e l’idiosincrasia del patriarca Luciano per i salotti buoni alimentati dalla commistione tra soldi e politica li ha preservati, nel momento in cui decisero di partecipare al ricco banchetto delle privatizzazioni la loro mentalità doveva subire un cambio di passo.

I LIMITI GESTIONALI DEI BENETTON

Nella immane tragedia di Genova, questi limiti si sono palesati in tutta la loro drammatica evidenza. Raccontano che in queste ore una tragica consapevolezza si sta facendo largo tra i rappresentanti della numerosa dinastia, e che qualcuno arriva esplicitamente a evocare il rischio di poter passare alla storia come “gli assassini del ponte”, non come gli abili imprenditori che sono stati. Se fossi a Ponzano, una sola cosa direi a Luciano e Gilberto: metteteci la faccia, mostratevi, piangete come sta facendo tutto il Paese per quelle vittime, dite che nessuna compensazione basterà a lenire il dolore dei sopravvissuti. Poi, se ne avrete la forza, pur sapendo che dal 14 agosto il mondo vi è ostile, ricominciate.

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